LA VITA
I primi anni
Nacque nel 1785 a Milano dal nobile Pietro Manzoni e da Giulia Beccaria,
figlia del celebre giurista illuminista Cesare Beccaria, autore dell'opera
Dei delitti e delle pene.
Il padre si divise molto presto dalla giovanissima moglie che, dopo la
separazione, si trasferì a Parigi con l'amante Carlo Imbonati.
Manzoni compì gli studi nel Collegio di Merate, tenuto dai Padri Somaschi, e
nel Collegio di Lugano, tenuto sempre dagli stessi Padri; infine nel Collegio
Longone di Milano, diretto da Padri Barnabiti. Pur studiando in collegi
religiosi, matura tuttavia un forte sentimento anticlericale, legato
all'illuminismo da sempre respirato in famiglia.
Appartiene a questo periodo il poemetto Il trionfo della libertà, di
ispirazione giacobina.
Uscito dal collegio vive nella ricca e disinvolta società milanese, stringendo
amicizia con i più noti letterati del tempo (Monti, Cuoco, ecc.).
Nel 1805, essendo morto Imbonati, Giulia Beccaria ritornò in Italia e
Manzoni si riunì alla madre e tornò con lei a Parigi, anche allo scopo di
completare la sua educazione nella capitale francese, come era in uso tra i
nobili del tempo.
Appartiene a questo periodo il Carme In morte di Carlo Imbonati.
A Parigi (1805-1810) Manzoni frequenta ambienti colti ed eleganti ed entra in
contatto con la filosofia scettica e materialistica del tempo. In particolare
il contatto con letterati, scienziati e filosofi, esercitò su di lui una notevole
influenza antireligiosa che lo rese scettico, indifferente, agnostico, e
strinse un forte vincolo di amicizia con Fauriel, che gli risvegliò il gusto per la
storia.
Nel 1808, durante un breve soggiorno a Milano, conobbe e sposò con rito
calvinista Enrichetta Blondel, sedicenne di religione calvinista.
Ritornato a Parigi, Manzoni, spinto anche dall'esempio della religiosissima
moglie, maturò una crisi che lo condusse a poco a poco alla religione
cattolica.
Non aveva mai rinnegato l'esistenza di Dio, l'immortalità dell'anima e il
sentimento profondo della virtù e del vero, ma in seguito a colloqui con
insigni religiosi, alla lettura dei grandi apologisti francesi come Pascal
e a un incidente capitatogli una sera a Parigi (aveva perso la moglie, fu
colto da un malore ed entrato in una chiesa sentì a un tratto il bisogno
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di pregare), affrettarono la crisi e la conversione di cui comunque M.
non rivelò mai il mistero, parlando sempre di grazia divina.
Nel 1810 ricelebrò il matrimonio secondo il rito cattolico, dopo aver fatto
battezzare anche la figlia Giulia.
La conversione è il momento più significativo della vita di Manzoni, che
segnerà tutto il periodo successivo.
Gli anni della maturità artistica e letteraria
Lo stesso anno della conversione M. abbandonò la vita frivola della società
parigina e tornò a Milano. Stava sia in città sia nella villa di Brusuglio, che la
madre aveva ereditato da Imbonati, lo attiravano infatti l'agricoltura e il
giardinaggio (fu il primo a introdurre in Italia molte colture, es. la robinia).
Nel 1814, dopo la caduta di Napoleone, fu tra coloro (Federico Confalonieri
ecc.) che inviarono una petizione al quartier generale degli alleati per
un'Italia libera e unita e, tornati gli Austriaci, rifiutò con loro ogni
contatto.
Nel 1821, quando si sparse la notizia dei moti rivoluzionari del Piemonte,
compose l'ode Marzo 1821, interpretando il sentimento patriottico dei
Lombardi, e, appresa la notizia della morte di Napoleone, scrisse l'ode Il
cinque Maggio.
Dopo la pubblicazione della Lettera semiseria di Grisostomo, si scatenò in
Italia la famosa polemica tra classici e romantici e Manzoni, che fin da
giovane tendeva a un arte più popolare che morale, parteggiò per i secondi,
raccogliendo a casa sua molti intellettuali romantici.
Appartengono a questo periodo le migliori opere di M.: gli Inni Sacri, le
Osservazioni sulla morale cattolica, le Tragedie e I Promessi Sposi.
Nel 1827, dopo la prima edizione del romanzo, M. si reca con la famiglia a
Firenze, allo scopo di correggere la sua lingua secondo l'uso toscano (per
lavare i propri panni in Arno); qui frequentò il Gabinetto di Viesseux, centro
della cultura romantica francese, dove conobbe importanti letterati del
tempo, primo fra tutti Leopardi.
Gli ultimi anni
Da questo momento in poi occorsero a M. gravi sventure. Nel 1833 gli morì
la moglie amatissima, nel 1834 la figlia Giulia, nel 1841 la madre e
negli anni seguenti altre tre figlie.
Nel 1837 si risposò con la contessa Teresa Borri, anche lei vedova.
Nel 1848, scoppiata la rivoluzione delle Cinque giornate di Milano, incitò i
tre figli maschi a prendervi parte e firmò un appello a tutti i popoli e principi
italiani, perché venissero in soccorso ai Milanesi, e anche dopo il ritorno
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degli Austriaci continuò a mantenere nei loro confronti un atteggiamento di
aperta opposizione.
Nel 1849 fu eletto deputato nel Collegio di Arona (Piemonte) ma per la sua
innata modestia rifiutò l'incarico.
Strinse una importante amicizia con Rosmini.
Nel 1859, liberata la Lombardia, Vittorio Emanuele II, per le benemerenze
patriottiche e le angustie economiche in cui versava gli conferì una pensione e
lo nominò senatore.
Votò la proclamazione del Regno d'Italia e il trasferimento della
capitale a Firenze e nel 1870 gioì dell'entrata delle truppe in Roma
(come altri riteneva che il papa dovesse limitare il suo potere
temporale) e nel 1872 fu nominato cittadino onorario di Roma.
Nel 1873 morì di meningite a Milano e fu sepolto nel cimitero
monumentale.
LA POETICA
Manzoni dall’illuminismo al romanticismo
Se Manzoni rinnega la produzione poetica precedente alla conversione, non
rinnega certamente gli ideali illuministi e la sua concezione della letteratura
come mezzo di edificazione spirituale (funzione pedagogica).
Manzoni accetta del romanticismo solo la concezione di un’arte il più
possibile popolare e della storia come processo finalizzato (storicismo),
che di contrasto in contrasto svolge il piano divino.
Manzoni con la conversione trova semplicemente un ancoraggio, una base
etica più salda e assoluta agli ideali illuministi di libertà, giustizia e
solidarietà, ideali che procedono da Dio e attraverso Cristo e il
messaggio cristiano e si sono radicati nella storia e nelle coscienze dei
singoli, diventando motore degli eventi, e mano di Dio nella storia
(Provvidenza).
Viene considerato il rappresentante più significativo del Romanticismo
italiano: egli condivide quell'aspirazione trascendente dei primi dell''800,
tipicamente romantica, in opposizione al materialismo ateo del secolo
precedente. Un idealismo trascendente cui approdarono anche Alfieri, Foscolo,
Monti e Leopardi; ma mentre Alfieri e Foscolo si erano rivolti a un idealismo
eroico (Italia libera e grande), Monti a un vago sentimentalismo mistico e
Leopardi in un nudo scetticismo, Manzoni sfociò nel Cristianesimo
tradizionale, critico, consapevole, filosofico, secondo lo spirito
culturale del tempo.
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Il centro del mondo manzoniano, come appare nel modo più evidente ne I
Promessi Sposi, è occupato dall'idea di Provvidenza: Dio è l'occulto attore
della storia degli uomini, per cui anche i mali e i dolori hanno nelle
vicende della vita la loro ragione: dopo ripetute traversie Renzo e Lucia
trovano il coronamento dei propri sogni; nel male e nel dolore si riscattano e
purificano tanto Gertrude dopo la conversione, quanto don Rodrigo morente; la
peste stessa è una "scopa" che serve a spazzare i malvagi.
Ne deriva che la virtù cristiana per eccellenza è la rassegnazione, la
fiducia che sarà la Provvidenza a determinare il suo esito migliore. Ecco
perché il dolore manzoniano non è mai disperato, ma sommesso e
malinconico, illuminato dalla luce della Provvidenza, come si vede, nel
Romanzo, nel Cinque maggio, nella morte di Ermengarda nell'Adelchi, negli
Inni Sacri.
Manzoni e il “santo vero”
Il fine dell’arte per Manzoni è pertanto pedagogico. Egli stesso scrive a
proposito di ciò: “la poesia deve proporsi il vero per oggetto, l’utile per
scopo e l’interessante per mezzo”.
Ma per il poeta solo il “vero” è utile. Nel vero si estrinsecano gli ideali
che procedono da Dio e sono motore degli eventi. Inoltre non c’è nulla
di interessante a parte il “vero”. Quindi queste categorie si riducono ad
una: il “vero” che è al tempo stesso principio estetico e principio
morale dell’opera d’arte.
Nella sua distinzione tra “vero naturale” (la realtà naturale) e “vero
storico” (realtà storica), Manzoni propende nettamente per
quest’ultimo nel cui dinamismo si rivela la natura dell’uomo.
Ma il vero storico non basta al poeta, può bastare allo storico, il poeta deve
perseguire il vero poetico: risalire cioè dal vero storico al vero morale:
dai fatti storici alle scelte morali delle singole coscienze che quei fatti
storici hanno generato.
Mostrare come la storia non sia un susseguirsi di fatti nudi e crudi ma il frutto
degli ideali che procedono da Dio e sono radicati nelle coscienze
umane.
Il vero pertanto non è solo categoria estetica (relativa all’arte) per Manzoni
coincide con il “bene”.
La religiosità di Manzoni non è vuota e astratta ma concreta, la rivelazione
di Cristo è stata una rivelazione dell’uomo a se stesso, degli ideali che
stanno alla base della sua natura.
Se Manzoni aderisce a una concezione della storia e dell’arte popolare
tipicamente romantica, rifiuta qualsiasi tipo di romanticismo individualista,
di esaltazione dell’Io nella sua brama di infinito. Secondo Manzoni ogni
momento della vita etica dell’individuo, di ogni individuo, è parte
dell’infinito. È questo il realismo cristiano di Manzoni che rifiuta quindi
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ogni esaltazione del Genio romantico.
LE OPERE
La lettera allo Chauvet sull’unità di tempo e di azione nella tragedia
(1823)
Saggio di estetica che confuta le critiche rivolte da un letterato francese alle
tragedie manzoniane. Le regole aristoteliche (unità di tempo, luogo e
azione) impediscono un’adeguata verosimiglianza e quindi non
permettono di perseguire il santo vero.
Inoltre la concentrazione espressiva provoca un’esagerazione delle
passioni che impedisce la rappresentazione del vero morale.
La Lettera sul romanticismo
Inviata al marchese Cesare D’Azeglio, rappresenta l’atto di adesione al
romanticismo italiano, alla parte distruttiva di esso (svecchiamento della
cultura italiana dal classicismo) e alla parte costruttiva (letteratura
pedagogica e popolare).
Le opere anteriori alla conversione
Ricordiamo solo:
Trionfo della libertà (1801), c'è già la tendenza pratica, moralizzatrice e
storica del poeta che si ispira a idee giacobine (esaltazione della libertà,
invettive contro il papato, ecc.).
In morte di Carlo Imbonati (1806), carme in versi sciolti dedicato alla
madre, importante perché M. inizia quella poetica a cui rimarrà fedele per
tutta la vita, secondo la quale, cioè, la funzione dell'arte è quella di formare
l'uomo morale. Inoltre la mitologia è scomparsa, l'idea sgorga serena
dall'anima del poeta.
Le liriche politiche
Ricordiamo solo:
Marzo 1821. Ode composta in occasione dei moti piemontesi del '21. È un
nuovo canto di fede nella rinascita e indipendenza della patria: Dio aiuterà gli
Italiani perché la loro causa è giusta.
Il Cinque Maggio (1821). È una grandiosa rievocazione della tragedia di
Napoleone, vista alla luce della Provvidenza cristiana. Napoleone, dotato di
mente sovrana, provò la vittoria e la sconfitta, il potere e l'esilio. Ma dopo il
fallimento, lo salvò dalla disperazione la rigenerazione, grazie alla fede e alla
speranza cristiana. È stata definita l'ode del secolo.
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Gli Inni Sacri
Vi trova espressione più piena il sentimento religioso, predominante nelle
liriche politiche.
Gli Inni Sacri hanno una duplice importanza:
A) letteraria, perché segnano una vera rigenerazione nella storia della
lirica religiosa, infatti M. inaugura un concetto più elevato, umano,
universale, grandioso della religione e dei suoi riti;
B) storica e sociale, perché sono l'espressione più significativa della
crisi spirituale del primo '800, che aveva portato molti dal
materialismo ateo alla fede.
Manzoni, anche lui passato attraverso l'esperienza del giacobinismo, volle con
gli Inni Sacri, ricondurre alla religione quei sentimenti grandi, nobili e
umani, che ne derivano naturalmente, i sentimenti di libertà,
uguaglianza e fratellanza.
Gli inni, composti tra il 1812 e il 22, dovevano essere 12, uno per ogni
grande solennità della chiesa, ma ne terminò solo cinque.
Sono il primo frutto della conversione di Manzoni: si tratta di poemetti in
forma di inno religioso che rievocano le feste più importanti del
calendario liturgico.
I cinque compiuti sono La Risurrezione, il Nome di Maria, il Natale, la
Passione, la Pentecoste; più due incompiuti: Ognissanti e Il Natale del
1833.
Queste opere rappresentano bene il realismo cristiano di Manzoni, l’interesse
è rivolto all’aspetto storico dell’evento, alla presenza concreta e
costante di Dio, con Cristo nella vita dell’uomo, una presenza che
continua a rinnovare i suoi doni nella celebrazione liturgica.
In tal modo secondo Manzoni l’evento storico non resta remoto, ma perdura
nel tempo.
Infatti la struttura degl’Inni Sacri è la seguente: rievocazione dell’evento
storico e preghiera corale perché il miracolo si rinnovi.
La Pentecoste è quello meglio riuscito, basilare perché rappresenta la
nascita della Chiesa, ossia lo storicizzarsi del messaggio di Cristo, il
perdurare di esso e del suo nuovo ordine, consolazione degli umili e
degli oppressi, pertanto ideale che si fa storia.
In questo inno scorgiamo la storia della chiesa e quella dell'umanità nella
sua continua aspirazione verso l'infinito e l'eterno.
La Chiesa, nata dall'umiltà, è diventata maestra dei popoli, quando lo
Spirito Santo discese su di essa sospinse gli Apostoli a predicare la
dottrina di Cristo, fondatrice di un'era nuova, di pace, libertà e virtù.
Ancora oggi i Cristiani, anche se sparsi in tutto il mondo, supplicano lo
Spirito Santo, perché scenda di nuovo a recare i suoi doni, di fede per il
dubbioso, di consolazione per l'infelice, di timore per il crudele; doni preziosi di
conforto nel giorno della morte.
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Le tragedie
Le tragedie sono animate da una visione pessimistica della storia, che
sembra dominata dal male, il superamento del quale avverrà solo
nell’altra vita.
Manzoni delinea un contrasto tra la verità della storia e quella della morale,
tra il reale e l’ideale.
Questo contrasto è espresso sulla scena dagli uomini soggetti al cinismo
della ragion di stato e i giusti, i portatori dell’ideale cristiano che
tuttavia soccombono al male storico.
Il piano divino non è comprensibile e il premio della Divina Provvidenza non
è in questa vita, come nei Promessi Sposi, ma nell’altra vita.
Mentre la tragedia alfieriana era classica (cioè seguiva le regole aristoteliche
delle tre unità di tempo, luogo e azione), la tragedia manzoniana è
romantica: nella prefazione al Conte di Carmagnola e nella Lettera allo
Chauvet, M., profondo ammiratore di Shakespeare e delle nuove idee teatrali
caldeggiate da Madame de Staël e dai fratelli Schlegel, difende il dramma
senza le unità di tempo e luogo, dimostrandone l’arbitrarietà nei confronti
del vero storico e naturale, oggetto proprio della tragedia. M. nelle sue tragedie
rinuncia, quindi, alle consuete unità di tempo e luogo, anche per
evitare un’esagerata concentrazione drammatica.
Entrambe le tragedie sono ambientate in periodi fondamentali, secondo
Manzoni, per comprendere il perché delle condizioni misere in cui versa
l’Italia.
Il Conte di Carmagnola (1820)
Francesco da Bussone, Conte di Carmagnola e capitano di ventura, sposatosi
con la figlia del Duca di Milano entra in conflitto con lui e combatte per i
Veneziani contro Milano nel 1400, ai tempi delle guerre che dividevano le
Signorie italiane. Ottiene una grandissima vittoria a Maclodio, ma la troppa
generosità nei confronti dei vinti e il suo temporeggiare dopo la vittoria, resero
il Conte sospetto di tradimento (ingiustamente per Manzoni), tanto che
richiamato a Venezia con l’inganno venne decapitato.
L’azione della tragedia si svolge negli anni che vanno dall’elezione di
Carmagnola a capo dell’esercito veneziano fino al suo supplizio (1426-1432).
Il Carmagnola rappresenta la figura del giusto che, in una realtà
storica corrotta e sbagliata, finisce per snaturarsi e fare il mercenario;
solo la morte gli renderà giustizia.
Il protagonista è uomo dall’animo forte, desideroso di grandi imprese,
che si batte contro la perfidia degli uomini e in particolare contro quelli
che usano la forza. Particolarmente poetico è l’ultimo atto (addio del
Conte alla moglie e alla figlia), in cui M., condannando le empie gioie
della vita, esalta la morte come un dono del cielo, che reca pace e
conforto.
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Il Coro dell’atto secondo rivela l’intento patriottico del dramma,
ricollegandolo alle correnti politiche del Risorgimento: deplorazione delle
guerre fratricide tra Italiani, in quanto lo spirito municipale e regionale
appariva il maggiore ostacolo all’unificazione.
I difetti dell’opera consistono nell’assenza di intreccio e di drammaticità
L’Adelchi (1822)
Dedicato alla moglie.
Ambientato nell’VIII secolo d. C., ai tempi dell’ultimo periodo della
dominazione longobarda in Italia, occupa solo due anni, dal ripudio che
Carlo Magno fa della moglie Ermengarda (772), figlia di Desiderio, alla resa di
Verona (774).
Esprime il pensiero storico di Manzoni, secondo cui i Longobardi
opprimevano il popolo italiano e minacciavano il Papa.
Il protagonista Adelchi, figlio del re dei longobardi Desiderio, di animo
giusto e fedele agli ideali cristiani, è combattuto tra la fede in Dio e la
fedeltà al padre.
Carlo Magno e Desiderio sono accecati dalla sete di potere, entrambi
rappresentano il cinismo della realtà storica e politica, Carlo ha scelto la
causa giusta solo per calcolo. Infatti il re dei Franchi ripudia Ermengarda,
sorella di Adelchi, che aveva precedentemente sposato per ragioni di alleanza.
L’unico a capire il dolore della sorella è Adelchi; mentre il padre Desiderio è
troppo preso dalla sua rabbia e dalla sua sete di vendetta, Ermengarda muore
di dolore in convento. I Longobardi vengono sconfitti e anche Adelchi muore.
Per entrambi gli eroi la consolazione e il premio saranno nell’altra vita.
Il coro dell’atto III rappresenta il popolo italiano che, alla fuga dei
longobardi, si rinfranca, ma Manzoni ammonisce: chi ha fatto tanta strada e
ha scampato tanti pericoli, non viene per liberare un popolo schiavo,
ma per mescolarsi al vecchio padrone e a dominare. L’indipendenza è
iniziativa del popolo stesso non di uno straniero.
I pregi dell’Adelchi sono maggiori di quelli del Carmagnola, sia perché
l’azione drammatica è molto più ricca e più varia (ai conflitti della politica
e dell’ambizione si uniscono ora le pene dell’amore), sia perché i personaggi
sono meglio tratteggiati.
Adelchi è un’anima elevata e nobile e incarna la moderna coscienza di
cristiano dello stesso Manzoni: si dibatte tra le aspirazioni idealistiche
e le fatali passioni degli uomini e ne muore, ucciso dalla feroce forza
della politica. È stato definito l’eroe del Romanticismo italiano, infatti non
parla e non agisce solo per sé, ma per tutti coloro che nei primi decenni
del XIX secolo cercavano in Dio il fondamento per la ricostruzione di
un nuovo mondo e di una nuova civiltà.
Ermengarda, dolce e appassionata e sorella anche spirituale di Adelchi, adora
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Carlo che l’ha ripudiata e non può nascondere la sua passione; muore come il
fratello, uccisa dall’empia virtù d’amore.
I due Cori della tragedie sono tra le liriche più felicemente realizzate di
Manzoni
Gli scritti storici e critici
Pensatore, oltre che poeta, Manzoni si occupò di questioni storiche, religiose,
letterarie ed estetiche e scrisse moltissimo a riguardo.
I Promessi Sposi
Il genere del romanzo, le fonti, i modelli
I promessi Sposi sono un romanzo storico, un componimento misto di storia
(avvenimenti come la carestia, la guerra, la peste, alcuni personaggi come il
cardinale Borromeo, il gran cancelliere Ferrer, la monaca di Monza che fu
Virginia de Leyva, ecc.) e di invenzione.
Il genere del romanzo si rifà allo scrittore scozzese Walter Scott, molto
popolare nella prima metà dell’Ottocento.
In Manzoni vi è maggiore fedeltà storica e maggiore consapevolezza
delle forze ideali che muovono la storia.
Sicuramente M. guarda a Scott come un modello, ma se ne differenzia
profondamente. Come si deve riconoscere al M. di aver inventato una
lingua prosastica italiana moderna e antiaulica, così gli si deve
riconoscere di aver inventato il romanzo italiano ottocentesco, senza una
tradizione alle spalle, fondendo esempi concreti e modelli disparati, e di aver
avviato, più ancora che Scott, la nuova tradizione narrativa realistica
europea.
Molteplici sono i modelli narrativi: dalla sacra rappresentazione, alla
fiaba, dal romanzo di formazione al romanzo saggio, dal romanzo
storico a quello avventuroso. Senza contare che nel Fermo e Lucia facevano
sentire la loro presenza anche altri modelli come il romanzo nero, quello
barocco, Sterne, Voltaire, altri narratori francesi e inglesi del ‘700, elementi poi
della grande tradizione epica o epico-cavalleresca (Virgilio, Ariosto, Tasso).
Pittoresco e storia
Mentre Scott fondeva il gusto per la ricerca erudita e antiquaria e l’ispirazione
fantastica, M. è mosso da un intento più rigoroso di analisi storica, secondo
cui la parte d’invenzione costituisce lo strumento per spingere l’indagine là
dove i documenti non consentono di arrivare, senza indulgere in alcun
modo al romanesque.
Scegliendo poi di rappresentare il Seicento M. intende distanziarsi da quel
filone romantico di rivalutazione indiscriminata del Medioevo e dal
pittoresco medievale, vuole occuparsi del ‘600 perché gli appare epoca molto
negativa. Questo secolo diventa il simbolo dell’immobilismo della storia
italiana della condizione umana.
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M. è spinto al romanzo storico da una poetica antiromanzesca, da una
profonda istanza conoscitiva e da un sostanziale pessimismo.
Ogni evento dei Promessi sposi trova senso e verisimiglianza solo proiettandosi
nel contesto seicentesco in cui è ambientato: dal sopruso di un signorotto
feudale che mette in moto la vicenda, alla rete dio connivenza che consente di
protrarlo, dalla carestia e dai tumulti nei quali Renzo si trova coinvolto a Milano
alla sua promozione sociale a piccolo imprenditore, con l’esodo in territorio
veneziano. Tutto è inventato e rappresentato con scrupolo storico da M.
Nulla è lasciato all’arbitrio della fantasia, nemmeno i colpi di scena.
Storia, società e provvidenza
La storia diplomatico-militare, quando fa la sua comparsa, di scorcio, nel
romanzo, è ridotta a chiacchiera o è vista dalla prospettiva di quel
popolo che la subisce senza condividerla e capirla.
Ma anche la storia politico-istituzionale è pensata facendo riferimento al
sistema dei valori dei ceti subalterni o è sottoposta alla critica diretta e
altrettanto radicale del narratore, che via via veste i panni dello storico, del
moralista, dell’economista, dello scienziato. Certo, in questa e in altre forme, il
M. compie una critica serrata dei comportamenti dei potenti.
La provvidenza è da intendere come una categoria della coscienza sotto
forma di divina illuminazione o di grazia, si manifesta nei cuori, nelle
anime degli uomini, cui spetta la decisione se accoglierla o meno.
Come categoria della storia la intende don Abbondio, che giudica la peste una
vera provvidenza perché ha tolto di mezzo don Rodrigo.
Ma tutte le volte che nel romanzo compare la parola provvidenza essa
appartiene alla sfera semantica dei personaggi, non a quella del narratore.
Il lieto fine del romanzo, inoltre, è tale solo nell’ottica dei protagonisti,
mentre il narratore fa di tutto nel capitolo conclusivo per sottolineare i
piccoli crucci, le meschinità, la prosaicità di una vita felice.
Un romanzo enigmatico?
I Promessi sposi sono il primo romanzo moderno, l'unica lettura comune
a tutti gli italiani di media cultura dopo l'unificazione.
Sul piano ideologico sono l'opera di un cattolico-liberale solidale con la
borghesia del proprio tempo, ma appartato, capace di analizzare la società con
acume e talora con spregiudicatezza.
Diventò per la critica un'occasione di dispute letterarie, culturali, ideologiche.
Secondo alcuni il romanzo esprime un'idea logica rigidamente conservatrice.
Nel Novecento poi M. è stato accusato di paternalismo nei confronti dei
personaggi umili, sottolineando l'importanza data alla funzione direttiva di un
personaggio come fra Cristoforo e la centralità data al clero nella società del
tempo.
Altri hanno mostrato come il cattolico-liberale M. solidarizzi senza alcun
dubbio con i ceti subalterni e in genere con gli oppressi e compia una
critica spregiudicata della società dell'ancien régime e di tutte le forme di
malgoverno, critica che si proietta anche sulla società contemporanea;
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come veda i ceti subalterni, artigiani, contadini, piccoli imprenditori le forze
attive, produttive e moralmente sane, le uniche capaci - se mai possibile - di
rigenerare la società; come delinei una società fondata su un egualitarismo
evangelico; come il pessimismo che lo muove lo spinga a veder i mali morali
e sociali dell'uomo, i meccanismi della sopraffazione. Secondo alcuni sarebbe
questo pessimismo così radicale nei confronti della natura umana e della storia
a impedire a M. di lanciare messaggi sociali positivi, se non quello del rigore
morale, della razionalità nella gestione del potere, in attesa di una
compensazione ultraterrena degli inevitabili scacchi terreni.
M. fu un cattolico liberale del proprio tempo, capace di guardare al
mondo con rigore morale, con acutezza e spregiudicatezza storica, non
gli si deve certo attribuire un pensiero laico o un progressismo, un
democraticismo che egli anche prima della conversione rifiutò.
Il pessimismo di M., forse altrettanto profondo, non fu però, né poteva
essere della medesima natura di quello di Leopardi:
-al pessimismo storico leopardiano M. contrappone la consolazione
dell'attesa di un aldilà dove ingiustizie e torti potessero venir ripagati
e la sofferenza premiata, prospettiva assolutamente estranea al
materialismo del Leopardi.
-l'utopia di una società regolata sulla base di un egualitarismo evangelico
che si evince dai Promessi sposi non è la stessa cosa della disperata utopia
della Ginestra. L'una è comunque un'attenta analisi di una realtà più vera che
ne costituisce la pietra di paragone, l'altra è tutto ciò che all'uomo è dato
sperare nella sola realtà, quella terrena, che prelude al nulla eterno.
La composizione
Il romanzo fu completato in due anni (dal 1821 al 1823), ma prima di
arrivare alla sua forma definitiva subì diversi ritocchi e revisioni.
Di esso abbiamo infatti:
- la stesura primitiva, intitolata Fermo e Lucia (1823). Rimasta in gran
parte inedita, fu pubblicata integralmente con il titolo di Sposi Promessi nel
1816: differisce molto dal romanzo definitivo; la novità sta nel fatto che per la
prima volta una vicenda tragica che riguarda due popolani viene
raccontata dal loro punto di vista, con la mediazione del narratore;
- la prima edizione, pubblicata in tre volumi (1825-1827). Il passaggio
dalla stesura primitiva alla prima edizione è dovuto a motivi
prevalentemente morali e religiosi: Manzoni attenua i colori piuttosto
accesi con cui aveva tratteggiato la figura di Don Rodrigo, l’episodio della
monaca di Monza, ecc. La trama è sostanzialmente la stessa, cambiano la
caratterizzazione dei personaggi, l’intreccio, i modelli cui M. si ispira.
Mentre il Fermo e Lucia è un romanzo artisticamente meno felice, è però
più vivace dal punto di vista realistico e drammatico, più aperto alla
realtà e al presente, mentre i Promessi sposi sono un romanzo più
ascetico e idillico, più rivolto all’assoluto.
- la seconda e definitiva edizione, pubblicata con illustrazioni tra il
1840 e il 1842. Il passaggio è dovuto a motivi linguistici: Manzoni convinto
che la lingua italiana fosse il fiorentino colto, va in Toscana per lavare i propri
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panni in Arno, eliminando parole improprie, francesismi, lombardismi,
ecc. Il risultato è un linguaggio vivo, antiletterario, capace di
rappresentare le più svariate situazioni e i più vari affetti senza orpelli
retorici, un linguaggio naturale e immediato, che si adatta alla varietà
dei casi e dei personaggi. Un linguaggio potenzialmente nazionale,
perché compreso dalla gran parte degli italiani alfabeti, e, al tempo
stesso, duttile e adatto alle esigenze della nuova letteratura.
Sul piano dello stile il passaggio dalla prima all’ultima edizione del romanzo
segna il raggiungimento di un generale equilibrio espressivo, di un tono
medio, che era l’obiettivo e fu il merito storico del M.
Il contenuto
Il romanzo ha per sottotitolo ”Storia Milanese del secolo XVII, scoperta e
rifatta da A. Manzoni”, poiché l’autore fa credere, per dare illusione di
verità storica alla narrazione, di aver tratto la vicenda del suo romanzo
da un manoscritto anonimo del Seicento, redatto nel retorico stile di
quell’epoca (ne è riportato un ipotetico saggio nella prefazione) e di
aver rifatto il racconto nello stile contemporaneo.
Inoltre, in un inciso del capitolo XXXIII, il narratore afferma che probabilmente
l’anonimo del Seicento, ha sentito direttamente raccontare la storia da
Renzo.
Ciò vuol dire che i narratori sono tre: un popolano di scarsa cultura del
Seicento (Renzo), un letterato del Seicento e un uomo colto
dell’Ottocento: questi rappresentano le tre mentalità, i tre sistemi
ideologici, le tre concezioni del mondo che dominano e si intrecciano
nel corso del romanzo.
L’opposizione tra pacifica laboriosità e moralità degli umili e corruzione e
malgoverno dei potenti, tra cultura popolare ingenua, incline al miracoloso,
ma fondata sul buon senso, e cultura raffinatissima ma fallace dei dotti è
tema che percorre in tutte le sue pieghe il romanzo.
Il narratore giudicante
Quella del narratore è una presenza costante, portatrice di un punto di
vista discreto, ma fermo, di un sistema di valori e di conoscenze problematico
e moderno. Il narratore interviene, commenta, giudica, raramente
depreca in modo aperto, ma non manca di dire sobriamente la sua,
formulando giudizi di ordine morale.
Caratteristico è l’intervento ironico, in una vasta gamma di sfumature,
dall’ironia benevola che investe i piccoli difetti dei protagonisti più amati,
all’ironia più aspra o al sarcasmo feroce che investe soprattutto i potenti che
vengono meno ai loro doveri morali e politici.
L’intervento del narratore si realizza poi mediante una varietà di tecniche che
vanno dal semplice nudo resoconto del senso di un discorso, dal semplice
aggettivo carico di significati emotivi o morali, a interventi più articolati ed
espliciti.
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La trama
La trama del romanzo si svolge in Lombardia, sottoposta allora al dissennato
e ipocrita governo spagnolo, tra il 1628 e il 1630, e si può considerare
divisa in due parti: nella prima l’intreccio si sviluppa, nella seconda si
scioglie.
Nella prima parte campeggia la storica sollevazione di Milano, avvenuta, a
causa della carestia, l’11 novembre 1628, ed è descritto il malgoverno
spagnolo: chiude questa parte il rapimento di Lucia dal monastero di
Monza, per opera dell’Innominato.
Nella seconda parte gli avvenimenti storici più rilevanti sono: la conversione
dell’Innominato, l’incursione dell’esercito imperiale che assedia
Mantova (1629) e la peste.
I due protagonisti principali sono Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, due
giovani che vivono in un non identificato paesino nei pressi del Lago di Como,
allo sbocco del fiume Adda (forse Pescarenico, forse Olate, forse Acquate, oggi
sobborghi di Lecco). Ogni cosa è pronta per il loro matrimonio quando un
signorotto del luogo, il potente Don Rodrigo, scommette con il cugino che
riuscirà a impossessarsi di Lucia Mondella. Perciò il curato del paese, don
Abbondio, durante la sua solita passeggiata serale, viene minacciato da due
bravi di don Rodrigo, affinché non celebri il matrimonio tra lei e Renzo
Tramaglino. Spaventatissimo, don Abbondio cede subito. Il giorno dopo
imbastisce delle scuse a Renzo per prendere tempo e rinviare il matrimonio,
approfittando della sua ignoranza. Renzo però, parlando con Perpetua, donna
che si prende cura di don Abbondio, capisce che qualcosa non quadra e
costringe il curato a rivelare la verità. Si consulta così con Lucia e con la madre
di lei, Agnese, e insieme decidono di chiedere consiglio a un avvocato, tale
Azzecca-garbugli, che però si rivela essere in malafede. Così si rivolgono a
padre Cristoforo, loro "padre spirituale", cappuccino di un convento poco
distante. Fra Cristoforo decide di affrontare don Rodrigo, e si reca al suo
palazzo, ma è un insuccesso: il signorotto accoglie con malumore il frate,
intuendo il motivo della visita; il frate tenta di farlo recedere dal suo proposito,
ma viene cacciato via in malo modo.
La notte degl'imbrogli e de' sotterfugi
Intanto Agnese propone ai due promessi un matrimonio a sorpresa,
pronunciando davanti al curato le frasi rituali alla presenza di due testimoni.
Con molte riserve da parte di Lucia, il piano viene accettato, quando fra
Cristoforo annuncia il fallimento del suo tentativo di convincere Don Rodrigo.
Intanto don Rodrigo medita il rapimento di Lucia, e una sera dei bravi
irrompono in casa sua, che però trovano deserta: Lucia, Agnese e Renzo sono
a casa di don Abbondio per tentare di sorprenderlo, ma falliscono, e devono
riparare al convento di fra Cristoforo, perché frattanto vengono a sapere del
tentato rapimento.
La fuga
I promessi giungono al convento di padre Cristoforo, il quale espone loro i
suoi progetti. Infatti ha già deciso di far fuggire Renzo e Lucia,
rispettivamente a Milano e a Monza e ha già scritto due lettere, una al
padre Bonaventura del convento dei cappuccini di Milano e l'altra alla
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monaca di Monza per fare in modo che questi ospitino i due fuggitivi. Quindi,
dopo aver pregato anche per don Rodrigo, i due si incamminano per poi
separarsi il giorno dopo.
L'Addio ai monti
Secondo quanto padre Cristoforo ha preordinato, Renzo, Lucia e Agnese
scendono alle rive dell'Adda e salgono su una piccola barca. Qui i pensieri di
Lucia sono trascritti dal Manzoni in pochi paragrafi, tuttavia riassumono
perfettamente lo stato d'animo dei personaggi. Si ha un climax di sentimenti:
la malinconia si fa sentire molto forte e suscita nel lettore un moto di
compassione verso i personaggi.
I tumulti di Milano
Renzo, a Milano, non potendo ricoverarsi nel convento indicatogli dal padre
Cristoforo, dato che padre Bonaventura è in quel momento assente, rimane
coinvolto nei tumulti scoppiati in quel giorno per il rincaro del pane. Renzo si
fa trascinare dalla folla e pronuncia un discorso dove critica la giustizia, che
stava sempre dalla parte dei potenti. È tra i suoi ascoltatori un birro in
borghese, che cerca di condurlo in carcere ma Renzo, stanco, si ferma in
un'osteria, dove il birro viene a conoscenza, con uno stratagemma, del suo
nome. Andato via costui, Renzo si ubriaca e fa nuovi appelli alla giustizia con
gli altri avventori. L'oste lo mette a letto e corre a denunciarlo. Il mattino dopo
Renzo viene arrestato ma riesce a fuggire e ripara a Bergamo, nella
Repubblica di Venezia, da suo cugino Bortolo, che lo ospita e gli procura un
lavoro. Intanto la sua casa viene perquisita e viene fatto credere che sia uno
dei capi della rivolta. Nel frattempo il conte Attilio, cugino di don Rodrigo,
chiede a suo zio, membro del Consiglio Segreto, di far allontanare fra
Cristoforo, cosa che il conte ottiene dal padre provinciale dei
cappuccini.
L'Innominato
Don Rodrigo chiede aiuto all'Innominato, potentissimo e sanguinario signore,
che però da qualche tempo sta maturando una crisi di coscienza. Costui fa
rapire Lucia da Egidio, con la complicità di Gertrude, sua amante, e
Lucia viene portata al castello dell'Innominato. A seguito di una discussione
con Lucia, l'Innominato passa una notte orribile, piena di rimorsi, sta per
uccidersi quando scopre, quasi per volere divino, che il cardinale Federigo
Borromeo è in quel paese. Così il giorno dopo si presenta in Chiesa per
parlare con il cardinale. Il colloquio sconvolge l'Innominato, che si
impegna a cambiare vita e per prima cosa libera Lucia, che viene
ospitata da signori milanesi, amici del Borromeo. Intanto il cardinale
rimprovera duramente don Abbondio per non aver celebrato il matrimonio.
Poco dopo scendono in Italia i lanzichenecchi, mercenari tedeschi che
combattono nella guerra di successione al Ducato di Mantova, che mettono a
sacco il paese di Renzo e Lucia e diffondono il morbo della peste. Molti, tra
cui don Abbondio, Perpetua e Agnese, trovano rifugio nel castello
dell'Innominato, che si è fatto fervido campione di carità.
La peste
Con i lanzichenecchi entra in Italia la peste: se ne ammalano Renzo, che
guarisce, e don Rodrigo, che viene tradito e derubato dal Griso, il capo dei suoi
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bravi - che non godrà dei frutti del suo tradimento, contagiato anch'egli dalla
peste. Renzo, guarito, torna al paese per cercare Lucia, preoccupato dagli
accenni fatti da lei per lettera a un suo voto di castità fatto quando era
dall'Innominato, ma non la trova, e viene indirizzato a Milano, dove apprende
che si trova nel lazzaretto, il luogo in cui venivano isolati gli appestati. Qui
trova anche padre Cristoforo, che scioglie il voto di Lucia e invita Renzo a
perdonare don Rodrigo, ormai morente.
La peste, una della maggiori piaghe dell'umanità, viene descritta in maniera
scrupolosa e nei minimi particolari nelle sue prime manifestazioni, nelle
reazioni suscitate, negli interventi positivi e negativi degli uomini chiamati ad
occuparsene (dai medici, ai politici, alla chiesa). Agli errori delle autorità e alla
voluta disinformazione si somma l'ignoranza superstiziosa della popolazione.
Ne deriva uno sconvolgimento drammatico della città intera, attraversata da
Renzo, ormai guarito, come un luogo infernale pieno di pericoli e di insidie
mortali. La parte più drammatica di questa descrizione avviene nel capitolo 34,
con una delle più celebri frasi della letteratura italiana:
« Come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in
boccio, al passar della falce che pareggia tutte l'erbe del prato. »
In tale capitolo si parla anche di Cecilia, "di forse nov'anni", che, ormai morta,
è posta sul carro dei monatti dalla madre, che li implora di non toccare il
piccolo corpo composto con tanto amore, e chiede poi di tornare dopo a
riprendere lei "e non lei sola". Da notare il fatto che questo breve passo,
dedicato alla madre di Cecilia, è pura lirica. Nel romanzo infatti non è una
novità, essendo un genere letterario che può contenere altri generi, quali la
lirica, la commedia o la tragedia.
Conclusione
Infine i due promessi tornano al paese, si sposano e si trasferiscono
nel Bergamasco. Hanno una figlia che chiamano Maria, come segno di
gratitudine alla Madonna.
I personaggi del romanzo
I personaggi sono tratteggiati con vivissimo senso storico e realistico, tutti
credibili, tutti dotati di una loro fisionomia indimenticabile.
Il sistema dei personaggi dei Promessi sposi è piuttosto articolato e presenta
una netta separazione fra gli umili (le "gente meccaniche, e di piccol affare"
di cui parla l'anonimo nell'Introduzione, ovvero i "poverelli" citati da Manzoni) e
i potenti, che hanno parte non trascurabile nelle vicende.
Tra i primi troviamo soprattutto i protagonisti del romanzo (i due "promessi",
don Abbondio, Agnese, Perpetua, ecc.), mentre fra gli altri vi sono sia figure
di fantasia (don Rodrigo, Attilio, fra Cristoforo, ecc.) sia personaggi storici
(Ferrer, il cardinale Federigo Borromeo, ecc.), secondo il principio del romanzo
storico che mescola fantasia e realtà, in un ambiente sociale
precisamente ricostruito.
Alcuni personaggi, se anche non sono storici in senso stretto, si prestano a
un'identificazione più o meno sicura, come quelli di Gertrude (la
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monaca di Monza) o di Bernardino Visconti, che diventa l'innominato
nel romanzo.
Di alcuni l'autore ci fornisce una dettagliata descrizione e ci racconta la loro
storia, su altri è decisamente più reticente e la ragione di ciò è spesso
attribuita all'anonimo, che avrebbe omesso alcuni particolari nel manoscritto
immaginario (in alcuni casi si tratta di semplice prudenza da parte di
Manzoni).
I personaggi principali presentano una notevole profondità psicologica e
un indubbio realismo, che spesso attribuisce loro difetti e qualità in modo
verosimile (questo vale soprattutto per le figure positive della vicenda).
Spesso i nomi alludono a caratteristiche del personaggio, come Lucia
(giovane dalla specchiata onestà, luminosa), don Abbondio (nome del
santo patrono di Como, con allusione al suo amore per il quieto
vivere), padre Cristoforo (portatore di Cristo, secondo l'etimologia
latina).
Personaggi principali
Don Abbondio - Agnese - conte Attilio - padre Cristoforo – Innominato - Lucia Perpetua - Renzo - don Rodrigo
Aristocratici
capitano di giustizia - Don Ferrante - Antonio Ferrer - don Gonzalo - fratello del
nobile ucciso - nobile ucciso -principe padre - donna Prassede - Ambrogio
Spinola - vicario di Provvisione - conte zio
Borghesi e popolani
Bortolo - Gervaso - Menico - mercantessa - mercante di Milano - moglie del
sarto - oste della Luna Piena - oste del paese - oste di Gorgonzola - padre di
Lodovico - sarto – Tonio
Ecclesiastici
Federigo Borromeo - cappellano crocifero - conversa - fra Fazio - fra Galdino Gertrude - madre badessa - padre Felice - padre guardiano - padre provinciale
- il vicario delle monache
Antagonisti
Azzecca-garbugli - bravi - Egidio - Ambrogio Fusella – Griso - monatti – Nibbio
- notaio criminale - podestà di Lecco
Personaggi minori
accusatrice di Renzo - Alessio di Maggianico - Ambrogio - amico di Renzo barocciaio - Bettina - cocchiere Pedro - console - Cristoforo - donna
sequestrata - madre di Cecilia - Marta - passante di Milano - pescatore
dell'Adda - pesciaiolo - prete di Milano - serva dell'Azzecca-garbugli - vecchia
del castello - vecchia dell'osteria - vecchio servitore - vecchio malvissuto
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Il fine del romanzo
Il fine del romanzo è duplice:
a) morale e religioso: nel romanzo Dio è un attore nascosto, anche i mali
e i dolori hanno, nelle vicende della vita, la loro ragione di essere. Ne deriva
che la virtù cristiana per eccellenza è la rassegnazione, la fiducia che tutto,
grazie alla Provvidenza, troverà il suo esito migliore;
b) politico: Manzoni, attraverso la rappresentazione del malgoverno
spagnolo, si propone di mettere sotto accusa le dominazioni straniere in
Italia e di spronare gli animi alla resurrezione della patria.
L’umorismo manzoniano
L'umorismo manzoniano è una conseguenza del pessimismo umano
dell’autore: nessuna delle miserie materiali e morali del mondo gli
sfugge (oppressione dei poveri e dei deboli, tirannia dei forti, ineluttabili
sventure dei buoni, ecc.); dalla sua indole serena e mite è portato però non
all’invettiva ma al malinconico sorriso che stempera la tristezza.
Questo umorismo si esplica in piccole dosi, messe qua e là con arte e inserite
nel tono stesso del racconto.
Lo stile e la lingua
Lo stile e la lingua del romanzo segnano la fine della scrittura enfatica e
accademica, la coincidenza del linguaggio scritto con quello parlato, la
creazione della prosa moderna.
Della questione della lingua si occupò poi in diversi suoi scritti: per Manzoni la
lingua italiana è il fiorentino, quello però usato dalle persone colte.
Commento
La concezione pessimistica della storia che anima le tragedie si
rischiara e rasserena nei Promessi sposi.
I personaggi principali sono popolani, perché in loro è più puro e
spontaneo l’ideale cristiano.
La vicenda è immaginaria, ma verosimile, senza l’elemento romanzesco che
contraddistingue i romanzi storici del romanticismo.
Si tratta di una vicenda morale e storica che rispecchia la perfetta fusione
di vero storico e vero morale nel vero poetico.
I personaggi oppressi, gli umili, riescono a ottenere il premio per la
loro fedeltà all’ideale cristiano anche in vita e non sono una massa
amorfa che si muove sullo sfondo della storia come nell’Adelchi, ma
collaborano più dei “grandi” alla Storia, perché più adatti ad accogliere
il messaggio di Cristo e a realizzare in terra quella civiltà che coincide
con l’affermazione dello spirito evangelico.
I due personaggi principali rappresentano le doti migliori del popolo:
Renzo, onesto, laborioso, cordiale, generoso e soprattutto assetato di
giustizia. Lucia docile e fiduciosa nella Divina Provvidenza, animata da
un sentimento cristiano puro e spontaneo che la fa vivere in base alla
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convinzione che se Dio toglie qualcosa ai suoi figli, lo fa per donare poi
qualcosa di più grande.
I due non sognano un’ideale romantico di amore assoluto, ma la famiglia
come ideale di tranquilla e serena laboriosità.
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