TEORIE E TECNICHE PSICOLOGIA CLINICA Appunti lezioni fornite dal docente Parte I: I paradigmi PARADIGMI ATTUALI IN PSICOLOGIA CLINICA Con paradigma si intende un insieme di assunti generali che riguardano la scelta dell’oggetto di studio, la modalità di raccolta dati, la concezione del funzionamento della mente e del comportamento normale e patologico e l’uso conseguente di determinate tecniche terapeutiche. Il termine include dunque tutti gli assunti e le teorie accettate come vere dagli psicologi clinici. Attualmente la maggior parte degli psicologi clinici fa riferimento a 5 diversi paradigmi: Apprendimento, Biologico, Cognitivo, Psicoanalitico e Umanistico. Come giustamente sottolineano Davison e Neale (2000) l’implicazione più importante dei paradigmi è che determinano dove e come gli psicologi clinici cercano le risposte ai diversi problemi posti dai disturbi psicologici e dal loro trattamento terapeutico. L’assunzione di un paradigma può pertanto distorcere la percezione dei dati clinici poiché, spesso, i ricercatori interpretano a priori i dati in modo diverso secondo i rispettivi punti di vista, tuttavia bisogna avere presente che senza un paradigma di riferimento non sarebbe possibile dare un significato alle osservazioni cliniche. Il fatto che i ricercatori non operino tutti nell’ambito dello stesso paradigma non deve stupire, e anzi può essere visto con favore, perché attualmente si conosce ancora troppo poco dei fenomeni psicopatologici e, se si evitano contrapposizioni aprioristiche, la diversità di approcci potrà incrementare le nostre conoscenze a tutto beneficio dei pazienti. Ogni paradigma implica delle ipotesi sui concetti di normalità e patologia, senza però definirli in modo esplicito. In linea generale sono state proposte alcune definizioni di normalità e patologia (infrequenza statistica, sofferenza personale, violazione delle norme sociali, evidenti disfunzioni in qualche importante area dell’esistenza, imprevedibilità rispetto al fattore ambientale stressante), ma nessuna è soddisfacente, perché al più colgono solo un segmento di quella che potrebbe essere una definizione esauriente. Riprenderemo questo tema quando parleremo della diagnosi nosograficodescrittiva. PARADIGMA PSICOANALITICO L’assunto di base del paradigma psicoanalitico è che il pensare e l’agire umano siano determinati dall’interazione di tre sistemi psichici, Es, Io e Super-io, concettualizzati come astrazioni che categorizzano e descrivono funzioni organizzative e motivazionali della mente, il cui operare è prevalentemente inconscio. I disturbi psicologici sono concettualizzati come conseguenze di carenze o traumi ambientali e di conflitti intrapsichici dell’età evolutiva (riattivati da circostanze attuali nel caso di disturbi comparsi 1 successivamente), tali da produrre deficit strutturali dell’Io o del Super-io, risposte emozionali (per es.angoscia, sentimento di colpa, vergogna) e/o operazioni mentali difensive (meccanismi di difesa) adattive o compensatorie che possono portare a distorsioni del funzionamento dell’Io e del Super-io e della personalità nel suo complesso, e alla comparsa di sintomi. Una breve illustrazione ci aiuterà a comprendere meglio questi concetti. Es: comprende tutte le rappresentazioni mentali delle spinte istintuali che l’uomo eredita geneticamente e che sono finalizzate fondamentalmente all’autoconservazione e alla riproduzione della specie. Gli psicoanalisti preferiscono il termine pulsione a quello di istinto per sottolineare la maggiore plasticità dell’istinto nell’uomo, rispetto ad altri animali, Il suo funzionamento è inconscio. Nella coscienza è avvertito dall’Io sotto forma di desideri e di fantasie d’appagamento. Io: insieme di funzioni psichiche che mettono l’individuo in grado di percepire, pensare e agire sull’ambiente (attenzione, percezione, pensiero, memoria, affetti ed emozioni, linguaggio, controllo motorio). Il suo funzionamento è in parte inconscio e in parte conscio. Le funzioni dell’Io, precostituite su base genetica, per maturare e svilupparsi pienamente necessitano di stimolazioni e di risorse ambientali adeguate alle varie fasi dello sviluppo. Importanti compiti dell’Io sono il mantenimento dell’integrità psicofisica, la conoscenza e il controllo dell’ambiente, la discriminazione fra gli stimoli che provengono dall’interno da quelli esterni (esame di realtà), la soddisfazione delle spinte pulsionali e delle esigenze del Super-io, la valutazione in anticipo di eventi traumatici e l’attuazione di meccanismi di difesa. Super-io: comprende le funzioni di divieto, di ideale e di autosservazione. Alcuni autori distinguono le funzioni di divieto (Super-io in senso stretto, che indica quello che è proibito fare, pena il senso di colpa) da quelle di ideale (Ideale dell’Io, che indica come si deve essere e comportarsi, pena la vergogna). Le sue funzioni sono in parte consce e in parte inconsce. Si costituisce stabilmente in conseguenza dell’interiorizzazione (fare proprie) delle esigenze, delle aspettative e dei divieti dei genitori, concomitanti all’abbandono degli investimenti edipici e allo stabilizzarsi delle identificazioni e controidentificazioni con i genitori. Alcuni autori individuano i precursori del Super-io nelle fasi dello sviluppo pre-edipiche. Le caratteristiche del Super-io sono determinate dai valori morali e ideali della società filtrati dalle parole e dagli atteggiamento dei genitori e dalle fantasie e caratteristiche del pensiero infantile. Esperienze più tardive, in particolare adolescenziali, possono ulteriormente plasmare il Super-io in modo conforme ai canoni morali e agli ideali del gruppo sociale di appartenenza. Inconscio: sulla base dell’osservazione e dell’esperienza clinica la teoria psicoanalitica ipotizza un’attività mentale inconscia, che in parte può essere resa cosciente, che sottende e in buona parte dirige il pensare e l’agire cosciente. E’ inoltre ipotizzata la possibilità che contenuti mentali coscienti possano essere resi inconsci mediante rimozione. L’attività mentale inconscia caratterizza le funzioni dell’Es, in parte le funzioni dell’Io e del Super-io, e gli affetti e le fantasie connesse a situazioni traumatiche e conflitti oggetto di rimozione. Fasi dello sviluppo: nella teoria psicoanalitica la maturazione del bambino è descritta attraverso un susseguirsi di fasi che sfumano l’una nell’altra: fase orale, sadico-anale, fallico-edipica e latenza. Ogni fase è caratterizzata dalla prevalente erotizzazione di parti e funzioni del corpo, dall’evolversi della relazione oggettuale (oggetto: persona significativa per la vita fisica e psichica del bambino) e delle funzioni dell’Io, e da bisogni, fantasie e caratteristiche del pensiero che determinano il modo con cui si esperiscono e s’interpretano la relazione con l’altro e gli eventi di vita. 2 Trauma: per trauma s’intende qualsivoglia evento che, per la sua valenza emotiva ed intensità, sia in grado di forzare l’Io oltre le sue capacità d’adattamento, e di conseguenza provocare una disorganizzazione più o meno temporanea delle sue funzioni, la comparsa di angoscia e di successive risposte più o meno adattive mediate da operazioni mentali difensive. Tipiche situazioni traumatiche sono la perdita o la minaccia della perdita dell’oggetto o dell’amore dell’oggetto, il danno o la minaccia di danno (reale o simbolica) alla propria integrità fisica, e la frustrazione di bisogni istintuali con conseguente loro intensificazione oltre la possibilità di padroneggiamento da parte dell’Io. Le situazioni traumatiche, comunque, non sono tali in senso assoluto e non sempre producono un disturbo psicologico, perché il loro effetto dipende in gran parte dalle risorse della persona e dall’eventualità che attivino un conflitto intrapsichico. Carenze ambientali in età evolutiva possono essere considerate a tutti gli effetti potenziali situazioni traumatiche ad effetto cumulativo. Si tratta di carenze per difetto o per eccesso di intervento da parte delle figure di riferimento del bambino, ad esempio mancanza di empatia e di reverie, incapacità a rispondere ai bisogni narcisistici, frustrazione o gratificazione eccessiva di bisogni istintuali. Ai traumi dell’età evolutiva, siano essi eventi accidentali o carenze ambientali ad effetto cumulativo, la teoria psicoanalitica attribuisce particolare importanza per la possibilità che producano distorsioni nelle relazioni oggettuali e difetti o arresti evolutivi quali deficit strutturali dell’Io (per es. bassa tolleranza alle frustrazioni, minore capacità di gestire adeguatamente i propri bisogni ed emozioni, persistenza di caratteristiche di pensiero concreto e magico ecc.) e del Superio (per es. eccessiva rigidità morale o incapacità a adeguarsi alle norme sociali ecc.). La fase dello sviluppo nel corso della quale i traumi acuti o cumulativi esercitano il loro impatto determina la comparsa di fantasie specifiche collegate al modo con cui si esperisce e s’interpreta il significato di un evento, con importanti implicazioni sugli effetti e sulle modalità di gestione di eventi analoghi in età adulta. In altre parole si può creare una vulnerabilità per determinati eventi simili e una predisposizione all’attivazione di conflitti intrapsichici e all’uso di meccanismi di difesa disadattivi. Conflitto intrapsichico: contrapposizione di esigenze contrastanti che provengono dall’Es, dall’Io e dal Super-io, attivate da eventi interni o esterni e dalle fantasie specifiche, consce o inconsce, loro collegate. Se il conflitto forza l’Io oltre i limiti delle sue capacità di adattamento, l’evento assume la connotazione del trauma. Ad esempio la nascita di un fratello richiede al bambino un adattamento alla nuova situazione e ciò può avvenire senza conseguenze patologiche o anche con effetti maturativi; tuttavia, se l’evento attiva fantasie e desideri carichi di forte aggressività e un contemporaneo forte senso di colpa, il conflitto che s’ingenera può dare all’evento la connotazione del trauma, con comparsa di angoscia e attivazione di meccanismi di difesa. Angoscia: il termine è utilizzato come sinonimo di ansia. Corrisponde all’emozione (stato di attivazione psicofisiologica) che concomita e segue all’esposizione ad un pericolo, prima che sia stata operata una valutazione e una scelta adeguata a fronteggiare la situazione. Si tratta di una risposta automatica, geneticamente determinata, con funzione di predisporre biologicamente l’organismo ad attivare un comportamento d’emergenza. Quando l’Io è in grado di effettuare una valutazione realistica del pericolo, e di dare una risposta adeguata non basata su elaborazioni fantastiche inconsce, si parla di angoscia realistica. Si parla, invece, di angoscia traumatica quando l’emozione concomita e segue ad eventi interni o esterni che suscitano conflitti intrapsichici che forzano l’Io oltre le sue capacità di adattamento (traumi), spingendolo verso risposte basate su operazioni mentali difensive inconsce (meccanismi di difesa) che possono dare luogo alla comparsa di sintomi. Con la maturazione l’Io apprende a prevedere in anticipo gli eventi potenzialmente traumatici, e in tali casi si attiva una forma di angoscia attenuata, l’angoscia segnale, che allerta l’Io in modo che possa evitare o fronteggiare la situazione. 3 L’angoscia traumatica e l’angoscia segnale assumono la caratteristica di sintomo in molti disturbi psicologici. Meccanismi di difesa: sono operazioni mentali automatiche e inconsce a cui l’Io ricorre per padroneggiare l’angoscia e risolvere i conflitti intrapsichici. Tutte le normali modalità di funzionamento dell’Io (es. spostamento dell’attenzione, produzione di fantasie, assunzione di un comportamento ipocrita, ecc.) possono essere usate a scopo difensivo anche consapevole, a tali modalità è dato il nome di meccanismi di difesa solo quando hanno la caratteristica dell’automatismo e dell’inconsapevolezza. I meccanismi di difesa possono portare ad un padroneggiamento dell’angoscia e ad un adattamento, o alla formazione di tratti del carattere e di sintomi determinati dallo specifico meccanismo di difesa utilizzato. Ci soffermeremo brevemente su alcuni dei più noti meccanismi di difesa: Rimozione: le rappresentazioni mentali e gli affetti collegati ad un trauma o ad un conflitto sono respinti dalla coscienza e resi inconsci con conseguente scomparsa dell’angoscia. Il materiale rimosso continua tuttavia a persistere nella memoria a livello inconscio, per questo in caso di eventi di vita successivi collegati associativamente con il materiale rimosso si attiva l’angoscia segnale, avvertita soggettivamente come un’ansia senza causa apparente. Formazione reattiva: consiste nell’assunzione coattiva e rigida di atteggiamenti opposti, anche simbolicamente, all’affetto o al comportamento indesiderato perché fonte di conflitto. Può manifestarsi con un comportamento particolare o costituirsi in un tratto di carattere più o meno integrato nel complesso della personalità. Isolamento: consiste nel separare una rappresentazione cosciente dall’affetto corrispondente e da connessioni associative con altri pensieri. La rappresentazione ha libero accesso alla coscienza, ma è sperimentata come idea estranea come ad esempio l’ossessione nel disturbo ossessivocompulsivo. Annullamento: un pensiero, un gesto o un atto sono considerati non avvenuti utilizzando allo scopo un pensiero od un atto di significato opposto. Può dare luogo a coazioni e comportamenti ritualistici come quelli tipici del disturbo ossessivo-compulsivo. Negazione o diniego: consiste nel rifiuto della percezione di un fatto che si impone nel mondo esterno, di solito una parte spiacevole ed indesiderata della realtà mediante una fantasia a cui viene data il carattere di realtà. È una modalità difensiva che indebolisce notevolmente l’esame di realtà. Proiezione: consiste nell’espulsione da sé e nell’attribuzione all’altro, di qualità, sentimenti, impulsi, desideri inaccettabili per il soggetto. È una modalità difensiva che indebolisce notevolmente l’esame di realtà. È implicata nel fenomeno della superstizione e del razzismo, può dare luogo a disturbi di personalità e caratterizza la schizofrenia paranoide. Il termine proiettivo usato nei test di personalità non corrisponde alla difesa, ma fa riferimento al fatto che percepiamo la realtà e in particolare gli stimoli ambigui in base ai nostri desideri, timori, interessi, stati affettivi ecc.. Rivolgimento contro il sé: un sentimento aggressivo verso una persona cara viene deviato e rivolto verso il sé. Questo meccanismo può indurre la persona a farsi male fisicamente od a nuocersi per altre vie. Identificazione: è un processo psicologico attraverso il quale un soggetto assimila un aspetto, una proprietà od un attributo di un’altra persona e si trasforma totalmente o parzialmente sul modello di quest’ultima. Viene usata come difesa quando serve ad attenuare il conflitto derivante dalla perdita reale o simbolica di quella persona, oppure la paura di un’aggressione reale o fantasticata da parte della persona in questione, in quest’ultimo caso si parla di identificazione con l’aggressore. Regressione: quando è usata come meccanismo di difesa consiste in un ritorno automatico ed involontario a modalità di soddisfazione e di funzionamento psicologico caratteristici di stadi evolutivi più antichi. Può essere parziale, se limitata ad alcuni comportamenti, o totale, come in alcune gravi disturbi psicotici. 4 Conversione: un desiderio o un conflitto viene simultaneamente tenuto fuori della coscienza ed espresso in forma dissimulata e simbolica attraverso un disturbo di una funzione corporea appartenente di solito al sistema sensoriale o muscolare volontario. È caratteristico del disturbo di conversione. Inibizione: comporta una perdita inconsapevole della motivazione necessaria per impegnarsi in una certa attività connessa simbolicamente con conflitti inconsci. L’attività è evitata a causa del disinteresse o di un senso di inadeguatezza. Spostamento: consiste nello spostamento del segnale d’angoscia su un oggetto esterno con la conseguenza che il pericolo viene fronteggiato mediante l’evitamento. Dissociazione: le funzioni mentali si scindono in modo da consentire l’espressione di impulsi inconsci senza che venga avvertita alcuna responsabilità per le proprie azioni, perché in seguito non vengono ricordate, o non vengono riconosciute come proprie. Il comportamento è diverso e di solito opposto a quello normale della persona nel suo usuale stato di coscienza. Questo meccanismo di difesa è caratteristico dei disturbi dissociativi. Identificazione proiettiva: si basa su una funzione dell’Io riconducibile all’attuazione di azioni comportamentali o verbali idonee a suscitare in un'altra persona stati mentali (es. noia, attenzione, allarme, senso di colpa, confusione, ecc.) emozioni (es. gelosia, amore, odio, angoscia, ecc.) e comportamenti. Come modalità comunicativa serve a dare informazioni su ciò che proviamo (es. gioia di vivere o senso di depressione), e a conoscere in maniera più profonda gli altri attraverso quello che ci fanno sentire, e noi stessi attraverso gli effetti che produciamo negli altri. Come meccanismo di difesa è utilizzato per liberarsi di sentimenti, desideri e impulsi inaccettabili, collocandoli in qualcun altro. Si distingue dalla proiezione che si limita ad attribuire qualcosa, ad esempio la colpa, senza gli effetti pragmatici dell’identificazione proiettiva che fa sentire in colpa l’altro. Le critiche al paradigma psicoanalitico riguardano principalmente: 1) il fatto che la teoria si basa sullo studio di casi clinici e sui limiti di questo metodo di ricerca; 2) l’inferire processi inconsci difficilmente operazionalizzabili ai fini della ricerca sperimentale. È in ogni caso notevole l’impatto di questo paradigma sulla conoscenza dei disturbi psicologici, in particolare riguardo all’importanza delle esperienze traumatiche infantili nella genesi dei disturbi, l’influenza sul comportamento di un’attività mentale inconscia, e il controllo dell’ansia e degli eventi stressanti mediante strategie mentali. Scopo delle terapie che adottano il paradigma psicoanalitico è quello di produrre nel paziente insight, vale a dire una comprensione cognitiva ed emotiva dei moventi del proprio agire e soffrire presente e passato. Sono inoltre tenuti in considerazione altri fattori terapeutici collegati alla relazione. PARADIGMA UMANISTICO Per gli psicologi clinici che hanno come riferimento il paradigma umanistico l’agire umano è intenzionale e diretto all’autorealizzazione e all’autonomia, e non condizionato passivamente da stimoli ambientali o da spinte pulsionali. L’approccio conoscitivo al funzionamento della mente è di tipo fenomenologico. Ogni persona è considerata dotata di una struttura interna di riferimento, o concetto di sé, che è il prodotto di tutte le 5 percezioni ed esperienze avute durante lo sviluppo; questa struttura filtra la percezione degli eventi interni ed esterni condizionando il vissuto (per esempio, se una persona si considera debole e indifesa, tenderà a vivere gli eventi del mondo come potenzialmente minacciosi) e le scelte. Il disagio e i disturbi psicologici sono concettualizzati come la conseguenza di stili educativi e relazionali che non hanno favorito la spinta innata al sano sviluppo delle proprie caratteristiche, ma piuttosto l’accettazione acritica dei desideri e delle aspettative altrui, e di modelli di genitori contrapposti e non comunicanti. La conseguenza è la creazione di una struttura interna di riferimento poco flessibile, eccessivamente sensibile ai giudizi degli altri, poco consapevole delle proprie motivazioni e incapace di esprimere e di ricercare attivamente l’appagamento dei propri bisogni. Da qui l’assunto che il malessere psicologico può essere modificato incrementando la consapevolezza che la persona ha delle sue motivazioni e bisogni. Il paradigma umanistico è oggetto di critiche: 1) per l’approccio fondamentalmente filosofico e talvolta utopistico alla natura umana e alle sue motivazioni; 2) per la poca attenzione verso la definizione delle cause dei singoli disturbi psicologici. Di rilievo è il contributo che i clinici ad orientamento umanistico hanno dato sull’importanza nei trattamenti psicologici delle caratteristiche del terapeuta e dell’alleanza terapeutica. Scopo delle terapie che adottano il paradigma umanistico è quello di aiutare le persone ad incrementare la consapevolezza (insight) e l’espressione delle proprie motivazioni, bisogni e desideri. Le terapie umanistiche più diffuse e più compiutamente elaborate sono: “La terapia centrata sul cliente” di Carl Rogers, e “la terapia della Gestalt” di Fritz Perls. PARADIGMA DELL’APPRENDIMENTO Gli psicologi che hanno come riferimento il paradigma dell’apprendimento o comportamentismo ritengono che il comportamento umano sia quasi tutto frutto di un apprendimento, e solo in parte riflesso o istintivo. L’assunto di base per la psicologia clinica è dunque che il comportamento patologico, come peraltro quello normale, è appreso secondo le regole del condizionamento classico e del condizionamento operante, e per imitazione di modelli. Oggetto di studio e di eventuale modificazione terapeutica sono solo i comportamenti manifesti; le emozioni, per es. l’ansia, sono studiate attraverso dimensioni oggettivamente osservabili quali gli indici psicofisiologici e il comportamento di evitamento. Condizionamento classico E’ indissolubilmente legato al nome di Pavlov, uno scienziato russo che, durante uno studio sulla secrezione gastrica del cane, osservò casualmente che il cane secerneva saliva al rumore dei passi dello sperimentatore che portava del cibo, e iniziò insieme con i suoi allievi uno studio sistematico di questo fenomeno, a cui diede nome di secrezione psichica. 6 Esperimento di Pavlov Quando il cibo (stimolo incondizionato) è posto nella bocca del cane, si produce in modo riflesso un flusso di saliva (risposta incondizionata). Se prima di ogni presentazione del cibo viene presentato uno stimolo neutro come il suono di un diapason (stimolo condizionato), dopo ripetuti accoppiamenti si ottiene la salivazione (risposta condizionata) con la sola vibrazione del diapason. Nell’esperimento di Pavlov lo stimolo incondizionato è di valenza positiva. Altri ricercatori hanno dimostrato che è possibile ottenere un condizionamento anche con stimoli incondizionati a valenza negativa, come per esempio lo shock elettrico che provoca una risposta incondizionata d’evitamento. Concetti e fenomeni fondamentali del condizionamento classico sono: 1) Stimolo: qualsiasi evento, interno o esterno all’organismo, in grado di produrre un comportamento interno o esterno detto risposta, osservabile e quantificabile. Possono essere semplici o complessi. Sono chiamati incondizionati tutti gli stimoli (es. cibo) che sono in grado di produrre naturalmente una determinata risposta dell’organismo (es. salivazione), mentre si parla di stimoli condizionati (es. vibrazione del diapason) quando producono quella determinata risposta solo dopo essere stati associati allo stimolo incondizionato. 2) Risposta: sono tutti i comportamenti dell’organismo sia interni sia esterni, che se prodotti da uno stimolo incondizionato assumono il nome di risposte incondizionate, mentre se prodotti da uno stimolo condizionato assumono il nome di risposte condizionate. 3) Principio di contiguità: per ottenere un condizionamento è necessaria una contiguità temporale ottimale fra lo stimolo incondizionato e condizionato. Il tempo ottimale è di mezzo secondo. Aumentando il tempo si ha un condizionamento meno stabile. Se facciamo precedere lo stimolo incondizionato allo stimolo condizionato il condizionamento risulta molto debole. 4) Fenomeno dell’estinzione: una volta ottenuto un condizionamento, se si prosegue con ripetute presentazioni dello stimolo condizionato non seguite dallo stimolo incondizionato, la risposta condizionata si indebolisce progressivamente fino ad estinguersi. Una volta ottenuta l’estinzione, se si lascia passare un certo lasso di tempo senza più presentare lo stimolo condizionato, ad una nuova presentazione avremo un recupero spontaneo della risposta condizionata. Proseguendo con un’alternanza di estinzioni e recuperi spontanei si arriva ad un’estinzione definitiva, se però riprendiamo ad associare di nuovo lo stimolo condizionato con lo stimolo incondizionato la risposta condizionata ricompare. L’estinzione può essere ottenuta anche associando allo stimolo condizionato una nuova risposta incompatibile con la precedente. 5) Fenomeno dell’interferenza: la forza di un condizionamento può risentire dell’apprendimento contemporaneo di un’altra associazione stimolo-risposta. Se varia solo stimolo l’interferenza è di solito positiva, in particolare quanto più i due stimoli si somigliano; se varia solo la risposta l’interferenza è negativa; se variano sia lo stimolo sia la risposta, si può prevedere nella maggior parte dei casi un’interferenza negativa. 6) Fenomeno della generalizzazione: la risposta condizionata, una volta ottenuta, può essere elicitata anche da stimoli simili a quello utilizzato per il condizionamento. Per esempio se come stimolo condizionato usiamo un metronomo che batte al ritmo di 100 battute al minuto, si ottiene la risposta condizionata, seppure di forza inferiore, anche con altri ritmi. Sono chiamate primarie le generalizzazioni basate su una somiglianza fisica misurabile, e secondarie quelle basate su una somiglianza appresa (es. sinonimo di una parola). 7) Fenomeno della discriminazione: è possibile ottenere la risposta condizionata solo per un determinato stimolo, e non per quelli simili associando lo stimolo incondizionato solo allo stimolo prescelto e presentando da soli quelli simili. 7 8) Fenomeno del condizionamento di ordine superiore: associando ripetutamente un nuovo stimolo allo stimolo condizionato si può ottenere la risposta condizionata presentando da solo il nuovo stimolo. Si può proseguire con un condizionamento di terzo ordine ecc.. Condizionamento operante E’ legato al nome di Skinner, un ricercatore americano che, partendo dalla legge dell’effetto di Thorndike, dimostrò con i suoi esperimenti che determinate risposte, emesse casualmente, possono essere condizionate dall’ambiente mediante un’associazione tra risposta e rinforzo. Legge dell’effetto: il concetto base è che gli animali apprendono delle risposte le cui conseguenze rappresentano per loro una ricompensa tale che quel comportamento abbia a ripetersi o no. Skinner ne muta la denominazione in quella di principio del rinforzo. Esperimento di Skinner Un topo affamato viene posto in un box all’interno del quale è posta una leva che, premuta casualmente dal topo, fa cadere del cibo. Dopo ripetute associazioni della risposta casuale con il rinforzo si ottiene la risposta condizionata. Nel condizionamento operante, dunque, non si parla più di stimoli e risposte come nel condizionamento classico, ma di risposte e rinforzi. Rinforzi sono tutti gli eventi che seguono immediatamente una risposta e che aumentano la probabilità che la risposta si ripeta (rinforzi positivi) o scompaia (rinforzi negativi). Oltre che positivi e negativi, i rinforzi possono essere: primari se ottengono l’effetto senza necessitare di condizionamenti precedenti (es. cibo), o secondari (es. denaro) se capaci di rinforzo solo dopo associazione ad altri rinforzi; continui quando viene rinforzato il 100% delle risposte, o intermittenti (ogni tot risposte o tempo) se viene rinforzata solo una parte delle risposte (questo tipo di rinforzo necessita di più tempo per instaurare la risposta, ma poi questa risulta essere più difficile da estinguere). Anche nel condizionamento operante valgono il principio di contiguità e le stesse leggi del condizionamento classico: estinzione, recupero spontaneo, interferenza, generalizzazione, discriminazione e condizionamento di ordine superiore. L’apprendimento per imitazione o modeling È legato ai nomi di Bandura e Walters, ricercatori americani interessati alla psicologia sociale, che hanno dimostrato sperimentalmente che osservare qualcuno che compie una determinata azione può incoraggiare l’apprendimento di quel comportamento. Esperimento di Bandura e Walters Bambini di scuola materna posti in situazioni di frustrazione dopo l’osservazione di modelli con comportamento aggressivo o non aggressivo, rispondevano in numero significativamente maggiore con le modalità comportamentali del modello osservato. La probabilità del comportamento aumentava se il modello aveva ottenuto conseguenze remunerative. L’apprendimento per imitazione pone il problema dell’esistenza di mediatori interni nell’apprendimento e nel comportamento, perché l’apprendimento avviene senza che sia necessaria una risposta manifesta e senza bisogno di rinforzo. Questo fatto ha portato alcuni ricercatori di orientamento comportamentista a legittimare, con la teoria mediazionale, una ricerca che andasse 8 oltre il dato osservabile e a ridefinire il concetto di apprendimento nei termini di acquisizione di rappresentazioni mentali che possono essere tradotte in comportamenti. Il paradigma dell’apprendimento è oggetto di critiche: 1) per l’approccio sostanzialmente riduzionistico che equipara il funzionamento della mente a complesse integrazioni di unità elementari di stimoli, risposte e rinforzi; 2) per l’impossibilità di fare risalire in modo convincente i disturbi psicologici a particolari esperienze di apprendimento; ricordiamo al proposito che il fatto che una terapia basata sui principi dell’apprendimento possa modificare un comportamento non dimostra che il comportamento sia stato appreso in modo analogo. Merito del paradigma dell’apprendimento è quello di avere introdotto il metodo sperimentale in psicologia clinica. Le terapie psicologiche comportamentali, sono finalizzate a modificare i comportamenti disadattivi mediante le leggi del condizionamento classico, del condizionamento operante e del modeling. La relazione terapeutica viene considerata utile, ma non necessaria. PARADIGMA COGNITIVO Gli psicologi che hanno come riferimento il paradigma cognitivo ritengono che le persone strutturino e diano senso attivamente agli stimoli ambientali, interpretando ogni nuovo stimolo alla luce delle acquisizioni del passato, organizzate in una rete di schemi cognitivi gerarchicamente organizzati e riorganizzabili alla luce di nuove acquisizioni. L’assunto di base per la psicologia clinica è che i disturbi psicologici siano conseguenza di schemi cognitivi irrazionali o comunque rigidi e incoerenti rispetto alle esigenze e agli scopi della persona. In psicologia clinica sono attualmente presenti due prospettive teorico-cliniche: una prospettiva cognitivo razionalista e una prospettiva cognitivo strutturalista. La prospettiva cognitivo razionalista L’indirizzo teorico-clinico cognitivo razionalista prende le mosse in particolare dalla teoria lineare dell’elaborazione delle informazioni, che considera l’uomo come un attivo elaboratore degli stimoli ambientali attraverso un processo seriale che prevede diversi passaggi: Attenzione selettiva verso alcuni stimoli ambientali → percezione dello stimolo → codifica dello stimolo → elaborazione dello stimolo → valutazione dello stimolo in base alla sua valenza, ai propri scopi, al proprio benessere ed all’immagine di Sé → reazione emotiva → reazione comportamentale → conseguenze dell’azione sull’ambiente, rispetto alle quali può avere inizio un nuovo processo di percezione selettiva. Le emozioni e i comportamenti sono quindi considerati come conseguenti a valutazioni cognitive. L’assunto di base che ne deriva per la psicologia clinica è che per comprendere il comportamento patologico è necessario e sufficiente capire quali sono i processi di pensiero che lo determinano. Nello specifico i disturbi psicologici sono concettualizzati come conseguenze di asserzioni e 9 convinzioni irrazionali sul dover essere in determinati modi (es. non dover commettere mai errori o dover essere amato e stimato da tutti), e di convinzioni negative su se stessi, il mondo e il futuro, che sono mantenute grazie ad errori di logica quali l’inferenza arbitraria (giungere ad una conclusione in assenza di prove), l’estrapolazione selettiva (trarre una conclusione sulla base di un solo elemento fra i molti che determinano una situazione), l’ipergeneralizzazione (conclusione di carattere assoluto tratta in base ad un unico evento), amplificazione degli eventi e prestazioni negative e minimizzazione di quelle positive. Scopo delle terapie che adottano il paradigma cognitivo razionalista è quello di aiutare il paziente ad identificare le cognizioni errate, e a sostituirle con schemi cognitivi basati su asserzioni e convinzioni più razionali e adattive. La relazione terapeutica è sostanzialmente di tipo pedagogico. Le terapie ad orientamento cognitivo razionalista più diffuse e compiutamente elaborate sono la terapia cognitiva di Beck, la terapia razionale-emotiva di Ellis e il problem-solving sociale. Il paradigma cognitivo razionalista è oggetto di critiche principalmente per il fatto di attribuire ad alcuni schemi di pensiero irrazionali, non sempre ben definiti, lo stato di causa dei disturbi psicologici, trascurando la domanda sull’origine degli schemi, e assecondando talvolta insoddisfacenti tautologie che fanno coincidere la causa di un disturbo con i sintomi del disturbo (ad esempio affermare che pensieri negativi e tristi su se stessi sono la causa della depressione equivale a dire che un sintomo su cui si basa la diagnosi di depressione ne è la causa). Inoltre gli schemi irrazionali devono essere inferiti dal clinico, perché le persone non ne hanno consapevolezza, e resta aperto il problema di definire un pensiero come razionale o irrazionale e il fatto che l’irrazionalità è spesso una caratteristica delle persone sane. Merito del paradigma è quello di avere introdotto a pieno titolo nella psicologia clinica la teoria e la ricerca sui processi cognitivi. La prospettiva cognitivo costruttivista Ha come riferimento generale alcuni sviluppi della teoria e della ricerca di base della psicologia cognitiva. Si differenzia dall’approccio razionalista per il diverso modo di considerare le emozioni e la loro elaborazione, per il rilievo che viene dato all’elaborazione inconscia degli stimoli ambientali, e per il diverso modo di concettualizzare il disturbo psicologico. Sono infatti enfatizzate le funzioni delle emozioni nei loro aspetti adattivi e comunicativi, ed è inoltre affermata l’indipendenza dell’elaborazione cognitiva ed emotiva degli stimoli interni ed esterni, che avverrebbe in modo parallelo ed interagente sia a livello consapevole, sia a livello inconscio. Per quanto riguarda la sofferenza psicologica, il concetto di schema cognitivo irrazionale è sostituito dai concetti di rigidità e incoerenza del sistema conoscitivo. Ogni persona è considerata come portatrice di un proprio sistema conoscitivo, che elabora le informazioni e produce comportamento sulla base dell’interazione fra la memoria dichiarativa (la conoscenza verbalizzabile di sé e del mondo che l’individuo possiede), procedurale (relativa a come si fanno le cose e che regola automaticamente il comportamento quotidiano), affettivoimmaginativa (relativa ad immagini pregnanti affettivamente che riflettono l’informazione affettiva di base), ed episodica (relativa ad informazioni collocabili temporalmente). Il sistema conoscitivo di ogni persona sarebbe inoltre dotato di gradi diversi di flessibilità e di coerenza interna, e quindi diversamente capace di integrare nuove informazioni, di adattarsi a nuove situazioni e di raggiungere con successo i propri obiettivi. Il paradigma, inoltre, integra al suo interno la teoria dell’attaccamento dello psicoanalista J. Bowlby per spiegare la costruzione di modelli operativi interni (stili di attaccamento) che organizzano la rappresentazione di se stessi e regolano l’interazione con gli altri. L’approccio alla conoscenza del funzionamento della mente delle singole persone tende ad assumere caratteristiche sostanzialmente di tipo fenomenologico e inferenziale. 10 L’assunto di base per la psicologia clinica e che i disturbi psicologici sarebbero la conseguenza di sistemi conoscitivi rigidi e incoerenti, di cui le persone hanno poca consapevolezza. Scopo della terapia cognitiva ad indirizzo costruttivista è quello di aiutare il paziente ad acquisire consapevolezza degli schemi prevalenti del proprio sistema conoscitivo e delle esperienze precoci di attaccamento, e della loro influenza sul comportamento, e sulla sofferenza psicologica. Contemporaneamente si pone l’obiettivo di aiutare il paziente a riorganizzare, secondo scelte autonome, un sistema conoscitivo dotato di maggiore coerenza interna e flessibilità. Nel processo terapeutico sono spesso utilizzate tecniche terapeutiche mutuate dal paradigma dell’apprendimento e dall’approccio cognitivo razionalista. Le critiche alla prospettiva cognitivo costruttivista riguardano principalmente il fatto che, al di là della terminologia mutuata dalla psicologia cognitiva e dei riferimenti alla psicologia sperimentale, l’approccio teorico e la prassi clinica contengono molti aspetti del paradigma umanistico (approccio di tipo fenomenologico e rilievo terapeutico dell’insight), e che il metodo di ricerca si basa sullo studio di casi clinici e sulla spiegazione retrospettiva e inferenziale di processi in atto al di fuori della consapevolezza. PARADIGMA BIOLOGICO Ha come riferimento il modello medico della malattia somatica di cui mutua anche la terminologia. L’assunto di base è che i disturbi psicologici siano paragonabili a malattie, e pertanto diagnosticabili sulla base di un insieme di segni e di sintomi, e che le cause (eziologia nella terminologia medica) debbano essere cercate in disfunzioni del sistema nervoso sottese da alterazioni anatomo-fisiologiche o biochimiche, provocate da agenti esterni o da alterazioni genetiche che mettono in moto processi biologici che portano alla manifestazione dei sintomi (patogenesi nella terminologia medica). Scopo delle ricerche che si basano su questo modello è di stabilire criteri diagnostici precisi per i diversi disturbi psicologici, di trovare correlati organici o fisiologici sottostanti alle varie patologie e la messa a punto di farmaci od interventi in grado di modificare le disfunzioni che generano la patologia. Attualmente le ricerche più promettenti si concentrano: 1) Sul ruolo dell’ereditarietà genetica, intesa come predisposizione (diatesi) a determinati disturbi psicologici (es. disturbi d’ansia, dell’umore, schizofrenia). Sono ricerche che valutano la prevalenza di alcuni disturbi in determinate famiglie rispetto alla popolazione generale, o in coppie di gemelli monozigoti rispetto a coppie di gemelli dizigoti, o in bambini adottati con genitori naturali portatori di disturbi mentali. 2) Sul possibile ruolo nella comparsa di alcuni disturbi psicologici dell’eccesso o della carenza di alcuni neurotrasmettitori (serotonina, noradrenalina, dopamina, acido γ-amminobutirrico), causata da errori metabolici nella sintesi, da alterazioni nei processi di inattivazione o da disfunzioni a livello dei recettori post-sinaptici. Il paradigma biologico è oggetto di critiche: 1) per l’approccio sostanzialmente riduzionistico che equipara la mente al suo substrato biologico; 2) per il non riscontro di alterazioni fisiologiche nella maggior parte dei disturbi psicologici; 11 3) per il fatto che la classificazione dei disturbi secondo il modello medico (come per esempio nel DSM) è attualmente carente, perché per lo più non si basa su specifiche eziologie, ma piuttosto su insiemi di sintomi, spesso aspecifici, dietro i quali può nascondersi una multiformità di situazioni, con il rischio di assecondare tautologie del tipo che una persona ha un disturbo d’ansia perché è ansiosa, ed è ansiosa perché ha un disturbo d’ansia. Non bisogna tuttavia dimenticare che un modello di classificazione di tipo medico ha permesso di creare un linguaggio condiviso che fa comunicare clinici che aderiscono a diversi paradigmi, e che il modello è aperto ai contributi provenienti dai diversi approcci teorici. Inoltre gli importanti progressi della ricerca biologica degli ultimi anni, anche a livello di metodiche di indagine sempre più sofisticate, apre le porte ad un paradigma che integri la predisposizione biologica con i fattori psicologici e ambientali indagati da altri paradigmi. L’approccio biologico alla terapia si basa attualmente sulla ricerca farmacologica di sostanze che ripristinino la funzione fisiologica alterata. Ricordiamo al proposito che i cosiddetti psicofarmaci (ansiolitici, antidepressivi, antipsicotici) non ripristinano una funzione alterata, perché non derivano dalla conoscenza delle cause del disturbo, ma da un comprovato effetto di tipo sintomatologico; in altre parole l’ansia non è causata da una carenza di benzodiazepine, ma le benzodiazepine riducono l’ansia, così come gli antipiretici riducono la febbre qualsiasi ne sia la causa. 12 Parte II: I trattamenti Psicologici Psicoterapie psicoanalitiche Le psicoterapie psicoanalitiche hanno fondamento comune negli assunti sulle cause dei disturbi psicologici. Sul piano operativo le tecniche terapeutiche possono essere descritte lungo un continuum che va dal trattamento noto come psicoanalisi, alle psicoterapie espressive ad orientamento psicoanalitico, fino alle psicoterapie di sostegno o supportive. I trattamenti possono essere di durata non predeterminata, o avere un limite temporale prefissato (le cosiddette psicoterapie brevi). In linea di massima le tecniche che enfatizzano maggiormente il versante espressivo sono indicate per i pazienti con disturbi e sofferenze psicologiche collegate alla presenza di conflitti intrapsichici, e funzioni dell’Io sufficientemente integre, con capacità di insight e motivazione a comprendere se stessi al di là della richiesta di un sollievo sintomatico. Le tecniche più orientate sul versante supportivo sono indicate di solito per i pazienti con cronici deficit dell’Io (per es. bassa tolleranza all’angoscia e alla frustrazione, inadeguato senso di realtà, relazioni oggettuali gravemente difettose, scarso controllo degli impulsi, scarsa capacità di autoosservazione, tenue capacità di formare un’alleanza terapeutica). Le tecniche di psicoterapia breve (6-25 sedute) sono indicate per i pazienti con caratteristiche simili a quelle dei pazienti con indicazione per un trattamento espressivo, se in sede di consultazione è possibile individuare un nucleo problematico centrale su cui focalizzare il lavoro terapeutico, o per i pazienti, in precedenza ben adattati, che sono andati in crisi a seguito di eventi di vita traumatici (es. catastrofi naturali, divorzio, perdita del lavoro o dello status sociale, morte di familiari). Obiettivi delle terapie psicoanalitiche sono: alleviare e curare la sofferenza psicologica, e la costruzione di un’organizzazione psichica più solida, come ad esempio un incremento del senso di padronanza sulla propria vita, un miglioramento della capacità di riconoscere e gestire i propri sentimenti, emozioni e comportamenti, un incremento dell’autostima realisticamente fondata, e della capacità di fare fronte alle difficoltà della vita in modo adattabile e realistico. Tali obiettivi sono perseguiti nei trattamenti espressivi principalmente cercando di promuovere nei pazienti insight, cioè una comprensione cognitiva ed emotiva dei moventi inconsci e delle origini del proprio disagio psicologico e del proprio sentire ed agire presente e passato, e un’integrazione di questa comprensione e dell’esperienza relazionale con il terapeuta (che ha una funzione terapeutica indipendentemente) nel contesto globale della personalità. Nelle terapie maggiormente orientate verso il versante supportivo, gli interventi del terapeuta sono finalizzati nei pazienti gravi a sopperire alle debolezze dell’Io, e a rafforzare le difese e la capacità di gestire le difficoltà della vita quotidiana e le relazioni affettive e sociali, o nei pazienti in precedenza ben adattati, il cui funzionamento mentale è stato compromesso da una crisi, al ripristino di un buon assetto difensivo. Questi obiettivi sono perseguiti senza promuovere, almeno inizialmente, insight sui moventi inconsci della sofferenza. 13 Elementi di tecnica sono: l’ascolto, filtrato dalle conoscenze teoriche e dall’esperienza, delle comunicazioni verbali e non verbali del paziente; il monitoraggio del transfert, cioè del tipo di relazione che il paziente instaura con il terapeuta e dei bisogni desideri ed emozioni, consci e inconsci, che esso veicola; il monitoraggio del controtransfert, cioè delle emozioni, sentimenti, pensieri, ricordi ed impulsi ad agire prodotti nella mente del terapeuta dalla sofferenza e dal transfert del paziente; gli interventi verbali del terapeuta finalizzati alla costruzione di una solida alleanza terapeutica, allo sviluppo della funzione riflessiva, e alla promozione di insight nel paziente. Qualche breve chiarimento aiuterà a comprendere meglio questi concetti: L’ascolto psicoanalitico si basa sull’assunto che le associazioni del paziente (pensieri affetti, fantasie, sogni, racconti del presente e ricordi del passato), che si susseguono durante una o più sedute, abbiano un legame fra loro, che origina dal problema che il paziente sta affrontando nel suo quotidiano o nella relazione terapeutica. L’ascolto si organizza nella mente del terapeuta attorno ad ipotesi che comprendono il problema centrale nella vita attuale del paziente e le fantasie e i conflitti ad esso collegati, la relazione in atto tra paziente e terapeuta, e le possibili origini storiche dei sintomi e dei conflitti attuali. - Il transfert consiste nella riattivazione inconsapevole da parte del paziente, all’interno della relazione terapeutica, di fantasie, desideri, bisogni, conflitti, e schemi di comportamento che hanno caratterizzato nel passato le relazioni infantili, in particolare quelle traumatiche, con le persone significative. Dibattiti aperti riguardano il ruolo delle caratteristiche personali del terapeuta nel promuovere un determinato tipo di transfert, e il valore terapeutico, rispetto alla rievocazione della memoria, della ripetizione vissuta, mossa dalla ricerca di risposte riparative e correttive diverse da quelle traumatiche del passato. Il transfert non deve essere confuso con le legittime risposte del paziente a comportamenti, attitudini, ed errori del terapeuta. - Il controtransfert consiste nell’attivazione nella mente del terapeuta di fantasie, pensieri, emozioni, ricordi, e impulsi ad agire, in risposta alle caratteristiche del paziente, ed in particolare al suo transfert. Il suo monitoraggio consapevole è attualmente ritenuto un importante mezzo di comprensione dei vissuti e delle difficoltà del paziente, e delle identificazioni proiettive veicolate dalle sue comunicazioni verbali e comportamenti. Il controtransfert non deve essere confuso con eventuali fenomeni transferali inconsci sul paziente da parte di un terapeuta poco preparato e poco consapevole del proprio mondo interno. - L’alleanza terapeutica riguarda la capacità del paziente di collaborare in maniera produttiva al processo terapeutico. È un buon indicatore dell’esito del trattamento. - Gli interventi del terapeuta: consistono in domande, riformulazioni, confrontazioni, ricostruzioni, interpretazioni e interventi d’appoggio. È fondamentale che dopo ogni intervento il terapeuta ascolti con attenzione le successive parole del paziente, perché la correttezza di un intervento è convalidata sostanzialmente dallo sviluppo di nuove associazioni o ricordi significativi. Le domande hanno lo scopo di chiarire ambiguità o punti oscuri delle comunicazioni del paziente, di indagare su omissioni significative, e di fare sviluppare associazioni, e non devono, pertanto, essere fatte a caso, né con troppa frequenza; possono essere utili con i pazienti che tendono alla messa in atto per indurli a riflettere, e con i pazienti poco portati all’introspezione per proporre un modello di autoindagine. Le riformulazioni sono interventi del terapeuta che consistono nella ripetizione ad eco, o con minime modificazioni, di una frase, o di un concetto, o delle ultime parole pronunciate dal paziente, o nel riassunto sintetico delle ultime cose dette. Servono per dare particolare risalto a certi aspetti della comunicazione per favorire la consapevolezza, o introdurre un modo diverso di valutare la comunicazione. Segnalano ascolto e invitano al feedback. Le confrontazioni sono interventi che richiamano l’attenzione del paziente su specifici aspetti del suo comportamento (modi poco realistici di affrontare situazioni e conflitti reali, messe in atto e comportamenti ripetitivi, meccanismi di difesa, situazioni di stallo della terapia e rotture - 14 dell’alleanza terapeutica). Trasmettono implicitamente il messaggio: “Rifletti su quello che stai facendo, o considera quello che hai appena detto”. Aiutano il paziente a consolidare l’esame di realtà, e a controllare l’impulsività, incoraggiano l’abitudine all’introspezione e l’emergere di nuove associazioni significative, e pongono le premesse ad interventi interpretativi. Le ricostruzioni o costruzioni sono tentativi di colmare una lacuna evidente nella memoria del paziente. Servono per comprendere appieno l’origine della sofferenza e delle disfunzioni del paziente, perché i sintomi e le disfunzioni dell’Io prendono le mosse da traumi reali, dal significato che questi rivestono per il paziente e dalle fantasie inconsce connesse. Si effettuano quando nei ricordi e nelle fantasie coscienti del paziente manca qualcosa che potrebbe rendere conto del suo comportamento e delle sue fantasie attuali. Le ricostruzioni possono riferirsi ad eventi relativamente recenti o remoti, a risposte affettive mancanti, ad un evento di vita cruciale, o ad importanti fantasie. Possono riferirsi ad un unico evento traumatico acuto, o a situazioni continuative, come una certa atmosfera familiare, o aspetti patologici nelle relazioni significative dell’infanzia. Più comuni e frequenti sono le ricostruzioni di portata limitata (es. deve essersi sentito in questo modo, o pensato questo); meno frequenti, le ricostruzioni di importanti traumi rimossi. . Di fatto non c’è soluzione di continuità fra ricostruzione e interpretazione. Le interpretazioni sono interventi verbali finalizzati a produrre insight, cioè a rendere il paziente consapevole, a livello cognitivo ed emotivo, dei conflitti, dei traumi, delle fantasie e delle motivazioni inconsce che sottendono i suoi sintomi o le sue disfunzioni. Possono richiedere diverse sedute, ed essere riprese più volte nel corso di una psicoterapia. L’interpretazione per essere significativa e pregnante deve essere vicina alla consapevolezza del paziente e prendere spunto dal problema centrale nella vita attuale del paziente e nella terapia, avendo presente che ci riferiamo alla realtà psichica, cioè a quella qual è percepita dal paziente, e che è fortemente influenzata dalle esperienze di vita passate e dalle fantasie inconsce (desideri, risposte dell’Io, reazioni del Super Io, e importanti ricordi di esperienze passate). Possono riguardare le difese e le resistenze (le operazioni mentali utilizzate nella vita quotidiana o nella terapia per fronteggiare l’angoscia e risolvere i conflitti), il transfert (le reazioni e le fantasie nei confronti del terapeuta e la terapia), o le fantasie, le esperienze traumatiche, e i conflitti riattivati dagli eventi di vita presenti e collegati ai sintomi o ai comportamenti disadattivi. Gli interventi d’appoggio hanno lo scopo di rinforzare l’Io, rimandare al paziente un’immagine di sé positiva, promuovere l’autonomia, l’introspezione, la fiducia in se stessi dei pazienti e lo sviluppo di risorse più efficaci. In senso generale il terapeuta fornisce appoggio con l’impostazione corretta del setting, l’ascolto del paziente con rispetto e comprensione, e la scelta del momento opportuno per intervenire. Interventi d’appoggio specifici consistono in commenti che evidenziano l’apporto del paziente al processo terapeutico, la capacità di affrontare gli eventi di vita in modo costruttivo, i moventi positivi del loro comportamento, la convalidazione empatica dei sentimenti (capisco come lei si sia sentito addolorato, arrabbiato deluso ecc.). Interventi d’appoggio sono anche le confrontazioni che mirano a fare riflettere il paziente su comportamenti autodistruttivi o pericolosi, o comunque disadattivi, e a prendere in considerazione soluzioni alternative e le conseguenze delle soluzioni possibili. Consigli e interventi direttivi, pur se motivati dall’intenzione consapevole di fornire appoggio, sono da evitare perché le conseguenze sono imprevedibili e a volte negative. Interventi attivi possono essere necessari quando è in pericolo la vita del paziente o di altri, o in caso di regressione acuta. Le ricerche sull’efficacia delle psicoterapie psicoanalitiche si sono concentrate in prevalenza sugli esiti delle terapie psicodinamiche brevi. I risultati di queste ricerche depongono per l’efficacia di queste terapie rispetto ai gruppi di controllo, e in alcuni casi per un vantaggio rispetto ad altri tipi di trattamento nel mantenimento degli effetti a lungo termine. I dati sugli esiti dei trattamenti a lungo termine sono limitati a causa di problemi metodologici di difficile soluzione come la costituzione di gruppi di controllo che rimangano in lista d’attesa per un 15 tempo considerevole, e per la difficoltà a mantenere sotto controllo variabili collegate ai vari eventi di vita che possono sopravvenire nel corso degli anni. Psicoterapie cognitivo-comportamentali Negli ultimi decenni le differenze nell’operatività dei clinici di orientamento comportamentale e di orientamento cognitivo si sono sempre più stemperate, sia perché i processi di pensiero e le reazioni emotive possono essere studiati con i metodi della psicologia sperimentale, sia per l’evidenza di implicazioni cognitive nei trattamenti comportamentali, e di implicazioni comportamentali nelle terapie di orientamento cognitivo. Attualmente la prassi comune è quella di applicare una o più tecniche variamente associate a seconda dei problemi presentati dal singolo paziente. Si tratta di tecniche che storicamente hanno come riferimento il paradigma dell’apprendimento o il paradigma cognitivo razionalista, accomunate dalla focalizzazione dell’attenzione sulle variabili attuali che mantengono una determinata sintomatologia piuttosto che sull’eziologia del disturbo, e da una certa enfatizzazione della tecnica rispetto alla relazione. Negli ultimi anni la nuova prospettiva cognitivocostruttivista, ha spostato l’attenzione dei clinici oltre che sul sintomo manifesto, anche sulle cause della sofferenza psicologica, integrando nell’approccio terapeutico modi di operare che ricordano quelli degli psicologi di orientamento umanistico e psicodinamico. Tecniche mutuate dal condizionamento classico Controcondizionamento Si basa sull’estinzione di una risposta ad un determinato stimolo per mezzo di un nuovo condizionamento che associa lo stimolo con una risposta incompatibile con la precedente (es. l’ansia è incompatibile con il rilassamento, per cui associando ad uno stimolo fobico che produce ansia una risposta di rilassamento si ottiene l’estinzione della risposta di paura). Fra le tecniche più utilizzate: la desensibilizzazione sistematica e la terapia aversiva. Desensibilizzazione sistematica: è una tecnica terapeutica per i disturbi fobici ideata da J. Wolpe. Dopo un training di rilassamento secondo la metodica di Jacobson si chiede al paziente, profondamente rilassato, di immaginare una serie progressiva di situazioni che provocano ansia, messe a punto in precedenza. In questo modo il rilassamento tende ad inibire l’ansia che altrimenti sarebbe elicitata dalle scene immaginate. Le scene sono proposte in ordine crescente d’intensità, e se durante l’immaginazione di una scena subentra l’ansia, il paziente la segnala al terapeuta, che chiede al paziente di ristabilire il rilassamento e di tornare ad immaginare la scena precedente a quella che ha prodotto l’ansia. La capacità di tollerare l’immagine stressante in genere è seguita da una riduzione dell’ansia anche in situazioni di vita reali. Comunque tra una seduta e l’altra i pazienti sono di solito incoraggiati ad affrontare situazioni reali progressivamente più ansiogene. La corretta applicazione della tecnica prevede una valutazione esauriente delle situazioni che abitualmente generano ansia. Come per altre tecniche la procedura di solito non è utilizzata da sola, per esempio in caso di ansia sociale si può accompagnare ad un addestramento volto a migliorare le capacità sociali. 16 Le ricerche sugli esiti mostrano l’efficacia della desensibilizzazione nel ridurre l’evitamento di oggetti e situazioni fobiche. Terapia avversiva: si basa sull’associazione di sensazioni negative a stimoli che in precedenza producono attrattiva. Lo scopo è quello di sostituire una precedente risposta positiva allo stimolo con una risposta d’ansia o una reazione d’aversione elicitata per esempio da uno shock elettrico o da sostanze chimiche di tipo emetico. Una variante della tecnica utilizza solo l’immaginazione dello stimolo negativo. Tra i problemi trattati con questa tecnica c’è l’alcolismo, il tabagismo, la bulimia, l’enuresi, e i comportamenti devianti. La terapia aversiva pone comunque dei problemi etici e scientifici: quelli etici sono relativi alla liceità di infliggere sensazioni sgradevoli e ai motivi che inducono il paziente ad accettarli; quelli scientifici sono relativi alla stabilità dei risultati e alla non superiorità del trattamento rispetto ai controlli. Flooding Si basa su ricerche sperimentali sugli animali che evidenziano la possibilità di un’estinzione rapida della risposta di evitamento se l’animale è messo in condizione di non potere evitare uno stimolo che in precedenza era stato associato ad uno shock elettrico. La tecnica consiste nell’esposizione del paziente ad una situazione massimamente ansiogena senza che si possa sottrarre. Di solito viene utilizzata una tecnica immaginativa in cui il terapeuta chiede al paziente di immaginare la situazione ansiogena per lunghi periodi di tempo. È una forma rapida di estinzione ma rischiosa perché può portare ad un incremento dell’ansia, e di solito è utilizzata solo quando altri tentativi falliscono. Tecniche mutuate dal condizionamento operante Consistono nella modificazione progressiva del comportamento manifesto per mezzo di rinforzi positivi e negativi. In linea generale le tecniche basate sul condizionamento operante sono più efficaci quando il terapeuta può esercitare un notevole controllo sull’ambiente e sul soggetto. La tecnica di uso più comune consiste nel premiare il comportamento desiderato ignorando quello indesiderato. Altre procedure sono basate sul principio di Premack, che afferma che un comportamento più probabile può essere utilizzato come rinforzo per uno meno probabile (per es. far dipendere il guardare i cartoni dal mettere in ordine la stanza); sul cosiddetto time-out che consiste nell’allontanare la persona da un ambiente dove sono disponibili rinforzi positivi; o sull’ipercorrezione che si basa sull’estinzione di un comportamento indesiderato per mezzo di rinforzi negativi (per es. se un bambino non mette in ordine la propria stanza lo si obbliga a mettere in ordine anche quella del fratello). Un ampia gamma di problemi infantili è stata affrontata per mezzo del condizionamento operante: enuresi, aggressività, iperattività, autolesionismo, scarso impegno scolastico, eccessivo isolamento sociale ecc.. In questi casi, di solito, il terapeuta coinvolge anche i genitori e gli insegnanti, cercando d’incidere sui modi con cui essi premiano o puniscono il bambino. Il condizionamento operante è stato applicato in modo proficuo anche nella riabilitazione comportamentale di pazienti psichiatrici ospedalizzati da lungo tempo utilizzando la tecnica dell’economia a premi simbolici, che consiste nel ricompensare i comportamenti di cui si desidera incrementare la frequenza (per es. curare il proprio aspetto, tenere in ordine il letto, partecipare ad attività comuni ecc.) con gettoni con cui poter acquistare cose o ottenere privilegi (es. ascoltare dischi, andare al cinema). Istruzioni, sollecitazioni mirate e procedure di modeling sono utilizzate 17 per facilitare l’apprendimento. Una ricerca sui risultati dell’applicazione dell’economia a premi simbolici, con follow-up a scadenze regolari, ha evidenziato risultati molto buoni sul piano della riduzione dell’utilizzo dei farmaci, della risocializzazione e dell’autonomia. Comunque, come ha sottolineato anche l’autore del progetto, questi risultati non vanno considerati come un effetto specifico del condizionamento del comportamento, ma dipendono da più fattori, non ultimo la diversa attenzione prestata ai pazienti da parte del personale ospedaliero. Tecniche mutuate dall’apprendimento per imitazione di modelli Consistono in modificazioni del comportamento attuate facendo osservare al paziente qualcun altro che compie il comportamento da apprendere. Possono essere utilizzate varie procedure: osservazione dal vivo di un modello, osservazione di filmati, esemplificazioni da parte del terapeuta con richiesta successiva di imitazione da parte del paziente, modeling immaginativo. La verbalizzazione da parte del modello dei propri pensieri mentre affronta una determinata situazione, migliora l’apprendimento. Attualmente si ritiene che nell’apprendimento del comportamento per imitazione siano coinvolti processi cognitivi. Con queste tecniche sono stati affrontati con successo vari problemi: fobie, inibizioni, paura del dentista o di interventi chirurgici, risocializzazione ecc... Psicoterapie cognitivo razionaliste Sono fondate sull’assunto che i comportamenti e le emozioni sono conseguenti a processi cognitivi mediati dal pensiero, e che i disturbi psicologici sono causati da schemi cognitivi irrazionali. Scopo di queste tecniche terapeutiche è la ristrutturazione cognitiva, cioè la modificazione delle modalità di pensiero che si presume siano la causa di un disturbo emotivo o comportamentale. Terapia razionale emotiva di Ellis Secondo Ellis i disturbi psicologici sono causati da asserzioni che l’individuo ripete a se stesso, che riflettono assunti (es. non valgo nulla, sono un incapace) e convinzioni irrazionali (ad es. essere amato e approvato da tutti, essere totalmente competenti e vincenti in ogni cosa, considerare catastrofico il fatto che le cose non vadano come ci piacerebbe che andassero, ritenere che ci sia una soluzione perfetta per ogni cosa ecc.), che Ellis inquadra all’interno del concetto più generale di tanti dover essere che le persone impongono a se stesse e agli altri, al punto di pretendere che un risultato sia ottenuto solo in un determinato modo e non in un altro. Ellis ritiene che questi pensieri irrazionali traggano origine da convinzioni e atteggiamenti che la famiglia o le istituzioni sociali trasmettono fin dall’infanzia sotto forma di valori che l’individuo fa suoi, mantenendoli poi vitali sotto forma di frasi interiorizzate. Ellis ritiene comunque che l’attenzione del terapeuta debba essere rivolta a queste convinzioni e al comportamento manifesto, e non alle cause. Compito del terapeuta è quello di mostrare al paziente le sue convinzioni irrazionali, le conseguenze sul disagio psicologico, e come si possono cambiare i pensieri irrazionali e quindi le emozioni e i comportamenti. Sul piano operativo il terapeuta, dopo un inquadramento del problema, presenta al paziente i principi teorici della terapia, in modo che possa comprenderli, e lo guida, solitamente in 18 modo didattico e direttivo, nell’individuare i pensieri irrazionali ( vedi resoconto di seduta a pag. 544 del Davison e Neale), per poi proporre modi più razionali di considerare la realtà. (alcuni terapeuti preferiscono coinvolgere attivamente il paziente nel processo di individuazione e di modificazione delle convinzioni irrazionali). Passo successivo è l’assegnazione di esercizi a casa, ideati per fornire l’opportunità di mettere alla prova il nuovo sistema di convinzioni e di sperimentarne le conseguenze positive. La terapia razionale emotiva pone e non risolve il problema della definizione dell’irrazionalità, perché se si afferma che è irrazionale ciò che genera patologia si genera un circolo vizioso, e se si afferma che non è razionale un pensiero non obiettivo e rigoroso si dovrebbe concludere che buona parte dei pensieri delle persone normali sono irrazionali, per cui, di fatto, sono le convinzioni del terapeuta a guidare le modificazioni delle convinzioni del paziente. La consapevolezza di questo problema ha portato recentemente Ellis ad incoraggiare i pazienti, in modo non dissimile agli psicologi umanistici, a scegliere e sperimentare in modo autonomo un proprio percorso di autorealizzazione. Le ricerche sugli esiti mostrano l’efficacia della terapia razionale emotiva nel ridurre lo stato d’ansia generalizzato, l’ansia di parlare in pubblico e l’ansia da esame. Può inoltre essere utile nel trattamento della depressione e del comportamento antisociale, e alle persone sane per affrontare meglio gli stress della vita quotidiana. Non vi sono evidenze conclusive sul fatto che l’efficacia si esplichi attraverso una riduzione del pensiero irrazionale. Altri fattori terapeutici sono collegati all’incoraggiamento e sostegno dato dal terapeuta alla messa in pratica da parte del paziente di comportamenti nuovi e più adattivi, e al messaggio che il terapeuta trasmette al paziente sulla possibilità di cambiare, modificando il proprio modo di pensare e di definire se stessi e il mondo. Terapia cognitiva di Beck Si basa sull’assunto che i disturbi psicologici, ed in particolare la depressione, siano causati da convinzioni negative che riguardano se stessi, il mondo e il futuro, convinzioni che si presentano nella mente sotto forma di pensieri automatici (es. sono un incapace), e di assunti disfunzionali (es. ritenersi responsabile della felicità e del benessere di tutta la famiglia) che hanno la caratteristica di imperativi, seguono la legge del tutto o nulla, e guidano la persona nel valutare se stesso, la realtà, le azioni degli altri e l’idea di come gli altri giudicano le nostre azioni. Queste convinzioni o schemi cognitivi negativi deriverebbero da apprendimenti sbagliati durante l’infanzia (deduzioni errate causate da informazioni errate o inadeguate, e non corrette distinzioni fra fantasia e realtà), che in seguito sarebbero mantenuti grazie ad errori di logica quali l’inferenza arbitraria (giungere ad una conclusione in assenza di prove), l’estrapolazione selettiva (giungere ad una conclusione sulla base di un solo elemento fra i molti che determinano una situazione), l’ipergeneralizzazione (conclusioni di carattere assoluto sulla base di un unico evento), amplificazione delle prestazioni negative, e minimizzazione di quelle positive. Beck, così come Ellis, ritiene comunque che l’attenzione del terapeuta debba essere rivolta a queste convinzioni e al comportamento manifesto, e non alle cause. Obiettivi della terapia sono quelli di rendere il paziente consapevole dei pensieri negativi, dare al paziente l’opportunità di fare esperienze, sia durante le sedute, sia nella vita quotidiana, che possano smentire le conclusioni pessimistiche derivate dagli errori di logica, ed infine modificare gli schemi negativi in modo più realistico e positivo. Terapeuta e cliente esaminano insieme ogni interpretazione errata della realtà che possa aggravare la sintomatologia, cercando di evidenziare i pensieri automatici e gli assunti disfunzionali sottesi. In alcuni casi, per mettere in discussione le convinzioni del paziente, il terapeuta può assegnare dei compiti, come per esempio chiedere ad un paziente depresso di tenere un diario su cui registrare il tono dell’umore ad intervalli regolari, con il fine di confutare la certezza della stabilità dell’umore negativo. La modificazione dei pensieri 19 negativi viene attuata cognitivamente, analizzando logicamente i pensieri automatici e gli assunti, e a livello comportamentale incoraggiando i clienti a comportarsi in modo contrario ad essi. Varie ricerche hanno evidenziato l’efficacia della terapia cognitiva nel trattamento della depressione e del disturbo di panico, e l’utilità nel trattamento della bulimia. Uno studio controllato (vedi scheda a pag. 548 del Davison e Neale) che ha confrontato gli effetti sul disturbo depressivo maggiore della terapia cognitiva, di una terapia psicodinamica breve e della terapia farmacologica con imipramina (un antidepressivo di vecchia generazione) ha evidenziato un effetto significativo, e in sostanza non diverso, di ciascuno dei tre trattamenti rispetto ai pazienti a cui veniva somministrato un placebo o placebo e sostegno psicologico. Vi sono evidenze sul fatto che l’efficacia della terapia cognitiva si esplichi attraverso un cambiamento delle cognizioni, tuttavia queste si modificano anche inseguito ad una terapia farmacologica. Soluzione dei problemi sociali Il Social Problem Solving è una tecnica terapeutica per il trattamento del disagio psicologico conseguente a problemi di vita per i quali non si trova una soluzione immediata. La tecnica prevede che il terapeuta aiuti il paziente a mettere a fuoco il problema, e lo guidi nell’individuare il maggior numero di soluzioni, indipendentemente dalla loro attuabilità o efficacia. A questo punto si valutano le possibili conseguenze di ogni soluzione, si mette in atto la decisione presa e si valuta la sua efficacia rispetto al raggiungimento dello specifico obiettivo. Se la soluzione non è efficace si ricomincia con una nuova valutazione e messa in atto. Questa tecnica si è dimostrata utile con gli anziani in casa di riposo, con bambini in età scolare, e nel rafforzamento delle abilità sociali di pazienti psichiatrici. Psicoterapia cognitivo costruttivista Si caratterizza per l’integrazione di tecniche cognitivo comportamentali all’interno di una teorizzazione e di una prassi terapeutica che si avvicinano a quelle delle psicoterapie psicodinamiche e umanistiche. Ogni persona è considerata come portatrice di un proprio sistema conoscitivo che organizza la rappresentazione di sé, regola le interazioni con gli altri, ed elabora a livello consapevole e inconscio le informazioni provenienti dagli stimoli interni e ambientali. Questo sistema conoscitivo si costituirebbe sulla base di modelli operativi interni appresi nei primi anni di vita nelle relazioni di attaccamento, sviluppandosi successivamente attraverso l’integrazione al suo interno di nuove conoscenze ed esperienze. È inoltre affermata l’indipendenza delle emozioni dalla cognizione. La sofferenza psicologica originerebbe da eventi interni o di vita che contrastano con le rappresentazioni di sé e del mondo che sono alla base del sistema conoscitivo, eventi che la persona non riesce a gestire e integrare a causa dell’eccessiva rigidità e incoerenza del proprio sistema conoscitivo. Scopo della psicoterapia cognitivo costruttivista è quello di aiutare il paziente ad acquisire consapevolezza degli schemi prevalenti del proprio sistema conoscitivo, del proprio stile di attaccamento, e delle loro influenze sulla sofferenza psicologica, risolvere la sintomatologia, e quindi aiutare il paziente a riorganizzare, secondo scelte autonome, un sistema conoscitivo più coerente con gli scopi della persona e più flessibile. Nel processo terapeutico sono utilizzate tecniche comportamentali e di ristrutturazione cognitiva, e contemporaneamente si pone attenzione alla relazione, e alla conoscenza del mondo fenomenologico del paziente. 20 La prassi terapeutica prende in considerazione i seguenti punti: - Creazione di un’alleanza collaborativa tra paziente e terapeuta. Comporta la valutazione dello stile relazionale del paziente, e il collegamento, mediato dai racconti di storia familiare, con lo stile d’attaccamento appreso nell’infanzia. Nel caso sia presente un modello di attaccamento che produce difficoltà nella comunicazione, mancanza di fiducia e sofferenza, gli interventi del terapeuta mirano a rendere consapevole il paziente del problema, e alla creazione di una buona alleanza collaborativa. - Individuazione e valorizzazione delle risorse del sistema, cioè delle aree dell’esistenza non compromesse dai sintomi, e delle capacità residue del paziente di far fronte ai problemi. - Comprensione dello stile di conoscenza. Comporta, da parte del terapeuta e del paziente, l’individuazione dello stile conoscitivo disfunzionale che ha contribuito all’insorgere della patologia e che contribuisce a mantenere la sofferenza. Sono ipotizzati quattro stili di conoscenza collegati al modo con cui le persone affrontano le situazioni che invalidano il loro modo di pensare: stile di ricerca attiva (la persona ricerca attivamente nuove esperienze e integra le invalidazioni), stile evitante (la persona evita le esperienze e le situazioni che hanno portato ad un’invalidazione), stile immunizzante (la persona tratta l’invalidazione come se non fosse avvenuta), stile ostilità (la persona attacca l’autorevolezza della fonte dell’invalidazione) Frequente è l’uso di compiti a casa di tipo comportamentale o cognitivo, che il terapeuta dà al paziente allo scopo di individuare meglio e far riconoscere al paziente i processi mentali connessi con la sofferenza psicologica. - Analisi degli eventi che hanno preceduto l’esordio della sintomatologia e del significato che il paziente ha dato a questi eventi. Questa analisi fornisce importanti informazioni sui problemi che hanno messo in crisi il sistema conoscitivo. - Interventi sul sintomo. Prevedono sia rendere consapevole il paziente dei meccanismi cognitivi, emotivi e relazionali che hanno prodotto e che mantengono la sofferenza, sia l’uso di varie tecniche comportamentali e cognitive d’intervento diretto sul sintomo. - Costruzione di un sistema conoscitivo più flessibile che sia fondato su scelte autonome del paziente. 21 Psicoterapie umanistiche Fondamenti comuni delle psicoterapie ad orientamento umanistico sono: l’adozione di un punto di vista fenomenologico (modo personale con cui si percepiscono e categorizzano gli eventi della propria vita) alla comprensione delle persone, e l’assunto di una tendenza innata all’autorealizzazione, all’autonomia, e al sano sviluppo, obiettivi che si raggiungono attraverso la consapevolezza dei propri bisogni, motivazioni e obiettivi. All’origine del disagio psicologico sono ipotizzati in modo generico stili educativi e relazionali che non favoriscono lo sviluppo delle proprie caratteristiche, ma l’accettazione acritica dei desideri e delle aspettative dei genitori. Pertanto obiettivo comune delle terapie umanistiche è quello di aiutare l’individuo a ripristinare la tendenza all’autorealizzazione e al sano sviluppo, incrementando la consapevolezza e l’espressione delle proprie motivazioni e bisogni. L’azione terapeutica si concentra sulla situazione attuale piuttosto che sul passato della persona, e viene dato particolare rilievo alla relazione terapeutica come esperienza di crescita. Le terapie umanistiche più note e diffuse sono la terapia centrata sul cliente di Rogers, la terapia della Gestalt di Fritz Perls e la terapia esistenziale basata sulle idee della filosofia esistenzialista europea e di alcuni psichiatri di orientamento fenomenologico. La terapia centrata sul cliente di Carl Rogers Rogers ritiene che le persone, partendo da innate potenzialità biologiche, si sviluppino, attraverso un processo di maturazione, verso la differenziazione, l’autonomia e l’autorealizzazione. In questo percorso sarebbe fondamentale l’accettazione incondizionata e positiva delle caratteristiche del bambino da parte dei genitori. L’accettazione condizionata (ti amo se sei così come ti voglio) porterebbe invece alla formazione di un concetto di sé su basi eteronome e rigide. Una volta formato, il concetto di sé determinerebbe una percezione degli eventi in modo da mantenere il più possibile coerente il proprio mondo fenomenologico (concetto di coerenza della personalità). In altre parole per mantenere la coerenza i dati esperenziali (emozioni, desideri ecc...) verrebbero vagliati, e se compatibili con il concetto di sé vengono percepiti. Quando non sono compatibili il concetto di sé può modificarsi se c’è plasticità, oppure, nel caso di un concetto di sé rigido ed eteronomo, i dati o non arrivano alla percezione o arrivano in modo distorto. In quest’ultimo caso il concetto di sé rimane integro, ma alienato. Per quanto riguarda la prassi terapeutica, Rogers ritiene che i terapeuti debbano evitare di imporre obiettivi, ma limitarsi a creare le condizioni per cui il cliente possa prendere contatto con se stesso e valutare da solo quale stile di vita sia per lui il migliore. Secondo Rogers, infatti, le persone devono prendersi la responsabilità della propria vita, e il terapeuta deve astenersi dal dare consigli per non ostacolare il processo di crescita. L’atteggiamento e lo stile relazionale del terapeuta sono considerati un fattore terapeutico fondamentale. Il terapueta dovrebbe avere tre fondamentali qualità: l’autenticità o congruenza, che comprende la spontaneità, l’apertura e la genuinità (il terapeuta non deve nascondersi dietro una facciata professionale, ma esprimere in modo sincero i suoi sentimenti e pensieri, presentandosi per quello che veramente è, fornendo così al cliente un modello di come anche lui potrebbe essere), una considerazione positiva incondizionata (accettazione e apprezzamento di quello che il cliente è e comunica, anche quando non lo approva), ed una profonda comprensione empatica (capacità di vedere il mondo con gli occhi del cliente). 22 Vengono considerati due tipi di intervento verbale empatico: - empatia primaria: si riaffermano al cliente i suoi pensieri, sentimenti ed esperienze dal suo punto di vista, comunicando comprensione ed accettazione dal punto di vista del cliente. - empatia avanzata: viene espressa una opinione che tiene in considerazione il mondo del cliente ma che concettualizza le cose in modo diverso e più costruttivo; questo intervento viene costruito sulle informazioni raccolte in un certo numero di sedute. Lo scopo è quello di un passaggio dall’attuale mondo fenomenologico del cliente ad un altro. Gli interventi di empatia primaria si propongono di rimuovere gradualmente gli impedimenti all’autorealizzazione e all’autenticità. A tale scopo i sentimenti e i pensieri del cliente vengono rispecchiati senza giudizi e disapprovazioni, permettendo al cliente di osservarli, chiarirli, riconoscerli e accettarli. Pensieri e emozioni prima troppo minacciosi per la coerenza del sé possono così avere accesso alla coscienza e diventare parte del concetto di sé, promuovendo la possibilità per il cliente di comunicare con se stesso e con gli altri in modo più sincero ed emotivamente pregnante. Rogers ritiene che poter comunicare in tale modo sia uno dei motori principali del cambiamento. Gli interventi di empatia avanzata hanno, invece, una qualità intrinsecamente più direttiva e interpretativa perché, di fatto, il terapeuta presta una attenzione selettiva alle comunicazioni e guida il cliente verso gli aspetti da esaminare. Con l’empatia avanzata il terapeuta fa inoltre inferenze sulle cause del disagio del cliente e propone un modo di vedere le cose diverso da quello prospettato dal cliente, una prospettiva nuova tesa a modificare il mondo fenomenologico. Le ricerche sull’efficacia della terapia centrata sul cliente evidenziano un significativo miglioramento del disagio psicologico dei pazienti rispetto a persone che non ricevono alcun trattamento, ma non diverso da quello ottenibile con altri tipi di terapia breve di orientamento psicodinamico applicati a persone lievemente disturbate, come sono quelle che di solito sono trattate dai terapeuti rogersiani. Le ricerche relative ai fattori terapeutici non permettono di confermare l’assunto di Rogers che le qualità del terapeuta, pur importanti, siano da sole sufficienti a produrre cambiamento nei pazienti. Terapia esistenziale L’approccio è di tipo fenomenologico e viene ipotizzata una tendenza al sano sviluppo, se questo non viene ostacolato da paure infondate e da restrizioni sociali. Il comportamento viene considerato come intenzionale e viene posto l’accento sul concetto di responsabilità e di ansia esistenziale. Quest’ultima viene messa in relazione con la consapevolezza della morte e dell’impotenza di fronte alle circostanze casuali della vita, con la consapevolezza che comunque dobbiamo prendere delle decisioni, agire e vivere con tutte le conseguenze che questo implica, e che dobbiamo costruire noi il significato della nostra vita e che in questo siamo soli. L’ansia sarebbe inevitabile nelle scelte importanti, evitare tali scelte e fingere che non debbano essere fatte può proteggere l’individuo dall’ansia ma fa vivere una vita senza significato. Il terapeuta esistenziale opera dando sostegno ed empatia e, adottando il sistema di riferimento fenomenologico dell’individuo, lo aiuta ad esaminare il suo comportamento, i sentimenti, le relazioni con gli altri e ciò che la vita significa per lui. Viene data inoltre molta importanza all’autenticità nella relazione terapeutica e nella relazione con gli altri. Lo scopo principale è quello di rendere più consapevole il paziente delle sue potenziali capacità di scelta e di crescita, favorire l’assunzione di responsabilità e la possibilità di ridefinire se stessi in modo diverso in ogni momento. Nella terapia esistenziale vi sono aspetti di tipo comportamentistico, nel senso che durante la terapia viene richiesto al paziente un comportamento diverso sia verso il terapeuta sia 23 verso il mondo esterno. Piuttosto che una serie di tecniche terapeutiche, l’approccio esistenziale è un atteggiamento generale assunto dal terapeuta verso l’individuo. La valutazione dell’efficacia della terapia esistenziale si basa unicamente su resoconti di casi clinici. Terapia della Gestalt Ha come riferimento l’opera e l’insegnamento di F.S. Perls. Condivide con la terapia centrata sul cliente una visione ottimistica della natura umana, l’assunto di una tendenza naturale al sano sviluppo, e l’approccio fenomenologico, secondo il quale la percezione delle situazioni è influenzata dai nostri bisogni, paure e desideri. Scopo della terapia della Gestalt è quello di incrementare nei pazienti la consapevolezza, l’accettazione e l’espressione delle proprie spinte motivazionali, e la consapevolezza degli atteggiamenti di evitamento, visti come ostacoli che le persone pongono alla realizzazione dei propri obiettivi e desideri. Al paziente viene chiesto di specificare i cambiamenti che desidera apportare a se stesso e lo si aiuta poi, con vari accorgimenti tecnici, ad accrescere la sensibilità verso i propri bisogni e desideri, e la consapevolezza delle frustrazioni che opera su stesso, a riappropriarsi delle parti negate della sua personalità, e a sperimentare il cambiamento. In seduta l’attenzione viene posta sul qui ed ora, con lo scopo di rendere le persone consapevoli di ciò che sta succedendo in loro, di cosa pensano, fantasticano e vogliono in quel momento, delle loro emozioni, della loro postura, espressione facciale, tensione muscolare, gesti, e tono della voce. La ricerca di cause nel passato viene scoraggiata perché porterebbero all’evitamento della responsabilità di operare scelte nel presente, e se il passato produce turbamento esso viene portato nel presente. A differenza delle altre terapie di orientamento umanista i terapeuti gestaltisti fanno largo uso di tecniche terapeutiche e di sedute di gruppo. Fra le tecniche più note ricordiamo: - Parlare in prima persona: ai pazienti è richiesto di esprimere sempre i propri pensieri e i propri sentimenti in prima persona (ad es. se la persona afferma che una situazione ha prodotto in lui una determinata reazione emotiva, gli si chiede di riformulare la frase dicendo “io ho provato questa emozione in quella situazione). Questa richiesta viene fatta per incoraggiare l’assunzione della responsabilità dei propri sentimenti e del proprio comportamento, e ridurre il senso di passività di fronte agli eventi esterni. - La sedia vuota: è una tecnica che si propone di incrementare la consapevolezza dei propri sentimenti e il senso delle proprie emozioni. Consiste nella richiesta di parlare ad un sentimento o un’emozione che compare in seduta, o a una persona, o ad un oggetto che viene nominato o ricordato, dopo averlo immaginato seduto su una sedia vuota posta di fronte al paziente (ad es. parlare alla propria tristezza, ad una vecchia foto di sé bambino, ad un regalo ricevuto, ad un amico che ci ha aiutato o da cui non siamo stati compresi, ecc.). - La proiezione dei sentimenti: questa tecnica, usata nelle sedute di gruppo, è finalizzata a rendere consapevoli i pazienti dell’influenza del proprio mondo fenomenologico sulla percezione della realtà e le interazioni sociali. Consiste nel porre le persone in coppia una di fronte all’altra ad occhi chiusi, con la richiesta di immaginare il volto di una persona con cui sono affettivamente legati e i sentimenti che provano, e quindi riaprire gli occhi e guardare il volto della persona che hanno di fronte ponendo attenzione su ciò che sentivano verso l’altro. Di seguito la situazione veniva riproposta con la richiesta di immaginare qualcosa di neutro. - Il rovesciamento: consiste nella richiesta al paziente di assumere durante la seduta caratteristiche comportamentali opposte a quelle sue tipiche (ad es. ad un timido si chiede di essere sfrontato). Lo scopo è quello di produrre nel paziente la consapevolezza di aspetti potenziali ed inibiti della propria personalità. Nelle sedute di gruppo questa tecnica può 24 essere utilizzata assegnando determinati ruoli recitativi in un breve copione teatrale proposto dal terapeuta. - La messa in scena: consiste nella messa in scena da parte del terapeuta di una situazione collegata metaforicamente con i problemi e le difficoltà del paziente, al fine di fargli prendere consapevolezza di un qualche problema in modo esperenziale simbolico nel qui ed ora. Il terapeuta gestaltista, inoltre, pone e induce nel paziente particolare attenzione, all’osservazione al comportamento non verbale inteso come indicatore di ciò che realmente si prova, sollecita con forza il paziente ad essere più spontaneo, più espressivo e più sensibile ai propri bisogni, e trasmette esplicitamente e implicitamente il messaggio che la persona non è prigioniera del suo passato e che può in ogni momento essere diversa. Alcuni studi sugli effetti della terapia della Gestalt ne confermano l’efficacia rispetto all’aumento di consapevolezza delle proprie emozioni e della capacità di esprimerle, ma come giustamente sottolineano Devison e Neale queste tecniche dovrebbero essere utilizzate da persone molto esperte (e probabilmente su persone sufficientemente sane) perché possono in alcuni casi essere di danno più che di aiuto, per esempio incrementando in alcuni pazienti l’ansia a causa di un’esposizione troppo diretta a situazioni che richiamano direttamente i problemi irrisolti (con il rischio di scompensi acuti nei pazienti più fragili), o incrementando in altri l’egocentrismo e una poca attenzione verso i bisogni degli altri, con conseguenze negative nella vita relazionale fuori della terapia. Non va inoltre sottovalutato il rischio di un atteggiamento eccessivamente suggestivo e carismatico del terapeuta insito in questo approccio terapeutico, atteggiamento che può favorire un’eccessiva dipendenza dal terapeuta per mantenere il proprio benessere. 25 Parte III: I metodi di ricerca in psicologia clinica LO STUDIO DEI CASI Per essere esauriente lo studio di un caso clinico dovrebbe comprendere la descrizione dettagliata della situazione psicologica attuale e passata della persona, informazioni sulla storia della sua vita e sulla famiglia attuale e di origine, l’anamnesi medica, il background educativo e lavorativo, dettagli riguardanti l’adattamento alle situazioni di vita stressanti presenti e passate, la personalità, e una descrizione degli eventuali tentativi terapeutici. Il paradigma di riferimento del clinico determina fortemente il tipo di informazioni a cui si presta attenzione e che vengono riferite. Il resoconto clinico di singoli casi ha avuto e ha un ruolo importante nello studio del disagio psicologico, perché offre una ricchezza di informazioni superiore a quella degli altri metodi di ricerca, pur mancando del grado di controllo e di obiettività del metodo correlazionale e sperimentale. Può essere usato nei seguenti modi: DESCRIZIONE I resoconti di casi clinici possono fornire dettagliate informazioni su fenomeni non comuni o non conosciuti, su nuovi procedimenti diagnostici e terapeutici, e su specifici problemi inerenti ad un determinato tipo di trattamento. Può gettare luce su come si possa sviluppare un disagio psicologico e sui fattori terapeutici di un determinato trattamento, senza tuttavia potere fornire prove soddisfacenti di relazioni di causa-effetto. La lettura dei casi clinici descritti da Freud (Studi sull’isteria; Caso clinico di Dora; Caso clinico dell’uomo dei topi; Caso clinico dell’uomo dei lupi; In Opere, vol. I, IV, VI, VII, Boringhieri, 1974) può fornire un ottimo esempio dell’importanza della ricerca sul caso clinico. PROVA DI DISCONFERMA Lo studio dei casi può fornire esempi significativi che smentiscono una presunta relazione universale o una proposizione teorica particolare. La storia di un caso non fornisce la prova in favore di una particolare teoria o trattamento, essendo di solito assenti i mezzi per confermare un’ipotesi ed escludere ipotesi alternative. FORMULAZIONE DI IPOTESI Lo studio del caso può essere di grande valore euristico. E’ un eccellente modo per esaminare in dettaglio la vita emotiva e il comportamento di una persona, e per formulare ipotesi che poi possono essere verificate con una ricerca controllata. Confrontando le storie di un gran numero di pazienti e i resoconti di trattamenti psicoterapeutici, i clinici possono cogliere analogie che permettono di formulare ipotesi importanti che non potrebbero essere formulate con ricerche più controllate. 26 METODO DELLA CORRELAZIONE Serve a stabilire se c’è una relazione tra due o più variabili, rispondendo ad interrogativi del tipo: c’è una relazione fra livelli diversi d’ansia (misurata con un questionario ad hoc) e la presenza di un determinato tratto di personalità (misurato per mezzo di un questionario di personalità)? E’ un metodo largamente usato in psicologia clinica. Per determinare una correlazione è necessario ottenere coppie di osservazioni delle variabili in discussione per ciascun membro di un gruppo di soggetti. Ottenute le coppie si calcolano il coefficiente di correlazione (per es. r di Pearson), che esprime la forza della relazione, e la significatività statistica per stabilire che la relazione non sia dovuta al caso. Seguono la logica correlazionale anche tutte quelle ricerche che confrontano le persone assegnate ad una determinata categoria diagnostica con persone normali (gruppo di controllo) o appartenenti ad un’altra categoria diagnostica (es. relazione fra l’esordio di determinati disturbi psicologici e numero di eventi di vita stressanti nei sei mesi precedenti la comparsa dei sintomi), anche se il confronto è effettuato con un test statistico che confronta le medie come l’analisi della varianza. Le categorie diagnostiche, infatti, così come tutte le caratteristiche che ricorrono naturalmente (es. sesso), sono variabili classificatorie e non sono manipolabili dal ricercatore. Il metodo della correlazione non consente di determinare relazioni di causa-effetto per il problema della direzionalità e della terza variabile. Con direzionalità si intende il fenomeno per cui la correlazione fra due variabili ci dice solamente che esse sono in relazione tra loro ma non se una è causa dell’altra o viceversa. Sebbene la correlazione non implichi la causalità, determinare se due variabili sono correlate o no, può permettere la disconferma di ipotesi causali perché la causalità implica la correlazione. È sempre possibile che la causa di una correlazione sia una variabile diversa dalle due prese in considerazione e non ancora identificata, questa variabile è detta terza variabile. Per esempio tutte le ricerche che segnalano la presenza di alterazioni biochimiche in un determinato disturbo psicologico lasciano irrisolto sia il problema della direzionalità, sia il dubbio che l’origine di entrambi i fenomeni sia da ricercare altrove. Per avere una qualche certezza si dovrebbe provocare sperimentalmente l’alterazione biochimica in soggetti normali (esiste però un problema etico) e misurarne gli effetti sintomatologici, e successivamente ricercare la causa dell’alterazione biochimica. McBurney (Metodologia della ricerca in psicologia; Il Mulino, 1986) chiarisce bene la questione con un suggestivo esempio: Se un ricercatore studiasse la relazione fra numero di campanili presenti in determinate città a prevalenza di religione cristiana e numero di reati commessi, troverebbe sicuramente un correlazione significativa, nel senso che all’aumentare dei campanili corrisponderebbe un aumento dei reati segnalati all’autorità giudiziaria. Questo dato potrebbe aprire un dibattito sui giornali fra opinionisti che sosterranno l’ipotesi che la religione ha un’influenza negativa sugli uomini e quelli che sosterranno che i dati devono essere letti come lo sforzo della chiesa di essere presente là dove c’è più bisogno di valori etici. Un opinionista più attento potrebbe fare presente che la spiegazione va ricercata in una terza e ovvia variabile, cioè che una maggiore densità di abitanti in determinate città spiega sia il numero maggiore delle chiese sia la più alta frequenza di reati. 27 METODO SPERIMENTALE Permette di determinare relazioni di causa-effetto fra eventi. Implica la manipolazione di variabili indipendenti (sperimentali) e la misura dei loro effetti sulle variabili dipendenti, e l’assegnazione a caso dei soggetti alle condizioni oggetto di studio. Lo scopo è quello di verificare l’ipotesi che la manipolazione di una variabile determinerà un cambiamento specifico dell’altra variabile (es. effetti di stimoli emotigeni di diversa intensità e qualità sull’assetto ormonale). Un esperimento ben condotto deve ottemperare ad alcuni criteri di validità Validità interna Un esperimento ha validità interna se l’effetto ottenuto può essere attribuito con sicurezza alla manipolazione della variabile indipendente. L’inclusione di un gruppo o di una condizione di controllo, l’assegnazione casuale dei soggetti al gruppo sperimentale o a quello di controllo, e il doppio cieco sono accorgimenti metodologici che garantiscono la validità interna negli esperimenti. Se due gruppi di soggetti contengono una variabile interveniente (per es. età e sesso), cioè in grado di influire sulla variabile dipendente, è bene bilanciare il numero dei soggetti appartenenti ai diversi gruppi per bilanciare l’effetto della variabile interveniente. Nel caso l’esperimento preveda una successione seriale delle diverse variabili indipendenti, l’ordine di presentazione deve essere randomizzato in più sequenze ed ogni soggetto deve incontrare una sola sequenza, in modo da evitare effetti dovuti all’apprendimento di materiale seriale. Validità di costrutto Concerne la questione della conformità fra i risultati ottenuti e la teoria che sta alla base della ricerca. E’ necessario avere una teoria, una buona definizione operativa dei concetti teorici, degli strumenti di misura adeguati e bisogna potere escludere altre possibili spiegazioni teoriche. Validità statistica Riguarda l’accidentalità della relazione causa-effetto. Per convenzione la probabilità che il risultato dell’esperimento sia dovuta al caso deve essere inferiore al 5% Validità esterna Riguarda il grado di generalizzabilità dei risultati ad altri soggetti, altri luoghi e altri tempi (problema dell’uso come soggetti degli studenti universitari; esperimenti con animali). Non ci sono modi univoci e adeguati per affrontare questo problema, e il meglio che si può fare è replicare gli studi in nuovi setting e con nuovi soggetti. Il metodo sperimentale è poco usato nella ricerca clinica per problemi pratici ed etici spesso insormontabili (per esempio non possiamo creare e sottoporre i soggetti a situazioni che producono un vero disturbo psicologico). Di solito si ricorre all’esperimento quando si vogliono valutare gli effetti di un trattamento farmacologico o di una psicoterapia (es. effetti di una terapia sull’ansia valutata con questionari di autovalutazione o con misure psicofisiologiche), o si studiano fenomeni attinenti o analoghi a quello da indagare come ad esempio l’induzione di stati d’ansia transitori in laboratorio sottoponendo i soggetti a stimoli cosiddetti stressanti. Più frequentemente si ricorre a protocolli misti combinando il metodo sperimentale con quello correlazionale, suddividendo i soggetti sulla base di variabili classificatorie (soggetti con un determinato disturbo vs soggetti normali). 28 LA RICERCA EPIDEMIOLOGICA Studia la frequenza, la distribuzione e l’andamento nel tempo dei disturbi psicologici all’interno della popolazione generale o di una determinata popolazione oggetto d’indagine e i fattori che aumentano la probabilità di sviluppare un disturbo psicologico. I dati sono raccolti su campioni numerosi di persone rappresentative della popolazione generale o bersaglio, utilizzando allo scopo questionari, interviste strutturate e dati tratti dall’anagrafe sanitaria e dalle cartelle cliniche. La ricerca epidemiologica è interessata principalmente ad indagare: La prevalenza: è la percentuale della popolazione affetta da un determinato disturbo psicologico al momento preso in considerazione dall’indagine o nell’arco di vita. Questo dato permette di delineare un quadro complessivo della salute mentale della popolazione, e di meglio distribuire le risorse dei servizi addetti alla salute mentale. L’incidenza: valutazione del numero di nuovi casi rilevato in determinato intervallo, di solito un anno. Questo dato valutato periodicamente può fornire informazioni sugli effetti di una campagna di prevenzione, o suggerire che qualche nuovo importante fattore causale è comparso o si è modificato nella popolazione studiata, per esempio un cambiamento nella cultura o nella situazione socioeconomica. I fattori di rischio: si studiano le variabili che aumentano la probabilità di comparsa di un determinato disturbo, come la familiarità o una diversa distribuzione di frequenza a seconda del sesso, dell’età, delle condizioni socioeconomiche, degli eventi di vita presenti e passati ecc.. Questi dati empirici possono fornire importanti informazioni che suggeriscono ipotesi sulle cause dei disturbi psicologici. 29 Parte IV: Strumenti d’indagine e di valutazione IL COLLOQUIO IN PSICOLOGIA CLINICA Il colloquio psicologico è uno strumento di conoscenza che utilizza l’incontro e la comunicazione fra due o più persone, allo scopo di raccogliere informazioni e acquisire conoscenze che riguardano l’ambito d’interesse della psicologia, con fini di ricerca, di diagnosi o di presa in carico per un determinato trattamento. Presuppone che uno dei partecipanti abbia conoscenze e competenze psicologiche, titolo per usarle, e che le usi in accordo con gli interlocutori. Spesso chi si avvicina per la prima volta allo studio della psicologia clinica pensa che vi sia una sola tipologia di colloquio psicologico e una solo modo di condurlo. La realtà è molto più complessa, perché il paradigma di riferimento dello psicologo, le sue scelte metodologiche e il diverso scopo che può avere un colloquio, possono portare a caratteristiche strutturali, a modi di conduzione e a contenuti dello scambio comunicativo molto diversi fra di loro. Un approfondimento di alcuni concetti chiave aiuterà a comprendere meglio la complessità e la varietà di questo strumento di conoscenza. FATTORI CHE HANNO UN RILIEVO SULLE CARATTERISTICHE DEL COLLOQUIO E CHE POSSONO INFLUENZARE I CONTENUTI E L’ASCOLTO DELLA COMUNICAZIONE E L’INTERAZIONE FRA I PARTECIPANTI GRADO DI STRUTTURAZIONE DEL COLLOQUIO E’ definito dal grado di predeterminazione dell’andamento dello scambio comunicativo e dei suoi contenuti, o in altre parole dal grado di libertà comunicativa concessa ai partecipanti al colloquio. Un alto grado di strutturazione fa preferire nella lingua italiana l’uso del termine intervista a quello di colloquio. Secondo il grado di strutturazione possiamo distinguere due tipi di intervista e due tipi di colloquio. 1) Intervista strutturata: il contenuto, la forma e la successione delle domande sono predeterminate. Le risposte possono essere libere o più o meno predefinite. 2) Intervista semistrutturata: una traccia di riferimento predetermina i contenuti delle domande, ma non il numero, la forma e l’ordine. Le risposte sono libere. 3) Colloquio orientato: lo psicologo ha come riferimento alcune aree o argomenti da sondare, senza predisporre una griglia predeterminata di domande, e può approfondire o sondare altre aree secondo l’andamento del colloquio. 4) Colloquio clinico: lo psicologo concede all’intervistato ampia libertà di decidere i contenuti e l’ordine con cui sono esposti, considerando tutte le modalità dello scambio comunicativo una forma di conoscenza dell’altro. In alcuni momenti il colloquio clinico può assumere le caratteristiche del colloquio orientato. MODALITA’ DI CONDUZIONE Fanno riferimento alle strategie che il conduttore può utilizzare allo scopo di attivare e direzionare la comunicazione dell’intervistato e di favorire una determinata dinamica relazionale. Sono condizionate dal grado di strutturazione del colloquio. Sono definite attraverso i concetti di: 30 - polo di centratura: si riferisce alla prevalenza dello psicologo o dell’intervistato nella gestione dei tempi, dei contenuti, e degli sviluppi del colloquio. Si pone lungo un continuo che va dal polo di centratura sull’intervistato al polo di centratura sullo psicologo. - direttività: è definita dal modo di porsi o non porsi dello psicologo in modo valutativo e giudicante verso l’intervistato. La non direttività va intesa come una tendenza perseguita con accorgimenti quali l’uso di domande in termini di ripresa di parole e concetti dell’intervistato, e un’adeguata calibratura del polo di centratura e dello stile di conduzione. -stile di conduzione: sono modi di porsi dello psicologo verso l’intervistato a volte predeterminati, a volte condizionati dalle caratteristiche personali dello psicologo o del suo interlocutore. Sono riconducibili a quattro modalità: a) Stile duro, b) Stile amichevole, c) Stile consultivo, d) Stile partecipativo. SCELTA METODOLOGICA E’ conseguente al tipo di approccio epistemologico alla conoscenza. Influenza le scelte tecniche relative al grado di strutturazione del colloquio e alle modalità di conduzione. E’ influenzata dallo scopo del colloquio e dalla teoria di riferimento. - Prospettiva psicometrica: è improntata ad un approccio quantitativo verso il fenomeno da studiare. Presuppone che il colloquio abbia qualità metriche di validità e attendibilità e che produca risultati quantificabili. Privilegia pertanto un alto grado di strutturazione del colloquio, una tecnica di conduzione che tenda ad evitare qualsiasi influenza dell’intervistatore sulle comunicazioni dell’intervistato, una focalizzazione sul contenuto manifesto delle risposte, e una predeterminazione della messa a verbale del materiale raccolto. - Prospettiva clinica: deriva dalla prassi medica del colloquio anamnestico e dell’esame obiettivo. Presuppone che il colloquio produca risultati valutabili sulla base delle conoscenze teoriche e dell’esperienza clinica del conduttore e/o di altri esperti. Privilegia un basso grado di strutturazione del colloquio, un polo di centratura sull’intervistato, e una focalizzazione su ciò che il soggetto dice, sul come lo dice, e sulle modalità relazionali Considera il conduttore un elemento attivo che modifica il campo relazionale, e che utilizza questa specificità con consapevolezza e in modo appropriato. PARADIGMA DI RIFERIMENTO Si riferisce all’insieme di assunti generali che riguardano la scelta dell’oggetto di studio, la modalità di raccolta dei dati e la concezione del funzionamento della mente e del comportamento. Include tutti gli assunti e le teorie accettate come vere dallo psicologo. Determina il tipo di informazione che si cerca e quella che si ottiene. Influenza le scelte metodologiche le tecniche di conduzione, il grado di strutturazione del colloquio e l’interpretazione dei dati. Uno psicologo clinico di formazione psicoanalitca, ad esempio, rivolgerà la sua attenzione prevalentemente alle problematiche evolutive, agli aspetti emotivi, ai conflitti psicologici e al tipo di relazione che si instaura con il cliente, uno psicologo di orientamento umanistico privilegerà l’osservazione del mondo fenomenologico del suo interlocutore e l’ascolto empatico, ed entrambi saranno orientati verso l’approccio tipico del colloquio clinico. Uno psicologo clinico di orientamento comportamentista, al contrario, sarà orientato a rilevare le manifestazioni esplicite del comportamento e le condizioni ambientali che lo favoriscono, al fine di individuare le strategie terapeutiche più opportune per modificare il comportamento indesiderato, e pertanto privilegerà le tecniche dell’intervista. SCOPO DEL COLLOQUIO Si riferisce al tipo di richiesta esplicita che è fatta allo psicologo da colui che lo consulta o da terzi, o al tipo di scopo che lo psicologo intende perseguire. 31 Influenza le scelte metodologiche e tecniche e i contenuti del colloquio, e può modificare l’atteggiamento dell’esaminando e dell’esaminatore e il campo globale. Per esempio un colloquio di consultazione dovrà necessariamente tenere conto delle richieste esplicite ed implicite del cliente (analisi della domanda) e queste a loro volta influenzeranno l’atteggiamento dello psicologo, le modalità di conduzione e i contenuti del colloquio; un colloquio con finalità diagnostica di tipo nosografico-descrittivo, dopo una prima fase a basso grado di strutturazione, virerà necessariamente verso la tecnica dell’intervista strutturata o semistrutturata, e verso un atteggiamento direttivo i cui effetti sul paziente dovranno essere attentamente monitorati; un colloquio finalizzato alla presa in carico terapeutica dovrà tenere conto oltre che della valutazione clinica, anche delle reali motivazioni del futuro paziente, ed inoltre la mente dello psicologo sarà contemporaneamente occupata a valutare gli aspetti relazionali, la propria competenza a trattare quel determinato disturbo e la potenzialità del paziente di trarre giovamento dalla tecnica terapeutica che si intende proporre; infine in un colloquio effettuato con il fine di redigere una perizia in ambito legale o assicurativo lo psicologo dovrà confrontarsi, se perito della controparte o del tribunale, con il problema della possibile non sincerità, o con la più o meno aperta ostilità dell’interlocutore. MOTIVAZIONE DEI PARTECIPANTI E’ definita dal grado di convincimento e di interesse autentico di entrambi i partecipanti a aderire all’incontro e allo scambio comunicativo. E’ influenzata dall’ambito di applicazione e dallo scopo del colloquio. Influenza il grado di strutturazione, le modalità di conduzione e l’andamento dello scambio comunicativo e dell’interazione. Si pone lungo un continuo fra due estremi: - Motivazione intrinseca: l’incontro è richiesto o accettato da entrambi i partecipanti. E’ necessaria per un colloquio clinico. -Motivazione estrinseca: l’incontro avviene a prescindere da un’adesione autentica di uno o entrambi i partecipanti. E’ sufficiente per un’intervista strutturata. Un esempio di cliente con motivazione estrinseca che può comportare problemi di difficile soluzione è quello dell’adolescente condotto in consultazione dai genitori senza un autonomo convincimento. Un esempio di psicologo con motivazione estrinseca è quello di chi si appresta ad una consultazione pur essendo molto stanco o con la mente altrove per problemi personali. CARATTERISTICHE DELL’ INTERVISTATORE Si riferiscono alle conoscenze psicologiche, alle competenze ed esperienze specifiche e a diversi dati personali che possono essere rilevanti o meno per la conduzione di un certo tipo di colloquio o di quel particolare colloquio o intervista. - Conoscenze psicologiche: riguardano il livello di cultura generale e di professionalità, e il paradigma teorico di riferimento. - Competenza ed esperienza specifica: riguardano le conoscenze relative allo specifico ambito e scopo del colloquio, e l’esperienza conseguita nella conduzione di colloqui. - Dati personali: riguardano età, sesso, contesto geo-socio-culturale di provenienza, percezione del proprio ruolo, personalità. Queste caratteristiche interagendo con quelle dell’intervistato possono influenzare l’interazione fra i partecipanti (es. psicologo con pregiudizi razziali; psicologo giovane e interlocutore dell’età dei suoi genitori). CARATTERISTICHE DELL’ INTERVISTATO Si riferiscono a diversi dati personali (età, sesso, stato socioeconomico, scolarità, professione, contesto geo-socio-culturale di origine, personalità) che possono essere rilevanti o meno ai fini di un certo tipo di colloquio o condizionare la dinamica relazionale di singoli colloqui tramite l’attivazione di specifiche misure di sicurezza. 32 LA COMUNICAZIONE NEL COLLOQUIO PSICOLOGICO Il colloquio psicologico si basa sullo scambio di messaggi fra persone a scopo informativopragmatico, che avviene mediante un insieme di segni, simboli e regole che danno luogo ad un linguaggio verbale, supportato, integrato, o sostituito da un linguaggio non verbale. Una buona conoscenza delle caratteristiche generali e delle funzioni della comunicazione verbale e non verbale è una premessa indispensabile per la conduzione di un buon colloquio da parte dello psicologo clinico, sia per ottimizzare la propria comunicazione, e avere consapevolezza degli effetti che può provocare sul paziente, sia per comprendere al meglio la ricchezza d’informazioni anche di carattere clinico che il paziente veicola con la sua comunicazione verbale e non verbale. LINGUAGGIO VERBALE E’ costituito da suoni articolati, organizzati in parole, atte ad individuare immagini, concetti, azioni e relazioni. Il linguaggio verbale è in prevalenza di tipo digitale, si basa cioè su parole dal significato convenzionale, ordinate in discorsi, e su una grammatica e una sintassi proprie di ogni lingua. E’ di tipo analogico quando la comprensione si basa su esperienze condivise all’interno di un determinato contesto socio- culturale. LINGUAGGIO NON VERBALE Consiste in messaggi che provengono dallo sguardo dalla mimica facciale, da gesti e movimenti del corpo, dalla postura, dalla distanza interpersonale, dagli elementi non verbali del parlato, da manifestazioni di tipo neurovegetativo, da caratteristiche fisiche, e da artefatti. Il linguaggio non verbale è prevalentemente di tipo analogico. Ha la funzione di: - Rinforzare e supportare la comunicazione verbale, rendendola più efficace mediante gesti, movimenti del corpo o degli occhi, modificazioni del tono della voce o della mimica facciale, che possono ad esempio veicolare una richiesta di attenzione o di consenso, ribadire o illustrare quanto detto in parole, mettere in rilievo una parte del discorso, ecc.. - Integrare la comunicazione verbale per esempio completando un concetto o un pensiero espresso a parole con un indicatore dello stato emotivo quale il tono della voce o la mimica facciale. - Sostituire la comunicazione verbale per esempio con gesti simbolici (es. alzare le mani in segno di resa; segnalare l’alt con la mano; alzare il pugno in segno di sfida ecc..), modificazioni della postura (es. irrigidirsi durante un abbraccio ecc..), o modificazioni della distanza spaziale. - Metacomunicare cioè trasmettere attraverso gesti, movimenti degli occhi, espressioni facciali, tono della voce, come deve essere intesa la comunicazione verbale in quel contesto (es. che il discorso va preso seriamente; che non deve riguardare altri, ecc..). - Regolare il flusso comunicativo e la relazione per esempio schiarendosi la voce o alzando la mano per chiedere la parola, annuire col capo per assentire e invitare a proseguire, avvicinarsi o allontanarsi per dimostrare interesse o per segnalare l’intenzione di terminare lo scambio comunicativo, alzare il tono della voce, abbassare o alzare lo sguardo ecc.. Nel colloquio psicologico la comunicazione verbale di tipo digitale è il mezzo concordato dello scambio comunicativo, ma essa sarà sempre supportata, integrata, e a volte sostituita da una componente analogica e non verbale, che può facilitare la corretta comprensione del messaggio verbale, e fornire elementi relativi al coinvolgimento emotivo nella relazione. L’importanza che sarà data a quest’ultimo in sede di valutazione varia secondo il tipo di colloquio. 33 CANALI DELLA COMUNICAZIONE NON VERBALE - Il volto e la mimica facciale Possono svolgere tutte le funzioni della comunicazione non verbale. In particolare trasmettono messaggi relativi allo stato emozionale e al coinvolgimento nella relazione. (es. espressioni facciali delle emozioni, aggrottare la fronte, spingere in avanti le labbra, alzare un sopracciglio, ecc..) - Lo sguardo e i movimenti degli occhi Possono indicare stati d’animo e intenzioni, sono un forte indicatore del grado di coinvolgimento relazionale, e possono essere usati per regolare lo scambio verbale e definire i ruoli. (es. guardare fisso negli occhi, alzare o abbassare lo sguardo, guardare altrove o nel vuoto, sguardo di tenerezza, di sfida ecc..). - I gesti della mano e del braccio Sono movimenti della mano e del braccio che possono essere suddivisi in: Emblemi, cioè gesti che sostituiscono e possono essere sostituiti dalla comunicazione verbale (es. fare alt con la mano, chiamare a sé col braccio, muovere il dito indice per ammonire o dissentire ecc..). Gesti illustrativi che ribadiscono la comunicazione verbale rinforzandola (es. indicare la strada con movimenti del braccio, ecc..). Indicatori emozionali, cioè gesti correlati a stati emotivi (es. stingere i pugni, ecc..); Gesti regolatori del discorso che delimitano i ruoli nel parlare e ascoltare e segnalano il grado di coinvolgimento (es. cedere la parola con un movimento del braccio ecc..). Gesti adattatori che hanno lo scopo di riequilibrare uno stato di tensione. Possono essere distinti in autoadattatori (es. aggiustarsi i capelli, mangiarsi le unghie ecc..), adattatori su oggetti (es. giocherellare con la matita o metterla in bocca ecc..), adattatori sull’altro (es. mettere a posto una piega del vestito dell’altro ecc..). Uno stesso gesto può essere contemporaneamente emblematico e/o illustratore e/o indicatore emozionale e/o regolatore del discorso. - Movimenti del capo, del corpo e degli arti inferiori Possono essere emblemi, indicatori emozionali, regolatori del discorso, e segnalare il grado di coinvolgimento e di partecipazione (es. annuire col capo in segno di approvazione, scuoterlo lentamente o rapidamente in segno di disaccordo o impazienza, movimenti del busto in avanti o indietro come segno di coinvolgimento ecc..). - Postura Posture tipiche e persistenti possono segnalare tratti del carattere, se situazionali possono segnalare disposizioni all’azione (es. postura rigida o rilassata, ecc..). - Distanza interpersonale Distinzione in 4 zone, estese da un minimo a un massimo a seconda di fattori socioculturali: Distanza intima: è quella entro cui il canale visivo perde importanza nel percepire l’altro e assumono rilievo udito, olfatto e tatto. Distanza personale: è quella entro cui è possibile toccarsi allungando un braccio, o evitarlo se uno non vuole. Distanza sociale: è quella entro la quale si presta attenzione ad un estraneo che si avvicina e non è possibile ignorare una persona conosciuta se non ostentatamente. Distanza pubblica: è la zona oltre il margine di riconoscimento obbligatorio. - Collocazione nello spazio Riguarda prevalentemente l’orientazione dei partecipanti frontale o laterale e l’altezza delle posizioni. - Elementi non verbali del parlato 34 Sono elementi espressivi della voce più o meno connessi alla componente verbale. Possono indicare stati d’animo e intenzioni, aspetti della personalità, coinvolgimento relazionale, e possono essere usati per regolare lo scambio verbale e definire i ruoli. Tono (alto, basso, grave, solenne, dolce, affettuoso ecc.), timbro (maschile, femminile), e melodia (la successione dei suoni verbali può essere animata da un ritmo che può produrre attenzione, noia, assopimento, ecc.). Elementi paralinguistici: sono relativi al modo in cui si parla. a) qualità dell’eloquio (velocità, pause, esitazioni); b) fluenza (scorrevole, ecc..); c) pronuncia; d) inflessione (dialettale, straniera); e) manifestazioni organiche (Tossire, schiarirsi la voce, sbadigliare). Elementi metalinguistici: sono relativi a variazioni del modo di esprimersi e riguardano a) lo stile (retorico, teatrale, affabulatorio, ecc..); b) il grado d’istruzione (linguaggio elementare, ricco, forbito, ecc..); c) l’esclusività linguistica (linguaggio specialistico, burocratico, gergale, ecc..); d) l’uso d’imprecazioni e d’espressioni volgari; e) l’intercalare (cioè, praticamente, no, vero, ecc..). - Caratteristiche fisiche Riguardano l’aspetto generale del corpo, altezza, peso, attrazione, colore della pelle, sudore, rossore, odore, ecc.. Possono in alcuni casi influenzare l’interazione fra i partecipanti al colloquio. - Artefatti Comprendono abbigliamento, acconciatura dei capelli, trucco, profumi, occhiali, ecc.. Solitamente forniscono informazioni sull’immagine che la persona vuole dare di sé. Un insieme eccessivamente trasandato o eccentrico può fornire informazioni sulla capacità di prendersi cura di sé, e su aspetti della personalità. Fra gli artefatti, l’uso degli occhiali scuri crea problemi nell’interazione fra i partecipanti. - Ambiente Include l’arredamento, il colore delle pareti, gli odori, l’illuminazione, la temperatura, il telefono, la separazione da altri ambienti ecc.. E’ parte integrante della cornice del colloquio e può avere importanti effetti sulla dinamica relazionale. FUNZIONI GENERALI DELLA COMUNICAZIONE - Trasmissione delle informazioni: la funzione informativa è assolta prevalentemente dalla comunicazione verbale di tipo digitale. La funzione informativa di base della comunicazione analogica è relativa allo stato emotivo. - Definizione della relazione: questa funzione è assolta prevalentemente dalla comunicazione analogica (es. presentarsi col proprio ruolo o grado; uso del tu, del lei, o del voi; sfumature del tono della voce; gesti; ecc..). - Induzione di comportamenti o di emozioni: questa funzione è assolta sia dalla comunicazione digitale sia da quella analogica (es. uso dell’imperativo; instillare un dubbio o una preoccupazione; mettere zizzania; sguardo; tono della voce; gesti ecc..). Può essere esplicita o implicita, intenzionale o inconsapevole. - Definizione delle modalità dello scambio comunicativo: questa funzione è svolta in prevalenza dalla comunicazione analogica. Può riguardare la gestione del tempo (durata del colloquio) e dello spazio (distanza e orientamento degli interlocutori); la libertà di determinare il contenuto della comunicazione e di fare domande; la disponibilità a iniziare, mantenere o concludere la comunicazione; la regolazione del flusso comunicativo. - Metacomunicare: questa funzione può essere assolta sia dalla comunicazione digitale sia da quella analogica. Consiste nel comunicare sulla comunicazione in atto. Può riguardare il senso della trasmissione delle informazioni, la definizione della relazione, l’induzione pragmatica e la definizione delle modalità dello scambio comunicativo. Si attua quando si teme l’incomprensione o si vuole mettere in discussione ciò che l’altro sta proponendo implicitamente (es. sto scherzando; stiamo divagando; guarda che parlo seriamente; non mi stai capendo; non sei mio padre ecc..). Sul piano analogico si può metacomunicare enfatizzando gli elementi formali della comunicazione per 35 rimarcarne l’ufficialità, o accentuando un tono confidenziale per rimarcare l’aspetto informale, o adottando un’espressione seria o scherzosa, ecc.. CARATTERISTICHE GENERALI DELLA COMUNICAZIONE - Intenzionalità e consapevolezza: l’intenzionalità fa riferimento al grado di volontarietà e la consapevolezza al grado di coscienza dell’atto comunicativo e del suo significato. I due concetti sono relativamente indipendenti fra loro, infatti si può essere consapevoli del messaggio che comunichiamo anche quando non è intenzionale (es. rossore del viso, tremore della voce, rendersi conto di stare dicendo qualcosa che non volevamo dire), e non essere consapevoli di tutto ciò che comunichiamo e di come lo comunichiamo in una comunicazione intenzionale (es. comunicazione non verbale, non rendersi conto di tutte le implicazioni di ciò che stiamo dicendo). È opportuno che durante il colloquio lo psicologo comunichi in modo intenzionale e consapevole, tenendo conto che gli aspetti analogici della comunicazione non possono essere controllati oltre una certa misura, pena l’inautenticità. Mantenere un buon livello di consapevolezza del proprio comportamento verbale (scelta delle parole usate nella comunicazione) e non verbale (gesti, espressioni facciali, impulsi motori, impulsi a parlare ecc..) permette infatti una migliore comprensione del tipo di relazione che tende a mettere in atto con l’intervistato, e riduce la possibilità di incomprensioni e fraintendimenti. Parimenti un’adeguata valutazione del grado di intenzionalità e di consapevolezza della comunicazione dell’intervistato può fornire all’intervistatore importanti informazioni per la valutazione del colloquio. - Capacità informativa: si riferisce all’efficacia della comunicazione nel trasmettere le informazioni che si intende fornire. L’efficacia della comunicazione digitale è in relazione con il grado di conoscenza da parte degli interlocutori del codice linguistico usato nello scambio comunicativo; quella della comunicazione analogica con l’appartenenza degli interlocutori allo stesso contesto socioculturale. Per valutare l’efficacia di una comunicazione nel trasmettere informazioni si può fare riferimento alle categorie conversazionali di Grice che si riferiscono alla: Quantità delle informazioni fornite. Include: a) comunicare tutte le informazioni richieste; b) non comunicare più informazioni di quelle richieste. Qualità delle informazioni fornite. Si riferisce all’esattezza delle informazioni e include: a) non dire cose che si sanno false; b) non dire cose di cui non si ha prova adeguata. Relazione. Si riferisce ai contenuti e include: a) comunicare informazioni pertinenti; b) comunicare informazioni rilevanti. Modo. Si riferisce a come si dice ciò che viene detto e richiede: a) di essere chiari evitando oscurità; b) di essere ordinati nell’espressione, cioè non confusi; c) di evitare ambiguità; d) di evitare prolissità non necessarie. Attenersi a questi principi è il modo più efficace per trasmettere informazioni, e l’intervistatore deve tenerne conto quando formula le sue domande, quando restituisce all’intervistato le impressioni e le opinioni che ha ricavato dal colloquio, e quando stende il resoconto. Per avere un riscontro di quanta parte della comunicazione giunge efficacemente a destinazione o è recepita in modo distorto è importante avere grande attenzione per i segnali retroattivi che provengono dall’intervistato e modularsi su di loro. Per altro verso, valutare la capacità e l’efficacia informativa dell’intervistato può fornire dati importanti sul modo di funzionare della sua mente (es. stato di confusione, tratti ossessivi, ecc..). Lo psicologo per avere un riscontro della sua comprensione della comunicazione dell’intervistato può utilizzare la tecnica della riformulazione (es. lei ha detto che…). È bene tenere comunque presente che la comunicazione può essere usata per nascondere informazioni o per distorcerle (vedi misure di sicurezza), e che in un colloquio psicologico non è scontato che l’intervistato abbia piena fiducia nello psicologo. - Capacità pragmatica: si riferisce al grado di influenza della comunicazione sull’interlocutore e può essere valutata nei termini di coinvolgimento nell’interazione e di cambiamenti del comportamento e dello stato emotivo. Per valutare la capacità pragmatica bisogna tenere conto oltre 36 che delle richiesta esplicita o implicita contenuta nel messaggio anche del contesto del colloquio e del ruolo asimmetrico intervistato/intervistatore. La richiesta più semplice contenuta in qualsiasi messaggio è quella di ricevere ascolto, altre possono essere ricevere comprensione, e via via reazioni che implicano un maggiore coinvolgimento. È importante tenere presente che un colloquio comporta un coinvolgimento di tutti i partecipanti, perciò l’intervistatore, prima, durante, e dopo il colloquio deve porsi alcune domande sulla sua comunicazione e su quella dell’intervistato quali ad esempio: dove chiedo o chiede che vada l’attenzione; quali risposte mi attendo o si attende; che reazione emotiva voglio o vuole suscitare; che tipo di relazione stabilisco o stabilisce e con quali ruoli. -Incongruenza comunicativa: consiste nella trasmissione contemporanea di due messaggi contraddittori. Vi possono concorre sia la comunicazione verbale sia non verbale, e sia la modalità digitale sia analogica. Quando c’è incongruenza la comunicazione non verbale prevale su quella verbale e si tende a dare maggiore credito agli aspetti analogici rispetto a quelli digitali, a meno che non ci sia una posizione di dipendenza. Quando c’è incongruenza fra gli indici non verbali gli elementi espressivi della voce sono più influenti dei segnali visivi. L’indice non verbale a cui si presta maggiore attenzione è la violazione della distanza interpersonale. La comunicazione incongruente fa perdere di credibilità al messaggio se l’interlocutore rileva la contraddizione; se l’interlocutore è in posizione di dipendenza e non può permettersi di accorgersi dell’incongruenza si può creare un disagio psichico perché il messaggio incongruente tende a veicolare una richiesta pragmatica contraddittoria. L’incongruenza può essere il risultato di un conflitto psichico o di un tentativo consapevole o inconsapevole di ingannare gli altri o se stessi. 37 LE DINAMICHE RELAZIONALI NEL COLLOQUIO PSICOLOGICO Come risulta evidente da quanto detto sul processo comunicativo ogni scambio verbale comporta l’instaurarsi di una relazione fra i partecipanti (vedi funzioni della comunicazione). Nel colloquio psicologico un’adeguata percezione da parte dell’intervistatore della relazione che s’instaura con l’intervistato, nei suoi aspetti fenomenologici e dinamici, è un punto fondamentale per una buona conduzione del colloquio. Inoltre, nel caso di un colloquio clinico, proprio dall’osservazione delle dinamiche relazionali lo psicologo potrà ricavare importanti elementi per la valutazione delle caratteristiche psicologiche dell’intervistato. Fondamentale per la valutazione della dinamica relazionale è la capacità dello psicologo di essere nella relazione e contemporaneamente essere consapevole di ciò che sta avvenendo, osservando se stesso e l’altro, raccogliendo gli elementi che provengono dalle parole sue e dell’intervistato, dalla comunicazione verbale e non verbale di tipo analogico, e dal suo vissuto emotivo. Deve dunque ascoltare e ascoltarsi, osservare e osservarsi, e monitorare ciò che sta avvenendo. - Intensità della relazione Per intensità della relazione s’intende il grado di coinvolgimento emotivo dei partecipanti al colloquio. Si valuta mediante osservazione e autosservazione di indici verbali (es. verbalizzazione di stati emotivi, tipo di aggettivazione usata), elementi espressivi della voce (es. tono, ritmo, fluenza dell’eloquio, comparsa di inflessioni dialettali), espressioni facciali delle emozioni, sguardo, gesti e movimenti del corpo in avanti e indietro, modificazioni della distanza interpersonale. Soggettivamente comporta la percezione della presenza di una qualche emozione o affetto e l’idea che ciò che stiamo dicendo o ascoltando sia importante o comunque interessante. - Qualità della relazione La qualità della relazione può essere descritta fenomenologicamente attraverso alcune dicotomie comportamentali, poste lungo un continuo d’intensità, e variamente interagenti e correlate fra di loro: cooperazione/competizione, dominanza/sottomissione, fiducia/diffidenza, apertura/chiusura, controllo/adattamento, seduzione/rifiuto, ecc.. Queste dimensioni relazionali possono essere spiegate, a seconda della teoria di riferimento, in termini di stima di Sé, forza dell’Io, ecc.., e di motivazioni e bisogni come quello di affiliazione o di sicurezza, ed esprimersi attraverso la ricerca di un adattamento alle necessità dell’altro o dell’altro alle proprie necessità, e di una simmetria o asimmetria relazionale. Ad esempio il bisogno di affiliazione può muoversi verso la ricerca di concordanza, di intimità, di approvazione, di accudimento, ed esprimersi attraverso diverse gradazioni di adattamento o di influenzamento reciproco. Ciò può portare ad atteggiamenti di cooperazione, ma anche di compiacenza o di sottomissione, se si ritiene di non essere sufficientemente accettabili o stimabili per quello che si è, o si ritiene di essere (questo può valere anche per un intervistatore insicuro di sé e del proprio ruolo). Considerazioni analoghe possono essere fatte per il bisogno di sicurezza che, se non molto intenso, può esprimersi attraverso la ricerca di una distanza emotiva e relazionale che permette atteggiamenti di cooperazione, ma che più spesso tende a muoversi verso l’adattamento dell’altro alle proprie necessità e la realizzazione di un’asimmetria relazionale. Compaiono in questo caso atteggiamenti competitivi e di dominanza o, se il timore dell’altro prevale, tentativi di influenzamento mediante la seduzione o la sottomissione compiacente. La qualità della dinamica relazionale può essere valutata mediante l’osservazione e l’autosservazione della comunicazione verbale e non verbale, in particolare di tipo analogico, tenendo conto delle funzioni della comunicazione (informativa, definizione della relazione, induzione di comportamenti e di emozioni, definizione delle modalità dello scambio 38 comunicativo), e delle sue caratteristiche (intenzionalità, consapevolezza, capacità informativa e pragmatica, congruenza). Soggettivamente la dinamica relazionale comporta lo sperimentare stati emotivi più o meno differenziati, e l’impulso a mettere in atto o la messa in atto di comportamenti verbali o azioni che appaiono motivati dal comportamento dell’altro o dalla situazione. La percezione di motivazioni provenienti da propri bisogni o caratteristiche necessita di una presa di distanza e di una riflessione. - Contatto psicologico Un breve discorso a parte è opportuno per la qualità della relazione definita dalla dimensione apertura/chiusura, che fa riferimento al grado di disponibilità a comunicare in modo sincero e partecipe, e di ricettività verso la comunicazione dell’altro. L’importanza di questa dimensione relazionale è dovuta allo stretto collegamento con un concetto molto importante per la conduzione e valutazione di un colloquio, quello di contatto psicologico. Con questo termine si fa riferimento ad un complesso insieme di disposizioni verso di sé e verso l’altro che dà luogo ad una “apertura” relazionale che permette di comunicare in modo sincero, partecipato e congruente, e di essere ascoltati con interesse e partecipazione, senza distorsioni e fraintendimenti, con la consapevolezza di entrambi i partecipanti che tutto ciò sta avvenendo. Il concetto di contatto psicologico non è sovrapponibile a quello di intensità del coinvolgimento emotivo. Contatto e coinvolgimento possono, infatti, andare di pari passo, ma anche essere in relazione inversa, nel senso che alti gradi di coinvolgimento possono influire in senso negativo sul grado di contatto psicologico. Sul grado di contatto possono inoltre influire la tipologia del colloquio, il modo di condurlo e caratteristiche personali dell’intervistatore (competenza e abilità, tratti di personalità, preoccupazioni della vita quotidiana) e dell’intervistato (deficit nella percezione emozionale relativa a sé e all’altro, tipo di disagio psicologico, caratteristiche di personalità che favoriscono la chiusura, l’elusività, o un’eccessiva dipendenza affettiva o psicologica). - Congruità della dinamica relazionale L’intensità e la qualità della relazione e il grado di contatto psicologico possono variare da colloquio a colloquio sulla base delle caratteristiche dei partecipanti, in particolare dell’intervistato, se il colloquio è ben condotto. Non bisogna tuttavia dimenticare che le modalità e i contenuti dello scambio comunicativo sono in varia misura predeterminati dalle caratteristiche del colloquio o dell’intervista che s’intende condurre (grado di strutturazione, modo di conduzione, scopo, paradigma di riferimento). Le varie combinazioni di questi fattori possono dare luogo a diverse cornici (setting), ognuna delle quali delimiterà un particolare ambiente psicologico. Potrà essere un ambiente anonimo o arredato tenendo conto delle esigenze dell’intervistato o dell’intervistatore, più o meno caldo o freddo e che in ogni caso influenzerà in una qualche misura l’intensità e la qualità della dinamica relazionale. Sarà compito dell’intervistatore valutare la congruità della dinamica con la cornice e con l’ambiente psicologico entro cui si sta svolgendo un determinato colloquio. Ad esempio un’intervista strutturata con domande su temi generali non dovrebbe comportare dinamiche relazionali particolarmente intense o di qualità tale da interferire con il buon esito dell’intervista, ma se il contenuto riguarda la vita intima dell’intervistato, possiamo aspettarci delle modalità più intense e variegate di interazione. D’altra parte in un colloquio non strutturato che comporti esplicitamente una valutazione dobbiamo aspettarci di norma un certo grado di coinvolgimento emotivo e diversi gradi di cooperazione/competizione, fiducia/diffidenza, apertura/chiusura, a seconda dell’ambito di applicazione, dello scopo e dell’oggetto del colloquio. - Livelli di valutazione Una volta valutata l’intensità e la qualità della dinamica relazionale, e la congruità con il tipo di colloquio o intervista che sta conducendo, lo psicologo potrà, se necessario per lo scopo del colloquio, o per superare eventuali impasse nello scambio comunicativo, formulare delle ipotesi integrando queste informazioni con le conoscenze tratte dall’esperienza e dalle conoscenze teoriche. La finalità sarà quella di giungere ad una migliore comprensione dei bisogni e delle motivazioni che 39 promuovono una determinata dinamica relazionale, del loro fondamento in fattori contingenti come ad es. un particolare stile di conduzione e/o in esperienze del passato che possono per es. avere inciso sulla fiducia di base verso l’altro, e del loro possibile collegamento con le varie forme del disagio psicologico. Primo passo nel processo di valutazione della dinamica relazionale è dunque quello di osservarla e descriverla tenendo conto dell’intensità e della qualità della relazione. I quadri che ne possono emergere sono molti e complessi, diversi da colloquio e colloquio e all’interno dello stesso colloquio. Per averne un’idea proviamo a pensare alle quattro combinazioni delle dimensioni cooperazione/competizione e dominanza/sottomissione tenendo conto di tre possibili gradi d’intensità (alta, media e bassa). Una visualizzazione grafica mediante gli assi cartesiani ci può aiutare allo scopo. Mettiamo dunque sull’asse delle ordinate la dimensione cooperazione/competizione e sull’asse delle ascisse la dimensione dominanza/sottomissione e creiamo lungo gli assi una graduazione da uno a tre. A questo punto possiamo collocare all’interno di uno dei quadranti o lungo uno degli assi il modo di proporsi nella relazione dell’intervistatore scegliendo fra 61 possibilità e successivamente aggiungere il modo di porsi dell’intervistatore che potrà essere complementare o dare luogo ad una nuova proposta e ad una dinamica che può essere osservata e descritta secondo un andamento temporale. Successivo passo nel processo di valutazione è quello di giudicare la congruità della dinamica relazionale rispetto al tipo di colloquio o intervista che si sta conducendo. Questo per decidere se la proposta dell’intervistatore permetta un sufficiente scambio comunicativo e quindi di portare a termine in modo soddisfacente il colloquio, o se sia necessario intervenire per cercare di modificarla. Questo livello di valutazione comporta un’integrazione dell’osservazione partecipe con i dati dell’esperienza e della teoria. Lo psicologo, infatti, nel momento in cui valuta la congruità, opera un confronto fra ciò che avviene e le sue aspettative, e se c’è incongruità formula ipotesi sulle caratteristiche psicologiche dell’intervistatore e su come queste interagiscano con la cornice e l’ambiente psicologico del colloquio. Quando il tipo di colloquio lo preveda si passerà poi ad un terzo livello di valutazione che consiste nell’integrare i contenuti della comunicazione verbale con l’andamento della dinamica relazionale, congrua o incongrua che sia. Si potrà così giungere ad una valutazione globale del colloquio in relazione al suo scopo. - Dinamiche relazionali di interesse generale Come abbiamo visto parlando dell’intensità e qualità della relazione, le dinamiche che si possono creare nel corso di un colloquio psicologico sono molteplici e dipendono da vari fattori che interagiscono fra loro: tipo di colloquio, caratteristiche dell’intervistatore e dell’intervistato, e risposte che quest’ultimo riceve dall’intervistatore rispetto alle sue attese e ai suoi bisogni. Per esempio persone diverse intervistate dalla stessa persona sullo stesso argomento possono relazionarsi in modi diversi a seconda delle loro caratteristiche psicologiche, e una persona, intervistata sullo stesso argomento da persone diverse, può relazionarsi in modo diverso sulla base di caratteristiche fisiche dell’interlocutore (sesso, età, modo di vestire), o anche d’impercettibili comunicazioni di tipo non verbale (uso dello spazio, distanza interpersonale, postura, tono della voce, ecc..), che segnalano accoglimento o distanza emotiva. Entrare nel dettaglio anche solo delle più frequenti dinamiche relazionali che si possono creare, e del loro significato, è un compito che esula dagli scopi di questo corso, anche perché ogni descrizione risulterebbe statica se non inserita in uno specifico contesto, e ancorata ad un determinato paradigma teorico di riferimento. L’affinamento di queste conoscenze sarà compito dei training di formazione e dell’esperienza. In questa sede ci limiteremo a delineare alcune dinamiche d’interesse generale, che possono improntare in particolare i momenti iniziali di un colloquio psicologico e che possono porre problemi di conduzione o di analisi della domanda. Si tratta di alcune dinamiche relazionali collegate alle cosiddette misure di sicurezza, cioè strategie difensive messe in atto dall’intervistato a fronte dei timori mossi dall’asimmetria relazionale, o collegate a determinati ruoli che l’intervistato tende ad assegnare allo psicologo sulla base delle proprie aspettative e bisogni. 40 - Le misure di sicurezza Con questo termine s’intendono alcune strategie psicologiche di natura più o meno cosciente che le persone adottano per fare fronte a pericoli o minacce reali o presunte provenienti dall’interazione con altre persone. Nella situazione di colloquio psicologico, in particolare quando la motivazione è estrinseca, possono attivarsi in varia misura per il timore dell’intervistato di essere sondato e valutato al di là della propria volontà o di un giudizio negativo, per il timore che le informazioni che fornisce possano comunque danneggiarlo (Es. sfiducia nella riservatezza dello psicologo), o per il rifiuto di un ruolo e di una situazione non liberamente scelta. Le misure di sicurezza influiscono sulla dinamica relazionale e sul contenuto della comunicazione, e in alcuni casi non permettono di portare a termine il colloquio in modo soddisfacente. Possono innescare nel conduttore risposte complementari o simmetriche di tipo collusivo, e porre problemi nella conduzione del colloquio, ma anche fornire importanti informazioni. La qualità delle misure di sicurezza dipende infatti dalla personalità dell’intervistato e in particolare dal tipo di rapporto con l’autorità che ha caratterizzato la sua storia (Es. dipendenza, paura, ammirazione, ribellione, ecc..). L’intensità è influenzata dall’ambito di applicazione (Es. scolastico, giudiziario), dallo scopo del colloquio (Es. diagnosi, perizia), dalle modalità di conduzione (Es. direttività), dall’oggetto di conoscenza (Es. opinioni generali o aspetti della vita privata), e dalle caratteristiche personali dell’intervistatore (Es. età, sesso, ecc..). Scopo delle misure di sicurezza è quello di sottrarsi al ruolo imposto dal colloquio e alla richiesta di fornire informazioni su di sé. Fra le più frequenti modalità con cui si esprimono le misure di sicurezza ricordiamo: l’elusività, la seduzione compiacente, e la ribellione. L’elusione: consiste nell’apparente accettazione delle regole e delle richieste del colloquio e nel loro evitamento nei fatti mediante l’omissione di informazioni importanti, e l’offerta di informazioni generiche, banali, o altre rispetto alla domanda, evitando di esprimere ciò che realmente si sa, si pensa e si sente (Es. adolescente con motivazione estrinseca al colloquio che instaura con lo psicologo una modalità comunicativa e relazionale che mantiene il rapporto senza contrapporsi direttamente, ma senza tuttavia sottomettersi, così come fa con i genitori e con l’autorità). Modalità comunicative e relazionali elusive possono essere attuate per esempio rispondendo ad una domanda con un'altra domanda, con il parlare per allusioni o di terze persone, con l’uso del soggetto impersonale (Es. è giusto dire che…, molte persone dicono che…), dichiarando la propria ignoranza o incompetenza su un determinato argomento (Es. non saprei proprio cosa dire, non ho mai pensato a questo in modo approfondito), facendo precedere la risposta da un preambolo che attenua o inficia le affermazioni successive (Es. è solo un’impressione, non so se è vero, ecc..), depotenziando un’affermazione con una serie di ma e di se, dando più informazioni di quelle richieste in modo di avere lo spunto per cambiare argomento, sostituendo l’espressione di un sentimento con un altro più adeguato (Es. sono stanco invece di non voglio più parlare). La modalità elusiva può produrre nello psicologo un senso di insoddisfazione e di irritazione e indurre risposte collusive di tipo simmetrico (Es. imbarazzo nel porre domande) o complementare (Es. aumentare la frequenza delle domande, dare segni di insofferenza). La seduzione compiacente: si caratterizza per una modalità comunicativa e relazionale che tende ad ottenere la benevolenza e l’indulgenza dell’intervistatore. Può essere attuata mediante dichiarazioni di interesse e lusinghe (Es. commenti sull’importanza della psicologia o dell’argomento, o sulle capacità dello psicologo con frasi del tipo: come lei avrà già capito), e con risposte compiacenti rispetto alle presunte aspettative dell’intervistatore. Comporta un atteggiamento elusivo verso la presentazione di aspetti di sé positivi o negativi che si teme non accettati dall’altro (Es. evidenziare le paure e le debolezze e non i propri successi e capacità per evitare una dinamica competitiva). Può indurre nello psicologo risposte collusive di tipo simmetrico (Es. interventi di tipo rassicurativo), o complementare (Es. distanziamento emotivo, sospettosità). La ribellione: si caratterizza per un manifesto atteggiamento di non collaborazione. Nei casi più eclatanti si può manifestare con il silenzio, con la menzogna ostentata o con atteggiamenti provocatori di scherno e svalutazione dello psicologo o della sua professione. Con modalità meno evidenti si manifesta con la trasgressione delle regole implicite del colloquio psicologico, e la 41 competizione rispetto all’acquisizione di un ruolo dominante (Es. stabilire il contenuto della comunicazione, fare domande, interrompere l’altro quando parla, commentare lo scambio comunicativo, ecc..). Può indurre risposte di tipo collusivo di tipo simmetrico (Es. accettare lo scontro per ripristinare la dominanza), o complementare (Es. difesa di ufficio dello scopo del colloquio, rinuncia a portare avanti lo scambio comunicativo). 42 IL COLLOQUIO CLINICO Il colloquio clinico è uno strumento di indagine e di valutazione finalizzato a raccogliere informazioni allo scopo di comprendere e aiutare una persona che si affida alla competenza e professionalità di uno psicologo clinico. Peculiarità del colloquio clinico è quella di considerare tutte le modalità dello scambio comunicativo come una forma di conoscenza dell’altro. Presuppone che il colloquio produca risultati valutabili sulla base delle conoscenze teoriche e dell’esperienza clinica dello psicologo. Privilegia un basso grado di strutturazione del colloquio, un polo di centratura sull’intervistato, una modalità di conduzione non direttiva, uno stile di conduzione consultivo o partecipativo, e una focalizzazione su ciò che il soggetto dice, sul come lo dice, e sulle modalità relazionali Considera lo psicologo un elemento attivo che modifica il campo relazionale, e che utilizza questa specificità con consapevolezza e in modo appropriato. Questa tecnica di indagine è usata prevalentemente, ma non esclusivamente, dai clinici di orientamento psicodinamico o umanistico, e la valutazione dei dati è fortemente influenzata dal paradigma di riferimento. In un colloquio clinico ben condotto lo psicologo deve permettere e facilitare il fatto che i contenuti della comunicazione e il campo della relazione interpersonale siano stabiliti e delineati prevalentemente dal paziente. Del tutto particolare è anche il modo con cui il clinico raccoglie i dati. Egli, infatti, oltre a partecipare alla relazione, dovrebbe essere consapevole di cosa sta avvenendo, raccogliendo gli elementi che provengono dalle parole del paziente, dall’osservazione del comportamento non verbale e dal proprio vissuto emotivo. Deve ascoltare e ascoltarsi, osservare e osservarsi. Il colloquio clinico non è dunque uno strumento di facile gestione, ed è necessaria una grande capacità ed esperienza per condurre un buon colloquio. LA CORNICE O SETTING Con setting (sfondo, messa in scena) si intende l’insieme dell’ambiente sia fisico sia psicologico, all’interno del quale avviene il colloquio clinico. Il setting è un fattore situazionale che può avere importanti effetti sulla dinamica relazionale e di conseguenza anche sui contenuti del colloquio e sul processo di valutazione. Per quanto possibile il setting deve restare pertanto una variabile costante tra gli elementi stimolo dell’incontro e se è modificato, il cambiamento deve essere tenuto in considerazione. Compito dello psicologo sarà quello di avere particolare cura nel predisporre l’ambiente più adatto a fare sentire l’interlocutore a proprio agio. L’ambiente fisico del setting, vale a dire la stanza entro cui si svolge il colloquio, deve permettere la possibilità di parlare senza essere disturbati e di potersi ascoltare reciprocamente senza interferenze. Questa stanza deve dunque avere una porta che non deve essere aperta da altre persone durante lo svolgimento del colloquio, e un sufficiente isolamento acustico. Sembrano suggerimenti ovvi, ma chi lavorerà nelle istituzioni pubbliche imparerà ben presto come sia difficile difendere la stanza dai colleghi e dal personale infermieristico e amministrativo che avrà bisogno di comunicare qualcosa di urgente, o che busseranno o entreranno alla ricerca di una stanza libera o per prendere qualche oggetto precedentemente dimenticato, e chi giovane psicologo affitterà una stanza in un appartamento moderno, insieme con altri colleghi, non dovrà stupirsi, se non prende adeguati provvedimenti, di fare colloqui in stereofonia con le voci che provengono dalla stanza accanto. Anche il telefono è un elemento di intrusione importante, e la sua presenza nella stanza non è consigliabile. Un telefono che squilla, oltre che creare nella mente di entrambi i partecipanti fastidio e curiosità, può interrompere una sequenza comunicativa importante; tanto più rispondere alla telefonata di un familiare o peggio di un altro paziente può distrarre la mente dello psicologo anche per lungo tempo, e creare nella mente del cliente dubbi sulla piena disponibilità dello psicologo 43 all’ascolto e dubbi sulla sua riservatezza. In un colloquio senza queste interferenze il paziente apprezzerà molto il constatare che siamo disponibili solo per lui e che rispettiamo la sua intimità. Dell’aspetto fisico della stanza fanno parte anche il colore delle pareti, la luce e l’arredamento. Un colore neutro o gradevole delle pareti e una luce non troppo intensa contribuirà a creare un ambiente confortevole e accogliente. Per quanto riguarda l’arredamento, è bene ricordare, come segnalato in precedenza, che è un canale di comunicazione non verbale, e che sarà recepito come tale dal cliente, che su tale base può formarsi un pregiudizio, che assimila le caratteristiche dell'arredamento alla competenza e alla personalità del clinico. Detto questo, un utile suggerimento per il proprio studio privato, è quello di arredare l’ambiente secondo il proprio gusto, evitando sia un eccessivo anonimato, sia un eccessiva pretenziosità. Due poltroncine comode, poste alla stessa altezza, né troppo vicine alla distanza intima né troppo lontane rispetto alla distanza personale, senza l’interposizione di una scrivania, che tuttavia difficilmente mancherà negli studi pubblici, oltre a permettere un buono scambio comunicativo, eviteranno una definizione non verbale di dominanza dello psicologo nella relazione. L’ambiente fisico contribuisce, dunque, anche alla creazione dell’ambiente psicologico del setting, ma ancora più determinante per quest’ultimo sarà la presenza dello psicologo che con la sua gestalt (è buona regola evitare di presentarsi con aspetto trasandato, abiti troppo eccentrici o pose stravaganti) e la sua mente può segnalare accoglimento o distanza emotiva. In un setting ottimale la mente dello psicologo deve essere libera da preoccupazioni e pregiudizi, disponibile ad un ascolto attento e ad un interesse genuino, consapevole del proprio stile comunicativo verbale e non verbale, e del fatto che l’interlocutore non ci racconterà una storia che abbiamo già ascoltato, ma una nuova storia, che forse ci ricorderà altre storie. Qualche ultima notazione, infine, su due altri aspetti del setting: la durata dell’incontro e il prendere appunti durante il colloquio. Un tempo di 45-50 minuti è di solito sufficiente per acquisire informazioni, senza stancare né chi parla né chi ascolta. Nel caso che sia necessario un ulteriore approfondimento, o che lo psicologo ritenga opportuna una pausa di riflessione prima della restituzione, è buona regola dare un secondo appuntamento, o anche un terzo. Per quanto riguarda il prendere appunti durante il colloquio, l’argomento è fonte di controversia fra chi sostiene che tale pratica permette la stesura di un resoconto cartaceo più fedele, e chi ne sottolinea gli aspetti di interferenza sull’ascolto dello psicologo e di possibile fonte di disagio per il paziente e di interferenza nei contenuti della sua comunicazione, se lo scrivere dello psicologo viene interpretato come segno dell’importanza o meno di ciò che viene detto in quel momento. Un buon compromesso può essere quello di prendere il minimo di annotazioni durante il colloquio e il massimo dopo, monitorando le reazioni del paziente. Ancora più controverso è l’uso della videoregistrazione del colloquio, perché all’eventuale vantaggio della fedeltà del resoconto si contrappone lo svantaggio dell’ineludibile comparsa della fantasia di un terzo osservatore, e ciò può alterare la relazione e la comunicazione di entrambi i partecipanti. Tale tecnica dovrebbe essere pertanto limitata, previo consenso del interlocutore, ai soli colloqui con fini di ricerca. I PRELIMINARI Riguardano il momento che va dal momento in cui per la prima volta lo psicologo sente parlare o comunica direttamente con la persona con cui effettuerà il colloquio, al momento in cui i due interlocutori si siedono uno di fronte all’altro. Il paziente può arrivare al clinico tramite consiglio di un medico o di un collega, su pressione dei famigliari, oppure di sua libera iniziativa. Può capitare, quindi, che sia il cosiddetto inviante a parlare per primo allo psicologo dei problemi del paziente, fornendo a volte una propria diagnosi o indicazioni su cosa si aspetta dal nostro intervento. Queste situazioni vanno attentamente valutate in quanto possono ingenerare nello psicologo delle aspettative e dei pregiudizi che potranno interferire con il futuro ascolto del diretto interessato; nel caso poi che l’inviante sia un genitore o il coniuge 44 del paziente è bene accertare, prima di prendere un appuntamento, se l’interessato è stato informato della telefonata e se è motivato all’incontro. Quando è il cliente ha telefonare per chiedere l’appuntamento la situazione è più semplice, ma non priva di potenziali insidie. Di norma la richiesta è effettuata con poche parole, e l’appuntamento può essere fissato senza problemi, ma può capitare che la persona inizi per telefono un racconto delle sue vicende, che costringe lo psicologo ad un gentile, ma fermo invito a rimandare ciò al momento del colloquio. Inoltre, anche il prendere l’appuntamento può dare luogo in alcuni casi ad una complessa trattativa, per esempio con quei pazienti per i quali qualsiasi ora o giorno è troppo tardi, e con quelli che hanno già un impegno per ogni giorno od ora proposta. Nel primo caso è bene aderire nei limiti del possibile all’urgenza se si ha l’impressione di un paziente gravemente depresso, consigliare il nome di uno psichiatra se percepiamo un rischio di scompenso psicotico, e restare fermi sull’ora libera più vicina per le altre situazioni. Nel secondo caso sarà inevitabile che nella mente dello psicologo si formi, una sensazione di fastidio e un pregiudizio sulle reali motivazione del suo interlocutore. Ulteriore momento di questa fase preliminare è quello dell’arrivo del paziente nella stanza del colloquio e l’incontro con lo psicologo. Come in ogni appuntamento ci sarà la persona che arriverà all’ora stabilita spaccando il secondo, chi arriverà in anticipo e chi con variabile ritardo, e la possibilità che ciò corrisponda ad un tratto caratteriale si affaccerà nella mente dello psicologo. A ciò seguirà l’incontro fisico, l’eventuale proposta di stretta di mano o qualche segnale non verbale di non desiderarla, la visione del volto, dell’aspetto fisico e del modo di vestire ecc. che potranno veicolare messaggi sullo stato d’animo, sulla capacità di prendersi cura di sé, sul piacere o sulla vergogna dell’esibirsi, e quant’altro. Tutto questo è di nuovo fonte di pregiudizi che uno psicologo clinico esperto dovrà trasformare come quelli considerati in precedenza come ipotesi al momento senza conferma. LA FASE INIZIALE Una volta che il paziente si è seduto di fronte allo psicologo inizia il colloquio clinico vero e proprio. Se abbiamo ricevuto delle informazioni sul paziente da altre persone è sempre meglio comunicarle al paziente all’inizio del colloquio, così come è consigliabile chiarire i limiti temporali e le modalità con cui si svolgerà il colloquio. La fase iniziale del colloquio (che può durare pochi minuti, o occupare quasi tutto il tempo di un primo incontro) deve essere dedicata prevalentemente all’ascolto di ciò che il cliente desidera spontaneamente dire sui motivi che lo hanno indotto a consultare uno psicologo, e all’osservazione della dinamica relazionale che propone, ed eventuali richieste di chiarimenti devono essere rimandate ad un momento successivo. Compito dello psicologo sarà quello di facilitare la comunicazione e una adeguata dinamica relazionale, dimostrando attenzione ed interesse, e contemporaneamente raccogliere gli elementi che provengono dalle parole del paziente, dall’osservazione del comportamento non verbale e dal proprio vissuto emotivo. L’uso del “lei” di cortesia è prassi abituale nei colloqui con gli adulti, e la richiesta dell’uso del “tu” da parte di giovani adulti, va sempre valutata per il possibile significato di attuazione di una misura di sicurezza. Di solito è sufficiente un cenno della mano per dare inizio alla conversazione, ma se lo psicologo nota qualche difficoltà può incoraggiare il proprio interlocutore con frasi del tipo: “Qual è il motivo che la spinta a chiedere quest’incontro”, o, “Mi racconti cosa la preoccupa”, ecc.. Un silenzio prolungato all’inizio del colloquio è un’evenienza rara, se accade, di solito è un segno di uno stato di angoscia, la cui origine è bene esplorare subito, o di una motivazione estrinseca. I contenuti della comunicazione del paziente saranno, ovviamente, i più vari, tuttavia vi sono alcune aperture del discorso che ricorrono con frequenza (Semi, 1985). Una prima apertura tipica è quella del comunicare subito i sintomi o il problema, proseguendo poi con qualche racconto che li contestualizza; in alcuni casi alla descrizione dei sintomi segue il silenzio e l’attesa di un intervento dello psicologo, che dia un senso a qualcosa che viene vissuto come incomprensibile (per es. un 45 attacco di panico), ed estraneo a se stessi e alla propria storia. Una seconda apertura tipica è quella di chi inizia con un preambolo che può riguardare la propria storia passata o qualche evento del contesto di vita presente. Questo preambolo quasi sempre è indicativo di una connessione causale, proposta più o meno consapevolmente dal cliente, fra il contesto storico o l’evento di vita presente e il motivo della consultazione. In qualche caso il preambolo consiste nel comunicare il nome del collega o del medico inviante, o dell’amico che ha suggerito il nome dello psicologo, forse anche nella speranza di ottenere una maggiore attenzione. Per quanto riguarda le caratteristiche delle dinamiche relazionali che si possono attivare nel corso di questa prima parte del colloquio, molto è già stato detto nella parte generale di questo scritto, ed è sufficiente ribadire l’attenzione particolare a non instaurare atteggiamenti collusivi di fronte all’attivazione di misure di sicurezza, o di atteggiamenti transferali che veicolano la richiesta allo psicologo di assumere il ruolo del genitore che conforta e solleva da ogni preoccupazione, o del medico che con una ricetta risolve ogni male, o del giudice che può decretare la colpa della persona o rendere giustizia per i torti subiti. LA FASE CENTRALE. Inizia nel momento in cui nella mente dello psicologo cominciano ad apparire in modo sufficientemente chiaro delle idee sotto forma di ipotesi e fantasie; idee che nascono da una prima valutazione delle comunicazioni del paziente e dalle sensazioni prodotte dalla dinamica relazionale; idee che sono filtrate dalla propria esperienza di vita, dalla pratica clinica e dalla propria teoria di riferimento, e che produrranno il desiderio di approfondire qualcosa che il paziente ha detto, o di avere qualche informazione in più sulla vita del paziente. La fase centrale, dunque, concerne soprattutto la richiesta e la raccolta di informazioni su queste aree che lo psicologo vuole approfondire, o che non sono emerse durante il resoconto spontaneo del paziente, e che sono ritenute utili alla comprensione del problema che ha condotto il cliente ad interpellarlo. Il colloquio in questa fase tenderà di conseguenza ad assumere le caratteristiche del colloquio orientato, perché la comunicazione sarà guidata dalle ipotesi e dalle opinioni che lo psicologo si è costruito nella fase iniziale, e alcune delle aree esplorate potranno in parte coincidere con quelle dell’esplorazione biografica di un’intervista anamnestica (per es. eventi di vita rilevanti dell’infanzia e del presente e risorse del paziente nel farvi fronte, composizione e clima affettivo della famiglia di origine, vita affettiva e lavorativa attuale, relazioni sociali ecc.). Assume inoltre rilievo lo scopo del colloquio. Il porre domande apparentemente è una cosa semplice, ma nei fatti non lo è. Innanzitutto lo psicologo deve avere ben chiaro cosa vuole chiedere e a che scopo, e fare attenzione che a che le domande non suonino inquisitorie per il paziente o inutilmente intrusive. Una buona conoscenza della funzioni delle domande e del corretto modo di formularle è sicuramente di aiuto. Giovannini (1998) così le sintetizza: Funzione delle domande nel colloquio clinico La funzione principale delle domande in un colloquio clinico è quella di ottenere informazioni da parte dell’intervistato. Indipendentemente dalla volontà dell’intervistatore le domande possono assolvere anche altre funzioni: - Focalizzano l’attenzione dell’intervistato sull’oggetto della domanda. Viene cioè indicato indirettamente che riteniamo importante l’argomento. - Possono mettere in rilievo nessi fra aree tematiche o fra vari aspetti di una situazione. - Possono creare un ordine nella successione degli avvenimenti. - Possono orientare sulla causa, sullo scopo, sul modo. - Possono spostare l’osservazione dal generale al particolare e viceversa. - Possono avere una funzione di punteggiature all’interno della relazione, introducendo un cambiamento d’argomento o di clima emotivo. 46 - Possono essere utilizzate per modificare la comunicazione dell’intervistato quando il soggetto è incapace o vuole evitare di mettere a fuoco una determinata questione o quando una comunicazione eccessivamente verbosa, senza pause, e non significativa ai fini dello scopo del colloquio viene utilizzata come misura di sicurezza. - Possono veicolare un giudizio o un’aspettativa dell’intervistatore. Formulazione delle domande - Meglio porre una domanda per volta. Le domande costituite da più parti producono confusione e possono rendere inutilizzabile una risposta sintetica. - Devono essere chiare, prive di ambiguità e poste con termini semplici e lentezza, senza dare cose per scontate. - Evitare frasi, termini, aggettivi o elementi paralinguistici che indichino valutazioni e preferenze dell’intervistatore. - Avere chiaro che cosa si vuole ottenere da ogni domanda. - Evitare l’uso della negazione perché può orientare la risposta, e della doppia negazione perché può generare incomprensione e può essere difficile valutare il si o il no della risposta. - Evitare le domande retoriche o che in ogni modo mascherino un’affermazione. - Quando possibile introdurre la domanda con il come piuttosto che con il perché (es. come è avvenuta la sua scelta… piuttosto che perché ha scelto…). L’espressione perché.. può avere una connotazione inquisitoria e può apparire una richiesta di giustificazione, inoltre il soggetto potrebbe non conoscere la risposta e attenderla dallo psicologo. Quando desideriamo approfondire il tema verbalizzato dall’intervistato senza rimandare la domanda ad un momento successivo è utile utilizzare una delle tecniche di rilancio: - Semplice ripresa del contenuto (per es. In che senso…; Può dirmi qualcosa di più.. ; Vorrei capire meglio..). - Il rilancio a specchio, che consiste nella ripetizione ad eco di una frase, o di un concetto, o delle ultime parole pronunciate dall’intervistato. - Riassunto sintetico delle ultime cose dette (per es. Se ho capito bene..; Per riassumere..; Mi sembra che lei mi abbia detto..). Si usa quando si fa riferimento a concetti o frasi troppo articolate per un rilancio a specchio, o quando si vuole introdurre un nuovo tema puntualizzando la connessione, o vogliamo anche un riscontro della nostra comprensione di quanto detto. Se lo riteniamo utile possiamo anche anticipare ciò che l’intervistato ha quasi detto. LA FASE CONCLUSIVA E’ il momento della restituzione, o in altre parole il momento in cui lo psicologo, tenendo conto del motivo per cui è stato consultato, comunica all’intervistato le impressioni che ha tratto dal colloquio e le conclusioni cui è giunto. Può essere effettuata prima del termine del colloquio o in un incontro successivo. Una buona restituzione può avere un importante valore terapeutico e può fornire ulteriori elementi di valutazione; necessita pertanto di un adeguato spazio di tempo e deve essere condotta seguendo alcuni criteri: - Evitare il linguaggio tecnico che può essere frainteso o non capito. - Attenersi il più possibile al linguaggio e all’esperienza del soggetto, aderendo il più possibile ai dati del colloquio per oggettivare quanto si sostiene. - Evitare qualsiasi dogmatismo e genericità. - Non comunicare troppe cose tutte assieme. - Scegliere cosa dire sulla base di cosa l’intervistato è in grado di utilizzare, comunicando con tatto e contatto, evitando di intellettualizzare o di essere troppo protettivo. - Sul piano della forma, solitamente è bene proporre la restituzione sotto forma di ipotesi con richiesta di feedback. In alcuni casi (timore di una sottovalutazione di un problema serio; uso da parte dell’intervistato del dubbio in forma ossessiva; necessità di un intervento immediato) può essere necessario essere fermi e procedere per affermazioni. 47 - Il motivo della consultazione, la storia della persona e la situazione di vita del momento può orientare la ricostruzione nel senso di una restituzione di tipo ricostruttivo globale, tendente cioè a fornire una lettura del problema attuale in relazione con le vicende affettive e relazionali della storia dell’intervistato, o mirata su un aspetto specifico ripetitivo nella vita della persona, o dominante nella situazione attuale. Il feedback del paziente all’intervento di restituzione può fornire nuove ed importanti informazioni che possono integrare le ipotesi dello psicologo. Al di là di questo, è bene stimolare il paziente ad esprimere la propria opinione su quanto detto, per avere un riscontro di quanto è stato compreso e di quanto è stato frainteso o non recepito. Gli ultimi minuti sono inoltre un’occasione importante per valutare il modo in cui un paziente si confronta con l’ansia di separazione. Indizi della presenza di difficoltà sono per esempio anticipare lo psicologo nel decretare la fine del colloquio, o il protrarre la conversazione sulla soglia dello studio. Il colloquio non finisce con l’uscita del paziente dalla stanza, in quanto sia il paziente sia il terapeuta possono continuare a pensare a quanto è successo: nuove connessioni possono venire in mente, dubbi o perplessità posso sorgere. Se il colloquio è stato proficuo, lo psicologo avvertirà la sensazione di avere fatto bene il suo lavoro, e il paziente se ne andrà con la consapevolezza di una visione differente della sua situazione e della possibilità di ricevere aiuto per le sue difficoltà. Testi di riferimento e di approfondimento Baldaro B., Baldoni F., Ravasini C. Il colloquio clinico. In G. Trombini (A cura di). Introduzione alla clinica psicologica. Bologna: Zanichelli, 1998. Del Corno F., Lang M. (A cura di). Elementi di psicologia clinica. Milano: Franco Angeli, 2005. Del Corno F., Lang M. (A cura di). La relazione con il paziente. Milano: Franco Angeli,1996. Del Corno F., Lang M. (A cura di). Modelli di colloquio in psicologia clinica. Milano: Franco Angeli,1997. Giovannini D ( A cura di) Colloquio psicologico e relazione interpersonale. Roma: Crrocci, 1998. Lis A., Venuti P., De Zordo M.R. Il colloquio come strumento psicologico. Firenze: Giunti, 1991. Quadrio A. Il colloquio in psicologia. Bologna: Il Mulino, 1997. Semi A.A. Tecnica del colloquio. Milano: Cortina, 1985. Trentini G. (A cura di). Manuale del colloquio e dell’intervista. Torino: UTET, 1995. Trentini G. (A cura di). Teoria e prassi del colloquio e dell’intervista. Roma: La Nuova Italia Scientifica, 1989. 48 I TEST PSICOLOGICI INTRODUZIONE DEFINIZIONE DI TEST Un test psicologico è una tecnica standardizzata di valutazione, che permette di posizionare un individuo, relativamente ad una data caratteristica psicologica, all’interno dello spettro di variabilità che quella caratteristica possiede nella popolazione. USO DEI TEST IN PSICOLOGIA CLINICA I test in psicologia clinica possono essere utilizzati per: valutare il funzionamento psichico, normale o patologico, o singole funzioni di esso; rilevare tratti di personalità che si presume siano predittivi di comportamenti futuri, normali o patologici. I test, dunque, forniscono dati per: - formulare una diagnosi. - individuare il trattamento più adeguato per quel determinato paziente od il punto focale del trattamento. - valutare l’andamento del trattamento od il suo esito finale in termini di miglioramento della funzione esaminata. - effettuare uno screening1, ad esempio all’interno del metodo epidemiologico. SCELTA DEL TEST Le scelta dell’utilizzo di un test o di una batteria di test non deve seguire le “simpatie” dello psicologo clinico, ma deve essere effettuata in base al tipo di informazione che si vuole ottenere ed in base all’obiettivo per il quale è stato richiesto l’uso del test. Prima di utilizzare qualsiasi test lo psicologo clinico dovrebbe conoscerne l’orientamento teorico, le caratteristiche pratiche, la validità, l’attendibilità e la standardizzazione. Orientamento teorico Ogni test ha come suo fondamento la definizione del costrutto teorico all’interno del quale è inserita la variabile che si vuole misurare2, ed è costruito, per esempio, sulla base di specifici modelli descrittivi o esplicativi della personalità e del disturbo psichico. Pertanto ciascun test può dare solo un predeterminato tipo d’informazione, che a sua volta assume senso solo se è inserita all’interno di un paradigma compatibile con quello che è alla base della costruzione del test. Caratteristiche pratiche Quando si sceglie di applicare un test è necessario domandarsi prima se il paziente è in grado di comprendere ed eseguire quel determinato test, e se la preparazione di chi lo somministra è adeguata. La validità di un test Per validità si intende il fatto che un test misuri effettivamente la caratteristica presa in considerazione: se intendo valutare la presenza o meno di sintomi d’ansia, lo strumento che ho a disposizione deve essere adeguato a tale scopo. Esistono diversi tipi di validità: Validità di contenuto È determinata valutando se un test prende in esame tutti i possibili aspetti del fenomeno che vuole misurare. Nel caso dell’ansia, per esempio, il questionario dovrebbe prevedere domande che spazino dagli aspetti più strettamente biologici e fisiologici a quelli che riguardano le disfunzioni affettive e comportamentali. 1 diagnosi precoce per rilevare soggetti a rischio o portatori di malattia. in testologia si intende le corrispondenza tra fatto empirico e numero, dove il numero non indica una quantità ma una posizione (vedi definizione di test). 2 49 Validità predittiva Corrisponde alla capacità di un test di prevedere qualcosa che riguarda il futuro dei soggetti in esame sulla base dei risultati ottenuti dal soggetto al test (per es. la capacità di predire l’andamento di un disturbo o l’esito di una terapia). Validità concorrente\discriminante. Per valutare la validità concorrente (o concomitante)/discriminante ci si basa su un confronto contemporaneo con altri strumenti che misurano la stessa variabile (ad es. punteggi ad un test d’ansia confrontati con i valori della misura della conduttanza cutanea) o una variabile opposta (ad es. uno strumento che misura l’estroversione deve dare risultati diversi da quelli di uno strumento che misura l’introversione; se i risultati fossero parzialmente sovrapponibili dedurremmo che entrambi gli strumenti o uno di essi non riesce a cogliere in maniera esclusiva la variabile indagata). Validità di costrutto. Prevede un esame attento del costrutto teorico che sta alla base del test, per esempio, nel caso di un test che valuta la depressione, una disamina di una serie di variabili previste dal costrutto, come ad esempio eventi stressanti recenti, esperienze di perdita o di separazione nell’infanzia, tendenza ad assumersi la responsabilità per gli eventi negativi, ideali di comportamento poco realistici ecc.; il passo successivo prevede delle ricerche atte a confermare la relazione fra i risultati al test e le variabili dedotte dal costrutto. Questa procedura comporta una approfondita conoscenza della dimensione psicologica che il test intende valutare ed sicuramente di non facile applicazione, ma consente sia un’efficace validazione del test, sia una verifica importante di una teoria. Attendibilità di un test Questa proprietà che deve possedere un test è indicata anche con i termini di affidabilità, fedeltà, replicabilità. Un reattivo viene considerato attendibile quando, applicato in tempi diversi alla stessa persona (anche da parte di persone diverse e in luoghi differenti) dà risultati simili. Un certo grado di variabilità nei punteggi è comunque ineliminabile (per es. a causa di errori di somministrazione, caduta di attenzione del testando, condizioni ambientali diverse, intrinseca poca stabilità nel tempo della condizione psicologica esaminata, come nel caso dell’ansia), per cui la valutazione dell’attendibilità si basa su una stima del grado di stabilità dei risultati, saggiata seguendo quattro possibili metodi. 1) Metodo del test-retest: consiste nell’applicare, a distanza di tempo, due volte lo stesso test ad un gruppo di soggetti e nel calcolare il coefficiente di correlazione per determinare il grado di concordanza dei risultati ottenuti nelle due applicazioni. Più alta è la correlazione e tanto maggiore è l’attendibilità del test. Questo metodo è influenzato dal tempo che intercorre fra le due somministrazioni a causa delle vicende di vita che possono accadere o dell’evolvere di una psicopatologia. 2) Metodo delle forme parallele: richiede la costruzione di due versioni comparabili del test, che sono somministrate ad uno stesso gruppo una di seguito all’altra, o comunque senza frapporre un ampio intervallo di tempo. Il coefficiente di correlazione fra i due test darà una stima dell’attendibilità. Si applica per motivi di praticità, o quando si vogliono evitare le distorsioni del metodo del test-retest, evitando parimenti che i soggetti rispondano ricordando le risposte alla prima prova. 3) Metodo della divisione a metà (split half): l’insieme delle varie prove o degli item che formano un test viene diviso in due parti in modo tale che si possano considerare come due forme parallele, anche se ridotte, del test originale. Il coefficiente di correlazione fra i punteggi delle due metà del test darà una stima dell’attendibilità, o per meglio dire in questo caso della 50 coerenza interna del test. Il metodo della coerenza interna può anche essere applicato alle risposte date ai singoli item attraverso il calcolo dell’alfa di Cronbach. 4) Metodo della concordanza dei giudizi: si applica quando il risultato di un test si basa sul giudizio del clinico o comunque implica un certo grado di soggettività nell’assegnazione dei punteggi. Il metodo si basa sulla valutazione del grado di concordanza tra i giudizi espressi da operatori diversi sulle prove di uno stesso gruppo di soggetti. Standardizzazione La standardizzazione implica la predeterminazione delle norme e delle procedure che riguardano la somministrazione, la siglatura, la valutazione e l’interpretazione del test, regole che devono restare costanti per evitare il bias3 dato da chi somministra, sigla e interpreta il test. La standardizzazione di un test comporta dunque: 1) Che le istruzioni siano uguali per tutti i soggetti. 2) Che tutti i soggetti vengano sottoposti con modalità costanti alle stesse domande, alle stesse prove, o alle stesse situazioni stimolo. 3) Che l’attribuzione dei punteggi o la siglatura del test sia definita in anticipo e in modo chiaro. 4) Che siano disponibili i dati normativi relativi alla popolazione generale a cui il soggetto sottoposto al test appartiene. Senza questi dati non sarebbe possibile dare significato alla siglatura del test. 3 deviazione sistematica rispetto ad un andamento generale, in questo caso l’intervento della variabile sperimentatore. 51 I TEST PROIETTIVI DI PERSONALITÀ I test proiettivi sono strumenti di valutazione della personalità e della psicopatologia, che si avvalgono di stimoli standardizzati poco strutturati, vaghi e senza un significato determinato, e che lasciano al soggetto ampia libertà nella risposta, secondo il senso che lo stimolo ha per lui. Il razionale di questi test si fonda sull’ipotesi proiettiva (da non confondere con il meccanismo di difesa della proiezione), che presuppone che le persone percepiscono e organizzano, in modo inconsapevole, gli stimoli dell’ambiente, e in particolare quelli ambigui, secondo le proprie memorie, desideri, sentimenti, timori, bisogni, conflitti ecc.., per cui le risposte fornite al test sarebbero indicative della personalità dell’esaminando. I test proiettivi sono utilizzati prevalentemente dai clinici di orientamento psicodinamico, perché permettono di evidenziare aspetti della personalità non consapevoli e pertanto non evidenziabili con i questionari di autovalutazione. Presentano tuttavia importanti limiti che riguardano la validità, attendibilità e standardizzazione, e pertanto dovrebbero essere somministrati da clinici con notevole esperienza e specifica preparazione. I test proiettivi a disposizione degli psicologi sono molti, nel nostro corso ci soffermeremo su due dei più noti e utilizzati nella pratica clinica: il test di Rorschach e il TAT (Tematic Apperception Test). IL TEST DI RORSCHACH Il test di Rorschach è il più noto ed usato test proiettivo in psicologia clinica. Fu ideato dallo psichiatra svizzero Hermann Rorschach, inizialmente per studiare la relazione fra percezione e personalità, e successivamente, quando notò che le risposte erano influenzate anche da vissuti personali e dalla presenza di una psicopatologia, per ottenere indicazioni diagnostiche a partire dal modo in cui i soggetti interpretano gli stimoli proposti. Il test è composto da 10 tavole, in cui, su sfondo bianco, sono riprodotte delle immagini ottenute lasciando cadere delle gocce d’inchiostro su un foglio di carta che successivamente veniva piegato in due per ottenere due immagini simmetriche rispetto ad un asse centrale. Sette tavole sono di colore grigio e nero, in due di queste è presente anche il colore rosso, e tre tavole sono variamente colorate. Le tavole sono di forma rettangolare, con lato superiore ed inferiore prestabiliti. Dopo la prematura morte di Rorschach, la mancanza di criteri chiari relativi alla somministrazione, siglatura e interpretazione del test, ha dato luogo a modi diversi di utilizzarlo, e solo negli anni ’70 le ricerche di Exner hanno portato ad un sistema di somministrazione standardizzato, ad una siglatura condivisa e ad un data base normativo che permette un confronto fra le risposte dell’esaminando e il suo gruppo d’appartenenza (Sistema Comprensivo di Exner). Il sistema di Exner, che propone una interpretazione del test prevalentemente di tipo quantitativo e ateorico, ha migliorato le caratteristiche psicometriche di attendibilità e validità dello strumento, e per questo negli ultimi anni il suo utilizzo, specialmente nell’ambito della ricerca si sta sempre più diffondendo. Molti clinici, in particolare quelli ad orientamento psicodinamico, ritengono tuttavia che l’approccio di tipo quantitativo porti ad una sostanziale riduzione delle informazioni che il test è in grado di dare, e per questo preferiscono usare metodi intrerpretativi, come quello della scuola svizzera di Passi Tognazzo o quello di Lerner che integra l’approccio quantitativo con una interpretazione qualitativa collegata ad un modello teorico. Somministrazione La tecnica consigliata prevede che la somministrazione del test avvenga in una stanza ben illuminata, con esaminando e psicologo seduti ad angolo retto allo stesso tavolo, sul quale sono preparate capovolte e in ordine prefissato le dieci tavole del test. Una breve istruzione (Ora le mostrerò delle tavole e lei mi dirà cosa potrebbero essere), accompagna il gesto di porre nelle mani dell’esaminando la prima tavola, e da inizio alla prova. Il 52 soggetto è libero di dare più risposte, anche se questo non viene precisato se non su precisa domanda (Exner ha proposto un elenco delle domande più frequenti e delle risposte più opportune). Durante la somministrazione delle tavole lo psicologo annota, nella prima di tre colonne di un foglio di registrazione, tutte le risposte, la posizione della tavola al momento della risposta, il tempo totale del test (alcuni autori registrano anche il tempo che intercorre fra la presentazione di ogni tavola e la prima risposta alla stessa), ed eventuali commenti ed espressioni del viso dell’esaminando. In caso di non risposta ad una o più tavole, Exner propone di incoraggiare il soggetto a rispondere, mentre altri autori sono dell’opinione di accettare il rifiuto senza commenti. Al termine della presentazione delle 10 tavole, è prevista un’inchiesta finalizzata a chiarire eventuali dubbi relativi a quale parte della tavola si riferisca una determinata risposta, e a quali siano state le caratteristiche della macchia che hanno determinato la risposta. Le risposte dell’esaminando sono annotate sulla seconda colonna del foglio di registrazione. Infine, una volta congedato l’esaminando, lo psicologo procede alla siglatura delle risposte, che viene annotata nella terza colonna del foglio di registrazione. Siglatura Tutti gli autori concordano su una classificazione di ogni risposta secondo tre dimensioni di base (localizzazione, determinanti e contenuto), a cui si aggiunge una quarta dimensione relativa alla frequenza statistica della risposta. Vi sono peraltro divergenze, a seconda delle varie scuole di pensiero, sul numero di categorie che fanno parte delle tre dimensioni principali, sulle sigle utilizzate per indicare le singole categorie, e su eventuali dimensioni aggiuntive. In Italia la maggior parte dei clinici ha come riferimento il metodo di siglatura della scuola svizzera di Passi Tognazzo, negli ultimi anni si sta peraltro diffondendo il metodo di siglatura di Exner, mentre alcuni clinici di orientamento psicoanalitico preferiscono utilizzare la siglatura di Lerner . Metodo di Passi Tognazzo Comporta la siglatura delle risposte in base alla localizzazione, alle determinanti, ai contenuti, e alla frequenza statistica. Localizzazione: comporta la siglatura della risposta secondo l’area della tavola a cui si riferisce (l’intera figura o dettagli più o meno grandi). G: è primario quando la risposta è relativa alla macchia nella sua totalità e risulta da un unico atto percettivo (es. farfalla alla Tav. I). Può essere anche simultaneo (la risposta globale è costruita con più elementi percepiti simultaneamente, es. due angeli che sollevano una donna alla Tav. I) o combinatorio (quando gli elementi vengono uniti successivamente, es. alla Tav. VIII due orsi, al centro un albero. Gli orsi si stanno arrampicando su un albero appoggiandosi su una roccia). DG: risposta globale costruita a partire da un dettaglio (es. alla Tav. V un coniglio, a partire dalla testa con le orecchie). È confabulatoria se non considera la forma delle altre parti dell’insieme (es. alla Tav. V una lumaca, a partire dalla testa con le corna). DdG: risposta globale costruita a partire da un dettaglio piccolo (es.alla Tav. VI un gatto, a partire dai baffi). Gbi: risposta globale in cui le parti bianche assumono il ruolo di completamento della figura ( es. alla Tav. I muso di animale, dove i dettagli bianchi interni sono gli occhi) Γ: risposta globale incompleta (es. alla tavola II non sono considerati i rossi superiori) 53 D: quando riguarda un dettaglio grande che per la sua forma e posizione costituisce una unità a sé (es. farfalla Tav. III rosso centrale), o quando un dettaglio piccolo è interpretato molto di frequente. Dd: quando riguarda un dettaglio piccolo interpretato poco frequentemente. DdD: se la risposta dettaglio è costruita a partire da un dettaglio piccolo (es. Tav. VI testa di gatto, a partire dai baffi). Dbi: quando riguarda uno spazio bianco (es. trottola Tav. II bianco centrale). DbiD o DbiDd se lo spazio bianco contribuisce ad una risposta di dettaglio grande o piccolo. Do: parte di una figura umana che di solito viene vista completa (es. Tav. III teste di uomini). Determinanti: la siglatura si riferisce alla caratteristica della tavola che ha determinato la risposta (la forma , il colore, il movimento, o il chiaroscuro). F: quando è la forma della macchia o della parte della macchia a determinare la risposta. È la determinante più frequente; l’aggiunta dei segni + e – indica inoltre la qualità della percezione, a seconda che la risposta corrisponda sufficientemente o meno alla forma della macchia. M: quando la risposta si riferisce ad una figura umana vista in movimento (es. Tav. due uomini che sollevano qualcosa). Se la figura è un animale la siglatura è FM, se è un oggetto inanimato la siglatura è m ( es. vulcano in eruzione). C: quando è il colore a determinare in modo esclusivo la risposta (es. sangue, erba); la siglatura FC è utilizzata quando la risposta è stata determinata primariamente dalla forma e secondariamente dal colore, mentre si sigla CF quando il colore predomina sulla forma, e Cn se il colore è solo nominato. Cho: quando è solo l’impressione del chiaroscuro diffuso a determinare la risposta (nebbia, fumo); quando la forma concorre nel determinare la risposta si utilizzano le siglature FCho e ChoF, se sono le diverse sfumature di grigio a determinare la risposta si sigla F(C)). Contentuti: la siglatura consiste nell’indicazione della classe di appartenenza di ciò che l’esaminando ha visto nella tavola. Le categorie più comuni sono siglate per mezzo di abbreviazioni: A: contenuto animale (es. un pipistrello), Ad se la risposta si riferisce solo ad una parte di un animale (es. la testa di…) U: contenuto umano, Ud se si riferisce solo ad una parte del corpo, (U) se si riferisce a esseri fantastici. Anat: parti interne del corpo (per es. colonna vertebrale). Sex: indica una risposta a contenuto sessuale. Ogg: oggetti o cose inanimate. Pt: sta per pianta e si riferisce a risposte a contenuto vegetale. Nat: sta per natura e si riferisce a risposte tipo montagna, lago ecc. Arch: sta per architettura e si riferisce a risposte tipo chiesa, monumento ecc. Geo: indica una risposta geografica tipo isola ecc. Altre risposte si segnano senza abbreviazioni (es. sangue, nuvole ecc.). Frequenza statistica: alcune risposte possono essere classificate in base alla loro frequenza in una data popolazione in banali (Ban), che sono risposte date da almeno un soggetto su sei (è disponibile un elenco), e originali (Orig), cioè risposte che compaiono raramente e che sono siglate con un + o con un – a seconda della qualità della forma. 54 Metodo di Exner Il sistema comprensivo di Exner prevede una siglatura di ogni risposta secondo cinque dimensioni: localizzazione, qualità evolutiva, determinanti, qualità formale, contenuto. Localizzazione: si riferisce alla parte della macchia che corrisponde alla risposta. W: risposta globale. D: risposta di dettaglio comune (area della macchia identificata di frequente). Dd: risposta di dettaglio inconsueto. S: risposta di spazio bianco Qualità evolutiva: si riferisce alla qualità dell’organizzazione della risposta. DQ+: risposta sintetizzata (due o più parti della macchia sono descritte con forme specifiche e in relazione fra loro, ad es. due uomini che ballano attorno ad un palo). DQv/+: risposta sintetizzata di tipo vago (due o più parti della macchia sono descritte senza forma specifica e in relazione fra loro, ad es. nuvole che si muovono). DQo: risposta ordinaria (la risposta è relativa ad un’area specifica della tavola che ha una forma che ben si adatta al contenuto espresso, ad es. farfalla). DQv: risposta vaga (ciò che viene visto non ha una forma specifica). Determinanti: caratteristica della tavola che ha determinato la risposta (la forma , il colore, il movimento, o il chiaroscuro). F: risposta basata esclusivamente sulla forma della macchia. M: risposta di movimento umano, FM se di movimento animale, m se di movimento inanimato. Il movimento viene specificato in attivo o passivo. C: risposta di colore cromatico puro (es. sangue), CF se il colore è associato alla forma (verde come una foglia), FC se la forma è associata al colore (es. farfalla rossa), Cn se il colore è solo nominato. C’: risposta di colore acromatico puro (il grigio, il bianco, o il nero sono intesi come colori, es. fango nero), C’F se il colore acromatico è associato alla forma (es. pezzo di carbone nero), FC’ se la forma è associata al colore acromatico (es. pipistrello nero). Y: risposta di chiaroscuro puro (es. il crepuscolo), YF se il chiaroscuro puro è associato alla forma (es. radiografia con diverse sfumature), FY se la forma è associata al chiaroscuro puro (nuvole chiare e scure). T: risposta chiaroscuro tattile pura (qualcosa di appiccicoso), TF se si associa alla forma (es. pelle liscia), FT se la forma si associa al chiaroscuro tattile (es. mantello di pelliccia). V: risposta che interpreta il chiaroscuro come effetto di profondità o dimensionalità (questa parte è più in basso o sporgente), VF o FV se è associata alla forma. FD: risposta di dimensionalità basata sulla forma pura (es. uomo inclinato all’indietro). Fr: risposta di forma vista come immagine riflessa o speculare. Qualità formale: codifica la bontà o la povertà della forma quando nella risposta, qualsiasi sia la determinante è presente una forma più o meno specificata. FQ+: qualità formale superiore superelaborata. FQo: qualità formale ordinaria. FQu: qualità formale singolare o insolita. FQ-: qualità formale negativa. Contenuti: codifica sulla base della classe di appartenenza dell’oggetto della risposta. Sono previste sigle per 27 classi di contenuti. 55 Alcune risposte sono valutate in base ad ulteriori categorie, quali: risposte Pari (risposte che basandosi sulla simmetria delle macchie descrivono oggetti identici che non sono visti come figure riflesse), risposte Popolari (risposte che compaiono in almeno un protocollo su tre), Attività organizzativa (riguarda le risposte che includono la forma e che soddisfano alcuni specifici criteri), siglature speciali che includono verbalizzazioni devianti, combinazioni inappropiate, logica inappropiata ecc.. Metodo di Lerner Comporta la siglatura delle risposte in base alla localizzazione, alle determinanti, al livello formale ai contenuti, e alle verbalizzazioni devianti. Localizzazione: siglatura della risposta secondo l’area della tavola a cui si riferisce (l’intera figura o dettagli più o meno grandi). W: quando la risposta è relativa alla macchia nella sua totalità. D: quando riguarda un dettaglio grande identificato di frequente. Dd: quando riguarda un dettaglio piccolo. Dr: dettaglio raro. De: dettaglio esterno (non si riferisce ad un’area vera e propria, ma a una parte del contorno). S: quando riguarda uno spazio bianco. Do: dettaglio oligofrenico (area della macchia che di solito è vista come parte di una risposta globale o di dettaglio grande). Determinanti: la siglatura si riferisce alla caratteristica della tavola che ha determinato la risposta. F: quando è la forma della macchia o della parte della macchia a determinare la risposta. M: quando la risposta si riferisce ad una figura umana vista in movimento. Se la figura è un animale la siglatura è FM. C: quando è il colore a determinare in modo esclusivo la risposta; la siglatura FC è utilizzata quando la risposta è stata determinata primariamente dalla forma e secondariamente dal colore, mentre si sigla CF quando il colore predomina sulla forma. Cc: colore sfumato. Si usa quando la tessitura o la gradazione contribuisce alla risposta colore (es. sangue annacquato). Le siglature FCc e CFc segnalano il contributo della forma alla risposta. Ch: quando è solo l’impressione del chiaroscuro diffuso a determinare la risposta (es. nebbia, tutto e confuso con questo chiaroscuro); quando la forma concorre nel determinare la risposta si utilizzano le siglature FCh (es. pelle di animale, per il contorno e perché sembra peloso) e ChF (es. nuvole, sembrano morbide e hanno il contorno delle nuvole). Fcarb: forma colore arbitrario, si usa quando il colore è incompatibile con la forma (es. orsi rossi). C’: risposta di colore acromatico (es. colore nero), C’F se il colore acromatico è associato alla forma (es. nuvole tempestose, sono nere e hanno il contorno delle nuvole), FC’ se la forma è associata al colore acromatico (es. pipistrello nero). Fc: quando il chiaroscuro è usato per articolare una risposta forma (es. una faccia, la parte più scura è la bocca e queste macchie più chiare sono gli occhi). Livello formale: si riferisce al grado di pertinenza percettiva fra la risposta e la sua localizzazione, indica cioè la buona definizione o la vaghezza della risposta fornita. F+: risposta convincente, accuratamente percepita e ben articolata. Fo: risposta accurata, ma che viene vista comunemente. Fw+: risposte vaghe, ma accettabili. L’esaminatore deve sforzarsi un po’ per vedere la risposta. Fw-: risposte deboli, poco congruenti con la localizzazione, difficili da vedere per l’esaminatore. F-: risposte che non mostrano alcuna congruenza con l’area considerata. 56 Fv: la forma è vaga (es. nuvole, fumo). Fs: forma deteriorata. Una risposta accettabile è distorta o indebolita da una specificazione incongruente (un uomo con la coda pelosa). Contentuti: la siglatura consiste nell’indicazione della classe di appartenenza di ciò che l’esaminando ha visto nella tavola. A: forma animale intera. Ad se solo una parte. H: figura umana intera. Hd: parte di figura umana. Anat: risposte anatomiche. Sex: indica una risposta a contenuto sessuale. Obj: oggetti o cose inanimate. Pt: sta per pianta e si riferisce a risposte a contenuto vegetale. Nat: sta per natura e si riferisce a risposte tipo montagna, lago ecc. Arch: sta per architettura e si riferisce a risposte tipo chiesa, monumento ecc. Geog: indica una risposta geografica tipo isola ecc. Bl: sangue. Cl: nuvole. Cloth: risposte relative al vestiario. Verbalizzazioni devianti: sono risposte che tengono poco conto delle propietà percettive della macchia, o che sono eccessivamente arricchite con elaborazioni associative Fab: risposta fabulata (risposte con una elaborazione affettiva inappropiata, ma accettabile, es. una faccia di lupo arrabbiata). Incom: combinazione incongrua (dettagli o immagini della macchia sono fusi insieme inappropiatamente in un unico oggetto, es. un pollo a due teste) Fab-Comb: combinazione fabulata (due percetti visti in modo accurato sono combinati in modo arbitrario, es. due castori che si arrampicano su un cono gelato). Confab: confabulazione (risposte connotate in senso affettivo con creazione di una fantasia, es. un uomo minaccioso che sta venendo a prendermi). Contam: contaminazione (due percetti separati sono fusi in un unico percetto, es. un coniglio pipistrello). Alog: logica inappropiata (risposte giustificate con una base logica poco convenzionale, es. il polo nord perché è in cima). Pec: verbalizzazione peculiare (risposta fuori del comune, che potrebbe essere appropiata al di fuori della situazione testistica (es. due elefanti in punta di piedi). Queer: verbalizzazione bizzarra (verbalizzazioni inusuali che non sarebbero considerate convenzionali e appropiate al di fuori della situazione testistica, es. mi ricorda il sesso femminile) Vague: vaghezza (la vaghezza non è riferita alla forma, ma all’indecisione, es. potrei dire pipistrello, ma non so, forse queste potrebbero essere le ali). Conf: confusione (si riferisce ad una confusione implicita nella risposta o nel vissuto o nella comunicazione, es. potrebbero sembrare dei topi, no sono procioni o scoiattoli e stanno passando sopra questa farfalla). Incoh: incoerenza (materiale estraneo o irrilevante si insinua nella risposta e la disorganizza, es. una scena subacquea. Il rosso è come quello della maglietta di mio fratello dopo l’incidente. Che confusione! Forse sono pesci che lottano). Siglature addizionali:si situano al di fuori delle cinque categorie principali, e sono utilizzate per sottolineare aspetti specifici del processo di risposta. C denial, C’ denial, Ch denial: la determinante è menzionata ma in forma di negazione (non penso per il rosso). 57 C ref, C’ ref, Ch ref: la determinante è riferita, ma non è integrata nella risposta ( es. le parti rosse sono dei cavallucci marini). C avoid, C’ avoid, Ch avoid: nel giudizio dell’esaminatore la determinante è implicita nella risposta, ma non è esplicitamente espressa durante l’inchiesta (due donne africane. Inchiesta: perché hanno i colli lunghi). C impot, C’ impot, Ch impot: il soggetto commenta l’incapacità ad usare una determinante (vedo i colori, ma non posso costruirci niente). C sym: il colore è usato in modo simbolico o intellettuale (es. per i colori penso al bene e al male). m: movimento ascritto ad un oggetto inanimato (es. vulcano in eruzione). La valutazione del protocollo Dopo aver classificato le risposte a ciascuno dei dati viene dato un particolare significato psicologico, tale significato non deve essere utilizzato in modo rigido ed il protocollo dovrà essere interpretato come un tutto unitario dove ciascun elemento si inquadrerà in un contesto globale. Il metodo della Passi Tognazzo prevede inizialmente un’analisi quantitativa del protocollo basata sul calcolo delle frequenze e percentuali delle varie categorie di siglatura, dati che sono riassunti in uno psicogramma. La lettura quantitativa verte su tre dimensioni: approccio mentale, affettività e adattamento sociale. L’analisi quantitativa viene successivamente integrata da un’analisi qualitativa che tiene conto di alcuni fenomeni particolari, quali: 1) lo choc (espressioni di stupore o disagio, tempo di reazione ritardato, ecc..) al colore , al rosso, al chiaroscuro, al contenuto, cinestesico; 2) il rifiuto di una o più tavole; 3) cambiamenti di posizione delle tavole; 4) consapevolezza dell’atteggiamento interpretativo; 5) espressioni verbali con significato d’insicurezza; 6) perseverazione; 7) risposte posizione; 8) autoriferimenti; 9) espressioni mimiche; risposte posizione; 10) risposte non classificabili come vere risposte; 11) risposte tattili e di colore scuro. Il metodo di Exner propone una valutazione del protocollo basata essenzialmente su un approccio psicometrico che tiene conto prevalentemente di aspetti quantitativi interconnessi fra loro. La valutazione prende l’avvio dal sommario strutturale, costituito dall’insieme delle frequenze, proporzioni e percentuali delle siglature, disposte su un foglio di spoglio predisposto per una elaborazione computerizzata; altri fattori presi in esame sono le siglature delle risposte e la loro sequenza, le verbalizzazioni prodotte durante l’associazione libera e durante l’inchiesta. Le dimensioni prese in considerazione per l’interpretazione dei dati sono: 1) affetti, 2) controllo, 3) ideazione, 4) mediazione, 5) percezione interpersonale, 6) percezione di sé, 7) elaborazione dell’informazione. Il metodo di Lerner, che ha ampliato e aggiornato le idee di Rapaport, propone una lettura del test di tipo sostanzialmente qualitativo che prende in considerazione cinque fonti d’informazione: 1) aspetti formali delle risposte, incluse le siglature e le loro interelazioni, 2) il contenuto delle risposte incluso l’atteggiamento del soggetto nei confronti di queste ultime, 3) la sequenza delle risposte, 4) il comportamento del paziente durante la somministrazione, comprese le verbalizzazioni spontanee, 5) la natura e l’andamento della relazione fra esaminando e clinico. Ogni fonte viene prima considerata separatamente e poi integrata con le altre al fine di giungere ad una valutazione che comprende la struttura del carattere, l’organizzazione del pensiero, l’organizzazione degli affetti, le dinamiche centrali, le difese prevalenti, e le indicazioni al trattamento. Testi di approfondimento: Passi Tognazzo (1968) Il metodo Rorschach: elementi di tecnica psicodiagnostica. Firenze: Giunti e Barbera. Lis, Pinna, Zennaro (1999). Il test di Rorschach: introduzione al sistema comprensivo di Exner. Padova: Unipress. Lerner (2000) Il Rorschach: una lettura psicoanalitica. Milano: Raffaello Cortina. 58 IL TAT Il Thematic Apperception Test di Murray (1943) rappresenta il prototipo di test proiettivo tematico, che si basa sull’assunto che gli stimoli ambientali vengano percepiti e interpretati, in modo inconsapevole, sulla base dei propri bisogni, stati d’animo attuali, e memorie di esperienze passate. Il test si propone di valutare la personalità in un’accezione globale (anche se non sempre ben definita), avendo come riferimento teorie orientate in senso psicodinamico. Attualmente sono in atto ricerche volte ad integrare la lettura psicodinamica del test con una prospettiva di tipo cognitivo Il test è composto da 31 tavole, in trenta delle quali sono riprodotte delle immagini che raffigurano personaggi umani da soli o in situazioni sociali, mentre una è bianca. Alcune tavole sono applicabili a tutti i tipi di soggetti, altre solo ai maschi o alle femmine, altre ancora agli adolescenti o agli adulti. La batteria differenziata per ogni tipo di soggetto è composta di 20 tavole, somministrate in due sedute di 10 immagini ciascuna. Le immagini della seconda serie sono volutamente poco usuali, più drammatiche di quelle del primo gruppo. Sebbene Murray (1943) sostenesse che tutti i soggetti dovessero essere sottoposti a tutte le venti tavole del test nel corso delle due sedute successive, nella pratica i clinici spesso scelgono un numero di tavole che va da 6 a 10, selezionando per ciascun paziente le tavole che elicitano temi che si pensa siano pertinenti ai conflitti ed alle preoccupazioni del soggetto. Il TAT nasce originariamente come espressione della teoria dei bisogni-pressioni di Murray, una teoria dialettica della personalità che considera come determinanti del comportamento umano sia le componenti psicobiologiche sia quelle ambientali. I due costrutti centrali della sua teoria sono i bisogni e le pressioni. I bisogni sono intesi come forze interne (bisogni primari: fame, sete, sesso; secondari: dominanza, autonomia, ecc..) che organizzano la scelta degli aspetti del mondo che sono percepiti e il significato che viene dato ad essi, e che forniscono energia al comportamento nella direzione della loro soddisfazione. Le pressioni fanno riferimento alle forze ambientali (obiettive e reali o soggettive) che contrastano che la persona si è proposta di conseguire. Istruzioni La richiesta che viene fatta all’esaminando è quella di raccontare per ciascuna tavola una storia che contenga le motivazioni che hanno determinato la situazione mostrata nella figura, la descrizione di cosa avviene in quel momento e di ciò che i personaggi sentono e pensano, ed infine di come si concluderà la vicenda. L’interpretazione Nella pratica clinica vengono formulati due tipi di “lettura” del TAT, una di tipo formale e una di contenuto. La lettura formale riguarda il modo con cui il soggetto costruisce o presenta il racconto e la sua leggibilità, lettura che fornisce importanti informazioni sul funzionamento cognitivo e affettivo della mente dell’esaminando e sulla presenza di un’eventuale psicopatologia; la consegna data all’esaminando richiede infatti una complessa articolazione di capacità quali: identificare i protagonisti e il problema del racconto, collocare gli eventi lungo una dimensione temporale, attribuire pensieri desideri ed emozioni ai personaggi, porre i personaggi in relazione, ed infine identificare una soluzione o comunque un finale. La lettura riferita al contenuto riguarda i conflitti, le emozioni e le caratteristiche delle relazioni dei personaggi del racconto, visti in un’ottica psicodinamica. Il metodo originale di analisi delle storie proposto da Murray era basato sull’analisi dei bisogni del protagonista (indipendenza, sottomissione, successo, protezione, ecc..), delle pressioni dell’ambiente (coercizione, seduzione, aggressività, ecc..), e degli eventuali conflitti che potevano insorgere. 59 Bellak ha proposto un sistema di valutazione del test basato su 10 variabili: tema principale, eroe principale, bisogni e pulsioni dell’eroe, concezione dell’ambiente, modalità di rappresentazione delle figure, conflitti significativi, natura dell’angoscia, principali difese contro i conflitti e le paure, adeguatezza del Super-Io, livello d’integrazione dell’Io. È un sistema di valutazione di orientamento psicodinamico, che prende in considerazione sia gli aspetti formali del racconto, intesi come indicatori dell’integrità delle funzioni dell’Io, sia i contenuti delle storie, intesi come indicatori dell’organizzazione strutturale della personalità, della presenza di conflitti, e delle difese messe in atto. Una lettura del test in chiave psicodinamica è stata proposta anche da autori americani afferenti all’indirizzo della psicologia dell’Io, che focalizzano l’attenzione sulle caratteristiche formali del racconto (conformità alla consegna, e dei personaggi alla storia), e sul contenuto (caratterizzazione dei personaggi, sentimenti espressi ecc..). Recentemente Westen ha messo a punto uno strumento di interpretazione del test basato su una valutazione multidimensionale delle relazioni oggettuali e della cognizione sociale (SCORS: Social Cognition and Object Relations Scales). Lo strumento è articolato in quattro scale, che misurano la complessità delle rappresentazioni degli altri (grado di differenziazione fra sé e l’altro), il tono affettivo della relazione (qualità affettiva delle rappresentazioni delle persone e della relazione), la comprensione della causalità sociale (capacità di comprendere le motivazioni, intenzioni, e pensieri di chi compie l’azione), e la capacità d’investimento emotivo nelle relazioni e negli standard morali. 60 I QUESTIONARI DI PERSONALITÀ I questionari di personalità fanno parte dei cosiddetti strumenti oggettivi di misura delle caratteristiche psicologiche. Richiedono un’autodescrizione delle proprie caratteristiche, sulla base di risposte ad asserzioni che possono applicarsi o meno al soggetto, e forniscono una rappresentazione quantitativa delle caratteristiche studiate. Possono essere costruiti sulla base di una specifica teoria della personalità o empiricamente. I questionari di personalità presentano, come tutti i test, problemi di validità e attendibilità, e pertanto lo psicologo prima di utilizzare lo strumento deve conoscerne le caratteristiche psicometriche. Sono spesso usati con finalità diagnostiche, ma i dati devono sempre essere integrati dal giudizio clinico. Il più noto e utilizzato questionario di personalità è il MMPI-2. MMPI-2 Il Minnesota Multiphasic Personality Inventory-2 (MMPI-2) è un questionario di autovalutazione costruito per individuare caratteristiche strutturali della personalità e la presenza di disturbi psicologici. È costituito da 567 item che comportano risposte dicotomiche (vero/falso). Può essere facilmente somministrato sia a singoli individui, sia a gruppi di persone. Per la sua leggibilità e comprensione è richiesto un grado di istruzione conseguibile con il completamento della scuola dell’obbligo. Un minimo di cooperazione e di impegno è necessario per rispondere in modo adeguato al questionario. Il test possiede meccanismi di controllo interni (scale di validità), che permettono di rilevare se i criteri sopra indicati vengono soddisfatti. È la versione aggiornata del MMPI, questionario elaborato verso la fine degli anni ’30, da Hathaway e McKinley. Il MMPI nella sua forma originaria è stato costruito su base empirica, sottoponendo a vari gruppi di pazienti con diagnosi di uno specifico disturbo mentale (ipocondria, depressione, isteria, psicopatia, paranoia, psicoastenia, schizofrenia, ipomania), e a soggetti normali, rappresentativi della popolazione del Minnesota, un numeroso gruppo di asserzioni indicative di problemi psicologici. Per ogni gruppo di pazienti furono individuati gli item che lo discriminavano sia dai normali, sia dagli altri gruppi clinici, e gli item così ottenuti furono raggruppati in otto scale cliniche (Hs, D, Hy, Pd, Pa, Pt, Sc, Ma), a cui furono aggiunte due scale addizionali (mascolinitàfemminilità e introversione sociale) e quattro scale dette di validità o di controllo, atte a valutare i possibili atteggiamenti nei confronti del test (Non so, Menzogna, Frequenza, e Correzione), per un totale di 550 item. Rispetto alla versione MMPI originaria, il MMPI-2 è stato modificato con la modernizzazione del contenuto e della forma linguistica di alcuni item, l’eliminazione di item considerati intrusivi, ambigui o obsoleti, e l’aggiunta di nuovi item. Il test nella sua forma definitiva ha mantenuto le 10 scale cliniche e le scale di validità tradizionali, a cui sono state aggiunte 3 scale di controllo (VRIN, TRIN, F-Back), 15 scale di contenuto, e alcune scale supplementari. Dal 1992 è disponibile anche la forma per adolescenti (MMPI-A), composta da 478 item, riducibili a 350. 61 Scale cliniche Scala 1 – Hs: Ipocondria. “Questa misura fu sviluppata con un gruppo di pazienti nevrotici che mostravano una preoccupazione eccessiva per la loro salute, presentavano una varietà di disturbi somatici con origine organica scarsa o assente, e non accettavano le ripetute assicurazioni di non avere niente dal punto di vista fisico. Alcuni item di questa scala riguardano particolari sintomi o specifici disturbi, ma molti altri concernono una preoccupazione più generale per il corpo o verso se stessi” (Hataway e McKinley, 1995)1. Scala 2 – D: Depressione. “Questa scala fu sviluppata con pazienti psichiatrici che presentavano varie forme sintomatiche di depressione, principalmente pazienti con reazioni depressive o in fase depressiva della psicosi maniaco-depressiva. Gli item che formano questa scala non si riferiscono solo a sensazioni di scoraggiamento, pessimismo e disperazione, che caratterizzano il quadro clinico delle persone depresse, ma anche ad aspetti della personalità di base riguardanti eccessivo senso del dovere, standard personali elevati e intrapunitività” (Hataway e McKinley, 1995). Scala 3 – Hy: Isteria. “Questa scala fu costruita con pazienti che manifestavano forme di disturbi sensoriali o motori, per i quali non era stata riscontrata nessuna base organica. Alcuni dei 60 item componenti la scala concernono specifici disturbi fisici o stati d’agitazione, ma molti altri item implicano negazione di problemi nella propria vita, o mancanza d’ansia sociale, spesso osservata in persone che utilizzano questo tipo di difese” (Hataway e McKinley, 1995). Scala 4 – Pd: Deviazione Psicopatica. “Questa scala fu sviluppata con soggetti indirizzati al servizio psichiatrico per chiarire il motivo dei loro continui problemi con la legge, sebbene non fossero culturalmente deprivati, possedessero un’intelligenza normale e non avessero seri disturbi di tipo nevrotico o psicotico. Alcuni item presenti in questa scala riguardano la disponibilità ad ammettere questo tipo di problemi, altri item riflettono il disinteresse per la maggior parte delle norme sociali e morali di condotta” (Hataway e McKinley, 1995). Scala 5 – Mf: Mascolinità-Femminilità. “Gli item di questa scala riguardano vari tipi di reazioni emotive, interessi, atteggiamenti e sentimenti verso il lavoro, i rapporti sociali e gli hobby, che di solito differenziano uomini e donne” (Hataway e McKinley, 1995). Scala 6 – Pa: Paranoia. “Questa scala fu sviluppata inizialmente con un gruppo di pazienti che presentavano condizioni di tipo paranoideo, o stati paranoidi. Il contenuto degli item riflette sia ipersensibilità nei rapporti interpersonali, sia la tendenza a fraintendere le motivazioni e le intenzioni degli altri. Alcuni item riguardano l’insicurezza e la tendenza a centrarsi sulla propria persona” (Hataway e McKinley, 1995). Scala 7 – Pt: Psicastenia. “Questa scala fu sviluppata, inizialmente, con pazienti che manifestavano problemi di tipo ossessivo, rituali compulsivi o paure esagerate, scelti tra i soggetti nevrotici che venivano indicati, a quell’epoca, come sofferenti di psicastenia (una debolezza nel controllo mentale delle azioni e dei pensieri), corrispondente all’attuale designazione di disturbo ossessivocompulsivo. Mentre alcuni contenuti degli item riguardano queste varie sintomatologie, la scala nel suo insieme riflette stati generalizzati d’ansia e preoccupazione, ma anche esplicita adesione ad alti standard di moralità, atteggiamento autocritico in caso di insuccesso, controllo dei propri impulsi” (Hataway e McKinley, 1995). Scala 8 – Sc: Schizofrenia. “Questa scala fu derivata da un gruppo di pazienti psichiatrici con manifestazioni del disturbo schizofrenico. Il contenuto degli item riguarda un’ampia varietà di bizzarre convinzioni, esperienze insolite e percezioni particolari, che sono caratteristiche di tali pazienti” (Hataway e McKinley, 1995). Scala 9 – Ma: Ipomania. “Questa scala fu sviluppata con pazienti nei primi stadi di un episodio maniacale del disturbo maniaco-depressivo. Il contenuto degli item prende in considerazione alcuni aspetti comportamentali di questa condizione e caratteristiche ad essa associate (ambizione eccessiva, estroversione ed elevati livelli di aspirazione)” (Hataway e McKinley, 1995). Scala 0 – Si: Introversione sociale. “Questa scala fu sviluppata da Drake (1946) con campioni di studenti di college che ottenevano punteggi estremi alla scala introversione-estroversione sociale 1 Hataway e McKinley (1995). Manuale MMPI-2. O.S. Firenze (Adattamento italiano di P. Pancheri e S. Sirigatti). 62 del Thinking-Social-Emotional Introversion Inventory (Evans e McConnel, 1941). Punteggi superiori alla media rispecchiano livelli crescenti di timidezza sociale, preferenza per attività da svolgere da soli e carenza di assertività sociale. Punteggi sotto la media indicano, viceversa, tendenze verso la partecipazione e la dominanza sociale” (Hataway e McKinley, 1995). Scale di validità 1)“ ? “ (Non so): non costituisce una vera e propria scala, si tratta di un semplice conteggio del numero di item cui il soggetto non ha dato risposta, o a cui ha dato contemporaneamente le risposte “vero” e “falso”. Un alto numero di mancate risposte riduce la validità del profilo (Hataway e McKinley, 1995). 2)“ L “ (Lie-Menzogna): individua il tentativo consapevole, ma ingenuo, di presentare se stesso in una luce favorevole. E’ composta da 15 item in cui vengono affermati piccoli difetti, ai quali il 95% della popolazione risponde “vero”. Sebbene possa indicare la tendenza a mentire nel compilare il test, la scala L non può essere considerata come una misura della tendenza generale a mentire, falsificare o ingannare gli altri nella vita quotidiana. Questa scala serve piuttosto come indice della probabilità che un determinato protocollo sia stato alterato a causa di un determinato stile di risposta (Hataway e McKinley, 1995). 3)“ F “ (Frequency): è composta da 60 item, a cui è stato risposto affermativamente da meno del 10% della popolazione adulta “normale”. Persone che non vogliono aderire alle istruzioni possono simulare l’esecuzione del test, rispondendo in realtà in modo casuale agli item. Altri soggetti con istruzione e competenza nella lettura assai limitate, o che sono in contatto precario con la realtà, possono fare la stessa cosa. Altri ancora possono deliberatamente esagerare le loro difficoltà e le loro preoccupazioni per assicurarsi una considerazione o un’attenzione speciale. Ognuno di questi atteggiamenti verso il test può determinare punteggi elevati in questa scala. Esistono alcuni criteri per discriminare, a seconda dei risultati, tra queste tre possibilità (Hataway e McKinley, 1995). 4)“ K “ (Correction): Riguarda caratteristiche che molti soggetti preferiscono negare a se stessi e ai loro familiari. E’ composta da 30 item individuati in protocolli di pazienti clinicamente malati che avevano ottenuto però profili normali. Riguarda caratteristiche che molti soggetti preferiscono negare a se stessi e ai loro familiari. Alti punteggi possono indicare una tendenza inconsapevole al diniego della patologia. La scala “K” fornisce un “fattore di correzione” da applicare ad alcune scale cliniche (Hataway e McKinley, 1995). 5)“Fb” (Back-page Infrequency): ne fanno parte 40 item e viene utilizzata insieme con la scala “F”, i cui item compaiono prevalentemente nella prima parte del foglio di somministrazione. Gli item della “Fb”, presenti successivamente nel protocollo, permettono di individuare se un soggetto, le cui risposte sono valide in base alla scala “F”, ha smesso di prestare attenzione al contenuto degli item, rispondendo in modo casuale. Qualora il protocollo sia già invalidato in base alla scala “F”, la “Fb” diventa inutile (Hataway e McKinley, 1995). 6)“VRIN” (Variable Response Inconsistency): si basa su 67 coppie di item, di contenuto simile o opposto. Attraverso questa scala, soprattutto se confrontata con la scala “F”, si può avere una possibilità di discriminazione più precisa fra modalità di risposta casuale, tentativi deliberati di falsificare i dati, confusione e psicopatologia (Hataway e McKinley, 1995). 7)“TRIN” (True response Inconsistency): utilizza 23 coppie di item di significato fra loro opposto. Valuta la tendenza a rispondere, in modo indiscriminato, in senso affermativo o negativo (Hataway e McKinley, 1995). 63 Scale supplementari Sono disponibili varie scale addizionali costruite, sulla base dell’analisi fattoriale o su base empirica, per facilitare l’interpretazione delle scale di base, ed aumentare la varietà dei problemi clinici esaminati. Nell’interpretazione delle scale non sono specificati i valori di soglia assoluti per punteggi alti e bassi. In generale, punti T superiori a 65 dovrebbero essere considerati come elevati, e punti T inferiori a 40 dovrebbero essere considerati bassi. Scala A (Ansietà -Anxiety). Punteggi elevati indicano ansia, disagio e turbamento emozionale generalizzato, mentre punteggi bassi indicano l’assenza di disagio e tensione emotiva, o la tendenza a preferire l’azione alla riflessione. Scala R (Repressione -Repression). Alti punteggi indicano la tendenza ad essere convenzionali, sottomessi e far di tutto per evitare situazioni spiacevoli o contrasti. Le persone che ottengono bassi punteggi tendono ad essere disinvolte, energiche, disinibite, informali, piene di entusiasmo per la vita, aggressive e dominanti. Scala Es (Forza dell’Io -Ego Strength) Fu costruita per valutare la capacità di trarre beneficio da una psicoterapia. Si può considerare una misura di adattabilità, di capacità di recupero, di intraprendenza e di efficienza. E’ un buon indicatore generale di salute psicologica. Scala MAC-R (Scala MacAndrew di Alcolismo Rivista). Punteggi elevati possono essere associati ad una propensione generale alla tossicodipendenza, e alla tendenza a correre rischi. Le persone che ottengono bassi punteggi tendono ad essere introverse, timide, e con poca fiducia in se stesse. Scala O H (Ostilità ipercontrollata -Overcontrolled hostility). Misura la capacità di tollerare le frustrazioni senza reagire. Fu costruita confrontando le risposte di detenuti violenti e non violenti. Alti punteggi indicano una tendenza a rispondere di solito adeguatamente alle provocazioni. Punteggi bassi possono indicare aggressività. Scala Do (Dominanza -Dominance). Fu costruita confrontando le risposte di studenti molto o poco dominanti nelle relazioni interpersonali. Alti punteggi sono associati a intraprendenza, sicurezza, perseveranza, capacità di leadership, bassi punteggi a sottomissione, influenzabilità, senso di inadeguatezza. Scala Re (Responsabilità sociale –Social responsability). Fu costruita confrontando le risposte al test di studenti classificati dai compagni o dagli insegnanti sulla base del loro grado di responsabilità. Alti punteggi indicano la tendenza a percepirsi e essere percepiti come affidabili, onesti e responsabili nei confronti del gruppo. Scala Mt (Disadattamento universitario- College maladjustment). Fu costruita per distinguere gli studenti universitari in base al loro adattamento emotivo. È utile per identificare la presenza di problemi emozionali, ma non è predittiva di future difficoltà di adattamento. Scale GM e GF (Ruolo del genere maschile e femminile – Masculine and feminine gender role). Furono costruite sulla base degli item scelti dalla maggioranza degli uomini e da meno del 10% delle donne, e dalla maggioranza delle donne e da meno del 10% degli uomini. Scale PK e PS (Scale di Disturbo Post-traumatico da Stress – Post Traumatic Stress Disorder scales). La scala PK fu costruita confrontando veterani della guerra del Vietnam con disturbi psichiatrici e disturbo Post- Traumatico da Stress o senza questa ulteriore complicazione. La scala PS fu costruita confrontando reduci dal Vietnam con buon adattamento emotivo con reduci con Disturbo Post- Traumatico da Stress, senza altri disturbi psichiatrici. Le due scale non sono correlate e possono essere usate contemporaneamente. Scala MDS (Scala di disagio coniugale – Marital Distress Scale). È stata costruita per identificare la presenza di disagio e contrasti nell’ambito delle relazioni di coppia. Scala APS (Scala di Tossicodipendenza Potenziale –Addiction Potential Scale). Punteggi elevati suggeriscono un’elevata probabilità di problemi legati all’abuso di sostanze in assenza di altri significativi disturbi psicologici. Gli item riguardano dimensioni della personalità o situazioni di vita associate con l’abuso di sostanze, e non contengono riferimenti espliciti all’assunzione di alcool o droghe. 64 Scala AAS (Scala di Ammissione di Tossicodipendenza –Addiction Ammission Scale). Consiste di item concernenti l’abuso di sostanze ed è usata ad integrazione della scala APS. Scale di contenuto A differenza delle altre scale del MMPI-2, gli item che compongono queste scale non sono stati selezionati su base empirica, ma sono stati raggruppati sulla base dell’omogeneità del loro contenuto. Sono utilizzate per sviluppare e integrare le ipotesi interpretative delineate dall’interpretazione delle scale cliniche. ANX (Ansia - Anxiety). Le persone con alti punteggi in questa scala riferiscono sintomi generali di ansia (es., tensione, disturbi del sonno, preoccupazioni, scarsa concentrazione, ecc.). FRS (Paure – Fears). Un punteggio elevato in questa scala indica una persona con molte paure specifiche. OBS (Ossessività – Obsessiveness). Le persone con alti punteggi sono eccessivamente preoccupate, hanno grande difficoltà nel prendere decisioni, sono portate a rimuginare eccessivamente su argomenti e problemi. DEP (Depressione – Depression). Punteggi elevati in questa scala caratterizzano le persone con pensieri significativamente depressivi. HEA (Preoccupazione per la Salute – Health Concerns). Le persone con alti punteggi riferiscono molteplici sintomi fisici, riguardanti apparati diversi. Si preoccupano della loro salute e si sentono più malati della media delle persone. BIZ (Ideazione Bizzarra – Bizzarre Mentation). Processi di pensiero di tipo psicotico caratterizzano le persone con punteggio elevato in questa scala. ANG (Rabbia – Anger). Alti punteggi denotano problemi di controllo della rabbia. CYN (Cinismo – Cynism). Tendenze alla misantropia caratterizzano coloro che ottengono alti punteggi. ASP (Comportamenti Antisociali – Antisocial Practices). Gli individui con un alto punteggio riferiscono problemi di comportamento durante gli anni di scuola e abitudini antisociali che li hanno portati ad avere guai con la legge, come furti o taccheggi. TPA (Tipo A – Type A). Le persone con alto punteggio sono ipermotivate, si muovono rapidamente e sono centrate sul lavoro, diventano spesso impazienti, irritabili e infastidite. LSE (Bassa Autostima – Low Self-Esteem). Punteggi elevati sono caratteristici di persone con bassa stima di sé, che non credono di piacere agli altri e hanno numerosi atteggiamenti negativi verso se stesse. SOD (Disagio Sociale – Social Discomfort). Le persone con alto punteggio, quando sono in mezzo alla gente, si sentono inadeguate ed imbarazzate, si percepiscono come timide e preferiscono stare per conto proprio. FAM (Problemi Familiari – Family Problems). Le persone con alti punteggi dichiarano notevoli contrasti in famiglia. WRK (Difficoltà sul Lavoro – Work Interference). Un alto punteggio è indicativo di comportamenti o atteggiamenti che, probabilmente, contribuiscono a prestazioni lavorative scadenti. TRT (Indicatori di Difficoltà di Trattamento – Negative Treatment Indicators). Punteggi elevati indicano persone con atteggiamenti negativi verso i medici e i trattamenti riguardanti la salute. 65 Somministrazione Il test in Italia è disponibile in forma di libretti di 12 pagine che contengono i 567 item sotto forma di frasi (es. Mi sveglio fresco e riposato tutte le mattine; Mai sono felice a meno che non sia in giro o in viaggio; Ho pensieri strani d insoliti ecc..), ad ognuna delle quali il soggetto deve rispondere barrando con una crocetta la lettera V (vero) o F (falso) posta accanto alla frase, a seconda che ritenga la frase dell’item vera (o prevalentemente vera) o falsa (o prevalentemente falsa) con riferimento alla propria persona. Costruzione del profilo I libretti sono predisposti per l’applicazione di griglie per il calcolo dei punteggi grezzi ottenuti nelle singole scale. I punteggi così calcolati vengono registrati su un foglio di profilo, appropriato al sesso del soggetto, predisposto per la trasformazione in punti T dei punteggi grezzi ottenuti nelle 10 scale cliniche e nelle scale di validità L, F e K. Tutte le omissioni e gli item con doppia risposta sono considerati come risposte “Non so (?)”. Il foglio di profilo permette anche una visione grafica del profilo del soggetto. Sono disponibili anche le griglie per le scale supplementari e di contenuto, i cui punteggi non vengono riportati sul foglio di profilo. Nel manuale sono reperibili le tabelle per la trasformazione dei punteggi grezzi in punti T. Interpretazione Una volta determinata la validità del protocollo (punteggi nelle scale di validità), si procede all’interpretazione del test sulla base dei punteggi nelle scale cliniche. Interpretazione per punte delle scale cliniche: Valori dei punti T compresi tra 60 e 65 costituiscono tendenze di personalità, mentre elevazioni che superano 65 possono essere indicative di uno stato patologico. Interpretazione per codici-tipo: Quando le punte sono più di una è preferibile una valutazione che tenga conto della configurazione del profilo. Codici tipo basati su due e, talvolta, su tre elevazioni sono reperibili in atlanti e manuali interpretativi. I punteggi nelle scale di contenuto possono essere utilizzati per sviluppare e integrare le ipotesi interpretative delineate dall’interpretazione delle scale cliniche. Specifici quesiti possono essere esaminati per mezzo delle scale supplementari. Sono stati inoltre definiti vari indici del test, utilizzati nelle versioni di interpretazione computerizzata del protocollo. a) Percentuale di risposte “Vero” Questo indice può essere utilizzato per identificare soggetti che non collaborano e rispondono “Vero” a tutte, o quasi, le domande del test. b) Percentuale di risposte “Falso” E’ un indice che individua protocolli con tutte, o quasi tutte, risposte “Falso” agli item. Una percentuale elevata di risposte “Falso” suggerisce che il soggetto abbia risposto agli item negando i problemi in maniera indiscriminata. c) Elevazione media del profilo I valori dei punti T in otto delle scale cliniche (Hs, D, Hy, Pd, Pa, Pt, Sc e Ma) forniscono un’indicazione approssimativa del grado complessivo di disadattamento espresso attraverso il MMPI-2. Punti T medi superiori a 65 suggeriscono, di solito, la presenza di problemi psicologici di notevole entità. d) Indice F – K L’indice di Dissimulazione sviluppato da Gough (1947) si calcola sottraendo K da F. Costituisce un’utile misura dell’atteggiamento volto a dissimulare, o ad indicare, un numero eccessivo di problemi nella compilazione del test. Punteggi superiori a +15 vengono di solito interpretati come 66 contraffazione delle risposte in senso peggiorativo, o la dichiarazione di un numero eccessivo di problemi psicologici. e) Indice di Goldberg Goldberg (1965) ha dimostrato come una semplice combinazione lineare di determinati punteggi al MMPI permetta di ottenere una formula di predizione in grado di discriminare profili di soggetti nevrotici da quelli di psicotici. Tale indice viene calcolato aggiungendo e sottraendo i punti T nel modo seguente: L + Pa + Sc – Hy – Pt. Se il valore che ne risulta è maggiore di 45, si suggerisce una diagnosi di psicosi. 67 I QUESTIONARI SINTOMATOLOGI IL BECK DEPRESSION INVENTORY (BDI) La depressione è “..uno stato emotivo caratterizzato da grande tristezza ed apprensione, dalla sensazione che nulla abbia veramente valore, da sensi di colpa, dall’isolarsi dagli altri, dalla perdita di sonno, dell’appetito e del desiderio sessuale, o dalla perdita di interesse e di piacere nelle attività che si è soliti svolgere.” [Davison, Neale, 2000]. Il Beck Depression Inventory (BDI; Beck, Ward, Mendelson, Mock & Erbaugh, 1961) è un questionario self-report per la valutazione dei sintomi e degli atteggiamenti caratteristici della depressione. Beck aveva osservato come i pazienti depressi fossero caratterizzati da rappresentazioni negative circa se stessi, le esperienze presenti e il futuro (triade negativa). Egli raccolse le descrizioni fornite dagli stessi pazienti depressi circa i propri sintomi e le raggruppò in 21 sintomi e atteggiamenti. Tali sintomi e atteggiamenti, considerati caratteristici dei pazienti depressi, costituiscono i 21 item del questionario. Il Beck Depression Inventory è stato costruito con lo scopo di valutare la gravità dei sintomi nei soggetti depressi ma anche per rilevare la presenza di depressione nella popolazione normale (adulti e adolescenti) . Descrizione Il Beck Depression Inventory è costituito da 21 item relativi a sintomi ed atteggiamenti tipici dei soggetti depressi: 1) tristezza, 2) pessimismo, 3) senso di fallimento, 4) senso di insoddisfazione, 5) senso di colpa, 6) senso di punizione, 7) auto-avversione, 8) auto-accusa, 9) ideazione suicidaria, 10) scoppi di pianto, 11) irritabilità, 12) ritiro sociale, 13) indecisione, 14) cambiamento nell’immagine corporea, 15) difficoltà lavorative, 16) insonnia, 17) affaticabilità, 18) perdita di appetito, 19) perdita di peso, 20) preoccupazioni somatiche, 21) perdita di interesse sessuale. Per ogni item vengono fornite 4 alternative di risposta che corrispondono alla gravità del sintomo ( assente = 0, lieve = 1, moderato = 2, grave = 3). Esempi di items sono: “non mi sento particolarmente in colpa; mi sento in colpa per buona parte del tempo; mi sento in colpa per la maggior parte del tempo; mi sento sempre in colpa”. Particolare attenzione va prestata agli items che indicano il pericolo che il soggetto possa essere a rischio di comportamento suicidiario. Interpretazione Lo scoring del questionario è semplice: Il punteggio totale al questionario si ottiene sommando i singoli punteggi dei 21 item. Un punteggio maggiore di 16 è considerato il cut-off per l’allarme clinico. 5 – 9: punteggi normali 10 – 18: depressione lieve 19 – 29: depressione moderata 30 – 63: depressione grave 68 LO STATE-TRAIT ANXIETY INVENTORY (STAY-Y) L’ansia si caratterizza per la presenza di una spiacevole sensazione di paura e di apprensione generalmente non legata a ragioni obiettive (disturbo di panico, disturbo d’ansia generalizzato) che può portare il soggetto a comportamenti di evitamento (fobie) o alla percezione soggettiva di un impulso irresistibile a compiere certe azioni (tipico delle compulsioni e del disturbo ossessivocompulsivo) e, nei casi più seri, fino alla paralisi e ai sintomi detti “neurologici” (isteria di conversione) [Davison, Neale, 2000]. La costruzione di questo test iniziò nel 1964 con l’elaborazione di un unico gruppo di item, somministrato con modalità diverse, per la misurazione sia dell’ansia di stato che di quella di tratto. Successivamente, gli sviluppi teorici nella concezione dell’ansia ed i risultati delle ricerche empiriche indussero a modificare le procedure e gli item del test e fu messa a punto la forma X dello STAI. Più di 6000 studenti di High School, 600 pazienti neuropsichiatrici e ospedalizzati, 200 reclusi furono testati per la standardizzazione e la validazione della forma X del questionario (Spielberger, Gorsuch, 1968). Nel 1979 Spielberger iniziò una sostanziale revisione della scala. Le ragioni principali che guidarono tale operazione furono: - sviluppare uno strumento di misura che discriminasse maggiormente i sentimenti di ansia dalla depressione e che permettesse una migliore diagnosi differenziale tra pazienti colpiti da disturbi d’ansia o da reazioni depressive; - migliorare la struttura della scala con un più adeguato bilanciamento tra le voci dell’ansia presente e dell’ansia assente; - sostituire alcune voci che si prestavano ad interpretazioni particolari. Nella nuova forma Y fu sostituito il 30% degli item della forma X, migliorando le proprietà psicometriche di entrambe le sub-scale. Lo State-Trait Anxiety Inventory forma Y (Spielberger, Gorsuch, Lushene, Vagg, Jacobs, 1983) (Traduzione italiana a cura di Pedrabissi, Santinello, 1989) è un questionario di autovalutazione, in forma di Scala Likert, dove il soggetto valuta su una scala da 1 a 4 (con 1 = per nulla e 4 = moltissimo) quanto diverse affermazioni si addicono al proprio comportamento. La STAI è composta da un totale di 40 domande, 20 riguardano l’ansia di stato (Y1) e 20 l’ansia di tratto (Y2). L’ansia di stato indica quanto la persona si percepisca in ansia “proprio in quel momento” ed esprime una sensazione soggettiva di tensione e preoccupazione, comportamenti relazionali di evitamento (o avvicinamento eccessivo e prematuro) e un aumento dell’attività del sistema nervoso autonomo (incremento della frequenza cardiaca, della risposta galvanica…etc..) relativa ad una situazione stimolo, quindi transitoria e di intensità variabile; L’ansia di tratto si riferisce a come il soggetto si senta abitualmente, ad una condizione più duratura e stabile della personalità che caratterizza l’individuo in modo continuativo, indipendentemente da una situazione particolare [Spielberger, Gorsuch e Lushene, Vagg, Jacobs, 1983]. Somministrazione del test Lo STAI può essere somministrato sia a singole persone che a gruppi. L’inventario non ha limiti di tempo. Si impiegano circa 8 minuti per completare una delle scale e all’incirca 15 per completarle entrambe. Le istruzioni complete per le scale di Tratto e di Stato sono stampate sulle schede del test. Le istruzioni nelle due scale sono diverse: nella scala di Stato si chiede al soggetto di indicare come si sente adesso, in questo momento mentre nella scala di Tratto si chiede al soggetto di indicare come si sente abitualmente. La scala di Stato viene sempre fatta compilare per prima poiché è sensibile alle condizioni nelle quali l’esaminato affronta il test ed il relativo punteggio può essere influenzato dal clima emotivo che si può creare se viene somministrata prima la scala di Tratto. Inoltre, le due sottoscale possono venire utilizzate anche separatamente ed indipendentemente l’una dall’altra. Si ricavano quindi due 69 punteggi: uno per l’ansia di tratto ed uno per l’ansia di stato. Esempi di domande di tale strumento sono “mi sento turbato” o “mi sento indeciso”. La STAI, oltre ad essere stata ampiamente validata, è una scala largamente utilizzata ed è uno strumento assai agile ed economico nella somministrazione e nella quantificazione dei risultati. IL SYMPTON QUESTIONNAIRE Il Symptom Questionnaire (SQ) di R. Kellner (1987) è un questionario di autovalutazione della personalità che deriva dall’elenco originale dei sintomi da cui è stato costruito il Symptom Rating Test (Kellner, Scheffield, 1973). Il Symptom Questionnaire si differenzia dalle ultime versioni del Symptom Rating Test per il fatto di essere costituito da item anziché da domande e per la estrema semplicità e brevità del suo testo. Rispetto al Symptom Rating Test il numero di item del Symptom Questionnaire è stato aumentato dall’autore per incrementare la sensibilità delle scale. Inoltre è composto da item sì/no e vero-falso invece che da scale che si basano sulla gravità o frequenza dei sintomi. Il Symptom Questionnaire, infine, presenta non solo item che indicano sintomi ma anche item che indicano stati di benessere, introdotti dall’autore per aumentare la consistenza interna dei risultati. Descrizione del Symptom Questionnaire Il Symptom Questionnaire (versione italiana a cura di Fava G. A. e Kellner R., 1982) è costituito da 92 item di cui 68 indicano sintomi (che costituiscono le sottoscale dei sintomi) e 24 indicano situazioni di benessere (che costituiscono le sottoscale del benessere) contrarie ad alcuni sintomi. Il Symptom Questionnaire è composto da 4 scale e da 8 sottoscale. Le 4 scale principali sono: 1. depressione 2. ansia 3. rabbia-ostilità 4. somatizzazione. Le 8 sottoscale si suddividono in 4 sottoscale relative agli stati di benessere e 4 sottoscale sintomatologiche. Le sottoscale relative agli stati di benessere sono: a) contentezza b) rilassatezza c) socievolezza d) benessere fisico. Le sottoscale sintomatologiche sono: a) sintomi depressivi b) sintomi ansiosi c) sintomi di rabbia e ostilità d) sintomi somatici. Somministrazione Esistono tre versioni del questionario: quella oraria, quella giornaliera e quella settimanale, che si riferiscono allo stato psicologico rispettivamente dell’ora, del giorno, della settimana precedente la somministrazione del test. Il questionario può essere utilizzato sia in ambito di ricerca che in ambito clinico e può essere somministrato e conteggiato anche da non esperti dopo un breve training. 70 Elaborazione delle risposte Se il punteggio di una scala risulta essere superiore di 1 deviazione standard rispetto alla media per i soggetti normali vi è moderato distress, mentre un punteggio che supera le 2 deviazioni standard suggerisce la presenza di grave distress o di psicopatologia. Tuttavia, un punteggio considerato singolarmente non può essere indicativo di una patologia senza una valutazione clinica aggiuntiva. Inoltre, il punteggio alla scala somatica non può da solo fornire una prova della presenza di somatizzazione e deve essere effettuata una valutazione accurata per formulare la diagnosi differenziale con un disturbo fisico. Nel processo diagnostico e valutativo, il clinico può basarsi sui risultati di un questionario di autovalutazione come il Symptom Questionnaire, utilizzando un particolare cut-off nel punteggio della scala, ottenuto da precedenti studi di valutazione. Questo cut-off può essere la base per successivi approfondimenti clinici, da ottenersi mediante intervista e/o scale di eterovalutazione. In ogni caso il punteggio al questionario di autovalutazione fornisce le basi per una valutazione quantitativa dello stato di malessere del soggetto. 71 I test d’intelligenza I test di intelligenza sono strumenti standardizzati, costituiti da domande e compiti, usati per la valutazione delle capacità mentali superiori. Prima di entrare nel merito qualche nota sul concetto d’intelligenza. Molti psicologi si sono occupati di questo problema, proponendo differenti definizioni e diverse modalità di misura. Spearman [1971] ritiene che esista una intelligenza generale (definita fattore G di Spearman], che comprende varie prestazioni di pensiero, ragionamento, abilità verbali e numeriche, e una serie più o meno numerosa di fattori specifici, legati all’esecuzione di compiti particolari. Cattell [1963] sostiene, invece, l’esistenza di una intelligenza fluida e di una intelligenza cristallizzata. La prima fa riferimento alle capacità di elaborazione, di soluzione dei problemi e di memoria; la seconda riguarda l’intelligenza come “sapere culturale” (linguaggio e abilità sociali). L’intelligenza varia con il passare del tempo perché è legata all’apprendimento e alla stimolazione che l’ambiente offre all’individuo, ma hanno un ruolo rilevante anche le componenti genetiche, che ne stabiliscono i limiti. Una delle descrizioni più esaurienti rimane la definizione di Piaget [1947, 1970], secondo il quale una delle funzioni chiave dell’intelligenza è generare la previsione, cioè produrre l’anticipazione del cambiamento e quindi l’azione costruttiva per realizzarlo o annullarlo. Piaget ha offerto forse la sistematizzazione più completa di un modello interno al soggetto che si sviluppa dall'agire in senso motorio all'agire logico astratto. Se molti studiosi individuano diversi fattori che compongono il costrutto di intelligenza, altri, invece, parlano di diverse intelligenze. Esisterebbe a loro avviso un certo numero di abilità separate, che contribuiscono a determinare un positivo rapporto dell’individuo con l’ambiente circostante. Alle abilità di tipo cognitivo (per esempio abilità di ragionamento, abilità nell’imparare, abilità nel risolvere problemi ecc.) si aggiungerebbero l’intelligenza verbale che renderebbe conto dell’abilità lessicale, di esposizione orale e di comprensione dei messaggi vocali, l’intelligenza sociale che implica complesse capacità di riconoscimento di segnali sociali e quindi di adattamento della propria condotta ad una determinata situazione, l’intelligenza emotiva che si riferisce alla capacità di riconoscere le emozioni altrui e al controllo delle proprie. L’intelligenza, comunque la si voglia intendere, è dunque un costrutto che comprende molti aspetti: abilita’ o processi di tipo cognitivo, ma anche fattori che sono più propri dei tratti della personalità che delle capacità cognitive. Tali fattori comprendono tratti quali la perseveranza, la concentrazione, l’ansia, l’entusiasmo, il controllo degli impulsi e la consapevolezza dei fini che influiscono sulle prestazioni, tutti tratti che sono in gran parte indipendenti da qualsiasi abilità intellettiva specifica quali capacità logiche, di ragionamento, memoria. Per questa ragione essi sono più propriamente indicati come fattori nonintellettivi dell’intelligenza. Tali fattori operano a tutti i livelli di intelligenza ed incidono sulle capacità del soggetto d’intelligenza superiore come su quelle del soggetto poco dotato. Essi possono rendere attento un soggetto lento e meno ricettivo un soggetto brillante, e ciò può avere il suo peso sull’ampia variabilità inter-test osservata nelle prestazioni di alcuni soggetti. E’ tuttavia da evitare la tentazione di ascrivere tutte le differenze osservate all’intervento di questi fattori. I fattori non-intellettivi sono componenti necessari del comportamento intelligente, ma non possono però sostituire le abilità cognitive fondamentali. Il primo test d’intelligenza, la Scala Stanford-Binet, successivamente revisionata e standardizzata da Terman e Merril, fu ideato all’inizio del secolo scorso, e applicato ai bambini con lo scopo di arrivare ad una misura predittiva del successo scolastico. Il concetto d’intelligenza era collegato ad abilità e conoscenze in gran parte di tipo verbale, e i criteri per la validazione concorrente e predittiva erano le votazioni scolastiche. L’unità di misura era inizialmente l’Età Mentale (età corrispondente al superamento di tutte le prove di livello che la maggioranza dei bambini di quell’età superava, più un dato numero di mesi per ogni test risolto fino al livello in cui nessuna prova era superata). Successivamente fu aggiunto il QI, ottenuto dividendo l’età mentale per l’età reale e moltiplicando per 100. 72 LE SCALE WECHSLER La pubblicazione nel 1939 della Scala d’Intelligenza Wechsler-Bellevue segnò una data cruciale nella storia della valutazione dell’intelligenza dell’adulto. Per la prima volta, infatti, veniva costruita una batteria di prove individuali, eterogenee, ben accette dai soggetti adulti e, soprattutto, tarate in funzione dell’età cronologica. Abbandonando il concetto di età mentale, Wechsler riprendeva invece quello di Quoziente Intellettivo (QI) concependolo, però, come una scala standardizzata con media 100 e deviazione standard 15. In tale modo venivano eliminati i limiti del metodo precedente e forniti degli indici statistici funzionali a cogliere correttamente il potenziale intellettivo individuale. Benché tale scala fosse stata concepita inizialmente per valutare il livello d’intelligenza globale del soggetto, lo strumento fu rapidamente applicato con diversi altri scopi: quello di misurare l’eventuale deterioramento mentale, di differenziare la tipologia di intelligenza, pratica o verbale, della persona e di individuare le eventuali carenze in particolari funzioni cognitive. Proprio per tali requisiti, lo strumento divenne, molto rapidamente, il più usato nell’ambito della valutazione e della diagnosi dell’intelligenza. Successivamente si giunse ad una prima revisione globale del materiale (WAIS; Wechsler Adult Intelligence Scale; dai 16 anni in poi) e alla creazione di altre scale simili destinate a soggetti di differenti fasce d’età: bambini in età prescolare (WPPSI; Pre-school and Primary Scale of Intelligence; 3-7 anni) e bambini in età scolare (WISC; Wechsler Intelligence Scale for Children; 7-16 anni). La scala d’intelligenza WAIS è un test di intelligenza generale, intendendo come tale “la capacita’ globale dell’individuo ad agire con uno scopo, a pensare ragionevolmente, e a gestire effettivamente il proprio ambiente”(Wechsler, 1939). Wechsler considerava la sua definizione una risposta non definitiva all’annoso problema di che cosa sia quella che viene chiamata intelligenza. L’autore cercò di ideare una sufficiente ampia varietà di questioni che riflettessero la sua definizione di intelligenza, ma riconosceva che tutto non poteva essere incluso. Wechsler concluse comunque che la scala potesse essere usata come un indice fedele della capacità globale dell’individuo. La somministrazione della WAIS, è lunga e complessa, ma proprio per questa sua articolazione è possibile trarre informazioni dettagliate sul funzionamento cognitivo del paziente, come la personale modalità che il paziente ha di organizzare le proprie strategie di risoluzione di problemi in base alle nozioni acquisite e la capacità di accedere al proprio bagaglio mnemonico in cui tali informazioni sono contenute, organizzandole secondo pattern di funzionamento legati alla comprensione del problema. La scala WAIS è costituita da 11 sub-test differenti: sei misurano le abilità cognitive di natura prevalentemente verbale e gli altri cinque le abilità cognitive di natura principalmente visiva, spaziale e manipolativa. I risultati delle prime sei scale danno origine al Quoziente Intellettivo Verbale, i punteggi delle ultime cinque confluiscono nel Quoziente Intellettivo di Performance. La media di questi due indici è il Quoziente Intellettivo Totale. Le differenze individuali nel Quoziente Intellettivo (QI) possono dipendere sia da differenze genetiche sia da variabili ambientali-culturali. Sicuramente il patrimonio genetico individuale ha un’importanza fondamentale nel determinare le basi e i meccanismi dello sviluppo, ma è anche vero che è necessaria una società ed un ambiente adatto perché si possa sviluppare un’intelligenza normale. Il modo più semplice per studiare quanto i geni determinino il QI è lo studio dei gemelli monozigoti (quindi con lo stesso DNA) che siano stati separati dalla nascita (cresciuti quindi in ambienti differenti). L’interpretazione dei risultati di queste ricerche è controversa. Tendenzialmente è possibile affermare che il corredo genetico influisce per il 50% nel determinare le basi dell’intelligenza. Sembra quindi che i geni e l’ambiente contribuiscano in uguale misura alla formazione del QI. Particolarmente interessanti sono gli studi per individuare eventuali differenze legate al sesso, alla classe sociale ed alla razza. Per quanto riguarda le eventuali differenze tra i due sessi, nel livello di intelligenza media la risposta è certa e definitiva: non esistono differenze significate tra uomini e donne. Vi sono invece differenze grandi e nette nel QI medio di membri di classi sociali e professionali diverse. Chi svolge lavori 73 intellettuali riporta valori più elevati nei test di intelligenza, anche se ciò potrebbe essere dovuto a una maggiore familiarità di questi lavoratori con i compiti richiesti nei test. Il fattore fondamentale sembra essere l’istruzione ricevuta. Il contesto sociale di riferimento è comunque essenziale: differenze legate alla classe sociale compaiono già prima dei 5 anni di età. Ciò implica che i fattori ambientali rilevanti operino già prima che il bambino vada a scuola. Anche da questo punto di vista viene sottolineato il fondamentale ruolo della famiglia nell’influenzare tutto lo sviluppo intellettivo del soggetto. Il dibattito più acceso è nato intorno al ruolo della razza nel determinare minori e maggiori punteggi nei test di intelligenza. Gli studi condotti negli Stati Uniti rilevano infatti che la popolazione di colore riporta punteggi significativamente inferiori rispetto alla popolazione bianca. Questo è un dato certo, ma l’interpretazione è da ricercare sovrapposizione tra razza e contesto sociale disagiato. Successive revisioni della scala WAIS e WISC, (WAIS-R, WISC-R), sono state tradotte e tarate per la popolazione italiana, mentre non sono ancora disponibili le versioni WAIS-III e IV e WISC-IV, già pubblicate negli Stati Uniti. LA SCALA WAIS-R Attualmente in Italia il più utilizzato test di intelligenza è la WAIS-R (Wechsler Adult Intelligence Scale Revised; 1981). La scala WAIS-R amplia la linea di sviluppo sulla valutazione dell’intelligenza negli adulti, iniziata con la Wechsler-Bellevue e continuata con la sua revisione, la scala WAIS. Proprio in funzione delle numerose ricerche condotte utilizzando la scala WAIS e delle critiche e obiezioni avanzate rispetto alla sua applicazione, l’obiettivo principale della WAISR è stato l’aggiornamento dei contenuti della WAIS e la considerazione di nuove norme di riferimento, derivate dalle risposte e dai punteggi di campioni attuali della popolazione. Circa l’80% degli item della WAIS sono stati mantenuti o lievemente modificati, mentre sono stati rivisti o eliminati quegli item che sembravano obsoleti e ridondanti, e sono stati aggiunti dei nuovi quesiti. È stato modificato anche l’ordine di somministrazione delle prove a causa dei cambiamenti di difficoltà degli item, ed anche l’assegnazione dei punteggi per alcune prove avviene in maniera diversa, in accordo con i risultati dell’analisi dei nuovi dati. Mentre nella WAIS le prove di performance seguivano quelle verbali, nell’ordine di presentazione dei subtest della WAIS-R quelli verbali si alternano a quelli di performance. L’esperienza ha infatti dimostrato che variare i compiti in questo modo aiuta a mantenere vivo l’interesse dei soggetti che si sottopongono alla prova. Come la scala originaria, la WAIS-R consta di 11 subtest, di cui 6 compongono la Scala Verbale (Informazione, Comprensione, Ragionamento aritmetico, Analogie, Memoria di cifre e Vocabolario) e 5 la Scala di Performance (Associazione simboli a numeri, Completamento di figure, Disegno con i cubi, Riordinamento di storie figurate e Ricostruzione di oggetti); insieme, gli 11 subtest costituiscono la Scala Totale. Scala Verbale (si definisce tale, perché formata da subtest principalmente basati, per la loro soluzione, sul linguaggio verbale e sul ragionamento verbale e numerico) INFORMAZIONE (il subtest è costituito da semplici domande di cultura generale che riguardano informazioni che l’adulto normale dovrebbe avere acquisito nella sua esperienza, ad esempio, a quale temperatura bolle l’acqua..) COMPRENSIONE (il subtest propone delle situazioni problematiche implicanti principi morali, sociali, legali e di relazione interpersonale, a cui il soggetto deve rispondere utilizzando giudizio sociale, senso comune, capacità di cogliere convenzioni sociali ed abilità ad usare appropriatamente le conoscenze) RAGIONAMENTO ARITMETICO (viene presentata oralmente una serie di problemi che il soggetto deve risolvere. È una prova a tempo) 74 ANALOGIE (viene presentata una serie di coppie di parole e al soggetto viene chiesto di spiegare in che cosa si assomiglino) MEMORIE DI CIFRE (al soggetto viene chiesto di ascoltare e successivamente di ripetere gruppi di cifre o nell’ordine in cui vengono lette o nell’ordine inverso) VOCABOLARIO (al soggetto viene presentata una serie di parole e gli viene chiesto di spiegarne il significato) Scala di Performance (si definisce tale perché basata sulla manipolazione di oggetti e di figure) ASSOCIAZIONE SIMBOLI A NUMERI (a partire da una serie prefissata di simboli associata a dei numeri, il soggetto deve associare in appropriati spazi gli stessi simboli sotto tutta una serie di numeri proposti. È una prova a tempo). COMPLETAMENTO DI FIGURE (viene chiesto di ricostruire delle figure significative a partire da pezzi predisposti. È una prova a tempo DISEGNO CON CUBETTI (viene chiesto al soggetto di utilizzare dei blocchi colorati per riprodurre dei disegni. È una prova a tempo). RIORDINAMENTO DI STORIE FIGURATE (vengono presentate alcune serie di figure. Ciascuna serie è disposta in un ordine prefissato e, se riordinate, acquista una sua logica. Compito del soggetto è individuare l’ordine logico della storia e riordinare la serie in tale ordine. È una prova a tempo). RICOSTRUZIONE DI FIGURE (vengono presentate delle immagini di oggetti o scene comuni in cui manca una parte importante e al soggetto è chiesto di identificarla. È una prova a tempo). I due gruppi, verbale e di performance, possono essere somministrati insieme o da soli permettendo, ad esempio, di somministrare la prima a persone con deficit del linguaggio, oppure solo la seconda a soggetti che hanno handicap visuomotori. È preferibile, comunque, somministrare entrambe le sezioni per fornire ai soggetti esaminati un maggior numero di prove per dimostrare le loro capacità e per consentire agli esaminatori maggiori opportunità di valutazione delle abilità cognitive complessive. Il QI, calcolato dai dati della Scala Verbale, di Performance o Totale, è ricavato dal confronto diretto dei risultati ottenuti al test dal soggetto con quelli ottenuti dai soggetti appartenenti alla stessa classe d’età; esso costituisce forse il più significativo elemento d’informazione circa le capacità mentali del soggetto, in quanto è proprio il confronto con i coetanei che può essere assunto come la relazione più significativa. 75 Parte V: La classificazione e la diagnosi La diagnosi nosografica La diagnosi nosografica ha come riferimento il modello medico della diagnosi delle malattie somatiche, e si basa sull’assunto che i disturbi psicologici, al di là della loro origine organica, psichica o socio ambientale, possano essere descritti come entità distinte l’una dall’altra sulla base di specifici insiemi di segni e sintomi. Quest’assunto, anche se non è accettato in modo unanime e acritico 4 da coloro che si occupano della salute mentale, ha comunque il merito di favorire la ricerca di criteri condivisi che permettono ai clinici di comunicare fra loro i risultati delle loro osservazioni e trattamenti. Per una corretta comunicazione fra clinici è, infatti, necessario che essi s’intendano sul quadro psicologico dei loro pazienti, e per rendere valida e affidabile quest’intesa è indispensabile possedere un sistema condiviso di categorizzazione delle varie situazioni cliniche. Attualmente sono in uso due sistemi di classificazione dei disturbi psicologici, l’International Classification of Diseases, Injuries and Causes of Death, che include la classificazione dei disturbi psichici, giunto alla decima edizione (ICD-10), e il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, giunto alla quarta edizione (DSM-IV). Ai fini del nostro corso prenderemo in considerazione in modo dettagliato il sistema diagnostico del DSM-IV. Prima di entrare nel merito, un breve cenno su un tema complesso: la discriminazione fra normalità e patologia. Su questo tema i sistemi diagnostici nosografici sono costretti di fatto ad una presa di posizione. Come accennato in precedenza sono state proposte alcune definizioni di normalità e patologia, nessuna delle quali da sola è soddisfacente, per cui i disturbi psicologici sono di solito definiti sulla base della presenza contemporanea di più criteri: - Criterio statistico: considera anormale un comportamento (o una caratteristica della persona) che si discosta molto da quello medio della popolazione. Questo criterio si applica bene alla diagnosi di ritardo mentale, ma non offre alcuna guida certa per stabilire quale comportamento infrequente debba essere considerato patologico. - Criterio della sofferenza personale: è certamente una caratteristica di molti dei cosiddetti disturbi psicologici, ma vi sono disturbi (es. il disturbo antisociale di personalità) in cui la sofferenza non è presente, e situazioni normali caratterizzate dalla sofferenza personale (es. il lutto). - Criterio della conformità alle norme sociali: propone di considerare anormale qualunque comportamento che violi le regole sociali e minacci o renda ansiosi coloro che lo osservano. Può adattarsi ad alcuni disturbi come la schizofrenia, il disturbo antisociale di personalità o ad alcuni dei disturbi correlati a sostanze, ma non si adatta a molti altri; inoltre non tiene conto delle differenze culturali, e dell’impropria sovrapposizione di ruoli fra psicologo e giudice penale. - Criterio della compromissione di importanti aree dell’esistenza (es. lavoro, relazioni sociali): si adatta alla diagnosi di molti disturbi ( es. disturbi d’ansia, disturbi somatoformi ecc.), ma non a 4 Le critiche (alle quali possono essere fatte delle contro obiezioni) ai sistemi diagnostici nosografici vertono principalmente: sulla pretesa di poter individuare una linea netta di separazione fra normalità e patologia, sulla possibile perdita d’informazioni rispetto all’unicità delle persone, e sulla validità delle singole categorie diagnostiche (es. in una categoria potrebbero essere inseriti, sulla base di sintomi comuni, persone il cui disagio ha origini diverse). 76 - tutti. Questo criterio inoltre necessiterebbe di una definizione più precisa del concetto di compromissione. Criterio dell’imprevedibilità: propone di considerare patologiche le reazioni (es. la sofferenza o la compromissione) sproporzionate ed imprevedibili a fattori ambientali stressanti. IL DSM IV Quarta edizione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, pubblicato dalla American Psychiatric Association, il DSM-IV è il sistema di classificazione nosografica dei disturbi mentali, attualmente utilizzato dagli psichiatri e dagli psicologi clinici degli Stati Uniti e di molti altri paesi compresa l’Italia. Caratteristiche del DSM-IV sono l’ateoricità, e la diagnosi multiassiale. La scelta dell’ateoricità, cioé il non prendere posizione sulle cause dei vari disturbi psicologici, limitandosi ad una prospettiva puramente descrittiva, è conseguenza della necessità di rendere fruibile il manuale a clinici di diverso orientamento teorico. È tuttavia esplicito l’invito ai fruitori di dare impulso a ricerche finalizzate alla comprensione delle cause dei disturbi e all’approfondimento della reale omogeneità eziologica delle singole categorie diagnostiche. La diagnosi multiassiale prevede la valutazione di ogni soggetto rispetto a cinque diversi assi, obbligando il clinico a prendere in considerazione altre importanti informazioni oltre la raccolta dei sintomi. I primi due assi identificano i diversi disturbi mentali concepiti come entità discrete, differenziate attraverso criteri di inclusione ed esclusione: ciascun disturbo è rappresentato da una serie di sintomi e la presenza o assenza di alcuni di questi sintomi è il punto di discrimine tra un disturbo e l’altro. I disturbi clinici dell’asse I vengono mantenuti separati da quelli di personalità e dal ritardo mentale (asse II) per garantire che l’attenzione rivolta verso il disturbo attuale della persona non trascuri l’esistenza di un disturbo a lunga durata. Sull’Asse III si annota qualsiasi condizione medica ritenuta rilevante ai fini del disturbo mentale in esame. L’Asse IV codifica i problemi di natura psicosociale e ambientali, come problemi lavorativi e/o economici, che potrebbero contribuire al disturbo. Sull’Asse V viene indicato il funzionamento adattivo attuale dell’individuo in varie aree dell’esistenza. Inoltre, nell’ultima versione sono state aggiunte tre scale opzionali: - la Scala del Funzionamento Difensivo prevede che il clinico indichi lo stile difensivo, o meccanismo di difesa, specifico al momento della valutazione - la Scala di Valutazione Globale del Funzionamento Relazionale che permette di stimare il grado in cui una società o una famiglia soddisfano i bisogni strumentali e affettivi dell’individuo - la Scala di Valutazione del Funzionamento Sociale e Lavorativo si focalizza sul livello di funzionamento sociale ed occupazionale al di là della gravità della sintomatologia psichica. L’affidabilità interrater del DSM-IV (grado di concordanza di giudizio di diversi osservatori sullo stesso eventi) è buona per la maggior parte delle categorie diagnostiche; ancora aperta è la questione della validità eziologica (stessi fattori causali in tutti i soggetti appartenenti ad una categoria diagnostica), concomitante (scoperta che altri sintomi, non contemplati dal manuale, caratterizzano le persone appartenenti ad una categoria diagnostica), e predittiva (capacità di prevedere l’andamento futuro e la prognosi e la risposta ad una determinata terapia delle persone appartenenti alla medesima categoria diagnostica). 77 ASSE I DISTURBI CLINICI: sono codificate 15 classi di disturbi ( Disturbi solitamente diagnosticati per la prima volta nell’infanzia, nella fanciullezza, o nell’adolescenza; Delirium, demenza, disturbi amnestici e altri disturbi cognitivi; Disturbi mentali dovuti ad una condizione medica generale non classificati altrove; Disturbi correlati a sostanze; Schizofrenia e altri disturbi psicotici; Disturbi dell’umore; Disturbi d’ansia; Disturbi somatoformi; Disturbi fittizzi; Disturbi dissociativi; Disturbi sessuali e della identità di genere; Disturbi dell’alimentazione; Disturbi del sonno; Disturbi del controlli degli impulsi non classificati altrove; Disturbi dell’adattamento), ognuna delle quali contiene la descrizione dei criteri diagnostici dei singoli disturbi psicologici compresi nella categoria. ALTRE CODIZIONI CHE POSSONO ESSERE OGGETTO DI ATTENZIONE CLINICA: sono codificati in 6 categorie (Fattori psicologici che influenzano una condizione medica; Disturbi del movimento indotti da farmaci; Altro disturbo indotto da farmaci; Problemi relazionali; Problemi correlati a maltrattamento o abbandono; Ulteriori condizioni che possono essere oggetto di attenzione clinica), ognuna delle quali contiene la descrizione dei criteri diagnostici dei singoli disturbi psicologici compresi nella categoria. ASSE II DISTURBI DELLA PERSONALITA’: sono presi in considerazione i criteri diagnostici di 10 disturbi di personalità (Gruppo A: Disturbo paranoide di personalità; Disturbo schizoide di personalità; Disturbo Schizotipico di personalità. Gruppo B: Disturbo antisociale di personalità; Disturbo borderline di personalità; Disturbo istrionico di personalità; Disturbo narcisistico di personalità. Gruppo C: Disturbo evitante di personalità; Disturbo dipendente di personalità; Disturbo ossessivocompulsivo di personalità. Disturbo di personalità non altrimenti specificato). RITARDO MENTALE: è classificato secondo la gravità (lieve, moderato, grave, gravissimo). ASSE III CONDIZIONI MEDICHE GENERALI: è utilizzato per registrare tutte le condizioni mediche generali potenzialmente rilevanti per la comprensione o la gestione del caso. La condizione medica può: 1) essere la causa di un disturbo classificato sull’asse I; 2) essere considerata come un fattore stressante precipitante; 3) essere importante per la gestione del caso; 3) essere un reperto accidentale. ASSE IV PROBLEMI PSICOSOCIALI E AMBIENTALI: sono elencate 9 categorie di problemi di cui la persona può avere avuto esperienza ( di solito relativi all’ultimo anno) e che possono avere un impatto sulla comprensione o gestione del caso: 1) problemi con il gruppo di supporto primario (es. 78 morte o problemi di salute fra i familiari, divorzio, abuso fisico o sessuale, iperprotettività dei genitori, nascita di un fratello ecc.); 2) problemi correlati all’ambiente sociale (es. perdita del supporto sociale, pensionamento, difficoltà di acculturazione ecc.); 3) problemi educazionali (es. analfabetismo, problemi con gli insegnanti o con i compagni ecc.); 4) problemi lavorativi (es. disoccupazione, insoddisfazione ecc.); 5) problemi abitativi (casa inadeguata, problemi con i vicini ecc.); 6) problemi economici (es. povertà estrema ecc.); 7) problemi riguardanti l’accesso ai servizi sanitari (es. servizi sanitari inadeguati, mancanza di mezzi di trasporto ecc.); 8) problemi collegati col sistema legale o penale (es. cause in corso, arresto, essere state vittime di qualche crimine ecc. ); 8) altri problemi psicosociali o ambientali (es. esposizione a disastri naturali, guerra ecc.). ASSE V VALUTAZIONE GLOBALE DEL FUNZIONAMENTO: codifica l’attuale funzionamento adattivo della persona su una scala da 100 (funzionamento superiore alla norma in un ampio spettro di attività ecc.) ad 1 (persistente pericolo di far del male a se stesso o agli altri ecc.). Può essere utilizzata per documentare gli esiti del trattamento, il tipo di trattamento (es. ospedaliero o ambulatoriale), il diritto all’assistenza o alla pensione d’invalidità. ASSI OPZIONALI SCALA DEL FUNZIONAMENTO DIFENSIVO: È utilizzata in particolare dai clinici di orientamento psicodinamico. Consta di 27 meccanismi di difesa raggruppati in 7 livelli difensivi: 1) alto livello adattivo (es. sublimazione, affiliazione ecc.); 2) livello delle inibizioni mentali (es. rimozione, spostamento dissociazione ecc.); 3) livello lieve di distorsione dell’immagine (svalutazione, idealizzazione, onnipotenza); 4) livello del disconoscimento (negazione, proiezione, razionalizzazione); 5) livello grave di distorsione dell’immagine (fantasie autistiche, identificazione proiettiva, scissione); 6) livello dell’azione (messa in atto, ritiro apatico ecc.); 7) livello della sregolazione difensiva (proiezione delirante, negazione psicotica, distorsione psicotica). SCALA DI VALUTAZIONE GLOBALE DEL FUNZIONAMENTO RELAZIONALE: È utilizzata, in particolare dai clinici interessati all’approccio familiare sistemico, per valutare il funzionamento di una famiglia o di un’altra entità relazionale su una scala da 100 (entità relazionale funzionante in modo soddisfacente) a 1 (entità relazionale troppo mal funzionante per consentire una continuità di contatto e di attaccamento), rispetto a tre aree (soluzione dei problemi, organizzazione, atmosfera emozionale. SCALA DI VALUTAZIONE DEL FUNZIONAMENTO SOCIALE E LAVORATIVO: simile alla scala di valutazione globale del funzionamento dell’asse V, se ne differenzia perché valuta il funzionamento tenendo conto anche dei problemi che derivano da malattie fisiche e non della gravità dei sintomi. LE DIAGNOSI DSM IV - DISTURBI DELL’INFANZIA, DELLA FANCIULLEZZA E DELL’ADOLESCENZA Comprendono dieci categorie di disturbi, diagnosticati di solito, ma non sempre, prima del raggiungimento dell’età adulta: Ritardo mentale; Disturbi dell’apprendimento (disturbo della lettura, del calcolo, o dell’espressione scritta); Disturbo delle capacità motorie; Disturbi della comunicazione (disturbo dell’espressione del linguaggio, misto dell’espressione e della ricezione, della fonazione, balbuzie); Disturbi generalizzati dello sviluppo (disturbo autistico, di Rett, di Asperger, disintegrativo della fanciullezza); Disturbi da deficit dell’attenzione e da comportamento dirompente (disturbo da deficit dell’attenzione/iperattività, disturbo della condotta, disturbo oppositivo provocatorio); Disturbi della nutrizione e dell’alimentazione (Pica, di ruminazione, della nutrizione dell’infanzia o della prima fanciullezza); Disturbi 79 da tic (disturbo di Tourette, cronico da tic motori o vocali, transitorio da tic); Disturbi dell’evacuazione (enuresi, encopresi); Altri disturbi dell’infanzia, della fanciullezza o dell’adolescenza (disturbo d’ansia di separazione, mutismo selettivo, reattivo dell’attaccamento, da movimenti stereotipati). Molti di questi disturbi non devono essere considerati come disturbi mentali. - DELIRIUM, DEMENZA, DISTURBO AMNESTICO E ALTRI DISTURBI COGNITIVI Disturbi caratterizzati da un deficit cognitivo (Delirium: alterazione della coscienza accompagnata da modificazioni cognitive, per es. allucinazioni, disorientamento, perdita della memoria ecc.; Demenza: deficit della memoria accompagnato da afasia, aprassia, agnosia o disturbi delle funzioni operative; Amnesia: menomazione della memoria) dovuto agli effetti diretti di una condizione medica generale (es. disturbi metabolici, alzheimer, trauma cranico ecc.) o dall’uso di qualche sostanza. DISTURBI MENTALI DOVUTI AD UNA CONDIZIONE MEDICA GENERALE NON CLASSIFICATI ALTROVE La caratteristica comune è quella della presenza di sintomi psicopatologici causati da una condizione medica generale. Comprende otto disturbi i cui criteri diagnostici sono collocati in altre sezioni (es. delirium dovuto a.., disturbo d’ansia dovuto a.., disturbo dell’umore dovuto a.. ecc.) e tre categorie di disturbi che non hanno posto altrove (disturbo catatonico dovuto a.., modificazione della personalità dovuta a.., disturbo mentale non altrimenti specificato dovuto a..). - DISTURBI CORRELATI A SOSTANZE Sono forniti i criteri generali e specifici per la diagnosi dei disturbi collegati all’uso di sostanze (dipendenza e abuso) e di quelli indotti dall’effetto diretto delle sostanze sul sistema nervoso centrale (intossicazione, astinenza, delirium, demenza, disturbo dell’umore, disturbo d’ansia ecc..) Il termine sostanza si riferisce alle droghe d’abuso, ma anche ai farmaci e alle tossine. Sono prese in considerazione 12 classi di sostanze (alcool; amfetamine; caffeina; cannabis; cocaina; allucinogeni; inalanti; nicotina; oppiacei; fenciclidina; sedativi, ipnotici e ansiolitici; sostanze diverse). - SCHIZOFRENIA E ALTRI DISTURBI PSICOTICI Comprende nove disturbi (Schizofrenia, Disturbo schizofreniforme, Disturbo schizoaffettivo, Disturbo delirante, Disturbo psicotico breve, Disturbo psicotico condiviso, Disturbo psicotico dovuto a condizione medica generale, Disturbo psicotico indotto da sostanze, Disturbo psicotico non altrimenti specificato) caratterizzati dalla presenza di sintomi psicotici (deliri, allucinazioni, eloquio disorganizzato, comportamento disorganizzato o catatonico, sintomi negativi) che variano da disturbo a disturbo. Non sono compresi in questa sezione i disturbi psicotici correlati ai disturbi dell’umore, al delirium, alla demenza, e il disturbo catatonico dovuto ad una condizione medica generale. - DISTURBI DELL’UMORE Comprendono sette disturbi (Disturbo depressivo maggiore, Disturbo distimico, Disturbo bipolare I, Disturbo bipolare II, Disturbo ciclotimico, Disturbo dell’umore dovuto a una condizione medica generale, Disturbo dell’umore indotto da sostanze) caratterizzati principalmente dalla presenza di umore (stato affettivo pervasivo e prolungato) prevalentemente depresso, esaltato o irritabile. - DISTURBI D’ANSIA Comprendono dodici disturbi (Fobia specifica, Fobia sociale, Disturbo d’ansia generalizzato, Disturbo ossessivocompulsivo, Disturbo di panico con e senza agorafobia, Agorafobia senza anamnesi di disturbo di panico, Disturbo post-traumatico da stress, Disturbo acuto da stress, Disturbo d’ansia dovuto a condizione medica generale, Disturbo d’ansia indotto da sostanze, Disturbo d’ansia non altrimenti specificato), caratterizzati dall’ansia o dall’evitamento fobico come sintomi dominanti. 80 - DISTURBI SOMATOFORMI Includono sette disturbi (Disturbo di somatizzazione, disturbo somatoforme indifferenziato, Disturbo di conversione, Disturbo algico, Ipocondria, Disturbo di dimorfismo corporeo, Disturbo somatoforme non altrimenti specificato) la cui caratteristica determinante è una lamentela fisica o una preoccupazione somatica che non è meglio attribuibile ad una condizione medica generale o ad un altro disturbo mentale. - DISTURBO FITTIZIO E SIMULAZIONE Comprende situazioni in cui il paziente simula o produce intenzionalmente sintomi per ingannare il clinico. - DISTURBI DISSOCIATIVI Comprendono cinque disturbi (Amnesia dissociativa; Fuga dissociativa; Disturbo dissociativo dell’identità; Disturbo di depersonalizzazione; Disturbo dissociativo non altrimenti specificato) caratterizzati da un’alterazione delle funzioni integrate di coscienza, memoria, identità e percezione. - DISTURBI SESSUALI E DELL’IDENTITA’ DI GENERE Comprendono tre categorie di disturbi: Le disfunzioni sessuali (Disturbi del desiderio sessuale, dell’eccitazione sessuale, dell’orgasmo, da dolore sessuale) che fanno riferimento ad anomalie del desiderio o del funzionamento sessuale, le parafilie (esibizionismo, feticismo, frotteurismo, pedofilia, masochismo sessuale, sadismo sesuale, feticismo di travestimento, voyeurismo) che fanno riferimento a preferenze sessuali insolite, e il disturbo dell’identità di genere. - DISTURBI DELL’ALIMENTAZIONE Comprendono tre categorie di disturbi (Anoressia nervosa, Bulimia nervosa e Disturbi dell’alimentazione non altrimenti specificati) caratterizzati da alterazione del comportamento alimentare e della percezione dell’immagine corporea. - DISTURBI DEL SONNO Comprendono quattro categorie di disturbi (Disturbi primari del sonno, Disturbi del sonno correlati ad un altro disturbo mentale, Disturbo del sonno dovuto ad una condizione medica generale, Disturbo del sonno indotto da sostanze) organizzati in base alla presunta eziologia. - DISTURBI DEL CONTROLLO DEGLI IMPULSI NON CLASSIFICATI ALTROVE Comprendono sei categorie di disturbi (Disturbo esplosivo intermittente, Cleptomania, Piromania, Gioco d’azzardo patologico, Tricotillomania, Disturbo del controllo degli impulsi non altrimenti specificato) caratterizzati da un comportamento impulsivo clinicamente significativo, non meglio attribuibile ad altro disturbo mentale. - DISTURBI DELL’ADATTAMENTO Sono caratterizzati dalla presenza di sintomi emotivi o comportamentali, clinicamente significativi (umore depresso, ansia, umore depresso e ansia misti, alterazioni della condotta, alterazione mista della condotta e dell’emotività), ma al di sotto della soglia stabilita dai criteri stabiliti per i vari disturbi, che si sviluppano a seguito di uno o più eventi stressanti identificabili, e non persistono una volta che l’evento sia stato superato. - DISTURBI DELLA PERSONALITA’ Prendono in considerazione i criteri diagnostici di 10 disturbi di personalità, suddivisi in tre gruppi (Gruppo A: Disturbo paranoide di personalità; Disturbo schizoide di personalità; Disturbo Schizotipico di personalità. Gruppo B: Disturbo antisociale di personalità; Disturbo borderline di personalità; Disturbo istrionico di personalità; Disturbo narcisistico di personalità. Gruppo C: Disturbo evitante di personalità; Disturbo dipendente di personalità; Disturbo ossessivocompulsivo di personalità), definiti in generale come modalità pervasive e costanti di pensare, sentire ed agire in modo 81 rigido e non adattivo, che deviano marcatamente rispetto alle aspettative della cultura dell’individuo, e che causano un disagio clinicamente significativo e compromissione di importanti aree dell’esistenza. - ALTRE CONDIZIONI CHE POSSONO ESSERE OGGETTO DI ATTENZIONE CLINICA Sono considerate alcune condizioni che possono essere oggetto di attenzione clinica a livello di diagnosi e di trattamento, ma che non sono di per sé disturbi mentali: Fattori psicologici che influenzano una condizione medica; Disturbi del movimento indotti da farmaci; Altro disturbo indotto da farmaci; Problemi relazionali (problema relazionale genitore-bambino, problema relazionale tra partner, ecc.); Problemi correlati a maltrattamento o abbandono (maltrattamento fisico del bambino o dell’adulto, abuso sessuale del bambino o dell’adulto, abbandono del bambino); Ulteriori condizioni che possono essere oggetto di attenzione clinica (non collaborazione al trattamento, comportamento antisociale del bambino, dell’adolescente o dell’adulto, declino cognitivo dovuto all’età, lutto, problema scolastico o lavorativo, problema di acculturazione, problema relativo ad una fase della vita ecc). La diagnosi esplicativa Lo scopo della diagnosi esplicativa è quello di giungere alla comprensione delle cause del disagio psicologico di un determinato individuo. Questa diagnosi non è, comunque, alternativa a quella nosografica, e può essere, pertanto, applicata alla creazione di un sistema di classificazione basato su nuove categorie unificate da una causa etiologica comune, o alla comprensione dei fattori eziologici all’interno delle singole categorie diagnostiche di uno dei sistemi di classificazione nosografica in uso. A differenza della diagnosi nosografica dove i sintomi rimandano solo a se stessi, alla loro durata e alla frequenza con cui compaiono in combinazione con altri segni e sintomi, la diagnosi esplicativa si sforza di dare significato ai sintomi, all’interno di un contesto dove anche ciò che non è patologico assume importanza. Limite della diagnosi esplicativa è la necessità di avere come riferimento imprescindibile l’insieme di assunti generali sul funzionamento della mente e sulle cause dei disturbi psicologici, così come sono concettualizzati da un determinato paradigma. Pertanto, clinici di diverso orientamento teorico, nel loro procedere diagnostico, esploreranno aree diverse del funzionamento psichico e relazionale dei loro pazienti, o a volte le stesse aree, ma utilizzando una diversa terminologia ed enfatizzandone in modo diverso l’importanza. Brevi esemplificazioni sulla diagnosi esplicativa relativa al paradigma psicoanalitico e cognitivo aiuteranno a meglio comprendere questi concetti: - La diagnosi psicoanalitica: Il paradigma psicoanalitico concettualizza i disturbi psicologici come conseguenze di carenze o traumi ambientali e di conflitti intrapsichici dell’età evolutiva, (riattivati da circostanze attuali nel caso di disturbi comparsi a distanza di tempo), tali da produrre deficit strutturali dell’Io o del Super-io, risposte emozionali (per es.angoscia, sentimento di colpa, vergogna) e/o operazioni mentali difensive (meccanismi di difesa) adattive o compensatorie che possono portare a distorsioni del funzionamento dell’Io e del Super-io e della personalità nel suo complesso, e alla comparsa di sintomi. La diagnosi psicoanalitica esplicativa, pertanto focalizza l’attenzione del clinico sull’individuazione dei traumi e dei conflitti intrapsichici attuali e passati, sulla valutazione dei deficit strutturali dell’Io (per es. scarsa capacità introspettiva, bassa tolleranza alle frustrazioni, minore capacità di gestire adeguatamente i propri bisogni ed emozioni, persistenza di caratteristiche di pensiero concreto e 82 magico, scarsa autostima e fragile senso d’identità ecc.) e del Super-io (per es. eccessiva rigidità morale o incapacità a adeguarsi alle norme sociali ecc.), sulla valutazione degli affetti (ansia, depressione, vergogna, gelosia , rabbia ecc.) e dei meccanismi di difesa prevalenti, e delle modalità relazionali con le persone significative e con il clinico. Gli strumenti di valutazione di cui si avvale il clinico ad orientamento psicodinamico per giungere alla diagnosi sono principalmente il colloquio clinico ed eventualmente test proiettivi di personalità. - La diagnosi cognitiva: nella prospettiva cognitivo razionalista i disturbi psicologici sono concettualizzati come conseguenze di asserzioni e convinzioni irrazionali sul dover essere in determinati modi, e di convinzioni negative su se stessi, il mondo e il futuro, mantenute grazie ad errori di logica, mentre nella prospettiva cognitivo strutturalista sono enfatizzate le conseguenza di sistemi conoscitivi rigidi e incoerenti e di stili d’attaccamento insicuri, di cui le persone avrebbero poca consapevolezza. Momento centrale della valutazione diagnostica è pertanto l’individuazione degli schemi cognitivi irrazionali e negativi o degli schemi prevalenti del sistema conoscitivo e delle esperienze precoci d’attaccamento che producono il disagio psicologico dei pazienti. Per tale valutazione i clinici si avvalgono di colloqui clinici, interviste più o meno strutturate, questionari di autovaluazione e risposte a situazioni stimolo standardizzate. Dato che gli psicologi clinici ad orientamento cognitivo si avvalgono anche di tecniche terapeutiche di tipo comportamentale, la valutazione diagnostica spesso viene estesa alle situazioni ambientali che precedono il problema del paziente e alle sue risposte esplicite, utilizzando l’osservazione diretta del comportamento, interviste diagnostiche e questionari di autovalutazione. 83 Parte VI: I disturbi psicologici DISTURBI D’ANSIA Comprendono dodici disturbi caratterizzati dall’ansia o dall’evitamento fobico come sintomi dominanti. - Fobia Specifica - Fobia sociale - Disturbo d’Ansia Generalizzato - Disturbo Ossessivo-Compulsivo - Disturbo di Panico con e senza agorafobia - Agorafobia senza anamnesi di disturbo di panico - Disturbo Post-traumatico da Stress - Disturbo acuto da Stress - Disturbo d’Ansia dovuto a condizione medica generale - Disturbo d’Ansia indotto da sostanze - Disturbo d’Ansia non altrimenti specificato 84 FOBIA SPECIFICA Diagnosi DSM-IV La fobia specifica si caratterizza per una marcata e persistente paura, eccessiva o irragionevole, provocata dalla presenza o dall’attesa di un oggetto o di una situazione specifici (per es. animali, sangue, volare, altezze) [criterio A]. L’esposizione allo stimolo fobico provoca un’immediata risposta ansiosa che può sfociare in un attacco di panico situazionale (nei bambini l’ansia può essere espressa tramite pianti, scoppi d’ira, irrigidimenti, o aggrappandosi) [criterio B]. La persona, non necessariamente i bambini, riconosce che le paure sono eccessive ed irragionevoli [criterio C]. Le situazioni fobiche vengono evitate o sopportate con intenso disagio [criterio D], e l’evitamento o il disagio collegato alle situazioni temute deve significativamente interferire con il funzionamento lavorativo, sociale o deve essere presente marcato disagio per il fatto di soffrire di questo disturbo [criterio E]. La durata del disturbo nei minori deve essere di almeno 6 mesi [criterio F]; infine, il disturbo non deve essere meglio giustificato da altro disturbo mentale o da una condizione medica generale o dall’assunzione di sostanze [criterio G]. [Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 226-228]. Le fobie specifiche sono dunque comportamenti di evitamento di cose o situazioni specifiche che attivano un’ansia sproporzionata e irragionevole. Possono essere divise in sottotipi a seconda della fonte della paura, e il loro contenuto può variare nelle varie culture. Sono esperienze comuni e ubiquitarie che spesso non creano un problema tale da richiedere un trattamento. Importante per il discrimine fra normalità e patologia e quindi per considerare questi comportamenti come un disturbo psicologico è il criterio E. La teoria psicoanalitica spiega la fobia specifica come conseguenza dello spostamento (meccanismo di difesa) dell’angoscia segnale su oggetti o situazioni che hanno una relazione simbolica con la situazione traumatica rimossa, in questo modo il pericolo viene fronteggiato con l’evitamento, e viene rafforzata la rimozione della situazione originaria fonte dell’ansia (vedi il caso del piccolo Hans descritto da Freud). Le teorie comportamentali considerano le fobie specifiche come comportamenti appresi mediante condizionamento classico, operante e imitazione di modelli. La teoria del condizionamento all’evitamento ritiene che la fobia si sviluppi attraverso due processi di apprendimento interconnessi, un iniziale condizionamento classico che porta ad associare un evento che produce dolore o paura ad uno stimolo neutro e un successivo condizionamento operante all’evitamento con rinforzo positivo determinato dalla conseguente riduzione dell’ansia. Gli studi clinici e sperimentali basati su questa teoria hanno prodotto dati molto contrastanti (vedi Davison e Neale, pag. 129-132) che suggeriscono il coinvolgimento anche di processi di diverso tipo. La teoria dell’apprendimento vicario, considera all’origine delle fobie l’osservazione delle reazioni di paura degli altri o la descrizione di ciò che potrebbe accadere. Anche in questo caso non si tratta di un modello esplicativo valido per tutte le fobie, perché non tutti i fobici riferiscono di avere assistito ad esperienze spiacevoli di altre persone, e molte persone che vi hanno assistito non sviluppano fobie. Le teorie cognitive sull’origine delle fobie danno rilievo al fatto che le persone che sviluppano fobie o altri disturbi d’ansia, a differenza di quelle che non le sviluppano avrebbero una spiccata tendenza a prestare attenzione agli stimoli negativi e una più alta aspettativa sul verificarsi di eventi negativi nel futuro. 85 FOBIA SOCIALE Diagnosi DSM-IV La fobia sociale si contraddistingue per una paura marcata e persistente nei confronti di situazioni sociali o prestazioni che comportano l’esposizione a persone non familiari o il possibile giudizio di altri. In tali situazioni la persona teme di mostrare ansia o di agire in modo umiliante ed imbarazzante (nei bambini deve essere presente la capacità di stabilire rapporti appropriati all’età con persone familiari, e l’ansia deve manifestarsi nell’interazione con i coetanei e non solo con gli adulti) [criterio A]. L’esposizione alla situazione temuta causa ansia che può assumere le forme dell’attacco di panico causato o sensibile alla situazione (nei bambini l’ansia può essere espressa con pianti, scoppi d’ira o irrigidimento) [criterio B]. La persona adulta, non necessariamente i bambini, riconosce che la paura è eccessiva o irragionevole [criterio C]. Le situazioni temute sono evitate o sopportate con intensa ansia o disagio [criterio D] e l’evitamento delle situazioni, l’ansia anticipatoria o il disagio provato nelle situazioni sociali o prestazionali interferiscono significativamente con il funzionamento lavorativo (o scolastico), o con le attività e le relazioni sociali, oppure è presente marcato disagio per il fatto di avere la fobia [criterio E]. Il disturbo, nei minori, deve essere presente da almeno sei mesi [criterio F]. La fobia non deve essere giustificabile dall’assunzione di sostanze o da una condizione medica generale, o da una diverso disturbo mentale [criterio G], e nel caso fossero presenti altri disturbi mentali (ad es. un disturbo della comunicazione) o una condizione medica generale compromessa (ad es. il tremore nella malattia di Parkinson) la paura non deve essere a loro correlata [criterio H]. [Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 228-230]. Così come per le fobie specifiche, anche un certo grado di ansia sociale può considerarsi come un’esperienza comune, per esempio quando si deve parlare in pubblico o si affronta un esame, o si partecipa a feste o riunioni senza conoscere nessuno. Il confine fra normalità e patologia lo troviamo negli aggettivi marcata e persistente che accompagnano il termine paura nel criterio A, e nel forte disagio e notevole compromissione della vita sociale e lavorativa che il disturbo produce nelle persone che ne soffrono, come specificato dal criterio E. Si tratta di un disturbo con un tasso di prevalenza superiore al 10%, con esordio spesso nell’adolescenza e che presenta un alto tasso di comorbilità con altri disturbi d’ansia e con il disturbo evitante di personalità. Può presentarsi in forma circoscritta a determinate situazioni o in forma generalizzata. Il criterio C stabilisce il confine fra la fobia sociale e l’evitamento sociale della schizofrenia o del disturbo schizotipico di personalità. La teoria psicoanalitica spiega la fobia sociale come conseguenza dell’interiorizzazione nel Super Io e nell’Ideale dell’Io di rappresentazioni di genitori o agenti di cura o fratelli, idealizzati nelle loro capacità e prestazioni, e che inducono vergogna o imbarazzo, criticano, ridicolizzano, umiliano per le ovvie goffaggini dei primi tentavi di esibizione delle proprie capacità. La proiezione di questi introietti sugli estranei permette alla persona di gestire l’ansia con l’evitamento. Le teorie comportamentali considerano la fobia sociale, similmente alle fobie specifiche, come un comportamento appreso mediante condizionamento classico, operante e imitazione di modelli. Le teorie cognitive danno rilievo alla tendenza a prestare attenzione agli stimolo negativi e all’immagine di sé presentata agli altri, ad una più alta aspettativa sul verificarsi di eventi negativi nel futuro, e ad un deficit nell’apprendimento delle abilità sociali che faciliterebbe il non sentirsi a proprio agio con gli altri, e l’essere oggetto di critiche per gli errori commessi. 86 DISTURBO D’ANSIA GENERALIZZATO Diagnosi DSM-IV Il disturbo d’ansia generalizzato è caratterizzato da ansia e preoccupazione eccessive per vari eventi o attività, che si manifestano per la maggior parte dei giorni e per almeno sei mesi [criterio A]. L’ansia e la preoccupazione sono difficilmente controllabili [criterio B], e sono associate ad almeno tre sintomi tra i seguenti: irrequietezza, facile affaticabilità, difficoltà a concentrarsi o vuoti di memoria, irritabilità, tensione muscolare, alterazioni del sonno [criterio C]. L’oggetto dell’ansia non deve limitarsi a preoccupazioni specifiche di altri disturbi dell’asse I, come per es. l’ansia di avere un attacco di panico (disturbo di panico), di rimanere imbarazzati in pubblico (fobia sociale), di essere contaminati (disturbo ossesivo-compulsivo), di prendere peso (anoressia nervosa), di avere diversi disturbi fisici (disturbo di somatizzazione) ecc., e l’ansia e la preoccupazione non devono manifestarsi esclusivamente durante un disturbo post-traumatico da stress [criterio D]. I sintomi devono causare disagio significativo nella sfera personale, lavorativa, sociale od in altre aree importanti dell’esistenza [criterio E]. Il disturbo, infine, non è dovuto all’uso di sostanze, ad una condizione medica generale e non si manifesta durante un disturbo dell’umore, un disturbo psicotico o un disturbo pervasivo dello sviluppo [criterio F]. [Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 237-238]. Anche in questo caso è importante distinguere il disturbo dalle preoccupazioni cosiddette normali e da quelle transitorie, il carattere distintivo di questo disturbo è, infatti, la cronicità e pervasività della preoccupazione ansiosa con i suoi correlati somatici, e la mancanza di controllo della preoccupazione, che non permette alla persona di gestire efficacemente i problemi che di volta in volta assillano la sua mente. Vi sono evidenze di eventi di vita stressanti nell’insorgenza del disturbo. La comorbilità con altri disturbi d’ansia e dell’umore è alta, ed è maggiore la frequenza nelle donne. La teoria psicoanalitica spiega il disturbo d’ansia generalizzato come la conseguenza dell’attivazione persistente dell’angoscia segnale a seguito di eventi di vita collegati associativamente con conflitti intrapsichici o traumi rimossi della storia della persona. La persistenza del segnale d’ansia e la variabilità dei contenuti a cui si appoggia viene spiegata con l’inefficienza dei vari meccanismi di difesa messi in atto, o a causa di un Io fragile o a causa di una persistente sollecitazione di situazioni ambientali collegate con conflitti intrapsichici e traumi rimossi. Il modello esplicativo comportamentale è del tutto simile quello proposto per le fobie. Il modello esplicativo delle teorie cognitive si basa sui concetti di controllo e impotenza. Le persone che soffrono di questo disturbo percepirebbero gli eventi potenzialmente minacciosi come completamente fuori del loro controllo. A ciò si aggiungerebbe una tendenza ad interpretare gli stimoli ambigui come minacciosi, un’attenzione privilegiata per gli stimoli minacciosi, anche quando non sono percepibili a livello conscio, e una più alta aspettativa sul verificarsi di eventi negativi nel futuro. Le ricerche biologiche ipotizzano in questi pazienti la presenza di un difetto del sistema GABA che inibisce l’ansia. 87 DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO Diagnosi DSM-IV Il disturbo ossessivo-compulsivo è caratterizzato dalla presenza di ossessioni e di compulsioni così definite: Ossessioni: pensieri, impulsi o immagini ricorrenti e persistenti che la persona vive come intrusivi o inappropiati, che causano ansia e disagio marcati, e che la persona tenta di ignorare o sopprimere attraverso altri pensieri o azioni. Questi pensieri, impulsi o immagini non sono semplici preoccupazioni per avvenimenti della vita reale e la persona riconosce che sono prodotti della propria mente e non imposti dall’esterno. Compulsioni: comportamenti ripetitivi (es. lavarsi, riordinare, controllare) o azioni mentali (es. pregare, contare mentalmente) che la persona sente di dover mettere in atto in risposta ad un’ossessione e secondo regole rigide, per prevenire o ridurre il disagio, o per prevenire, in modi non realistici o eccessivi, eventi temuti. [criterio A] Nel corso del disturbo le persone, ma non sempre i bambini, riconoscono, almeno in qualche momento, che le ossessioni e le compulsioni sono eccessive o irragionevoli [criterio B]. Le ossessioni o le compulsioni devono, inoltre, causare marcato disagio, far consumare tempo (più di un’ora al giorno), o interferire significativamente con le abitudini della persona, con il funzionamento lavorativo o con le attività relazionali e sociali usuali [criterio C]. In caso di concomitanza di un altro disturbo, le ossessioni e le compulsioni non devono essere riferite al contenuto specifico di quel disturbo, ad esempio l’ossessione per il cibo nei disturbi dell’alimentazione, o per il proprio aspetto nel disturbo di dismorfismo corporeo, lo strapparsi i capelli nella tricotillomania o la ruminazione di colpa in presenza di un disturbo depressivo maggiore [criterio D]. Il disturbo, infine, non deve essere causato dall’uso di sostanze o da una condizione medica generale [criterio E]. [Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 230-232]. Saltuarie ossessioni (per es. sotto forma di pensieri, immagini o melodie che si presentano improvvisamente nella mente senza apparente motivo, creando fastidio per il loro contenuto o per la difficoltà a metterli da parte) o compulsioni (per es. sotto forma di rituali propiziatori prima di qualche evento importante, o che si trasformano in abitudini) fanno parte, in qualche momento della vita, dell’esperienza comune delle persone, senza tuttavia interferire in modo significativo con le normali attività. Ben diversa è la situazione delle persone che soffrono del disturbo ossessivocompulsivo per le quali la quotidiana presenza dei sintomi ossessivi e/o compulsivi, persistenti e incontrollabili, diventa fonte di notevole disagio e di significativa compromissione della vita affettiva, sociale e lavorativa. Frequente è inoltre l’associazione con altri disturbi d’ansia, con disturbi dell’umore e con vari disturbi di personalità. La teoria psicoanalitica spiega il disturbo ossessivo-compulsivo come la conseguenza dell’attivazione di meccanismi di difesa quali, la formazione reattiva, l’annullamento e l’isolamento per controllare l’angoscia segnale attivata da eventi di vita collegati associativamente con conflitti psichici rimossi. Questi ultimi vengono ricondotti fondamentalmente al timore di perdere il controllo su desideri e impulsi di natura aggressiva e/o sessuale ritenuti come riprovevoli e vergognosi da un Super Io rigido, frutto dell’interiorizzazione delle aspettative e dei divieti dei genitori durante il periodo dell’apprendimento del controllo comportamentale e degli sfinteri. Le teorie cognitivo comportamentali considerano le compulsioni come comportamenti appresi rinforzati dalla conseguente riduzione dell’ansia. Per le ossessioni viene ipotizzato che in questi pazienti, a causa di esperienze infantili da cui hanno appreso che alcuni pensieri sono pericolosi o riprovevoli, non tollerino pensieri spiacevoli che si affacciano casualmente alla mente per cui cercano di sopprimerli creando un effetto paradosso di una forte concentrazione su di essi. 88 La prospettiva biologica ipotizza una possibile diatesi genetica e un ruolo della dopamina e dell’acetilcolina. DISTURBO DI PANICO SENZA AGORAFOBIA E DISTURBO DI PANICO CON AGORAFOBIA Diagnosi DSM-IV Si caratterizzano per la presenza di attacchi di panico (vedi definizione) ricorrenti ed inaspettati, di cui almeno uno è seguito per almeno un mese da uno o più dei seguenti sintomi: 1) preoccupazione persistente di avere altri attacchi; 2) preoccupazione a proposito delle implicazioni dell’attacco o delle sue conseguenze (per es. perdere il controllo, avere un attacco cardiaco, impazzire); 3) significativa alterazione del comportamento correlata agli attacchi [criterio A]. La presenza o l’assenza di agorafobia (vedi definizione) è l’elemento per una diagnosi differenziale tra i due disturbi [criterio B]. Gli attacchi di panico non devono essere meglio giustificati, da una generale condizione medica o da uso di sostanze [criterio C], o da un diverso disturbo mentale come una fobia specifica o sociale un disturbo d’ansia di separazione, un disturbo ossessivo-compulsivo o post-traumatico da stress [criterio D]. [Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 223-225]. ATTACCO DI PANICO L’attacco di panico si manifesta come un preciso periodo di paura o disagio intensi, durante il quale si sviluppano improvvisamente, raggiungendo un picco in circa dieci minuti, almeno quattro dei seguenti sintomi: 1) palpitazioni, cardiopalmo o tachicardia; 2) sudorazione; 3) tremori fini o a grandi scosse; 4) dispnea o sensazione di soffocamento; 5) sensazione d’asfissia; 6) dolore o fastidio al petto; 7) nausea o disturbi addominali; 8) sensazione di sbandamento, d’instabilità, di testa leggera o di svenimento; 9) derealizzazione (senso d’irrealtà del mondo) o di depersonalizzazione (sensazione di essere distaccati da se stessi); 10) paura di perdere il controllo o di impazzire; 11) paura di morire; 12) parestesie (sensazione di torpore o di formicolio); 13) brividi o vampate di calore. Gli attacchi di panico sono definiti come causati dalla situazione quando sono fortemente associati a fattori scatenanti ben individuabili, come sensibili alla situazione quando l’associazione è meno forte, e inaspettati quando appaiono in situazioni che non li giustificano. Per fare diagnosi di disturbo di panico devono essere presenti attacchi inaspettati e ricorrenti, mentre l’esclusiva presenza di attacchi causati dalla situazione riflette la presenza di una fobia. [Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 221-222]. AGORAFOBIA Con agorafobia si intende l’ansia relativa al trovarsi in luoghi o situazioni dai quali sarebbe difficile o imbarazzante allontanarsi, o nei quali potrebbe non essere disponibile aiuto nel caso di un attacco di panico inaspettato o sensibile alla situazione o di sintomi tipo panico. Il timore agorafobico riguarda situazioni caratteristiche che includono l’essere fuori casa da soli, l’essere in mezzo alla folla o in coda, l’essere su un ponte, il viaggiare in autobus, in treno od in automobile [criterio A]. Tali situazioni vengono attivamente evitate oppure sopportate con grande disagio e con l’aspettativa di incorrere in un attacco di panico, oppure viene richiesta la presenza di un accompagnatore 89 [criterio B]. L’ansia e l’evitamento non sono giustificati da un altro disturbo come la fobia specifica (evitamento limitato ad una specifica situazione), la fobia sociale (evitamento limitato a situazioni sociale che possono causare imbarazzo), disturbo ossessivo-compulsivo (evitamento delle situazioni specificatamente legate alla ossesione), disturbo post-traumatico da stress (evitamento limitato a situazioni associate con il trauma subito), disturbo d’Ansia da separazione (evitamento specifico della separazione dalla casa o dai familiari) [criterio C]. [Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 222-223]. AGORAFOBIA SENZA ANAMNESI DI DISTURBO DI PANICO Diagnosi DSM-IV Si caratterizza per la presenza di agorafobia correlata alla paura della comparsa di sintomi di tipo panico, come vertigini o diarrea [criterio A]. Nell’anamnesi non devono risultare soddisfatti i criteri per il disturbo di panico [criterio B], ed il disturbo non è dovuto all’assunzione di sostanze o da altra condizione medica generale [criterio C]. Nel caso sia presente una condizione medica generale la paura di cui al criterio A deve essere chiaramente in eccesso rispetto a quella abitualmente legata a quella condizione [criterio D]. [Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 225-226]. Il disturbo di panico è caratterizzato al suo esordio dalla comparsa improvvisa e inaspettata di uno o più episodi di ansia estrema, apparentemente priva di contenuti psicologici, accompagnata da una vasta gamma di correlati fisiologici di questa emozione (tachicardia, sudorazione, dispnea, ecc.), e dagli effetti fisiologici dell’iperventilazione (testa leggera, parestesie, tetania muscolare ecc.) che alimentano l’ansia, in un continuo crescendo, a causa del significato di possibile morte imminente che la persona attribuisce alla sintomatologia fisica. Il tentativo, inoltre, di prendere una distanza emotiva dall’evento e attenuare l’ansia dissociandosi dall’evento, può inoltre dare luogo ai fenomeni della depersonalizzazione e derealizzazione, che alimentano ulteriormente l’ansia per la paura che siano segno di una imminente perdita delle facoltà mentali. A questo esordio acuto, specialmente se il disturbo non viene subito riconosciuto e trattato, fa seguito una cronicizzazione del disagio psicologico causata dalla paura del ripetersi di un attacco di panico. Questa paura provoca, infatti, una focalizzazione dell’attenzione della persona sul proprio corpo, con la tendenza ad interpretare come prodromi dell’attacco ogni segnale di attivazione fisiologica anche di lieve entità, cosa che a sua volta tende a generare un nuovo attacco di panico. Un’ulteriore complicazione del quadro clinico deriva dall’attivarsi di comportamenti d’evitamento (agorafobia) di tutti quei luoghi o situazioni che la persona teme possano attivare un attacco di panico, senza la possibilità di allontanarsi o ricevere aiuto. Questi comportamenti di evitamento predispongono, infatti, alla comparsa di attacchi di panico situazionali o sensibili alla situazione, e progressivamente riducono gli spazi vitali della persona, fino a giungere nelle forme più gravi a situazioni in cui la persona si allontana da casa solo in perimetri limitati considerati sicuri e con un accompagnatore di fiducia, o si rinchiude in casa con la richiesta della presenza continua di un’altra persona, pena la ricomparsa del panico. Il disturbo insorge tipicamente nell’adolescenza, ma può presentasi anche in età adulta, associato ad eventi di vita stressanti, ed è comune la comorbilità con il disturbo depressivo maggiore e con i disturbi di personalità. Nella concezione psicoanalitica l’attacco di panico è conseguente all’attivazione dell’angoscia segnale a seguito di eventi di vita che implicano l’aspettativa di un qualche cambiamento di vita, a causa della perdita o del timore della perdita di figure d’attaccamento significative, e/o di spinte 90 verso l’indipendenza e l’autonomia. Si tratterebbe, di frequente, di persone che hanno difficoltà a modulare l’oscillazione fra i bisogni di autonomia e dipendenza, e che fino ad allora hanno condotto la loro vita mostrando agli altri e a se stessi autonomia e indipendenza, ma in situazioni di fatto protette. Questi eventi di vita riattiverebbero situazioni traumatiche infantili che avevano fatto vivere con ansia la socializzazione primaria, la separazione come una minaccia, e l’attaccamento come una trappola senza uscita. Esempi di questi traumi sono una separazione prematura dai genitori che anima un profondo senso di solitudine e angoscia depressiva a causa di una costanza dell’oggetto non sufficientemente consolidata (immagine interna del genitore che protegge e tranquillizza), o un conflitto intrapsichico che prende le mosse da una tendenza temperamentale, innata o facilitata dall’ambiente, a vivere il nuovo e l’estraneo alla famiglia come una minaccia, e che porta il piccolo bambino a rivolgersi alla protezione di genitori vissuti però come critici, controllanti ed esigenti, o comunque non supportivi per le fragilità psicologiche, ma solo per la malattia fisica. Il conseguente animarsi di sentimenti di rabbia verso i genitori provocherebbe un circolo vizioso di colpa e paura di abbandono, un’accentuazione della dipendenza e quindi dell’ostilità (Gabbard, 2002). Lo spostamento del segnale d’angoscia da una situazione psicologica, vissuta senza via d’uscita e che mette in crisi il senso d’identità, ai sintomi somatici, nell’immediato accentua l’angoscia, ma subito dopo ne facilita l’attenuazione perché per la malattia fisica o per ciò che è incomprensibile si può chiedere e ricevere aiuto senza avvertire l’umiliazione della dipendenza. Ulteriori difese a consolidamento della rimozione possono complicare il quadro clinico. Si tratta di difese basate sullo spostamento dell’ansia sui fenomeni fisici, sulla proiezione dei bisogni di dipendenza e delle difficoltà di separazione su persone implicate nel conflitto attuale, e sull’evitamento fobico di luoghi o situazioni che la persona teme possano attivare il panico, specie in presenza di estranei, cosa che l’esporrebbe alla vergogna del mostrare la propria paura, senza la possibilità di allontanarsi o di ricevere aiuto immediato (agorafobia). I clinici di orientamento cognitivo enfatizzano il ruolo di schemi cognitivi che portano a vivere con eccessiva preoccupazione le sensazioni fisiologiche anche lievi, che verrebbero, quando inesplicabili, amplificate e considerate, segno di una malattia fisica grave e incombente. Si generebbe così una spirale d’ansia che scatena l’attacco di panico. L’agorafobia viene ricondotta alla “paura della paura”, cioè alla paura di perdere il controllo di sé, in caso di un attacco di panico in un luogo pubblico (Davison e Neal, 2000). Per i clinici di orientamento cognitivo costruttivista un fattore predisponente al disturbo di panico é uno stile di attaccamento di tipo preoccupato. La ricerca di tipo biologico ha richiamato l’attenzione sulla familiarità del disturbo, e sul ruolo scatenante l’attacco di panico dell’iperventilazione e dell’accumulo di acido lattico prodotto dallo sforzo muscolare. Per questi ultimi fattori le ricerche evidenziano, tuttavia, che non è lo stimolo biologico a scatenare l’attacco, ma la reazione psicologica dei soggetti che già soffrono del disturbo. DISTURBO POST-TRAUMATICO DA STRESS Diagnosi DSM-IV Per la diagnosi del disturbo post-traumatico da stress è innanzi tutto necessario che la persona abbia vissuto, assistito o si sia confrontata con un evento traumatico che ha implicato la morte o la minaccia di morte o gravi lesioni o una minaccia all’integrità fisica propria o altrui, e che la persona abbia reagito all’evento con intensa paura, sentimenti d’impotenza o di orrore (nei bambini questi ultimi sintomi possono essere espressi con comportamento disorganizzato) [criterio A]. 91 Successivamente l’evento traumatico viene rivissuto persistentemente attraverso una o più dei seguenti modi: 1) ricordi ricorrenti ed intrusivi dell’evento (nei bambini posso presentarsi giochi ripetitivi che presentano aspetti legati al trauma); 2) sogni spiacevoli ricorrenti legati al trauma; 3) sensazione di rivivere l’evento traumatico tramite allucinazioni, illusioni, o episodi dissociativi di flashback; 4) intenso disagio all’esposizione di stimoli che ricordano anche simbolicamente l’evento traumatico; 5) aumentata reattività fisiologica all’esposizione a stimoli che possono essere associati anche solo simbolicamente all’evento traumatico [criterio B]. Il disturbo é caratterizzato inoltre dall’evitamento persistente degli stimoli associati al trauma e attenuazione della reattività generale [criterio C], e dalla presenza persistente di sintomi di aumentato arousal [criterio D]. Il criterio C è soddisfatto se sono presenti tre o più dei seguenti elementi: 1) sforzi per evitare pensieri, sensazioni, conversazioni, associate al trauma; 2) sforzi per evitare attività, luoghi o persone associate al trauma; 3) incapacità di ricordare aspetti del trauma; 4) marcata riduzione dell’interesse o della partecipazione ad attività significative; 5) sentimenti di distacco o di estraneità verso gli altri; 6) ridotta affettività; 7) sentimenti di diminuzione delle prospettive future. Il criterio D è soddisfatto se sono presenti in modo persistente almeno due dei seguenti sintomi: difficoltà a addormentarsi od a mantenere il sonno; irritabilità; difficoltà a concentrarsi; ipervigilanza; esagerate risposte d’allarme. La durata del disturbo deve essere superiore ad un mese [criterio E], ed infine il disturbo deve causare un disagio clinicamente significativo o menomazione nel funzionamento sociale, lavorativo o in altre aree importanti dell’esistenza [criterio F]. Il disturbo post-traumatico da stress viene classificato come acuto se la durata dei sintomi é inferiore a 3 mesi, cronico se la durata dei sintomi è di 3 o più mesi, ad esordio ritardato se i sintomi compaiono dopo almeno 6 mesi dall’evento stressante. [Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 237-238]. Descritto già all’inizio del secolo scorso durante la prima guerra mondiale, il disturbo posttraumatico da stress è stato introdotto come categoria diagnostica a seguito dell’evidenza dei gravi postumi psicologici riscontrati in molti reduci della guerra del Vietnam. La definizione diagnostica del disturbo richiama subito l’attenzione sulla sua causa, un evento traumatico di notevole intensità (morte, minaccia di morte, gravi lesioni, minaccia fisica), che ha coinvolto direttamente la persona come vittima o come osservatore; evento di fronte al quale la persona si è sentita impotente e che ha comportato una immediata reazione emotiva di paura ed orrore, e a cui segue, per un tempo superiore al mese, un corredo sintomatologico caratterizzato dall’oscillazione fra il rivivere con persistenza l’evento tramite ricordi, incubi e flashback, il persistente mantenimento di uno stato d’allerta, e all’opposto il tentativo di dimenticare l’evento o almeno attenuare la percezione delle proprie emozioni. Questa definizione dà particolare rilievo alla gravità dello stress, ma tiene conto solo in parte dei fattori soggettivi quando parla della reazione immediata di intensa paura e di orrore e senso d’impotenza, non considerando a sufficienza altri fattori individuali, che dovrebbero spiegare il fatto che non tutte le persone che hanno subito o assistito ad un evento traumatico del tipo considerato dalla diagnosi sviluppano il disturbo. Si tratta di una scelta atta ad evitare che nelle cause di risarcimento la responsabilità del disagio psicologico venisse attribuita a difetti di carattere della persona e non al trauma subito. Varie ricerche hanno comunque indagato sui fattori individuali predisponenti o facilitanti e sull’importanza del significato soggettivo con cui si vive l’evento, fermo restando che al crescere della gravità dell’evento traumatico, del tempo di esposizione, e dell’intensità della reazione psicologica immediata, aumenta la probabilità di comparsa del disturbo. Fra i fattori individuali predisponenti e facilitanti è stata richiamata l’attenzione sull’appartenenza al sesso femminile, sulla familiarità o la presenza di qualche disturbo psicologico, su esperienze negative o traumatiche nell’infanzia, sulla compromissione del sistema di supporto sociale, sulla 92 tendenza ad assumersi la responsabilità per gli eventi negativi, sulla tendenza a percepire il locus of control come esterno e a adottare strategie di coping centrate sul controllo delle emozioni. I clinici di orientamento psicoanalitico spiegano la sintomatologia del disturbo con l’oscillazione fra il tentativo di rimuovere il trauma o attenuarne l’impatto emotivo con i meccanismi di difesa della dissociazione e dell’evitamento, che però impediscono l’elaborazione dell’evento, e la coazione a ripetere, intesa come tentativo di integrare l’evento e le emozioni da esso prodotte nelle preesistenti convinzioni su di sé e sul mondo. La teoria dell’apprendimento spiega il disturbo con un processo di condizionamento classico della paura conseguente all’associazione fra l’evento traumatico e stimoli neutri e con un successivo condizionamento operante all’evitamento con rinforzo positivo determinato dalla riduzione dell’ansia. I clinici di orientamento cognitivista danno rilievo alle conseguenze del senso di perdita di controllo e di ineluttabilità provocate dall’evento traumatico. DISTURBO ACUTO DA STRESS Diagnosi DSM-IV Per la diagnosi del disturbo acuto da stress è innanzitutto necessario che la persona abbia vissuto, assistito o si sia confrontata con un evento traumatico che ha implicato la morte o la minaccia di morte o gravi lesioni o una minaccia all’integrità fisica propria o altrui, e che la persona abbia reagito all’evento con intensa paura, sentimenti di impotenza o di orrore [criterio A]. Inoltre durante o dopo l’evento, la persona deve presentare almeno tre dei seguenti sintomi dissociativi: sensazione soggettiva d’insensibilità, distacco, o assenza di reattività emozionale; riduzione della consapevolezza dell’ambiente circostante (per es. rimanere storditi); derealizzazione; depersonalizzazione; amnesia dissociativa (cioè incapacità di ricordare qualche aspetto importante del trauma) [criterio B]. Ulteriori criteri per la diagnosi sono: il rivivere persistentemente l’evento traumatico attraverso immagini, pensieri, sogni, illusioni, flashback, oppure disagio all’esposizione a ciò che ricorda l’evento traumatico [criterio C]; un marcato evitamento degli stimoli associati al trauma (pensieri, sensazioni, conversazioni, attività, luoghi, persone) [criterio D]; la presenza di sintomi di ansia o di aumentata reattività emozionale (difficoltà a dormire, irritabilità, scarsa capacità di concentrazione, ipervigilanza, risposte di allarme esagerate, irrequietezza motoria) [criterio E]. Il disturbo, inoltre, deve causare disagio clinicamente significativo o disfunzione nel funzionamento sociale, lavorativo o in altre aree importanti, oppure compromettere la capacità di svolgere compiti fondamentali e di chiedere aiuto ai familiari [criterio F], deve durare almeno due giorni e fino ad un massimo di quattro settimane, manifestarsi entro quattro settimane dal trauma, e deve concludersi nell’arco di sei mesi [criterio G], e, infine non deve essere causato dall’assunzione di sostanze o da una condizione medica generale, non deve essere meglio giustificabile da un Disturbo Psicotico Breve, o rappresentare l’esacerbazione di un altro disturbo preesistente [criterio H]. [Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 237-238]. Si tratta di una nuova e controversa categoria diagnostica introdotta nel DSM-IV. I criteri diagnostici sono simili a quelli del disturbo post-traumatico da stress, da cui si differenzia per l’inclusione dei sintomi dissociativi e per la minore durata. Nel 40% dei casi il disturbo acuto evolve nel disturbo post-traumatico. Il criterio F è importante per differenziare questo disturbo dalle reazioni sintomatologiche allo stress estremo considerate come prevedibili e normali. 93 [Da alcuni clinici è stato proposto di includere questo disturbo fra i disturbi dissociativi, o di creare una sezione separata basata sull’eziologia correlata allo stress che comprendesse il disturbo acuto e post-traumatico da stress e il disturbo dell’adattamento.] DISTURBO D’ANSIA DOVUTO A CONDIZIONE MEDICA GENERALE Quadri clinici in cui predominano ansia rilevante, o attacchi di panico, o ossessioni e compulsioni, e vi è evidenza dall’anamnesi, dall’esame fisico o dai dati di laboratorio che il disturbo è la conseguenza diretta di una condizione medica generale (per es. iper e ipotiroidismo, ipoglicemia, aritmia, iperventilazione, deficit di vitamina B, encefaliti, tumori cerebrali ecc.). Il disturbo deve causare disagio clinicamente significativo. DISTURBO D’ANSIA INDOTTO DA SOSTANZE Quadri clinici in cui predominano ansia rilevante, o attacchi di panico, o ossessioni e compulsioni, e vi è evidenza dall’anamnesi, dall’esame fisico o dai dati di laboratorio che i sintomi sono comparsi entro un mese dall’intossicazione o dall’astinenza da sostanze eziologicamente correlate al disturbo. Il disturbo deve causare disagio clinicamente significativo. DISTURBO D’ANSIA NON ALTRIMENTI SPECIFICATO Quadri clinici in cui predominano ansia o evitamento fobico e che non soddisfano i criteri di alcuno degli altri disturbi d’ansia o del disturbo dell’adattamento. 94 DISTURBI DISSOCIATIVI Comprendono cinque disturbi caratterizzati da un’alterazione delle funzioni integrate di coscienza, memoria, identità e percezione. - Amnesia Dissociativa - Fuga Dissociativa - Disturbo Dissociativo dell’Identità - Disturbo di Depersonalizzazione - Disturbo Dissociativo non altrimenti specificato Amnesia Dissociativa Diagnosi DSM-IV L’amnesia dissociativa si caratterizza per la presenza di almeno un episodio d’incapacità a ricordare dati personali importanti, di solito di natura traumatica o stressante, che risulta troppo estesa per essere spiegata come banale tendenza a dimenticare [criterio A]. L’alterazione della memoria non deve manifestarsi esclusivamente nel corso di un disturbo dissociativo d’identità, fuga dissociativa, disturbo post-traumatico da stress, disturbo Acuto da Stress o disturbo di Somatizzazione, e non è dovuta all’effetto fisiologico diretto di una sostanza, oppure a una condizione medica generale o neurologica [criterio B]. Inoltre l’amnesia deve causare disagio clinicamente significativo oppure menomazione nel funzionamento sociale, lavorativo, o in altre aree importanti [criterio C]. [Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 255]. Il disturbo si manifesta di solito con un episodio transitorio di perdita della memoria relativa ad un evento di vita traumatico (ad es. un’azione di guerra, una calamità naturale, un’aggressione, un’accesa lite familiare, la perdita di una persona cara ecc.) che precede la comparsa del disturbo (amnesia selettiva). In alcuni casi l’episodio amnestico può protrarsi per lungo tempo o riguardare un periodo di tempo più esteso (amnesia continua), fino ad interessare l’intera vita della persona (amnesia generalizzata), che comunque mantiene intatte le proprie capacità. L’amnesia di solito termina all’improvviso, con un recupero completo della memoria. La teoria psicoanalitica spiega l’amnesia dissociativa come la conseguenza dell’attivazione del meccanismo di difesa della dissociazione che relega in una coscienza parallela, non accessibile a quella principale, il ricordo di un trauma e degli affetti ad esso collegati. Questa difesa permette alla vittima del trauma di distaccarsi dell’evento mentre questo si verifica e di posporre il lavoro di elaborazione e integrazione del trauma nel contesto della propria vita (Gabbard, 2002). Così come per il disturbo post-traumatico da stress, è necessario tenere presente che il trauma da solo non è condizione sufficiente per causare il disturbo, se non sono presenti fattori che predispongono alla vulnerabilità e alla scelta del sintomo. 95 Il modello esplicativo delle teorie cognitive è simile, e considera la dissociazione come una risposta d’evitamento mediata da un processo di autoipnosi che pone il ricordo dell’evento traumatico fuori della coscienza (Davison e Neal, 2000). Un’elevata suscettibilità ipnotica caratterizzerebbe le persone che sviluppano amnesia in seguito ad un trauma (Butler et al., 1996). Fuga Dissociativa Diagnosi DSM-IV Si manifesta con un allontanamento inaspettato dai luoghi in cui la persona abitualmente risiede, con incapacità di ricordare il proprio passato [criterio A], e confusione circa l’identità personale oppure assunzione di una nuova identità [criterio B]. L’alterazione non si manifesta in corso di Disturbo Dissociativo dell’Identità, e non è dovuta agli effetti fisiologici diretti di una sostanza, oppure a una condizione medica generale [criterio C], e causa disagio clinicamente significativo oppure menomazione nel funzionamento sociale, lavorativo, o in altre aree importanti [criterio D]. [Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 256]. Questo disturbo, rispetto al precedente, si caratterizza per una perdita più estesa della memoria a seguito di un evento particolarmente stressante, un allontanamento da casa inaspettato, che di solito si limita a spostamenti senza scopo apparente, senza contatti sociali e per breve tempo, e un certo grado di confusione sulla propria identità personale, che in casi estremi comporta l’assunzione di una nuova identità. I modelli esplicativi psicoanalitico e cognitivo sono gli stessi dell’amnesia dissociativa. Disturbo Dissociativo dell’Identità Diagnosi DSM-IV Si caratterizza per la presenza di due o più identità o stati di personalità distinti, ciascuno con i suoi modi relativamente costanti di percepire, di relazionarsi, e di pensare nei confronti di se stesso e dell’ambiente [criterio A], che assumono in modo ricorrente il controllo del comportamento della persona [criterio B]. Inoltre, l’incapacità di ricordare importanti notizie personali deve essere troppo estesa per essere spiegata con una banale tendenza alla dimenticanza [criterio C], e l’alterazione non deve essere conseguenza degli effetti fisiologici diretti di una sostanza o di una condizione medica generale (nei bambini i sintomi non sono attribuibili all’esistenza di un compagno immaginario o ad altri giochi di fantasia) [criterio D]. [Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 256-257]. Questo disturbo caratterizzato dalla presenza di identità distinte e parallele, senza memoria l’una dell’altra, è sicuramente il più suggestivo dei disturbi dissociativi, al punto di essere stato oggetto di racconti di letteratura e cinematografici. È un disturbo dalla diagnosi problematica perché la maggior parte dei pazienti presenta poche finestre in cui è possibile osservare le presenza delle diverse identità. Esordisce di solito nell’infanzia, anche se la diagnosi avviene quasi sempre in epoca successiva, ed è stato messo in relazione con traumi d’abuso, con successiva organizzazione delle personalità intorno ad affetti e ricordi prevalenti. Fattori predisponenti favorirebbero la scelta di questa modalità di reazione al trauma. Il meccanismo di difesa della dissociazione e il fenomeno 96 dell’autoipnosi sono chiamati in causa dalla teoria psicoanalitica e rispettivamente dalla teoria cognitiva. Disturbo di Depersonalizzazione Diagnosi DSM-IV Con disturbo di depersonalizzazione s’intende un’esperienza persistente o ricorrente di sentirsi distaccato o di sentirsi un osservatore esterno dei propri processi mentali o del proprio corpo [criterio A], durante la quale l’esame di realtà rimane intatto [criterio B]. La depersonalizzazione deve inoltre causare disagio clinicamente significativo, o menomazione nel funzionamento sociale, lavorativo, o in altre aree importanti [criterio C], e non manifestarsi esclusivamente nel corso di un altro disturbo mentale come Schizofrenia, Disturbo di Panico, Disturbo Acuto da Stress, oppure un altro Disturbo Dissociativo, o essere dovuta agli effetti fisiologici diretti di una sostanza, oppure a una condizione medica generale[criterio D]. [Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 257]. Questo disturbo è l’unico fra i disturbi dissociativi a non presentare un problema di memoria. In questo caso la difesa dissociativa dall’evento traumatico provoca il fenomeno della depersonalizzazione ( sentire la propria mente al di fuori del corpo o senso di distacco e di estraneità a se stessi), intesa come tentativo estremo di prendere una distanza emotiva, di rendersi estraneo all’evento o al ricordo dell’evento. Disturbo Dissociativo Non Altrimenti Specificato Diagnosi DSM-IV Questa categoria comprende alcuni disturbi in cui la manifestazione predominante è un sintomo dissociativo che, tuttavia non soddisfa i criteri dei disturbi dissociativi specifici. Esempi sono: i quadri clinici simili al disturbo dissociativo dell’identità in cui non vi sono due o più distinti stati di personalità, oppure non si verifica amnesia per le notizie personali importanti; la derealizzazione non accompagnata da depersonalizzazione negli adulti; stati di dissociazione che si manifestano in persone sottoposte a persuasione coercitiva, prolungata e intensa (per es., lavaggio del cervello, o indottrinamento in corso di prigionia).; il disturbo dissociativo di trance, tipico di certe aree e culture: alterazioni singole o episodiche dello stato di coscienza, dell’identità o della memoria che sono abituali in certe aree e culture (la trance dissociativa comporta restringimento della coscienza dell’ambiente circostante, oppure comportamenti o movimenti stereotipati che vengono vissuti come al di fuori del proprio controllo; la trance di possessione il rimpiazzo dell’abituale senso della propria identità personale con una nuova identità, attribuita all’influenza di uno spirito, divinità, o altra persona, associata con movimenti stereotipati “involontari” o amnesia); perdita di coscienza, o stupor, non attribuibile a una condizione medica generale. [Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 258-259]. I disturbi dissociativi possono essere diagnosticati solo uno per volta e non in comorbilità fra loro. Il disturbo dissociativo dell’identità, quando presente, ha la precedenza sulle altre diagnosi, perché amnesia, fuga e depersonalizzazione sono caratteristiche del quadro clinico globale, la fuga dissociativa ha la precedenza sull’amnesia, e l’amnesia sulla depersonalizzazione. 97 DISTURBI SOMATOFORMI Sono inclusi sette disturbi in cui la caratteristica determinante è una lamentela fisica o una preoccupazione somatica che non è meglio attribuibile ad una condizione medica generale o ad un altro disturbo mentale. - Disturbo di Conversione - Disturbo di Somatizzazione - Disturbo Somatoforme Indifferenziato - Disturbo Algico - Ipocondria - Disturbo di Dismorfismo Corporeo - Disturbo Somatoforme Non Altrimenti Specificato Sono disturbi al limite tra le condizioni mediche generali e i disturbi mentali, e i soggetti che presentano questi quadri tendono a fare la spola tra ambienti medici e psichiatrici. Questo può portare a diagnosi errate da entrambe le parti (per es., un soggetto con disturbo di somatizzazione può subire molti interventi chirurgici non necessari, e ad un paziente con sclerosi multipla può essere diagnosticato un disturbo di conversione). Importante è la diagnosi differenziale con: 1) Sintomi fisici attribuibili ad una condizione medica generale che non si è ancora manifestata con reperti obiettivi chiaramente distinguibili; 2) Sintomi fisici meglio attribuibili ad un altro disturbo psichico (per es., Disturbo di Panico, Disturbo Depressivo Maggiore, Astinenza da Cocaina); 3) Sintomi fisici prodotti intenzionalmente dal soggetto (Disturbo fittizio, Simulazione). Disturbo di Conversione Diagnosi DSM-IV La diagnosi del disturbo di conversione prevede la presenza di uno o più sintomi o deficit riguardanti funzioni motorie volontarie o sensitive, che suggeriscono una condizione neurologica o medica generale [criterio A]. Questi sintomi o deficit devono inoltre essere associati con qualche fattore psicologico, nel senso che un conflitto o un altro tipo di fattore stressante deve precedere l’esordio o l’esacerbazione del sintomo o del deficit [criterio B]. Il sintomo o deficit non deve essere prodotto volontariamente o simulato [criterio C], e non deve essere meglio spiegato da una condizione medica generale o dagli effetti di una sostanza o da un’esperienza o da una esperienza o 98 comportamento culturalmente determinato [criterio D]. I sintomi, infine, devono causare disagio clinicamente significativo o menomazione del funzionamento sociale, lavorativo o in altre aree importanti, o richiedere assistenza medica [criterio E], e non devono limitarsi a disfunzioni sessuali, o manifestarsi durante un disturbo di somatizzazione, o essere meglio spiegabile con qualche altro disturbo mentale [criterio F]. A seconda della tipologia dei sintomi il disturbo viene codificato: 1) con sintomi di tipo motorio, 2) con attacchi epilettiformi o convulsioni, 3) con deficit sensitivi, 4) con una sintomatologia mista. [Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 246-247]. Il disturbo di conversione ha un ruolo di grande importanza nella storia della psicologia clinica, perché dallo studio di questo disturbo (allora conosciuto con il nome di isteria) ha preso le mosse la psicoanalisi come teoria e come terapia. Rispetto ai quadri clinici descritti da Freud e alle ipotesi eziologiche da lui formulate, la diagnosi proposta dal DSM-IV (che ha come detto un orientamento ateorico) ha mantenuto l’ipotesi che la causa del disturbo sia di natura psicologica, senza comunque riferimenti a motivazioni inconsce, mentre per quel che riguarda il quadro clinico si limita a considerare i sintomi di tipo neurologico che interessano le funzioni motorie volontarie (per es. paralisi, senso di debolezza, tremori, posture anomale, afonia) o sensitive (per es. anestesie, ipoestesie, iperestesie, sensazioni di caldo e di freddo, cecità, campo visivo tubolare, anosmia). Altri sintomi di tipo neurologico (es. perdita di coscienza), o mediati dal sistema nervoso autonomo (es. vomito), o non neurologici (es. pseudociesi), che erano compresi nella descrizione classica dell’isteria, vengono inclusi dal DSM-IV in altre categorie diagnostiche (disturbo dissociativo non altrimenti specificato, disturbo somatoforme non altrimenti specificato, disturbo somatoforme indifferenziato). Fondamentale per una corretta diagnosi è l’esclusione di una causa attribuibile ad una condizione medica generale che non si è ancora manifestata con reperti obiettivi chiaramente distinguibili. Il disturbo di conversione di solito esordisce in adolescenza o all’inizio dell’età adulta, può terminare con una remissione spontanea improvvisa, così come all’improvviso era comparso, anche se tende poi a ripresentarsi, a volte con sintomi differenti. Nella concezione psicoanalitica il disturbo di conversione è la conseguenza del meccanismo di difesa della conversione attivato per fronteggiare l’angoscia segnale che si sviluppa a seguito di eventi di vita che hanno animato desideri di natura sessuale o aggressiva vissuti come inaccettabili e fonte di senso di colpa e di vergogna, perché collegati associativamente con traumi e/o conflitti infantili rimossi della fase edipica. La conversione consiste nella trasposizione e rappresentazione simbolica sul corpo del desiderio e della proibizione, e interessa parti del corpo collegate fattivamente o simbolicamente al desiderio, o implicate nella relazione che lo ha attivato, o collegate con tracce di memoria relative ad eventi in cui il desiderio era stato appagato. Di solito il sintomo è plurideterminato e la parte del corpo prescelta è quella che si presta a rappresentare simbolicamente più cose. Nella prospettiva comportamentale è stato proposto di considerare il disturbo di conversione come l’assunzione consapevole del ruolo di malato, cioè verrebbero imitati sintomi fisici in precedenza sperimentati o osservati in altri con la finalità di ridurre lo stress collegato ad eventi di vita o di ottenere comunque conseguenze positive. Le ricerche di ambito cognitivo depongono a favore del fatto che questi comportamenti siano determinati a livello inconscio. 99 Disturbo di Somatizzazione Diagnosi DSM-IV Nell’anamnesi della persona deve essere presente una storia di molteplici lamentele fisiche, con esordio precedente i 30 anni, che si sono manifestate lungo un periodo di numerosi anni e che hanno condotto alla ricerca di una cura o hanno comportato menomazioni significative nel funzionamento sociale, lavorativo, o in altre aree importanti [criterio A]. Tutti i sintomi elencati di seguito devono essere stati presenti in qualche momento nel corso del disturbo: 1) almeno quattro sintomi dolorosi (storia di dolore riferita ad almeno quattro localizzazioni o funzioni come testa, addome, schiena, articolazioni, arti, torace, retto, dolori mestruali, dolore nel rapporto sessuale o durante la minzione); 2) almeno due sintomi gastrointestinali (storia di almeno due sintomi gastrointestinali come: nausea, meteorismo, vomito al di fuori della gravidanza, diarrea, intolleranza a numerosi cibi diversi); 3) almeno un sintomo sessuale (storia di almeno un sintomo sessuale o riproduttivo come: indifferenza sessuale, disfunzioni dell’erezione o dell’eiaculazione, cicli mestruali irregolari, eccessivo, sanguinamento mestruale, vomito durante la gravidanza); 4) almeno un sintomo pseudoneurologico (storia di almeno un sintomo o deficit che fa pensare ad una condizione neurologica non limitata al dolore, come: alterazioni della coordinazione o dell’equilibrio, paralisi o ipostenia localizzate, difficoltà a deglutire o nodo alla gola, mancamenti, afonia, ritenzione urinaria, allucinazioni, perdita della sensibilità tattile o dolorifica, diplopia, cecità, sordità, convulsioni, sintomi dissociativi come amnesia, o perdita di coscienza con modalità diverse dai mancamenti) [criterio B]. A seguito di indagini mediche appropriate deve emergere che ciascun sintomo non è meglio spiegabile con l’assunzione di sostanze o con la presenza di una condizione medica generale conosciuta, o nel caso quest’ultima sia collegata, le lamentele fisiche o la menomazione in ambito sociale o lavorativo sono sproporzionate rispetto a quanto ci si dovrebbe aspettare [criterio C]. Inoltre, i sintomi non devono essere stati riprodotti intenzionalmente o simulati [criterio D]. [Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 243-244]. Si tratta, dunque, di un disturbo caratterizzato da una storia di lunga durata di molteplici lamentele relative a sintomi che interessano vari organi ed apparati, sintomi che non sono spiegabili da una condizione medica o, se questa è presente, che comportano menomazioni sociali e lavorative, e lamentele sproporzionate rispetto all’obiettività clinica. La diagnosi di solito viene posta dai medici di famiglia che seguono nel tempo questi pazienti malati da sempre, e abituali frequentatori dei loro ambulatori, spesso a causa di nuovi sintomi. Anche per questo disturbo è fondamentale la diagnosi differenziale, spesso difficile, rispetto alle eventuali cause mediche, evitando parimenti procedure mediche o chirurgiche non necessarie e potenzialmente pericolose. Complessa è anche la diagnosi differenziale rispetto al disturbo d’ansia generalizzato e alle forme croniche di disturbo dell’umore. Frequente è la comorbilità con i disturbi d’ansia e dell’umore. Un rischio che corrono questi pazienti è quello di non essere ascoltati qualora compaia una lamentela legittimata da una causa organica. Nell’approccio psicoanalitico al disturbo di somatizzazione sono presenti due diverse concezioni, non inconciliabili, sull’origine del disturbo. Una prima concezione fa riferimento ad un concetto esteso di conversione, secondo il quale la trasposizione e la rappresentazione simbolica sul corpo dei conflitti intrapsichici può riguardare anche organi e apparati innervati dal sistema nervoso autonomo, e riguardare desideri e bisogni collegati alle vicende pre-edipiche della relazioni primaria (conversione pregenitale). Una seconda concezione non considera i sintomi da cui originano le lamentele del paziente come espressione di significati simbolici, ma li considera come l’espressione a livello fisico di stati emotivi cronici, collegati ad eventi di vita e a conflitti specifici, 100 e che attivano le innervazioni motorie o sensitive o del simpatico o del parasimpatico, a seconda che le emozioni siano finalizzate a comportamenti di lotta-fuga o di ricerca della dipendenza. Più recentemente è stato ipotizzato in questi pazienti un deficit nel processamento delle emozioni (alessitimia) che comporta una difficoltà ad esprimere sentimenti ed emozioni, una difficoltà a distinguere le emozioni dalle sensazioni somatiche che le accompagnano, e uno stile di pensiero utilitaristico e orientato all’esterno. Nella prospettiva cognitivo-comportamentale il disturbo di somatizzazione è ricondotto ai correlati fisiologici dell’ansia prodotta da eventi di vita stressanti, a una tendenza accentuata a prestare attenzione alle sensazioni corporee e ad amplificarle (comportamento abnorme di malattia), e ai successivi rinforzi ambientali che la persona riceve in quanto malato (es. attenzione, vantaggi ed esenzioni di ordine sociale). Disturbo Somatoforme Indifferenziato Diagnosi DSM-IV Devono essere presenti una o più lamentele fisiche, come stanchezza, perdita di appetito, problemi gastrointestinali o urinari [criterio A], che dopo appropriate indagini mediche, non sono pienamente spiegabili con gli effetti diretti di una sostanza, o con una condizione medica generale conosciuta, o nel caso quest’ultima fosse presente, le lamentele fisiche o la menomazione sociale o lavorativa conseguente sono sproporzionate rispetto a quanto ci si dovrebbe aspettare dalla storia, dall’esame fisico o dai reperti di laboratorio [criterio B]. I sintomi devono causare disagio clinicamente significativo o menomazione del funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti [criterio C]. Il disturbo deve durare almeno sei mesi [criterio D] e l’alterazione non deve essere meglio spiegabile con un altro disturbo mentale [criterio E]. I sintomi, infine, non devono essere intenzionalmente prodotti o simulati [criterio F]. [Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 245-245]. Rispetto al disturbo di somatizzazione, questo disturbo si caratterizza per il minor numero di lamentele fisiche, e per la minore durata richieste per la diagnosi. Secondo molti clinici dovrebbe essere compreso nella categoria non altrimenti specificato. Disturbo Algico Diagnosi DSM-IV È caratterizzato da dolore in uno o più distretti anatomici, di gravità sufficiente a giustificare un’attenzione clinica [criterio A]. Il dolore deve causare malessere clinicamente significativo oppure menomazione del funzionamento sociale, lavorativo o in altre aree importanti [criterio B]. Qualche fattore psicologico deve avere un ruolo importante nell’esordio, gravità, esacerbazione o 101 mantenimento del dolore [criterio C]. Il dolore non deve essere intenzionalmente prodotto o simulato [criterio D], e non deve essere meglio attribuibile ad un disturbo dell’umore, d’ansia o psicotico, o a dispareunia. [criterio E]. Il disturbo può essere di tipo acuto se ha una durata inferiore a sei mesi, o cronico se ha una durata maggiore, di tipo associato con fattori psicologici, o di tipo con fattori psicologici e con una condizione medica se si valuta che anche quest’ultima abbia un ruolo nell’esordio, gravità, esacerbazione o mantenimento del dolore. [Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 247-249]. Questa categoria diagnostica deve essere usata solo quando il dolore è l’oggetto principale dell’attenzione clinica e quando si valuta che i fattori psicologici abbiano un ruolo importante. Nella prospettiva psicoanalitica il disturbo algico viene ricondotto all’espressione simbolica nel corpo di conflitti, in cui sono implicati, nello specifico di questo disturbo. il dolore per la perdita o il timore della perdita di persone significative o l’appagamento di un senso di colpa inconscio o il controllo di impulsi ostili rimossi. Nella prospettiva cognitivo-comportamentale si ipotizza che un iniziale stimolo che provoca dolore possa esacerbarsi o evolvere in dolore cronico a causa di rinforzi positivi provenienti dall’ambiente e collegati al ruolo di malato. Viene data inoltre importanza a fattori cognitivi collegati al concetto di comportamento abnorme di malattia, cioè al modo con cui il sintomo viene percepito, valutato e manifestato. Ipocondria Diagnosi DSM-IV È caratterizzata dalla preoccupazione o dalla convinzione di avere una grave malattia, basata sulla interpretazione erronea dei sintomi somatici da parte del soggetto [criterio A]. Questa preoccupazione, inoltre, persiste nonostante le valutazioni e le rassicurazioni mediche appropriate [criterio B] e non deve assumere un’intensità delirante (come nel disturbo delirante di tipo somatico) o essere circoscritta all’aspetto fisico (come nel disturbo di dismorfismo corporeo) [criterio C]. La preoccupazione deve causare disagio clinicamente significativo o menomazione del funzionamento sociale, lavorativo o in altre aree importanti. [criterio D]; deve durare almeno sei mesi [criterio E], e non deve essere meglio attribuibile al disturbo d’ansia generalizzato, al disturbo ossessivo-compulsivo, al disturbo di panico, al disturbo depressivo maggiore, al disturbo d’ansia di separazione o ad altro disturbo somatoforme [criterio F]. [Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 249-250]. Si tratta di un disturbo caratterizzato da un’erronea interpretazione di segni e sintomi fisici reali che dà luogo alla preoccupazione o alla convinzione persistente di avere una malattia grave, e dalla non responsività alle appropriate rassicurazioni del medico. La persistenza dei pensieri tormentosi nonostante le rassicurazioni mediche differenzia il disturbo dalle comuni preoccupazioni per la salute fisica e paure di avere una malattia. Sono pazienti che si sottopongono incessantemente a visite mediche alla ricerca di una conferma alle loro paure, e che difficilmente si rivolgono agli operatori della salute mentale. 102 Disturbo di Dismorfismo Corporeo Diagnosi DSM-IV Consiste nella preoccupazione per un supposto difetto nell’aspetto fisico, o nel caso sia presente una lieve anomalia corporea, l’importanza che le viene data è significativamente eccessiva [criterio A]. Questa preoccupazione deve causare disagio clinicamente significativo, o menomazione nel funzionamento lavorativo, sociale o in altre aree importanti [criterio B], e non deve risultare meglio attribuibile ad un altro disturbo mentale [criterio C]. [Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 250-250]. Il confine fra questo disturbo e le normali preoccupazioni e insoddisfazioni per il proprio aspetto fisico è difficile da definire, e la diagnosi dovrebbe limitarsi a quelle persone che sono dominate e tormentate dalla preoccupazione, fino a passare molte ore allo specchio o evitarli accuratamente, o dedicare molto tempo a cercare di nascondere il presunto difetto con la convinzione che tutti lo notino. La diagnosi viene fatta di solito dai chirurghi plastici, a quali questi pazienti si rivolgono nella speranza, spesso vana, di trovare sollievo alla loro angoscia. Dal punto di vista psicoanalitico il disturbo può essere letto come uno spostamento del segnale d’angoscia su una parte del corpo. Questo spostamento permette di mantenere la rimozione, ma la non possibilità di un successivo evitamento fobico, e pertanto l’ansia persiste collegata alla parte del corpo. Dal punto di vista comportamentale il disturbo può essere spiegato con il tentativo di sopprimere il pensiero spiacevole affacciatosi casualmente nella mente e la creazione di un effetto paradosso di forte concentrazione su di esso, o con il rinforzo positivo della preoccupazione dato dalla distrazione da emozioni e pensieri ancora più negativi. Fattori sociali e culturali possono svolgere un ruolo facilitante. Da alcuni clinici è stato avanzato il dubbio che questo disturbo non abbia una sua specificità, ma che debba essere considerato un sintomo di altri disturbi psichici. Disturbi Somatoformi non Altrimenti Specificati Diagnosi DSM-IV In questa categoria comprende tutti i disturbi somatoformi che non incontrano i criteri diagnostici per nessuno dei disturbi somatoformi specifici. Esempi sono: la pseudociesi, cioè il falso convincimento di gravidanza associato con segni obiettivi di gravidanza, che possono comprendere dilatazione addominale, riduzione dei flussi mestruali, amenorrea, sensazione soggettiva di movimenti fetali, nausea, ingorgo e secrezioni mammarie, e doglie alla data prevista per il parto; un disturbo che presenti sintomi ipocondriaci non psicotici di durata inferiore ai 6 mesi; un disturbo che presenti lamentele fisiche non giustificate (per es., stanchezza o astenia fisica) di durata inferiore ai 6 mesi e non collegate a un altro disturbo mentale. [Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 251-251]. 103 DISTURBI DELL’ALIMENTAZIONE Comprendono tre categorie di disturbi caratterizzati da alterazione del comportamento alimentare e della percezione dell’immagine corporea. - Anoressia Nervosa - Bulimia Nervosa - Disturbi dell’Alimentazione Non Altrimenti Specificati ANORESSIA NERVOSA Diagnosi DSM-IV L’anoressia nervosa si caratterizza per un marcato rifiuto a mantenere il proprio peso corporeo al di sopra del limite minimo considerato normale rispetto all’età ed alla statura (per es. perdita di peso che porta a mantenere il peso al di sotto dell’85% rispetto a quello previsto) [criterio A]. Devono essere presenti anche un’intensa paura di acquisire peso o di diventare grassi anche quando si è sottopeso [criterio B], un’alterazione nel modo di vivere il proprio peso e la forma del corpo, o un’eccessiva influenza del peso e della forma corporea sui livelli di autostima, o rifiuto di ammettere la gravità della condizione di sottopeso [criterio C]. Nel sesso femminile, dopo il menarca, deve presentarsi anche amenorrea, cioè l’assenza di almeno 3 cicli mestruali consecutivi [criterio D]. L’anoressia nervosa può essere distinta in due sottotipi: 1) con restrizioni, quando il soggetto non presenta regolarmente abbuffate o condotte di eliminazione (vomito autoindotto, uso inappropriato di lassativi, diuretici ed enteroclismi); 2) con abbuffate e/o condotte di eliminazione, quando queste condotte sono presenti regolarmente. [Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 281-282]. L’anoressia non è dunque caratterizzata, come potrebbe fare intendere il nome del disturbo, dalla mancanza di appetito, ma dal rifiuto a mantenere il peso corporeo al disopra del peso minimo normale, a causa di una intensa paura di ingrassare e di una distorsione dell’immagine del proprio corpo. Il disturbo interessa in prevalenza il sesso femminile, e inizia di solito in maniera subdola con il desiderio di intraprendere una dieta dimagrante, in una età compresa fra la prima adolescenza e 104 l’inizio dell’età adulta. A differenza della maggior parte delle persone che intraprendono una dieta, i futuri anoressici persistono nel regime ipocalorico anche quando il dimagrimento raggiunge dimensioni allarmanti. Nelle fasi iniziali del disturbo le pazienti avvertono un incremento della propria autostima collegata alla perdita di peso e alle reazioni positive dell’ambiente, e in alcuni casi può essere presente un vero e proprio stato di euforia con sensazione di una grande energia mentale e fisica. Ben presto, tuttavia, la presenza della distorsione dell’immagine corporea ripropone l’insoddisfazione per il proprio aspetto fisico, continuamente monitorato con l’immagine riflessa da specchi che rimandano una immagine soggettivamente deformata. Il desiderio di dimagrire ulteriormente e la paura d’ingrassare cominciano a dominare la mente, le restrizioni alimentari si fanno sempre più severe, ma ciò si accompagna ad un aumento della pressione biologica e psicologica ad assumere cibo, che in alcuni casi si concretizza in episodi di abbuffate che muovono vergogna e senso di colpa, e attivano condotte di eliminazione. Si instaura così un circolo vizioso caratterizzato da restrizione alimentare→ pressione biologica ad assumere cibo→ paura d’ingrassare→ restrizione alimentare più severa con incremento dell’attività fisica per bruciare calorie, o delle condotte di eliminazione a seguito di abbuffate o anche dell’assunzione di modiche quantità di cibo→ ulteriore incremento della pressione biologica e psicologica ad assumere cibo e della paura d’ingrassare ecc.. Il tono dell’umore vira verso la depressione (in alcuni casi la depressione può essere già presente prima dell’inizio del disturbo alimentare), compare l’amenorrea, e con il cronicizzarsi della malattia le pazienti riducono gradualmente le proprie attività ed interessi, che con l’andare del tempo si limitano al pensiero del cibo e del peso del corpo. Particolarmente severe possono essere le conseguenze fisiche del digiuno e delle condotte di eliminazione, al punto da mettere a repentaglio la vita delle pazienti. Elevato è anche il rischio di suicidio. BULIMIA NERVOSA Diagnosi DSM-IV La bulimia nervosa è caratterizzata da ricorrenti abbuffate [criterio A], definite come l’ingestione in un intervallo di tempo relativamente breve (per es. 2 ore) di una quantità di cibo significativamente maggiore di quella che la maggior parte delle persone mangerebbe nello stesso intervallo temporale, e contemporanea sensazione di perdita di controllo (per es. sensazione di non potere smettere di mangiare o di non potere controllare cosa e quanto si sta mangiando). Inoltre devono devono essere presenti ricorrenti e inappropriate condotte compensatorie per prevenire l’aumento di peso, come vomito autoindotto, abuso di lassativi, diuretici, eccessivo digiuno o esercizio fisico [criterio B]. Le abbuffate e le condotte compensatorie devono verificarsi in media almeno due volte la settimana per almeno tre mesi [criterio C]. I livelli di autostima devono essere fortemente influenzati dalla forma e dal peso corporeo [criterio D], ed il disturbo non deve presentarsi esclusivamente nel corso di episodi di anoressia nervosa. [criterio E]. La bulimia nervosa può essere distinta in due sottotipi. Il sottotipo con condotte di eliminazione prevede il regolare uso di vomito autoindotto o uso inappropriato di lassativi o diuretici. Il sottotipo senza condotte di eliminazione il peso corporeo è mantenuto tramite comportamenti quali il digiuno, l’eccessivo esercizio fisico senza condotte di evacuazione autoindotte. [Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 282-283]. 105 Si tratta di un disturbo caratterizzato da una ricorrente perdita di controllo sul comportamento alimentare che si concretizza in episodi di abbuffate durante i quali in poco tempo vengono letteralmente ingurgitate notevoli quantità di cibo. Alle abbuffate seguono delle condotte compensatorie per tenere sotto controllo il peso, condotte caratterizzate dal digiuno e dall’attività fisica, o dal vomito autoindotto e dall’uso di lassativi e diuretici. Queste condotte compensatorie sono motivate così come nell’anoressia, dalla paura di ingrassare e da una distorsione dell’immagine corporea che influenza fortemente l’autostima, ma non conducono ad una perdita di peso, che pertanto rimane nei limiti della norma. Le abbuffate avvengono di solito di nascosto e in solitudine, e spesso sono programmate in anticipo e sono precedute in modo confuso da stati d’animo di solitudine, tristezza, noia, ansia o collera. L’ingestione del cibo avviene in modo vorace e compulsivo, senza particolare attenzione al gusto alla consistenza e gradevolezza degli alimenti, e si accompagna spesso ad uno stato d’animo dissociato, con sensazioni di stordimento e benessere simili a quelle dell’assunzione di una sostanza d’abuso. Dopo poco tempo dalla crisi lo stato mentale vira verso la depressione, con caduta dell’autostima e comparsa di sentimenti di colpa e di vergogna. Negli intervalli di tempo fra una crisi bulimica e l’altra le pazienti mantengono di solito le normali occupazioni, ma la loro mente è sempre più occupata dal controllo dell'alimentazione, dal disagio per l’aspetto del proprio corpo avvertito come grasso, dal pensiero del cibo e dalla paura di perdere nuovamente il controllo e ingrassare, seguiti dal desiderio di una nuova abbuffata e dalla spasmodica ricerca di cibo per attuarla, con comportamenti che ricordano la ricerca della sostanza del tossicodipendente. Il disturbo inizia di solito nella tarda adolescenza o nella prima età adulta, interessa con netta prevalenza il sesso femminile, e i primi episodi di alimentazione incontrollata si manifestano di solito durante una dieta restrittiva motivata dal sovrappeso. Può essere presente comorbilità con la depressione, disturbi d’ansia e di personalità, tendenza all’abuso di sostanze e alla promiscuità. L’andamento del disturbo è tendenzialmente intermittente con intervalli di remissione e ricadute in occasione di eventi stressanti. Le condotte di eliminazione possono portare a complicazioni fisiche collegate a squilibri elettrolitici provocati dal vomito e dalla diarrea, e alle lesioni provocate dagli acidi gastrici durante la risalita del cibo nel vomito autoindotto. La distinzione dell’anoressia e della bulimia come entità diagnostiche separate è stata messa in discussione da alcuni clinici, a causa dei molti punti di contatto fra i due disturbi. Coloro che sono favorevoli alla distinzione fanno presente che vi sono molti casi puri di anoressia senza abbuffate e condotte di eliminazione, e casi puri di bulimia che non vanno mai sotto il peso normale e che non presentano una marcata alterazione dell’immagine corporea; diverse sono inoltre le implicazioni terapeutiche. DISTURBI DELL’ALIMENTAZIONE NON ALTRIMENTI SPECIFICATI Diagnosi DSM-IV Questa categoria include tutti quei disturbi dell’alimentazione che non soddisfano tutti i criteri dell’anoressia o della bulimia nervosa. Esempi sono: 1) la presenza nelle donne di tutti i criteri per l’anoressia nervosa eccetto l’amenorrea; 2) presenza di tutti i criteri per l’anoressia nervosa ad eccezione del peso che, se pur diminuito, risulta nella norma; 3) tutti i criteri per la bulimia nervosa risultano soddisfatti tranne il fatto che le abbuffate e le condotte compensatorie hanno una frequenza inferiore ai due episodi per settimana per 3 mesi; 4) soggetti di peso normale che si dedicano regolarmente ad inappropriate condotte compensatorie dopo avere ingerito piccole quantità di cibo; 5) soggetti che ripetutamente masticano e sputano, senza deglutire, grandi quantità 106 di cibo; 6) disturbo da alimentazione incontrollata: ricorrenti episodi di abbuffate in assenza delle regolari condotte compensatorie inappropriate tipiche della bulimia nervosa. [Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 283-284]. Attualmente i disturbi dell’alimentazione sono considerati di origine multifattoriale, frutto dell’interazione fra fattori predisponenti, scatenanti e perpetuanti. Fattori predisponenti socioculturali e legati al genere: Le ricerche epidemiologiche evidenziano come i disturbi dell’alimentazione siano più diffusi nei paesi occidentali industrializzati, dove vi è una maggiore pressione culturale verso la magrezza come ideale di bellezza e salute, e contemporaneamente una maggiore disponibilità di cibo che ha portato ad un progressivo incremento del peso medio della popolazione giovanile. Nell’amplificazione di entrambi i fenomeni un ruolo non secondario è da attribuire ai messaggi pubblicitari dell’industria dietetica, dell’industria alimentare e della moda. Si sarebbe così determinato, in particolare fra gli adolescenti, uno scarto fra aspetto fisico reale ed ideale, che può favorire una iniziale distorsione della percezione della propria immagine corporea (ritenersi in sovrappeso anche quando non lo si è), la paura di ingrassare e la spinta ad intraprendere una dieta. La maggiore prevalenza di questi disturbi nelle donne sarebbe da collegare alle rapide ed importanti trasformazioni del corpo femminile durante l’adolescenza, che spesso sono in contrasto con gli standard ideali attuali della cultura giovanile, enfatizzati dalle riviste rivolte al pubblico femminile, che privilegiano una immagine unisex. Gli studi epidemiologici hanno inoltre richiamato l’attenzione sul maggiore rischio di sviluppare un disturbo dell’alimentazione fra le giovani che lavorano come modelle o ballerine e nelle ginnaste. Fattori predisponenti familiari di ordine biologico: Le ricerche epidemiologiche evidenziano un maggior tasso di prevalenza dei disturbi alimentari fra i familiari di sesso femminile di primo e secondo grado, e una maggiore concordanza nei gemelli omozigoti rispetto ai dizigoti. L’eventuale fattore ereditario in causa potrebbe essere una predisposizione all’obesità o alla distribuzione del pannicolo adiposo in determinate zone del corpo, cosa che a sua volta può favorire la non accettazione della propria immagine corporea, e la spinta ad intraprendere una dieta. Non si può comunque escludere che la familiarità sia mediata da abitudini alimentari o da una maggiore vulnerabilità alla sofferenza psicologica. Fattori predisponenti familiari di ordine psicologico: Gli studi sul ruolo della famiglia nel favorire la comparsa di un disturbo dell’alimentazione derivano principalmente dalle osservazioni cliniche di S. Minuchin e H. Bruch. Secondo Minuchin e coll. (1975) caratteristiche tipiche delle famiglie sono la fusionalità (genitori che ritengono di conoscere esattamente ciò che i figli pensano e provano), l’iperprotettività (estrema preoccupazione dei membri della famiglia per il benessere gli uni degli altri), la rigidità (tendenza ad evitare eventi che producono cambiamento, come per es. le richieste di autonomia dei figli adolescenti), e la mancata soluzione dei conflitti (tendenza ad evitare i conflitti o a vivere in situazioni di conflitto cronico). Studi successivi hanno solo parzialmente confermato queste osservazioni, perché spesso i resoconti e i vissuti dei pazienti differiscono da quelli dei genitori, e comunque resta aperta la possibilità che queste caratteristiche familiari siano conseguenti alla comparsa del disturbo. Maggiore riscontri hanno trovato le osservazioni cliniche della Bruch (1973), che danno evidenza ad un approccio educativo e relazionale da parte dei genitori che non tiene conto dei bisogni, delle esigenze e volontà dei figli, e che limita le esperienze e le iniziative che non corrispondono alle 107 aspettative e ai bisogni dei genitori, ingenerando nei figli dipendenza e senso d’incapacità. Un particolare rilievo viene inoltre dato alla difficoltà delle madri a discriminare i vari bisogni ed emozioni del piccolo bambino, e alla tendenza ad usare il cibo per placare ogni stato di disagio; ciò favorirebbe nel bambino la comparsa di una difficoltà a distinguere i segnali che provengono dal proprio corpo e a dare nome ai propri stati emotivi. Fattori predisponenti collegati alla personalità e alla presenza di disturbi psicologici: Gli studi retrospettivi sulle caratteristiche di personalità precedenti la comparsa del disturbo alimentare segnalano nelle anoressiche caratteristiche di timidezza, perfezionismo e remissività, e nelle bulimiche instabilità affettiva e comportamenti istrionici. Studi prospettici ancora in corso segnalano come importante fattore di rischio la scarsa consapevolezza interocettiva. La presenza di un disturbo depressivo è stato chiamato in causa come possibile fattore favorente sia l’anoressia sia la bulimia. Fattori predisponenti collegati a traumi infantili: Alcune ricerche hanno riscontrato una relazione fa disturbi alimentari e traumi collegati all’abuso sessuale e al maltrattamento fisico o psicologico. Fattori scatenanti: Il fattore scatenante l’insorgenza dei disturbi alimentari è quasi sempre l’inizio di una dieta restrittiva. Eventi di vita negativi possono a volte precedere l’esordio del disturbo. Fattori perpetuanti: Il principale fattore perpetuante è il circolo vizioso caratterizzato dalla restrizione alimentare che incrementa l’autostima per il proprio autocontrollo e diminuisce l’ansia collegata alla paura d’ingrassare, a cui segue un maggiore desiderio di cibo che arriva ad occupare totalmente la mente, la conseguente paura di perdere o la perdita del controllo sul desiderio con caduta dell’autostima e ricomparsa dell’ansia, e una rinnovata ricerca di controllo e di restrizione alimentare. Altri fattori perpetuanti possono essere per l’anoressia lo stato euforico e di apparente energia prodotto dal rilascio di endorfine endogene durante il digiuno prolungato, e per le bulimiche la ricerca delle sensazioni di momentaneo stordimento e benessere che si producono durante l’abbuffata. Da non trascurare, infine, è il fatto che la concentrazione del pensiero sul cibo e la dieta fa passare in secondo piano tutte le altre possibili fonti di preoccupazione e infelicità. Le ipotesi psicoanalitiche sull’origine dei disturbi dell’alimentazione prendono le mosse dalle osservazioni cliniche di H. Bruch sulle caratteristiche della famiglia e delle madri dei futuri pazienti. Cresciute in un ambiente familiare che privilegia e impone ai bambini i bisogni e i desideri dei genitori, e che è sostanzialmente incapace di percepire adeguatamente le esigenze, i bisogni, i desideri e gli stati emotivi dei figli, le giovani anoressiche e bulimiche svilupperebbero un senso di poco valore di sé, di incapacità a comprendere e discriminare le sensazioni del corpo e gli stati emotivi, di soddisfare le proprie esigenze, e di impotenza ad incidere sull’ambiente. La tendenza delle madri a tacitare nella prima infanzia ogni malessere o frustrazione dei figli con il cibo può inoltre favorire il sovrappeso (futura fonte di difficoltà con i coetanei, e di visione negativa del proprio corpo), e caricare il cibo di sensazioni ambivalenti, in quanto contemporaneamente capace di placare l’ansia e il disagio emotivo, e di produrre insoddisfazione perché ripropone alla fine la sensazione di non comprendersi e di non essere stati realmente compresi. L’ideale culturale della magrezza, e l’apparente facilità di raggiungerlo con una dieta, offrirebbe in adolescenza la possibilità di sentirsi capaci, desiderati e ammirati, aumentando così la propria autostima, e di fantasticare di poter padroneggiare, insieme al bisogno di nutrirsi, tutti quei bisogni che in passato sono stati fonte di frustrazioni e tutte le sensazioni confuse che provengono dal 108 proprio corpo. Strutture caratteriali differenti indirizzerebbero il disturbo dell’alimentazione verso l’anoressia o la bulimia. Nella prospettiva cognitivo- comportamentale è dato rilievo i fattori socioculturali e di personalità, in quanto predisponenti all’insoddisfazione per l’immagine del proprio corpo e alla paura d’ingrassare. Il digiuno e il calo ponderale assumerebbero la valenza di potente elemento di rinforzo per il fatto di ridurre l’ansia. La difficoltà a perseguire con costanza una dieta restrittiva faciliterebbe la comparsa di episodi di alimentazione incontrollata tipici dell’anoressia con condotte di eliminazione e della bulimia. In questi casi la condotta di eliminazione viene rinforzata dalla paura d’ingrassare. 109 DISTURBI DI PERSONALITÀ Comprendono 11 disturbi raggruppati in tre gruppi. Sono codificati sull’asse II. Gruppo A - Disturbo Paranoie di Personalità - Disturbo Schizoide di Personalità - Disturbo Schizotipico di Personalità Gruppo B - Disturbo Antisociale di Personalità - Disturbo Borderline di personalità - Disturbo Istrionico di Personalità - Disturbo Narcisistico di Personalità Gruppo C - Disturbo Evitante di Personalità - Disturbo Dipendente di Personalità - Disturbo Ossessivo-Compulsivo di Personalità - Disturbo di Personalità non altrimenti specificato I criteri diagnostici generali del DSM-IV sono sei: Presenza di un modello abituale di esperienza interiore e di comportamento che devia marcatamente rispetto alle aspettative della cultura della persona, e che si manifesta in due o più delle seguenti aree: 1) Cognitività ( modo di percepire e interpretare se stessi, gli altri e gli avvenimenti). 2) Affettività (varietà, intensità, labilità e adeguatezza della risposta emotiva). 3) funzionamento interpersonale. 4) Controllo degli impulsi.[criterio A]. Il modello abituale deve risultare inflessibile e pervasivo e interessare varie situazioni personali e sociali [criterio B], e deve determinare un disagio clinicamente significativo e compromissione del funzionamento sociale, lavorativo e di altre importanti aree [criterio C]. Il modello inoltre deve essere stabile e di lunga durata, e l’esordio deve risalire almeno all’adolescenza o alla prima età adulta [criterio D]. Il modello, infine, non deve essere meglio giustificato come manifestazione o conseguenza di un altro disturbo mentale [criterio E], o essere collegato agli effetti fisiologici di una sostanza o di una condizione medica generale (es. un trauma cranico) [criterio F]. Disturbi di Personalità del Gruppo A Disturbo Paranoide di Personalità A. Diffidenza e sospettosità pervasive nei confronti degli altri (tanto che le loro intenzioni vengono interpretate come malevole), che iniziano nella prima età adulta e sono presenti in una varietà di contesti, come indicato da quattro (o più) dei seguenti elementi: 110 1) sospetta senza una base sufficiente, di essere sfruttato, danneggiato od ingannato 2) dubita senza giustificazione della lealtà o affidabilità di amici o colleghi 3) è riluttante a confidarsi con gli altri a causa di un timore ingiustificato che le informazioni possano essere usate contro di lui 4) scorge significati nascosti umilianti o minacciosi in rimproveri o altri eventi benevoli 5) porta constantemente rancore, cioè, non perdona gli insulti, le ingiurie o le offese 6) percepisce attacchi al proprio ruolo o reputazione non evidenti agli altri, ed è pronto a reagire con rabbia o contrattaccare 7) sospetta in modo riccorrente, senza giustificazione, della fedeltà del coniuge o del partner sessuale. B. Non si manifesta esclusivamente durante il decorso della Schizofrenia, di un Disturbo dell’Umore con Manifestazioni Psicotiche, o di un altro Disturbo Psicotico, e non è dovuto agli effetti fisiologici diretti di una condizione medica generale. Disturbo Schizoide di Personalità A. Una modalità pervasiva di distacco dalle relazioni sociali ed una gamma ristretta di espressioni emotive, in contesti interpersonali, che iniziano nella prima età adulta e sono presenti in una varietà di contesti, come indicato da quattro (o più) dei seguenti elementi: 1) non desidera nè prova piacere nelle relazioni strette, incluso il far parte di una famiglia 2) quasi sempre sceglie attività solitarie 3) dimostra poco o nessun interesse per le esperienze sessuali con un altra persona 4) prova piacere in poche o nessuna attività 5) non ha amici stretti o confidenti, eccetto i parenti di primo grado 6) sembra indifferente alle lodi o alle critiche degli altri 7) dimostra freddezza emotiva, distacco o affettività appiattita. B. Non si manifesta esclusivamente durante il decorso della Schizofrenia, di un Disturbo dell’Umore con Manifestazioni Psicotiche, di un altro Disturbo Psicotico o di un Disturbo Pervasivo dello Sviluppo, e non è dovuto agli effetti fisiologici diretti di una condizione medica generale. Disturbo Schizotipico di Personalità A. Una modalità pervasiva di relazioni sociali ed interpersonali deficitarie, evidenziate da disagio acuto e ridotta capacità riguardanti le relazioni strette, e da distorsioni cognitive e percettive ed eccentricità del comportamento, che compaiono nella prima età adulta, e sono presenti in una varietà di contesti, come indicato da cinque (o più) dei seguenti elementi: 1) idee di riferimento (escludendo i deliri di riferimento) 2) credenze strane o pensiero magico, che influenzano il comportamento, e sono in contrasto con le norme subculturali (per es. superstizione credere nella 111 3) 4) 5) 6) 7) 8) 9) chiarovvegenza, nella telepatia o nel sesto senso; nei bambini e negli adolescenti fantasie e pensieri bizzarri) esperienze percettive insolite, incluse illusioni corporee pensiero e linguaggio strani (per es. vago, circostanziato metaforico, iperelaborato o stereotipato) sospettosità o ideazione paranoide affettività inappropriata o coartata comportamento o aspetto strani, eccentrici, o peculiari nessun amico stretto o confidente, eccetto i parenti di primo grado eccessiva ansia sociale, che non diminuisce con l’aumento della familiarità, e no tende ad essere associata con preoccupazioni paranoidi piuttosto che con un giudizio negativo di sè. B. Non si manifesta esclusivamente durante il decorso della Schizofrenia, di un Disturbo dell’Umore con Manifestazioni Psicotiche, di un altro Disturbo Psicotico o di un Disturbo Pervasivo dello Sviluppo. Disturbi di Personalità del Gruppo B Disturbo Antisociale di Personalità A. Un quadro pervasivo di innosservanza e di violazione dei diritti degli altri, che si manifesta fin dalla età di 15 anni, come indicato da tre (o più) dei seguenti elementi: 1) incapacità di conformarsi alle norme sociali per ciò che concerne il comportemento legale, come indicato dal ripetersi di condotte suscettibili di arresto 2) disonestà, come indicato dal mentire, usare falsi nomi, o truffare gli altri ripetutamente, per profitto o per piacere personale 3) impulsività o incapacità di pianificare 4) irritabilità e aggrressività, come indicato da scontri o assalti fisici ripetuti 5) inosservanza spericolata della sicurezza propria e degli altri 6) irresponabilità abituale, come indicato dalla ripetuta incapacità di sostenere un’attività lavorativa continuativa, o di far fronte ad obblighi finanziari 7) mancanza di rimorso, come indicato dall’essere indifferenti o dal razionalizzazare dopo aver danneggiato, maltattato o derubato un altro. B. L’individuo ha almeno 18 anni. C. Presenza di un Disturbo della Condotta con esordio prima dei 15 anni di età. D. Il comportamento antisociale non si manifesta esclusivamente durante il decorso della Schizofrenia o di un Episodio Maniacale. 112 Disturbo Borderline di Personalità A. Una modalità pervasiva di instabilità delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sè e dell’umore e una marcata impulsività, comparse nella prima età adulta e presenti in vari contesti, come indicato da cinque (o più) dei seguenti elementi: 1) sforzi disperati di evitare un reale o immaginario abbandono. Nota: non includere i comportamenti suicidari o automutilanti considerati nel criterio 5 2) un quadro di relazioni interpersonali instabili e intense, caratterizzate dall’alternanza tra gli estremi di iperidealizzazione e svaòutazione 3) alterazione dell’identità: immagine di sè e percezione di sè marcatamente e persistentemente instabili 4) impulsività in almeno due aree che sono potenzialmente dannose per il soggetto, quali spendere, sesso, abuso di sostanze, guida spericolata, abbuffate. Nota: non includere i comportamenti suicidari o automutilanti considerati nel criterio 5 5) ricorrenti minaccie, gesti, comportamenti suicidari, o comportamento automutilante 6) instabilità affettiva dovuta a una marcata reattività dell’umore (per es. episodica intensa disforia, irritabilità o ansia, che di solito durano poche ore, e soltanto raramente più di pochi giorni) 7) sentimenti cronici di vuoto 8) rabbia immotivata e intensa o difficoltà a controllare a rabbia (per es. frequenti accessi di ira o rabbia costante, ricorrenti scontri fisici) 9) ideazione paranoide, o gravi sintomi dissociativi transitori, legati allo stress. Disturbo Istrionico di Personalità A. Un quadro pervasivo di emotività eccessiva e di ricerca di attenzione, che compare entro la prima età adulta ed è presente in una varietà di contesti, come indicato da cinque (o più) dei seguenti elementi: 1) è a disagio in situazione nelle quali non è al centro dell’attenzione 2) l’interazione con gli altri è spesso caratterizzata da comportamento sessualmente seducente o provocante 3) manifesta un’espressione delle emozioni rapidamente mutevole e superficiale 4) costantemente utilizza l’aspetto fisico per attirare l’attenzione su di sè 5) lo stile dell’eloquio è eccessivamente impressionistico e privo di dettagli 6) mostra autodrammatizzazione, teatralità, ed espressione esagerata delle emozioni 7) è suggestionabile, cioè, facilmente influenzato dagli altri e dalle circostanze 8) considera le relazioni più intime di quanto non siano realmente. Disturbo Narcisistico di Personalità A. Un quadro pervasivo di grandiosità (nella fantasia o nel comportamento), necessità di ammirazione e mancanza di empatia, che compare entro la prima età adulta ed è presente in una varietà di contesti, come indicato da cinque (o più) dei seguenti elementi: 1) ha un senso grandioso di importanza (per es. esagera risultati e talenti, si aspetta di essere notato come superiore senza un’adeguata motivazione) 113 2) è assorbito da fantasie di illimitati successo, potere, fascino, bellezza, e di amore ideale 3) crede di essere “speciale” e unico, e di dover frequentare e poter essere capito solo da altre persone (o istituzioni) speciali o di classe elevata 4) richiede eccessiva ammirazione 5) ha la sensazione che tutto gli sia dovuto, cioè, la irragionevole aspettativa di tattamenti di favore o di soddisfazione immediata delle proprie aspettative 6) sfruttamento interpersonale, cioè, si approffitta degli altri per propri scopi 7) manca di empatia: è inacapace di riconoscere o di identificarsi con i sentimenti e le necessità degli altri 8) è spesso invidioso degli altri, o crede che gli altri lo invidino 9) mostra comportamenti o atteggiamenti arroganti e presuntuosi. Disturbi di Personalità del Gruppo C Disturbo Evitante di Personalità A. Un quadro pervasivo di inibizione sociale, sentimenti di ineguatezza e ipersensibilità al giudizio negativo, che compare entro la prima età adulta, ed è presente in una varietà di contesti come indicato da quattro (o più) dei seguenti elementi: 1) evita attività lavorative che implicano un significativo contatto interpersonale, poichè teme di essere criticato, disapprovato, o rifiutato 2) è riluttante nell’entrare in relazione con persone, a meno che non sia certo di piacere 3) è inibito nelle relazioni intime per il timore di essere umiliato o ridicolizzato 4) si preoccupa di essere criticato o rifiutato in situazioni sociali 5) è inibito in situazioni interpersonali nuove per sentimenti di inadeguatezza 6) si vede come socialmente inetto, personalmente non attraente, o inferiore agli altri 7) è insolitamente riluttante ad assumere rischi personali o ad ingaggiarsi in qualsiasi nuova attività, poichè questo può rivelarsi imbarazzante. Disturbo Dipendente di Personalità A. Una situazione pervasiva ed eccessiva di necessità di essere accuditi, che determina un comportamento sottomesso e dipendente e timore della separazione, che compare nella prima età adulta ed è presente in una varietà di contesti, come indicato da cinque (o più) dei seguenti elementi: 1) ha difficoltà a prendere le decisioni quotidiane senza richiedere una eccessiva quantità di consigli e rassicurazioni 114 2) ha bisogno che altri si assumano le responsabilità per la maggior parte dei settori della sua vita 3) ha difficoltà ad esprimere dissaccordo verso gli altri per il timore di perdere supporto e approvazione. Nota: non includere timore realistici di punizioni 4) ha difficoltà ad iniziare progetti o a fare cose autonomamente (per una mancanza di fiducia nel proprio giudizio o nelle proprie capacità piuttosto che per mancanza di motivazione o energia) 5) può giungere a qualsiasi cosa pur di ottenere accudimento e supporto da altri, fino al punto di offrirsi per compiti spiacevoli 6) si sente a disagio o indifeso quando è solo per timori esagerati di essere incapace di provare provvedere a se stesso 7) quando termina una relazione stretta, ricerca urgentemente un’altra relazione come fonte di accudimento e di supporto 8) si preoccupa in modo non realistico di essere lasciato a provvedere a se stesso. Disturbo Ossessivo-Compulsivo di Personalità A. Un quadro pervasivo di preoccupazione per l’ordine, perfezionismo, e controllo mentale e interpersonale, a spese di flessibilità, apertura ed efficienza, che compare entro la prima età adulta ed è presente in una varietà di contesti come indicato da quattro (o più) dei seguenti elementi: 1) attenzione per i dettagli, le regole, le liste, l’ordine, l’organizzazione o gli schemi, al punto che va perduto lo scopo principale dell’attività 2) mostra un perfezionismo che interferisce con il comportamento dei compiti (per es. È incapace di completare un progetto perchè non risultano soddisfatti i suoi standard oltremodo rigidi) 3) eccesiva dedizione al lavoro e alla produttività, fino all’esclusione delle attività di svago e delle amcizie 4) esageratamente coscienzioso, scrupoloso, inflessibile, in tema di moralità, etica o valori (non giustificato dall’apparenza culturale o religiosa) 5) è incapace di gettare via oggetti consumati o di nessun valore, anche quando non hanno alcun significato affettivo. 6) è riluttante a delegare compiti o a lavorare con altri, a meno che non si sottomettano esattamente al suo modo di fare le cose 7) adotta una modalità di spesa improntata all’avarizia, sia per sè che per gli altri; il denaro è considerato come qualcosa da accomulare in vista di catastrofi future 8) manifesta rigidità e testardaggine. Disturbo di Personalità Non Altrimenti Specificato Questa categoria è riservata alle alterazioni del funzionamento della personalità che non soddisfano i criteri per alcuno specifico Disturbo di Personalità. Un esempio è la presenza di caratteristiche di uno o più Disturbi di Personalità specifici che non soddisfano completamente i criteri per nessun Disturbo di Personalità (“personalità mista”), ma che nel complesso causano disagio clinicamente 115 significativo o compromissione in una o più aree importanti del funzionamento (per es. sociale o lavorativo). Questa categoria può essere anche utilizzata quando il clinico giudica che sia appropriato uno specifico Disturbo di Personalità che non è incluso nella Classificazione. Gli esempi includono il Disturbo Depressivo di Personalità e il Disturbo Passivo-Aggressivo di Personalità. 116