TEORIE E TECNICHE PSICOLOGIA CLINICA
Appunti lezioni fornite dal docente
Parte I: I paradigmi
PARADIGMI ATTUALI IN PSICOLOGIA CLINICA
Con paradigma si intende un insieme di assunti generali che riguardano la scelta dell’oggetto di
studio, la modalità di raccolta dati, la concezione del funzionamento della mente e del
comportamento normale e patologico e l’uso conseguente di determinate tecniche terapeutiche. Il
termine include dunque tutti gli assunti e le teorie accettate come vere dagli psicologi clinici.
Attualmente la maggior parte degli psicologi clinici fa riferimento a 5 diversi paradigmi:
Apprendimento, Biologico, Cognitivo, Psicoanalitico e Umanistico.
Come giustamente sottolineano Davison e Neale (2000) l’implicazione più importante dei
paradigmi è che determinano dove e come gli psicologi clinici cercano le risposte ai diversi
problemi posti dai disturbi psicologici e dal loro trattamento terapeutico. L’assunzione di un
paradigma può pertanto distorcere la percezione dei dati clinici poiché, spesso, i ricercatori
interpretano a priori i dati in modo diverso secondo i rispettivi punti di vista, tuttavia bisogna avere
presente che senza un paradigma di riferimento non sarebbe possibile dare un significato alle
osservazioni cliniche.
Il fatto che i ricercatori non operino tutti nell’ambito dello stesso paradigma non deve stupire, e anzi
può essere visto con favore, perché attualmente si conosce ancora troppo poco dei fenomeni
psicopatologici e, se si evitano contrapposizioni aprioristiche, la diversità di approcci potrà
incrementare le nostre conoscenze a tutto beneficio dei pazienti.
Ogni paradigma implica delle ipotesi sui concetti di normalità e patologia, senza però definirli in
modo esplicito. In linea generale sono state proposte alcune definizioni di normalità e patologia
(infrequenza statistica, sofferenza personale, violazione delle norme sociali, evidenti disfunzioni in
qualche importante area dell’esistenza, imprevedibilità rispetto al fattore ambientale stressante), ma
nessuna è soddisfacente, perché al più colgono solo un segmento di quella che potrebbe essere una
definizione esauriente. Riprenderemo questo tema quando parleremo della diagnosi nosograficodescrittiva.
PARADIGMA PSICOANALITICO
L’assunto di base del paradigma psicoanalitico è che il pensare e l’agire umano siano determinati
dall’interazione di tre sistemi psichici, Es, Io e Super-io, concettualizzati come astrazioni che
categorizzano e descrivono funzioni organizzative e motivazionali della mente, il cui operare è
prevalentemente inconscio.
I disturbi psicologici sono concettualizzati come conseguenze di carenze o traumi ambientali e di
conflitti intrapsichici dell’età evolutiva (riattivati da circostanze attuali nel caso di disturbi comparsi
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successivamente), tali da produrre deficit strutturali dell’Io o del Super-io, risposte emozionali (per
es.angoscia, sentimento di colpa, vergogna) e/o operazioni mentali difensive (meccanismi di difesa)
adattive o compensatorie che possono portare a distorsioni del funzionamento dell’Io e del Super-io
e della personalità nel suo complesso, e alla comparsa di sintomi.
Una breve illustrazione ci aiuterà a comprendere meglio questi concetti.
Es: comprende tutte le rappresentazioni mentali delle spinte istintuali che l’uomo eredita
geneticamente e che sono finalizzate fondamentalmente all’autoconservazione e alla riproduzione
della specie. Gli psicoanalisti preferiscono il termine pulsione a quello di istinto per sottolineare la
maggiore plasticità dell’istinto nell’uomo, rispetto ad altri animali,
Il suo funzionamento è inconscio. Nella coscienza è avvertito dall’Io sotto forma di desideri e di
fantasie d’appagamento.
Io: insieme di funzioni psichiche che mettono l’individuo in grado di percepire, pensare e agire
sull’ambiente (attenzione, percezione, pensiero, memoria, affetti ed emozioni, linguaggio, controllo
motorio). Il suo funzionamento è in parte inconscio e in parte conscio.
Le funzioni dell’Io, precostituite su base genetica, per maturare e svilupparsi pienamente
necessitano di stimolazioni e di risorse ambientali adeguate alle varie fasi dello sviluppo. Importanti
compiti dell’Io sono il mantenimento dell’integrità psicofisica, la conoscenza e il controllo
dell’ambiente, la discriminazione fra gli stimoli che provengono dall’interno da quelli esterni
(esame di realtà), la soddisfazione delle spinte pulsionali e delle esigenze del Super-io, la
valutazione in anticipo di eventi traumatici e l’attuazione di meccanismi di difesa.
Super-io: comprende le funzioni di divieto, di ideale e di autosservazione. Alcuni autori
distinguono le funzioni di divieto (Super-io in senso stretto, che indica quello che è proibito fare,
pena il senso di colpa) da quelle di ideale (Ideale dell’Io, che indica come si deve essere e
comportarsi, pena la vergogna). Le sue funzioni sono in parte consce e in parte inconsce. Si
costituisce stabilmente in conseguenza dell’interiorizzazione (fare proprie) delle esigenze, delle
aspettative e dei divieti dei genitori, concomitanti all’abbandono degli investimenti edipici e allo
stabilizzarsi delle identificazioni e controidentificazioni con i genitori. Alcuni autori individuano i
precursori del Super-io nelle fasi dello sviluppo pre-edipiche.
Le caratteristiche del Super-io sono determinate dai valori morali e ideali della società filtrati dalle
parole e dagli atteggiamento dei genitori e dalle fantasie e caratteristiche del pensiero infantile.
Esperienze più tardive, in particolare adolescenziali, possono ulteriormente plasmare il Super-io in
modo conforme ai canoni morali e agli ideali del gruppo sociale di appartenenza.
Inconscio: sulla base dell’osservazione e dell’esperienza clinica la teoria psicoanalitica ipotizza
un’attività mentale inconscia, che in parte può essere resa cosciente, che sottende e in buona parte
dirige il pensare e l’agire cosciente. E’ inoltre ipotizzata la possibilità che contenuti mentali
coscienti possano essere resi inconsci mediante rimozione. L’attività mentale inconscia caratterizza
le funzioni dell’Es, in parte le funzioni dell’Io e del Super-io, e gli affetti e le fantasie connesse a
situazioni traumatiche e conflitti oggetto di rimozione.
Fasi dello sviluppo: nella teoria psicoanalitica la maturazione del bambino è descritta attraverso un
susseguirsi di fasi che sfumano l’una nell’altra: fase orale, sadico-anale, fallico-edipica e latenza.
Ogni fase è caratterizzata dalla prevalente erotizzazione di parti e funzioni del corpo, dall’evolversi
della relazione oggettuale (oggetto: persona significativa per la vita fisica e psichica del bambino) e
delle funzioni dell’Io, e da bisogni, fantasie e caratteristiche del pensiero che determinano il modo
con cui si esperiscono e s’interpretano la relazione con l’altro e gli eventi di vita.
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Trauma: per trauma s’intende qualsivoglia evento che, per la sua valenza emotiva ed intensità, sia
in grado di forzare l’Io oltre le sue capacità d’adattamento, e di conseguenza provocare una
disorganizzazione più o meno temporanea delle sue funzioni, la comparsa di angoscia e di
successive risposte più o meno adattive mediate da operazioni mentali difensive.
Tipiche situazioni traumatiche sono la perdita o la minaccia della perdita dell’oggetto o dell’amore
dell’oggetto, il danno o la minaccia di danno (reale o simbolica) alla propria integrità fisica, e la
frustrazione di bisogni istintuali con conseguente loro intensificazione oltre la possibilità di
padroneggiamento da parte dell’Io.
Le situazioni traumatiche, comunque, non sono tali in senso assoluto e non sempre producono un
disturbo psicologico, perché il loro effetto dipende in gran parte dalle risorse della persona e
dall’eventualità che attivino un conflitto intrapsichico.
Carenze ambientali in età evolutiva possono essere considerate a tutti gli effetti potenziali situazioni
traumatiche ad effetto cumulativo. Si tratta di carenze per difetto o per eccesso di intervento da
parte delle figure di riferimento del bambino, ad esempio mancanza di empatia e di reverie,
incapacità a rispondere ai bisogni narcisistici, frustrazione o gratificazione eccessiva di bisogni
istintuali.
Ai traumi dell’età evolutiva, siano essi eventi accidentali o carenze ambientali ad effetto
cumulativo, la teoria psicoanalitica attribuisce particolare importanza per la possibilità che
producano distorsioni nelle relazioni oggettuali e difetti o arresti evolutivi quali deficit strutturali
dell’Io (per es. bassa tolleranza alle frustrazioni, minore capacità di gestire adeguatamente i propri
bisogni ed emozioni, persistenza di caratteristiche di pensiero concreto e magico ecc.) e del Superio (per es. eccessiva rigidità morale o incapacità a adeguarsi alle norme sociali ecc.).
La fase dello sviluppo nel corso della quale i traumi acuti o cumulativi esercitano il loro impatto
determina la comparsa di fantasie specifiche collegate al modo con cui si esperisce e s’interpreta il
significato di un evento, con importanti implicazioni sugli effetti e sulle modalità di gestione di
eventi analoghi in età adulta. In altre parole si può creare una vulnerabilità per determinati eventi
simili e una predisposizione all’attivazione di conflitti intrapsichici e all’uso di meccanismi di
difesa disadattivi.
Conflitto intrapsichico: contrapposizione di esigenze contrastanti che provengono dall’Es, dall’Io e
dal Super-io, attivate da eventi interni o esterni e dalle fantasie specifiche, consce o inconsce, loro
collegate. Se il conflitto forza l’Io oltre i limiti delle sue capacità di adattamento, l’evento assume la
connotazione del trauma. Ad esempio la nascita di un fratello richiede al bambino un adattamento
alla nuova situazione e ciò può avvenire senza conseguenze patologiche o anche con effetti
maturativi; tuttavia, se l’evento attiva fantasie e desideri carichi di forte aggressività e un
contemporaneo forte senso di colpa, il conflitto che s’ingenera può dare all’evento la connotazione
del trauma, con comparsa di angoscia e attivazione di meccanismi di difesa.
Angoscia: il termine è utilizzato come sinonimo di ansia. Corrisponde all’emozione (stato di
attivazione psicofisiologica) che concomita e segue all’esposizione ad un pericolo, prima che sia
stata operata una valutazione e una scelta adeguata a fronteggiare la situazione. Si tratta di una
risposta automatica, geneticamente determinata, con funzione di predisporre biologicamente
l’organismo ad attivare un comportamento d’emergenza.
Quando l’Io è in grado di effettuare una valutazione realistica del pericolo, e di dare una risposta
adeguata non basata su elaborazioni fantastiche inconsce, si parla di angoscia realistica. Si parla,
invece, di angoscia traumatica quando l’emozione concomita e segue ad eventi interni o esterni che
suscitano conflitti intrapsichici che forzano l’Io oltre le sue capacità di adattamento (traumi),
spingendolo verso risposte basate su operazioni mentali difensive inconsce (meccanismi di difesa)
che possono dare luogo alla comparsa di sintomi. Con la maturazione l’Io apprende a prevedere in
anticipo gli eventi potenzialmente traumatici, e in tali casi si attiva una forma di angoscia attenuata,
l’angoscia segnale, che allerta l’Io in modo che possa evitare o fronteggiare la situazione.
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L’angoscia traumatica e l’angoscia segnale assumono la caratteristica di sintomo in molti disturbi
psicologici.
Meccanismi di difesa: sono operazioni mentali automatiche e inconsce a cui l’Io ricorre per
padroneggiare l’angoscia e risolvere i conflitti intrapsichici. Tutte le normali modalità di
funzionamento dell’Io (es. spostamento dell’attenzione, produzione di fantasie, assunzione di un
comportamento ipocrita, ecc.) possono essere usate a scopo difensivo anche consapevole, a tali
modalità è dato il nome di meccanismi di difesa solo quando hanno la caratteristica
dell’automatismo e dell’inconsapevolezza. I meccanismi di difesa possono portare ad un
padroneggiamento dell’angoscia e ad un adattamento, o alla formazione di tratti del carattere e di
sintomi determinati dallo specifico meccanismo di difesa utilizzato. Ci soffermeremo brevemente su
alcuni dei più noti meccanismi di difesa:
Rimozione: le rappresentazioni mentali e gli affetti collegati ad un trauma o ad un conflitto sono
respinti dalla coscienza e resi inconsci con conseguente scomparsa dell’angoscia. Il materiale
rimosso continua tuttavia a persistere nella memoria a livello inconscio, per questo in caso di eventi
di vita successivi collegati associativamente con il materiale rimosso si attiva l’angoscia segnale,
avvertita soggettivamente come un’ansia senza causa apparente.
Formazione reattiva: consiste nell’assunzione coattiva e rigida di atteggiamenti opposti, anche
simbolicamente, all’affetto o al comportamento indesiderato perché fonte di conflitto. Può
manifestarsi con un comportamento particolare o costituirsi in un tratto di carattere più o meno
integrato nel complesso della personalità.
Isolamento: consiste nel separare una rappresentazione cosciente dall’affetto corrispondente e da
connessioni associative con altri pensieri. La rappresentazione ha libero accesso alla coscienza, ma
è sperimentata come idea estranea come ad esempio l’ossessione nel disturbo ossessivocompulsivo.
Annullamento: un pensiero, un gesto o un atto sono considerati non avvenuti utilizzando allo scopo
un pensiero od un atto di significato opposto. Può dare luogo a coazioni e comportamenti ritualistici
come quelli tipici del disturbo ossessivo-compulsivo.
Negazione o diniego: consiste nel rifiuto della percezione di un fatto che si impone nel mondo
esterno, di solito una parte spiacevole ed indesiderata della realtà mediante una fantasia a cui viene
data il carattere di realtà. È una modalità difensiva che indebolisce notevolmente l’esame di realtà.
Proiezione: consiste nell’espulsione da sé e nell’attribuzione all’altro, di qualità, sentimenti,
impulsi, desideri inaccettabili per il soggetto. È una modalità difensiva che indebolisce
notevolmente l’esame di realtà. È implicata nel fenomeno della superstizione e del razzismo, può
dare luogo a disturbi di personalità e caratterizza la schizofrenia paranoide. Il termine proiettivo
usato nei test di personalità non corrisponde alla difesa, ma fa riferimento al fatto che percepiamo la
realtà e in particolare gli stimoli ambigui in base ai nostri desideri, timori, interessi, stati affettivi
ecc..
Rivolgimento contro il sé: un sentimento aggressivo verso una persona cara viene deviato e rivolto
verso il sé. Questo meccanismo può indurre la persona a farsi male fisicamente od a nuocersi per
altre vie.
Identificazione: è un processo psicologico attraverso il quale un soggetto assimila un aspetto, una
proprietà od un attributo di un’altra persona e si trasforma totalmente o parzialmente sul modello di
quest’ultima. Viene usata come difesa quando serve ad attenuare il conflitto derivante dalla perdita
reale o simbolica di quella persona, oppure la paura di un’aggressione reale o fantasticata da parte
della persona in questione, in quest’ultimo caso si parla di identificazione con l’aggressore.
Regressione: quando è usata come meccanismo di difesa consiste in un ritorno automatico ed
involontario a modalità di soddisfazione e di funzionamento psicologico caratteristici di stadi
evolutivi più antichi. Può essere parziale, se limitata ad alcuni comportamenti, o totale, come in
alcune gravi disturbi psicotici.
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Conversione: un desiderio o un conflitto viene simultaneamente tenuto fuori della coscienza ed
espresso in forma dissimulata e simbolica attraverso un disturbo di una funzione corporea
appartenente di solito al sistema sensoriale o muscolare volontario. È caratteristico del disturbo di
conversione.
Inibizione: comporta una perdita inconsapevole della motivazione necessaria per impegnarsi in una
certa attività connessa simbolicamente con conflitti inconsci. L’attività è evitata a causa del
disinteresse o di un senso di inadeguatezza.
Spostamento: consiste nello spostamento del segnale d’angoscia su un oggetto esterno con la
conseguenza che il pericolo viene fronteggiato mediante l’evitamento.
Dissociazione: le funzioni mentali si scindono in modo da consentire l’espressione di impulsi
inconsci senza che venga avvertita alcuna responsabilità per le proprie azioni, perché in seguito non
vengono ricordate, o non vengono riconosciute come proprie. Il comportamento è diverso e di solito
opposto a quello normale della persona nel suo usuale stato di coscienza. Questo meccanismo di
difesa è caratteristico dei disturbi dissociativi.
Identificazione proiettiva: si basa su una funzione dell’Io riconducibile all’attuazione di azioni
comportamentali o verbali idonee a suscitare in un'altra persona stati mentali (es. noia, attenzione,
allarme, senso di colpa, confusione, ecc.) emozioni (es. gelosia, amore, odio, angoscia, ecc.) e
comportamenti. Come modalità comunicativa serve a dare informazioni su ciò che proviamo (es.
gioia di vivere o senso di depressione), e a conoscere in maniera più profonda gli altri attraverso
quello che ci fanno sentire, e noi stessi attraverso gli effetti che produciamo negli altri. Come
meccanismo di difesa è utilizzato per liberarsi di sentimenti, desideri e impulsi inaccettabili,
collocandoli in qualcun altro. Si distingue dalla proiezione che si limita ad attribuire qualcosa, ad
esempio la colpa, senza gli effetti pragmatici dell’identificazione proiettiva che fa sentire in colpa
l’altro.
Le critiche al paradigma psicoanalitico riguardano principalmente: 1) il fatto che la teoria si basa
sullo studio di casi clinici e sui limiti di questo metodo di ricerca; 2) l’inferire processi inconsci
difficilmente operazionalizzabili ai fini della ricerca sperimentale. È in ogni caso notevole l’impatto
di questo paradigma sulla conoscenza dei disturbi psicologici, in particolare riguardo all’importanza
delle esperienze traumatiche infantili nella genesi dei disturbi, l’influenza sul comportamento di
un’attività mentale inconscia, e il controllo dell’ansia e degli eventi stressanti mediante strategie
mentali.
Scopo delle terapie che adottano il paradigma psicoanalitico è quello di produrre nel paziente
insight, vale a dire una comprensione cognitiva ed emotiva dei moventi del proprio agire e soffrire
presente e passato. Sono inoltre tenuti in considerazione altri fattori terapeutici collegati alla
relazione.
PARADIGMA UMANISTICO
Per gli psicologi clinici che hanno come riferimento il paradigma umanistico l’agire umano è
intenzionale e diretto all’autorealizzazione e all’autonomia, e non condizionato passivamente da
stimoli ambientali o da spinte pulsionali.
L’approccio conoscitivo al funzionamento della mente è di tipo fenomenologico. Ogni persona è
considerata dotata di una struttura interna di riferimento, o concetto di sé, che è il prodotto di tutte le
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percezioni ed esperienze avute durante lo sviluppo; questa struttura filtra la percezione degli eventi
interni ed esterni condizionando il vissuto (per esempio, se una persona si considera debole e
indifesa, tenderà a vivere gli eventi del mondo come potenzialmente minacciosi) e le scelte.
Il disagio e i disturbi psicologici sono concettualizzati come la conseguenza di stili educativi e
relazionali che non hanno favorito la spinta innata al sano sviluppo delle proprie caratteristiche, ma
piuttosto l’accettazione acritica dei desideri e delle aspettative altrui, e di modelli di genitori
contrapposti e non comunicanti. La conseguenza è la creazione di una struttura interna di
riferimento poco flessibile, eccessivamente sensibile ai giudizi degli altri, poco consapevole delle
proprie motivazioni e incapace di esprimere e di ricercare attivamente l’appagamento dei propri
bisogni. Da qui l’assunto che il malessere psicologico può essere modificato incrementando la
consapevolezza che la persona ha delle sue motivazioni e bisogni.
Il paradigma umanistico è oggetto di critiche: 1) per l’approccio fondamentalmente filosofico e
talvolta utopistico alla natura umana e alle sue motivazioni; 2) per la poca attenzione verso la
definizione delle cause dei singoli disturbi psicologici.
Di rilievo è il contributo che i clinici ad orientamento umanistico hanno dato sull’importanza nei
trattamenti psicologici delle caratteristiche del terapeuta e dell’alleanza terapeutica.
Scopo delle terapie che adottano il paradigma umanistico è quello di aiutare le persone ad
incrementare la consapevolezza (insight) e l’espressione delle proprie motivazioni, bisogni e
desideri. Le terapie umanistiche più diffuse e più compiutamente elaborate sono: “La terapia
centrata sul cliente” di Carl Rogers, e “la terapia della Gestalt” di Fritz Perls.
PARADIGMA DELL’APPRENDIMENTO
Gli psicologi che hanno come riferimento il paradigma dell’apprendimento o comportamentismo
ritengono che il comportamento umano sia quasi tutto frutto di un apprendimento, e solo in parte
riflesso o istintivo. L’assunto di base per la psicologia clinica è dunque che il comportamento
patologico, come peraltro quello normale, è appreso secondo le regole del condizionamento classico
e del condizionamento operante, e per imitazione di modelli. Oggetto di studio e di eventuale
modificazione terapeutica sono solo i comportamenti manifesti; le emozioni, per es. l’ansia, sono
studiate attraverso dimensioni oggettivamente osservabili quali gli indici psicofisiologici e il
comportamento di evitamento.
Condizionamento classico
E’ indissolubilmente legato al nome di Pavlov, uno scienziato russo che, durante uno studio sulla
secrezione gastrica del cane, osservò casualmente che il cane secerneva saliva al rumore dei passi
dello sperimentatore che portava del cibo, e iniziò insieme con i suoi allievi uno studio sistematico
di questo fenomeno, a cui diede nome di secrezione psichica.
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Esperimento di Pavlov
Quando il cibo (stimolo incondizionato) è posto nella bocca del cane, si produce in modo riflesso un
flusso di saliva (risposta incondizionata). Se prima di ogni presentazione del cibo viene presentato
uno stimolo neutro come il suono di un diapason (stimolo condizionato), dopo ripetuti
accoppiamenti si ottiene la salivazione (risposta condizionata) con la sola vibrazione del diapason.
Nell’esperimento di Pavlov lo stimolo incondizionato è di valenza positiva. Altri ricercatori hanno
dimostrato che è possibile ottenere un condizionamento anche con stimoli incondizionati a valenza
negativa, come per esempio lo shock elettrico che provoca una risposta incondizionata
d’evitamento.
Concetti e fenomeni fondamentali del condizionamento classico sono:
1) Stimolo: qualsiasi evento, interno o esterno all’organismo, in grado di produrre un
comportamento interno o esterno detto risposta, osservabile e quantificabile. Possono essere
semplici o complessi. Sono chiamati incondizionati tutti gli stimoli (es. cibo) che sono in grado
di produrre naturalmente una determinata risposta dell’organismo (es. salivazione), mentre si
parla di stimoli condizionati (es. vibrazione del diapason) quando producono quella determinata
risposta solo dopo essere stati associati allo stimolo incondizionato.
2) Risposta: sono tutti i comportamenti dell’organismo sia interni sia esterni, che se prodotti da
uno stimolo incondizionato assumono il nome di risposte incondizionate, mentre se prodotti da
uno stimolo condizionato assumono il nome di risposte condizionate.
3) Principio di contiguità: per ottenere un condizionamento è necessaria una contiguità temporale
ottimale fra lo stimolo incondizionato e condizionato. Il tempo ottimale è di mezzo secondo.
Aumentando il tempo si ha un condizionamento meno stabile. Se facciamo precedere lo stimolo
incondizionato allo stimolo condizionato il condizionamento risulta molto debole.
4) Fenomeno dell’estinzione: una volta ottenuto un condizionamento, se si prosegue con ripetute
presentazioni dello stimolo condizionato non seguite dallo stimolo incondizionato, la risposta
condizionata si indebolisce progressivamente fino ad estinguersi. Una volta ottenuta
l’estinzione, se si lascia passare un certo lasso di tempo senza più presentare lo stimolo
condizionato, ad una nuova presentazione avremo un recupero spontaneo della risposta
condizionata. Proseguendo con un’alternanza di estinzioni e recuperi spontanei si arriva ad
un’estinzione definitiva, se però riprendiamo ad associare di nuovo lo stimolo condizionato con
lo stimolo incondizionato la risposta condizionata ricompare. L’estinzione può essere ottenuta
anche associando allo stimolo condizionato una nuova risposta incompatibile con la precedente.
5) Fenomeno dell’interferenza: la forza di un condizionamento può risentire dell’apprendimento
contemporaneo di un’altra associazione stimolo-risposta. Se varia solo stimolo l’interferenza è
di solito positiva, in particolare quanto più i due stimoli si somigliano; se varia solo la risposta
l’interferenza è negativa; se variano sia lo stimolo sia la risposta, si può prevedere nella maggior
parte dei casi un’interferenza negativa.
6) Fenomeno della generalizzazione: la risposta condizionata, una volta ottenuta, può essere
elicitata anche da stimoli simili a quello utilizzato per il condizionamento. Per esempio se come
stimolo condizionato usiamo un metronomo che batte al ritmo di 100 battute al minuto, si
ottiene la risposta condizionata, seppure di forza inferiore, anche con altri ritmi. Sono chiamate
primarie le generalizzazioni basate su una somiglianza fisica misurabile, e secondarie quelle
basate su una somiglianza appresa (es. sinonimo di una parola).
7) Fenomeno della discriminazione: è possibile ottenere la risposta condizionata solo per un
determinato stimolo, e non per quelli simili associando lo stimolo incondizionato solo allo
stimolo prescelto e presentando da soli quelli simili.
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8) Fenomeno del condizionamento di ordine superiore: associando ripetutamente un nuovo
stimolo allo stimolo condizionato si può ottenere la risposta condizionata presentando da solo il
nuovo stimolo. Si può proseguire con un condizionamento di terzo ordine ecc..
Condizionamento operante
E’ legato al nome di Skinner, un ricercatore americano che, partendo dalla legge dell’effetto di
Thorndike, dimostrò con i suoi esperimenti che determinate risposte, emesse casualmente, possono
essere condizionate dall’ambiente mediante un’associazione tra risposta e rinforzo.
Legge dell’effetto: il concetto base è che gli animali apprendono delle risposte le cui conseguenze
rappresentano per loro una ricompensa tale che quel comportamento abbia a ripetersi o no.
Skinner ne muta la denominazione in quella di principio del rinforzo.
Esperimento di Skinner
Un topo affamato viene posto in un box all’interno del quale è posta una leva che, premuta
casualmente dal topo, fa cadere del cibo. Dopo ripetute associazioni della risposta casuale con il
rinforzo si ottiene la risposta condizionata.
Nel condizionamento operante, dunque, non si parla più di stimoli e risposte come nel
condizionamento classico, ma di risposte e rinforzi.
Rinforzi sono tutti gli eventi che seguono immediatamente una risposta e che aumentano la
probabilità che la risposta si ripeta (rinforzi positivi) o scompaia (rinforzi negativi). Oltre che
positivi e negativi, i rinforzi possono essere: primari se ottengono l’effetto senza necessitare di
condizionamenti precedenti (es. cibo), o secondari (es. denaro) se capaci di rinforzo solo dopo
associazione ad altri rinforzi; continui quando viene rinforzato il 100% delle risposte, o intermittenti
(ogni tot risposte o tempo) se viene rinforzata solo una parte delle risposte (questo tipo di rinforzo
necessita di più tempo per instaurare la risposta, ma poi questa risulta essere più difficile da
estinguere).
Anche nel condizionamento operante valgono il principio di contiguità e le stesse leggi del
condizionamento classico: estinzione, recupero spontaneo, interferenza, generalizzazione,
discriminazione e condizionamento di ordine superiore.
L’apprendimento per imitazione o modeling
È legato ai nomi di Bandura e Walters, ricercatori americani interessati alla psicologia sociale, che
hanno dimostrato sperimentalmente che osservare qualcuno che compie una determinata azione può
incoraggiare l’apprendimento di quel comportamento.
Esperimento di Bandura e Walters
Bambini di scuola materna posti in situazioni di frustrazione dopo l’osservazione di modelli con
comportamento aggressivo o non aggressivo, rispondevano in numero significativamente maggiore
con le modalità comportamentali del modello osservato. La probabilità del comportamento
aumentava se il modello aveva ottenuto conseguenze remunerative.
L’apprendimento per imitazione pone il problema dell’esistenza di mediatori interni
nell’apprendimento e nel comportamento, perché l’apprendimento avviene senza che sia necessaria
una risposta manifesta e senza bisogno di rinforzo. Questo fatto ha portato alcuni ricercatori di
orientamento comportamentista a legittimare, con la teoria mediazionale, una ricerca che andasse
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oltre il dato osservabile e a ridefinire il concetto di apprendimento nei termini di acquisizione di
rappresentazioni mentali che possono essere tradotte in comportamenti.
Il paradigma dell’apprendimento è oggetto di critiche: 1) per l’approccio sostanzialmente
riduzionistico che equipara il funzionamento della mente a complesse integrazioni di unità
elementari di stimoli, risposte e rinforzi; 2) per l’impossibilità di fare risalire in modo convincente i
disturbi psicologici a particolari esperienze di apprendimento; ricordiamo al proposito che il fatto
che una terapia basata sui principi dell’apprendimento possa modificare un comportamento non
dimostra che il comportamento sia stato appreso in modo analogo.
Merito del paradigma dell’apprendimento è quello di avere introdotto il metodo sperimentale in
psicologia clinica.
Le terapie psicologiche comportamentali, sono finalizzate a modificare i comportamenti disadattivi
mediante le leggi del condizionamento classico, del condizionamento operante e del modeling. La
relazione terapeutica viene considerata utile, ma non necessaria.
PARADIGMA COGNITIVO
Gli psicologi che hanno come riferimento il paradigma cognitivo ritengono che le persone
strutturino e diano senso attivamente agli stimoli ambientali, interpretando ogni nuovo stimolo alla
luce delle acquisizioni del passato, organizzate in una rete di schemi cognitivi gerarchicamente
organizzati e riorganizzabili alla luce di nuove acquisizioni. L’assunto di base per la psicologia
clinica è che i disturbi psicologici siano conseguenza di schemi cognitivi irrazionali o comunque
rigidi e incoerenti rispetto alle esigenze e agli scopi della persona.
In psicologia clinica sono attualmente presenti due prospettive teorico-cliniche: una prospettiva
cognitivo razionalista e una prospettiva cognitivo strutturalista.
La prospettiva cognitivo razionalista
L’indirizzo teorico-clinico cognitivo razionalista prende le mosse in particolare dalla teoria lineare
dell’elaborazione delle informazioni, che considera l’uomo come un attivo elaboratore degli stimoli
ambientali attraverso un processo seriale che prevede diversi passaggi:
Attenzione selettiva verso alcuni stimoli ambientali → percezione dello stimolo → codifica dello
stimolo → elaborazione dello stimolo → valutazione dello stimolo in base alla sua valenza, ai
propri scopi, al proprio benessere ed all’immagine di Sé → reazione emotiva → reazione
comportamentale → conseguenze dell’azione sull’ambiente, rispetto alle quali può avere inizio un
nuovo processo di percezione selettiva.
Le emozioni e i comportamenti sono quindi considerati come conseguenti a valutazioni cognitive.
L’assunto di base che ne deriva per la psicologia clinica è che per comprendere il comportamento
patologico è necessario e sufficiente capire quali sono i processi di pensiero che lo determinano.
Nello specifico i disturbi psicologici sono concettualizzati come conseguenze di asserzioni e
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convinzioni irrazionali sul dover essere in determinati modi (es. non dover commettere mai errori o
dover essere amato e stimato da tutti), e di convinzioni negative su se stessi, il mondo e il futuro,
che sono mantenute grazie ad errori di logica quali l’inferenza arbitraria (giungere ad una
conclusione in assenza di prove), l’estrapolazione selettiva (trarre una conclusione sulla base di un
solo elemento fra i molti che determinano una situazione), l’ipergeneralizzazione (conclusione di
carattere assoluto tratta in base ad un unico evento), amplificazione degli eventi e prestazioni
negative e minimizzazione di quelle positive.
Scopo delle terapie che adottano il paradigma cognitivo razionalista è quello di aiutare il paziente
ad identificare le cognizioni errate, e a sostituirle con schemi cognitivi basati su asserzioni e
convinzioni più razionali e adattive. La relazione terapeutica è sostanzialmente di tipo pedagogico.
Le terapie ad orientamento cognitivo razionalista più diffuse e compiutamente elaborate sono la
terapia cognitiva di Beck, la terapia razionale-emotiva di Ellis e il problem-solving sociale.
Il paradigma cognitivo razionalista è oggetto di critiche principalmente per il fatto di attribuire ad
alcuni schemi di pensiero irrazionali, non sempre ben definiti, lo stato di causa dei disturbi
psicologici, trascurando la domanda sull’origine degli schemi, e assecondando talvolta
insoddisfacenti tautologie che fanno coincidere la causa di un disturbo con i sintomi del disturbo (ad
esempio affermare che pensieri negativi e tristi su se stessi sono la causa della depressione equivale
a dire che un sintomo su cui si basa la diagnosi di depressione ne è la causa). Inoltre gli schemi
irrazionali devono essere inferiti dal clinico, perché le persone non ne hanno consapevolezza, e resta
aperto il problema di definire un pensiero come razionale o irrazionale e il fatto che l’irrazionalità è
spesso una caratteristica delle persone sane. Merito del paradigma è quello di avere introdotto a
pieno titolo nella psicologia clinica la teoria e la ricerca sui processi cognitivi.
La prospettiva cognitivo costruttivista
Ha come riferimento generale alcuni sviluppi della teoria e della ricerca di base della psicologia
cognitiva. Si differenzia dall’approccio razionalista per il diverso modo di considerare le emozioni e
la loro elaborazione, per il rilievo che viene dato all’elaborazione inconscia degli stimoli ambientali,
e per il diverso modo di concettualizzare il disturbo psicologico. Sono infatti enfatizzate le funzioni
delle emozioni nei loro aspetti adattivi e comunicativi, ed è inoltre affermata l’indipendenza
dell’elaborazione cognitiva ed emotiva degli stimoli interni ed esterni, che avverrebbe in modo
parallelo ed interagente sia a livello consapevole, sia a livello inconscio. Per quanto riguarda la
sofferenza psicologica, il concetto di schema cognitivo irrazionale è sostituito dai concetti di rigidità
e incoerenza del sistema conoscitivo.
Ogni persona è considerata come portatrice di un proprio sistema conoscitivo, che elabora le
informazioni e produce comportamento sulla base dell’interazione fra la memoria dichiarativa (la
conoscenza verbalizzabile di sé e del mondo che l’individuo possiede), procedurale (relativa a come
si fanno le cose e che regola automaticamente il comportamento quotidiano), affettivoimmaginativa (relativa ad immagini pregnanti affettivamente che riflettono l’informazione affettiva
di base), ed episodica (relativa ad informazioni collocabili temporalmente). Il sistema conoscitivo di
ogni persona sarebbe inoltre dotato di gradi diversi di flessibilità e di coerenza interna, e quindi
diversamente capace di integrare nuove informazioni, di adattarsi a nuove situazioni e di
raggiungere con successo i propri obiettivi. Il paradigma, inoltre, integra al suo interno la teoria
dell’attaccamento dello psicoanalista J. Bowlby per spiegare la costruzione di modelli operativi
interni (stili di attaccamento) che organizzano la rappresentazione di se stessi e regolano
l’interazione con gli altri. L’approccio alla conoscenza del funzionamento della mente delle singole
persone tende ad assumere caratteristiche sostanzialmente di tipo fenomenologico e inferenziale.
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L’assunto di base per la psicologia clinica e che i disturbi psicologici sarebbero la conseguenza di
sistemi conoscitivi rigidi e incoerenti, di cui le persone hanno poca consapevolezza.
Scopo della terapia cognitiva ad indirizzo costruttivista è quello di aiutare il paziente ad acquisire
consapevolezza degli schemi prevalenti del proprio sistema conoscitivo e delle esperienze precoci
di attaccamento, e della loro influenza sul comportamento, e sulla sofferenza psicologica.
Contemporaneamente si pone l’obiettivo di aiutare il paziente a riorganizzare, secondo scelte
autonome, un sistema conoscitivo dotato di maggiore coerenza interna e flessibilità. Nel processo
terapeutico sono spesso utilizzate tecniche terapeutiche mutuate dal paradigma dell’apprendimento
e dall’approccio cognitivo razionalista.
Le critiche alla prospettiva cognitivo costruttivista riguardano principalmente il fatto che, al di là
della terminologia mutuata dalla psicologia cognitiva e dei riferimenti alla psicologia sperimentale,
l’approccio teorico e la prassi clinica contengono molti aspetti del paradigma umanistico (approccio
di tipo fenomenologico e rilievo terapeutico dell’insight), e che il metodo di ricerca si basa sullo
studio di casi clinici e sulla spiegazione retrospettiva e inferenziale di processi in atto al di fuori
della consapevolezza.
PARADIGMA BIOLOGICO
Ha come riferimento il modello medico della malattia somatica di cui mutua anche la terminologia.
L’assunto di base è che i disturbi psicologici siano paragonabili a malattie, e pertanto
diagnosticabili sulla base di un insieme di segni e di sintomi, e che le cause (eziologia nella
terminologia medica) debbano essere cercate in disfunzioni del sistema nervoso sottese da
alterazioni anatomo-fisiologiche o biochimiche, provocate da agenti esterni o da alterazioni
genetiche che mettono in moto processi biologici che portano alla manifestazione dei sintomi
(patogenesi nella terminologia medica).
Scopo delle ricerche che si basano su questo modello è di stabilire criteri diagnostici precisi per i
diversi disturbi psicologici, di trovare correlati organici o fisiologici sottostanti alle varie patologie e
la messa a punto di farmaci od interventi in grado di modificare le disfunzioni che generano la
patologia.
Attualmente le ricerche più promettenti si concentrano:
1) Sul ruolo dell’ereditarietà genetica, intesa come predisposizione (diatesi) a determinati disturbi
psicologici (es. disturbi d’ansia, dell’umore, schizofrenia). Sono ricerche che valutano la
prevalenza di alcuni disturbi in determinate famiglie rispetto alla popolazione generale, o in
coppie di gemelli monozigoti rispetto a coppie di gemelli dizigoti, o in bambini adottati con
genitori naturali portatori di disturbi mentali.
2) Sul possibile ruolo nella comparsa di alcuni disturbi psicologici dell’eccesso o della carenza di
alcuni neurotrasmettitori (serotonina, noradrenalina, dopamina, acido γ-amminobutirrico),
causata da errori metabolici nella sintesi, da alterazioni nei processi di inattivazione o da
disfunzioni a livello dei recettori post-sinaptici.
Il paradigma biologico è oggetto di critiche:
1) per l’approccio sostanzialmente riduzionistico che equipara la mente al suo substrato
biologico;
2) per il non riscontro di alterazioni fisiologiche nella maggior parte dei disturbi psicologici;
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3) per il fatto che la classificazione dei disturbi secondo il modello medico (come per esempio nel
DSM) è attualmente carente, perché per lo più non si basa su specifiche eziologie, ma piuttosto
su insiemi di sintomi, spesso aspecifici, dietro i quali può nascondersi una multiformità di
situazioni, con il rischio di assecondare tautologie del tipo che una persona ha un disturbo
d’ansia perché è ansiosa, ed è ansiosa perché ha un disturbo d’ansia.
Non bisogna tuttavia dimenticare che un modello di classificazione di tipo medico ha permesso di
creare un linguaggio condiviso che fa comunicare clinici che aderiscono a diversi paradigmi, e che
il modello è aperto ai contributi provenienti dai diversi approcci teorici. Inoltre gli importanti
progressi della ricerca biologica degli ultimi anni, anche a livello di metodiche di indagine sempre
più sofisticate, apre le porte ad un paradigma che integri la predisposizione biologica con i fattori
psicologici e ambientali indagati da altri paradigmi.
L’approccio biologico alla terapia si basa attualmente sulla ricerca farmacologica di sostanze che
ripristinino la funzione fisiologica alterata. Ricordiamo al proposito che i cosiddetti psicofarmaci
(ansiolitici, antidepressivi, antipsicotici) non ripristinano una funzione alterata, perché non derivano
dalla conoscenza delle cause del disturbo, ma da un comprovato effetto di tipo sintomatologico; in
altre parole l’ansia non è causata da una carenza di benzodiazepine, ma le benzodiazepine riducono
l’ansia, così come gli antipiretici riducono la febbre qualsiasi ne sia la causa.
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Parte II: I trattamenti Psicologici
Psicoterapie psicoanalitiche
Le psicoterapie psicoanalitiche hanno fondamento comune negli assunti sulle cause dei disturbi
psicologici. Sul piano operativo le tecniche terapeutiche possono essere descritte lungo un
continuum che va dal trattamento noto come psicoanalisi, alle psicoterapie espressive ad
orientamento psicoanalitico, fino alle psicoterapie di sostegno o supportive. I trattamenti possono
essere di durata non predeterminata, o avere un limite temporale prefissato (le cosiddette
psicoterapie brevi).
In linea di massima le tecniche che enfatizzano maggiormente il versante espressivo sono indicate
per i pazienti con disturbi e sofferenze psicologiche collegate alla presenza di conflitti intrapsichici,
e funzioni dell’Io sufficientemente integre, con capacità di insight e motivazione a comprendere se
stessi al di là della richiesta di un sollievo sintomatico.
Le tecniche più orientate sul versante supportivo sono indicate di solito per i pazienti con cronici
deficit dell’Io (per es. bassa tolleranza all’angoscia e alla frustrazione, inadeguato senso di realtà,
relazioni oggettuali gravemente difettose, scarso controllo degli impulsi, scarsa capacità di autoosservazione, tenue capacità di formare un’alleanza terapeutica).
Le tecniche di psicoterapia breve (6-25 sedute) sono indicate per i pazienti con caratteristiche simili
a quelle dei pazienti con indicazione per un trattamento espressivo, se in sede di consultazione è
possibile individuare un nucleo problematico centrale su cui focalizzare il lavoro terapeutico, o per i
pazienti, in precedenza ben adattati, che sono andati in crisi a seguito di eventi di vita traumatici (es.
catastrofi naturali, divorzio, perdita del lavoro o dello status sociale, morte di familiari).
Obiettivi delle terapie psicoanalitiche sono: alleviare e curare la sofferenza psicologica, e la
costruzione di un’organizzazione psichica più solida, come ad esempio un incremento del senso di
padronanza sulla propria vita, un miglioramento della capacità di riconoscere e gestire i propri
sentimenti, emozioni e comportamenti, un incremento dell’autostima realisticamente fondata, e
della capacità di fare fronte alle difficoltà della vita in modo adattabile e realistico.
Tali obiettivi sono perseguiti nei trattamenti espressivi principalmente cercando di promuovere nei
pazienti insight, cioè una comprensione cognitiva ed emotiva dei moventi inconsci e delle origini
del proprio disagio psicologico e del proprio sentire ed agire presente e passato, e un’integrazione di
questa comprensione e dell’esperienza relazionale con il terapeuta (che ha una funzione terapeutica
indipendentemente) nel contesto globale della personalità.
Nelle terapie maggiormente orientate verso il versante supportivo, gli interventi del terapeuta sono
finalizzati nei pazienti gravi a sopperire alle debolezze dell’Io, e a rafforzare le difese e la capacità
di gestire le difficoltà della vita quotidiana e le relazioni affettive e sociali, o nei pazienti in
precedenza ben adattati, il cui funzionamento mentale è stato compromesso da una crisi, al
ripristino di un buon assetto difensivo. Questi obiettivi sono perseguiti senza promuovere, almeno
inizialmente, insight sui moventi inconsci della sofferenza.
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Elementi di tecnica sono: l’ascolto, filtrato dalle conoscenze teoriche e dall’esperienza, delle
comunicazioni verbali e non verbali del paziente; il monitoraggio del transfert, cioè del tipo di
relazione che il paziente instaura con il terapeuta e dei bisogni desideri ed emozioni, consci e
inconsci, che esso veicola; il monitoraggio del controtransfert, cioè delle emozioni, sentimenti,
pensieri, ricordi ed impulsi ad agire prodotti nella mente del terapeuta dalla sofferenza e dal
transfert del paziente; gli interventi verbali del terapeuta finalizzati alla costruzione di una solida
alleanza terapeutica, allo sviluppo della funzione riflessiva, e alla promozione di insight nel
paziente. Qualche breve chiarimento aiuterà a comprendere meglio questi concetti:
L’ascolto psicoanalitico si basa sull’assunto che le associazioni del paziente (pensieri affetti,
fantasie, sogni, racconti del presente e ricordi del passato), che si susseguono durante una o più
sedute, abbiano un legame fra loro, che origina dal problema che il paziente sta affrontando nel
suo quotidiano o nella relazione terapeutica. L’ascolto si organizza nella mente del terapeuta
attorno ad ipotesi che comprendono il problema centrale nella vita attuale del paziente e le
fantasie e i conflitti ad esso collegati, la relazione in atto tra paziente e terapeuta, e le possibili
origini storiche dei sintomi e dei conflitti attuali.
- Il transfert consiste nella riattivazione inconsapevole da parte del paziente, all’interno della
relazione terapeutica, di fantasie, desideri, bisogni, conflitti, e schemi di comportamento che
hanno caratterizzato nel passato le relazioni infantili, in particolare quelle traumatiche, con le
persone significative. Dibattiti aperti riguardano il ruolo delle caratteristiche personali del
terapeuta nel promuovere un determinato tipo di transfert, e il valore terapeutico, rispetto alla
rievocazione della memoria, della ripetizione vissuta, mossa dalla ricerca di risposte riparative e
correttive diverse da quelle traumatiche del passato. Il transfert non deve essere confuso con le
legittime risposte del paziente a comportamenti, attitudini, ed errori del terapeuta.
- Il controtransfert consiste nell’attivazione nella mente del terapeuta di fantasie, pensieri,
emozioni, ricordi, e impulsi ad agire, in risposta alle caratteristiche del paziente, ed in
particolare al suo transfert. Il suo monitoraggio consapevole è attualmente ritenuto un
importante mezzo di comprensione dei vissuti e delle difficoltà del paziente, e delle
identificazioni proiettive veicolate dalle sue comunicazioni verbali e comportamenti. Il
controtransfert non deve essere confuso con eventuali fenomeni transferali inconsci sul paziente
da parte di un terapeuta poco preparato e poco consapevole del proprio mondo interno.
- L’alleanza terapeutica riguarda la capacità del paziente di collaborare in maniera produttiva al
processo terapeutico. È un buon indicatore dell’esito del trattamento.
- Gli interventi del terapeuta: consistono in domande, riformulazioni, confrontazioni,
ricostruzioni, interpretazioni e interventi d’appoggio. È fondamentale che dopo ogni intervento
il terapeuta ascolti con attenzione le successive parole del paziente, perché la correttezza di un
intervento è convalidata sostanzialmente dallo sviluppo di nuove associazioni o ricordi
significativi.
Le domande hanno lo scopo di chiarire ambiguità o punti oscuri delle comunicazioni del paziente,
di indagare su omissioni significative, e di fare sviluppare associazioni, e non devono, pertanto,
essere fatte a caso, né con troppa frequenza; possono essere utili con i pazienti che tendono alla
messa in atto per indurli a riflettere, e con i pazienti poco portati all’introspezione per proporre un
modello di autoindagine.
Le riformulazioni sono interventi del terapeuta che consistono nella ripetizione ad eco, o con
minime modificazioni, di una frase, o di un concetto, o delle ultime parole pronunciate dal paziente,
o nel riassunto sintetico delle ultime cose dette. Servono per dare particolare risalto a certi aspetti
della comunicazione per favorire la consapevolezza, o introdurre un modo diverso di valutare la
comunicazione. Segnalano ascolto e invitano al feedback.
Le confrontazioni sono interventi che richiamano l’attenzione del paziente su specifici aspetti del
suo comportamento (modi poco realistici di affrontare situazioni e conflitti reali, messe in atto e
comportamenti ripetitivi, meccanismi di difesa, situazioni di stallo della terapia e rotture
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dell’alleanza terapeutica). Trasmettono implicitamente il messaggio: “Rifletti su quello che stai
facendo, o considera quello che hai appena detto”. Aiutano il paziente a consolidare l’esame di
realtà, e a controllare l’impulsività, incoraggiano l’abitudine all’introspezione e l’emergere di nuove
associazioni significative, e pongono le premesse ad interventi interpretativi.
Le ricostruzioni o costruzioni sono tentativi di colmare una lacuna evidente nella memoria del
paziente. Servono per comprendere appieno l’origine della sofferenza e delle disfunzioni del
paziente, perché i sintomi e le disfunzioni dell’Io prendono le mosse da traumi reali, dal significato
che questi rivestono per il paziente e dalle fantasie inconsce connesse. Si effettuano quando nei
ricordi e nelle fantasie coscienti del paziente manca qualcosa che potrebbe rendere conto del suo
comportamento e delle sue fantasie attuali. Le ricostruzioni possono riferirsi ad eventi relativamente
recenti o remoti, a risposte affettive mancanti, ad un evento di vita cruciale, o ad importanti fantasie.
Possono riferirsi ad un unico evento traumatico acuto, o a situazioni continuative, come una certa
atmosfera familiare, o aspetti patologici nelle relazioni significative dell’infanzia. Più comuni e
frequenti sono le ricostruzioni di portata limitata (es. deve essersi sentito in questo modo, o pensato
questo); meno frequenti, le ricostruzioni di importanti traumi rimossi. . Di fatto non c’è soluzione di
continuità fra ricostruzione e interpretazione.
Le interpretazioni sono interventi verbali finalizzati a produrre insight, cioè a rendere il paziente
consapevole, a livello cognitivo ed emotivo, dei conflitti, dei traumi, delle fantasie e delle
motivazioni inconsce che sottendono i suoi sintomi o le sue disfunzioni. Possono richiedere diverse
sedute, ed essere riprese più volte nel corso di una psicoterapia. L’interpretazione per essere
significativa e pregnante deve essere vicina alla consapevolezza del paziente e prendere spunto dal
problema centrale nella vita attuale del paziente e nella terapia, avendo presente che ci riferiamo
alla realtà psichica, cioè a quella qual è percepita dal paziente, e che è fortemente influenzata dalle
esperienze di vita passate e dalle fantasie inconsce (desideri, risposte dell’Io, reazioni del Super Io,
e importanti ricordi di esperienze passate). Possono riguardare le difese e le resistenze (le
operazioni mentali utilizzate nella vita quotidiana o nella terapia per fronteggiare l’angoscia e
risolvere i conflitti), il transfert (le reazioni e le fantasie nei confronti del terapeuta e la terapia), o le
fantasie, le esperienze traumatiche, e i conflitti riattivati dagli eventi di vita presenti e collegati ai
sintomi o ai comportamenti disadattivi.
Gli interventi d’appoggio hanno lo scopo di rinforzare l’Io, rimandare al paziente un’immagine di
sé positiva, promuovere l’autonomia, l’introspezione, la fiducia in se stessi dei pazienti e lo
sviluppo di risorse più efficaci. In senso generale il terapeuta fornisce appoggio con l’impostazione
corretta del setting, l’ascolto del paziente con rispetto e comprensione, e la scelta del momento
opportuno per intervenire. Interventi d’appoggio specifici consistono in commenti che evidenziano
l’apporto del paziente al processo terapeutico, la capacità di affrontare gli eventi di vita in modo
costruttivo, i moventi positivi del loro comportamento, la convalidazione empatica dei sentimenti
(capisco come lei si sia sentito addolorato, arrabbiato deluso ecc.). Interventi d’appoggio sono
anche le confrontazioni che mirano a fare riflettere il paziente su comportamenti autodistruttivi o
pericolosi, o comunque disadattivi, e a prendere in considerazione soluzioni alternative e le
conseguenze delle soluzioni possibili. Consigli e interventi direttivi, pur se motivati dall’intenzione
consapevole di fornire appoggio, sono da evitare perché le conseguenze sono imprevedibili e a volte
negative. Interventi attivi possono essere necessari quando è in pericolo la vita del paziente o di
altri, o in caso di regressione acuta.
Le ricerche sull’efficacia delle psicoterapie psicoanalitiche si sono concentrate in prevalenza sugli
esiti delle terapie psicodinamiche brevi. I risultati di queste ricerche depongono per l’efficacia di
queste terapie rispetto ai gruppi di controllo, e in alcuni casi per un vantaggio rispetto ad altri tipi di
trattamento nel mantenimento degli effetti a lungo termine.
I dati sugli esiti dei trattamenti a lungo termine sono limitati a causa di problemi metodologici di
difficile soluzione come la costituzione di gruppi di controllo che rimangano in lista d’attesa per un
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tempo considerevole, e per la difficoltà a mantenere sotto controllo variabili collegate ai vari eventi
di vita che possono sopravvenire nel corso degli anni.
Psicoterapie cognitivo-comportamentali
Negli ultimi decenni le differenze nell’operatività dei clinici di orientamento comportamentale e di
orientamento cognitivo si sono sempre più stemperate, sia perché i processi di pensiero e le reazioni
emotive possono essere studiati con i metodi della psicologia sperimentale, sia per l’evidenza di
implicazioni cognitive nei trattamenti comportamentali, e di implicazioni comportamentali nelle
terapie di orientamento cognitivo. Attualmente la prassi comune è quella di applicare una o più
tecniche variamente associate a seconda dei problemi presentati dal singolo paziente. Si tratta di
tecniche che storicamente hanno come riferimento il paradigma dell’apprendimento o il paradigma
cognitivo razionalista, accomunate dalla focalizzazione dell’attenzione sulle variabili attuali che
mantengono una determinata sintomatologia piuttosto che sull’eziologia del disturbo, e da una certa
enfatizzazione della tecnica rispetto alla relazione. Negli ultimi anni la nuova prospettiva cognitivocostruttivista, ha spostato l’attenzione dei clinici oltre che sul sintomo manifesto, anche sulle cause
della sofferenza psicologica, integrando nell’approccio terapeutico modi di operare che ricordano
quelli degli psicologi di orientamento umanistico e psicodinamico.
Tecniche mutuate dal condizionamento classico
Controcondizionamento
Si basa sull’estinzione di una risposta ad un determinato stimolo per mezzo di un nuovo
condizionamento che associa lo stimolo con una risposta incompatibile con la precedente (es.
l’ansia è incompatibile con il rilassamento, per cui associando ad uno stimolo fobico che produce
ansia una risposta di rilassamento si ottiene l’estinzione della risposta di paura). Fra le tecniche più
utilizzate: la desensibilizzazione sistematica e la terapia aversiva.
Desensibilizzazione sistematica: è una tecnica terapeutica per i disturbi fobici ideata da J. Wolpe.
Dopo un training di rilassamento secondo la metodica di Jacobson si chiede al paziente,
profondamente rilassato, di immaginare una serie progressiva di situazioni che provocano ansia,
messe a punto in precedenza. In questo modo il rilassamento tende ad inibire l’ansia che altrimenti
sarebbe elicitata dalle scene immaginate. Le scene sono proposte in ordine crescente d’intensità, e
se durante l’immaginazione di una scena subentra l’ansia, il paziente la segnala al terapeuta, che
chiede al paziente di ristabilire il rilassamento e di tornare ad immaginare la scena precedente a
quella che ha prodotto l’ansia.
La capacità di tollerare l’immagine stressante in genere è seguita da una riduzione dell’ansia anche
in situazioni di vita reali. Comunque tra una seduta e l’altra i pazienti sono di solito incoraggiati ad
affrontare situazioni reali progressivamente più ansiogene.
La corretta applicazione della tecnica prevede una valutazione esauriente delle situazioni che
abitualmente generano ansia. Come per altre tecniche la procedura di solito non è utilizzata da sola,
per esempio in caso di ansia sociale si può accompagnare ad un addestramento volto a migliorare le
capacità sociali.
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Le ricerche sugli esiti mostrano l’efficacia della desensibilizzazione nel ridurre l’evitamento di
oggetti e situazioni fobiche.
Terapia avversiva: si basa sull’associazione di sensazioni negative a stimoli che in precedenza
producono attrattiva. Lo scopo è quello di sostituire una precedente risposta positiva allo stimolo
con una risposta d’ansia o una reazione d’aversione elicitata per esempio da uno shock elettrico o da
sostanze chimiche di tipo emetico. Una variante della tecnica utilizza solo l’immaginazione dello
stimolo negativo. Tra i problemi trattati con questa tecnica c’è l’alcolismo, il tabagismo, la bulimia,
l’enuresi, e i comportamenti devianti.
La terapia aversiva pone comunque dei problemi etici e scientifici: quelli etici sono relativi alla
liceità di infliggere sensazioni sgradevoli e ai motivi che inducono il paziente ad accettarli; quelli
scientifici sono relativi alla stabilità dei risultati e alla non superiorità del trattamento rispetto ai
controlli.
Flooding
Si basa su ricerche sperimentali sugli animali che evidenziano la possibilità di un’estinzione rapida
della risposta di evitamento se l’animale è messo in condizione di non potere evitare uno stimolo
che in precedenza era stato associato ad uno shock elettrico.
La tecnica consiste nell’esposizione del paziente ad una situazione massimamente ansiogena senza
che si possa sottrarre. Di solito viene utilizzata una tecnica immaginativa in cui il terapeuta chiede
al paziente di immaginare la situazione ansiogena per lunghi periodi di tempo.
È una forma rapida di estinzione ma rischiosa perché può portare ad un incremento dell’ansia, e di
solito è utilizzata solo quando altri tentativi falliscono.
Tecniche mutuate dal condizionamento operante
Consistono nella modificazione progressiva del comportamento manifesto per mezzo di rinforzi
positivi e negativi. In linea generale le tecniche basate sul condizionamento operante sono più
efficaci quando il terapeuta può esercitare un notevole controllo sull’ambiente e sul soggetto.
La tecnica di uso più comune consiste nel premiare il comportamento desiderato ignorando quello
indesiderato. Altre procedure sono basate sul principio di Premack, che afferma che un
comportamento più probabile può essere utilizzato come rinforzo per uno meno probabile (per es.
far dipendere il guardare i cartoni dal mettere in ordine la stanza); sul cosiddetto time-out che
consiste nell’allontanare la persona da un ambiente dove sono disponibili rinforzi positivi; o
sull’ipercorrezione che si basa sull’estinzione di un comportamento indesiderato per mezzo di
rinforzi negativi (per es. se un bambino non mette in ordine la propria stanza lo si obbliga a mettere
in ordine anche quella del fratello).
Un ampia gamma di problemi infantili è stata affrontata per mezzo del condizionamento operante:
enuresi, aggressività, iperattività, autolesionismo, scarso impegno scolastico, eccessivo isolamento
sociale ecc.. In questi casi, di solito, il terapeuta coinvolge anche i genitori e gli insegnanti,
cercando d’incidere sui modi con cui essi premiano o puniscono il bambino.
Il condizionamento operante è stato applicato in modo proficuo anche nella riabilitazione
comportamentale di pazienti psichiatrici ospedalizzati da lungo tempo utilizzando la tecnica
dell’economia a premi simbolici, che consiste nel ricompensare i comportamenti di cui si desidera
incrementare la frequenza (per es. curare il proprio aspetto, tenere in ordine il letto, partecipare ad
attività comuni ecc.) con gettoni con cui poter acquistare cose o ottenere privilegi (es. ascoltare
dischi, andare al cinema). Istruzioni, sollecitazioni mirate e procedure di modeling sono utilizzate
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per facilitare l’apprendimento. Una ricerca sui risultati dell’applicazione dell’economia a premi
simbolici, con follow-up a scadenze regolari, ha evidenziato risultati molto buoni sul piano della
riduzione dell’utilizzo dei farmaci, della risocializzazione e dell’autonomia. Comunque, come ha
sottolineato anche l’autore del progetto, questi risultati non vanno considerati come un effetto
specifico del condizionamento del comportamento, ma dipendono da più fattori, non ultimo la
diversa attenzione prestata ai pazienti da parte del personale ospedaliero.
Tecniche mutuate dall’apprendimento per imitazione di modelli
Consistono in modificazioni del comportamento attuate facendo osservare al paziente qualcun altro
che compie il comportamento da apprendere. Possono essere utilizzate varie procedure:
osservazione dal vivo di un modello, osservazione di filmati, esemplificazioni da parte del terapeuta
con richiesta successiva di imitazione da parte del paziente, modeling immaginativo. La
verbalizzazione da parte del modello dei propri pensieri mentre affronta una determinata situazione,
migliora l’apprendimento. Attualmente si ritiene che nell’apprendimento del comportamento per
imitazione siano coinvolti processi cognitivi.
Con queste tecniche sono stati affrontati con successo vari problemi: fobie, inibizioni, paura del
dentista o di interventi chirurgici, risocializzazione ecc...
Psicoterapie cognitivo razionaliste
Sono fondate sull’assunto che i comportamenti e le emozioni sono conseguenti a processi cognitivi
mediati dal pensiero, e che i disturbi psicologici sono causati da schemi cognitivi irrazionali. Scopo
di queste tecniche terapeutiche è la ristrutturazione cognitiva, cioè la modificazione delle modalità
di pensiero che si presume siano la causa di un disturbo emotivo o comportamentale.
Terapia razionale emotiva di Ellis
Secondo Ellis i disturbi psicologici sono causati da asserzioni che l’individuo ripete a se stesso, che
riflettono assunti (es. non valgo nulla, sono un incapace) e convinzioni irrazionali (ad es. essere
amato e approvato da tutti, essere totalmente competenti e vincenti in ogni cosa, considerare
catastrofico il fatto che le cose non vadano come ci piacerebbe che andassero, ritenere che ci sia una
soluzione perfetta per ogni cosa ecc.), che Ellis inquadra all’interno del concetto più generale di
tanti dover essere che le persone impongono a se stesse e agli altri, al punto di pretendere che un
risultato sia ottenuto solo in un determinato modo e non in un altro.
Ellis ritiene che questi pensieri irrazionali traggano origine da convinzioni e atteggiamenti che la
famiglia o le istituzioni sociali trasmettono fin dall’infanzia sotto forma di valori che l’individuo fa
suoi, mantenendoli poi vitali sotto forma di frasi interiorizzate. Ellis ritiene comunque che
l’attenzione del terapeuta debba essere rivolta a queste convinzioni e al comportamento manifesto, e
non alle cause.
Compito del terapeuta è quello di mostrare al paziente le sue convinzioni irrazionali, le conseguenze
sul disagio psicologico, e come si possono cambiare i pensieri irrazionali e quindi le emozioni e i
comportamenti. Sul piano operativo il terapeuta, dopo un inquadramento del problema, presenta al
paziente i principi teorici della terapia, in modo che possa comprenderli, e lo guida, solitamente in
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modo didattico e direttivo, nell’individuare i pensieri irrazionali ( vedi resoconto di seduta a pag.
544 del Davison e Neale), per poi proporre modi più razionali di considerare la realtà. (alcuni
terapeuti preferiscono coinvolgere attivamente il paziente nel processo di individuazione e di
modificazione delle convinzioni irrazionali). Passo successivo è l’assegnazione di esercizi a casa,
ideati per fornire l’opportunità di mettere alla prova il nuovo sistema di convinzioni e di
sperimentarne le conseguenze positive.
La terapia razionale emotiva pone e non risolve il problema della definizione dell’irrazionalità,
perché se si afferma che è irrazionale ciò che genera patologia si genera un circolo vizioso, e se si
afferma che non è razionale un pensiero non obiettivo e rigoroso si dovrebbe concludere che buona
parte dei pensieri delle persone normali sono irrazionali, per cui, di fatto, sono le convinzioni del
terapeuta a guidare le modificazioni delle convinzioni del paziente. La consapevolezza di questo
problema ha portato recentemente Ellis ad incoraggiare i pazienti, in modo non dissimile agli
psicologi umanistici, a scegliere e sperimentare in modo autonomo un proprio percorso di
autorealizzazione.
Le ricerche sugli esiti mostrano l’efficacia della terapia razionale emotiva nel ridurre lo stato
d’ansia generalizzato, l’ansia di parlare in pubblico e l’ansia da esame. Può inoltre essere utile nel
trattamento della depressione e del comportamento antisociale, e alle persone sane per affrontare
meglio gli stress della vita quotidiana.
Non vi sono evidenze conclusive sul fatto che l’efficacia si esplichi attraverso una riduzione del
pensiero irrazionale. Altri fattori terapeutici sono collegati all’incoraggiamento e sostegno dato dal
terapeuta alla messa in pratica da parte del paziente di comportamenti nuovi e più adattivi, e al
messaggio che il terapeuta trasmette al paziente sulla possibilità di cambiare, modificando il proprio
modo di pensare e di definire se stessi e il mondo.
Terapia cognitiva di Beck
Si basa sull’assunto che i disturbi psicologici, ed in particolare la depressione, siano causati da
convinzioni negative che riguardano se stessi, il mondo e il futuro, convinzioni che si presentano
nella mente sotto forma di pensieri automatici (es. sono un incapace), e di assunti disfunzionali (es.
ritenersi responsabile della felicità e del benessere di tutta la famiglia) che hanno la caratteristica di
imperativi, seguono la legge del tutto o nulla, e guidano la persona nel valutare se stesso, la realtà,
le azioni degli altri e l’idea di come gli altri giudicano le nostre azioni.
Queste convinzioni o schemi cognitivi negativi deriverebbero da apprendimenti sbagliati durante
l’infanzia (deduzioni errate causate da informazioni errate o inadeguate, e non corrette distinzioni
fra fantasia e realtà), che in seguito sarebbero mantenuti grazie ad errori di logica quali l’inferenza
arbitraria (giungere ad una conclusione in assenza di prove), l’estrapolazione selettiva (giungere ad
una conclusione sulla base di un solo elemento fra i molti che determinano una situazione),
l’ipergeneralizzazione (conclusioni di carattere assoluto sulla base di un unico evento),
amplificazione delle prestazioni negative, e minimizzazione di quelle positive. Beck, così come
Ellis, ritiene comunque che l’attenzione del terapeuta debba essere rivolta a queste convinzioni e al
comportamento manifesto, e non alle cause.
Obiettivi della terapia sono quelli di rendere il paziente consapevole dei pensieri negativi, dare al
paziente l’opportunità di fare esperienze, sia durante le sedute, sia nella vita quotidiana, che possano
smentire le conclusioni pessimistiche derivate dagli errori di logica, ed infine modificare gli schemi
negativi in modo più realistico e positivo. Terapeuta e cliente esaminano insieme ogni
interpretazione errata della realtà che possa aggravare la sintomatologia, cercando di evidenziare i
pensieri automatici e gli assunti disfunzionali sottesi. In alcuni casi, per mettere in discussione le
convinzioni del paziente, il terapeuta può assegnare dei compiti, come per esempio chiedere ad un
paziente depresso di tenere un diario su cui registrare il tono dell’umore ad intervalli regolari, con il
fine di confutare la certezza della stabilità dell’umore negativo. La modificazione dei pensieri
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negativi viene attuata cognitivamente, analizzando logicamente i pensieri automatici e gli assunti, e
a livello comportamentale incoraggiando i clienti a comportarsi in modo contrario ad essi.
Varie ricerche hanno evidenziato l’efficacia della terapia cognitiva nel trattamento della depressione
e del disturbo di panico, e l’utilità nel trattamento della bulimia. Uno studio controllato (vedi scheda
a pag. 548 del Davison e Neale) che ha confrontato gli effetti sul disturbo depressivo maggiore della
terapia cognitiva, di una terapia psicodinamica breve e della terapia farmacologica con imipramina
(un antidepressivo di vecchia generazione) ha evidenziato un effetto significativo, e in sostanza non
diverso, di ciascuno dei tre trattamenti rispetto ai pazienti a cui veniva somministrato un placebo o
placebo e sostegno psicologico.
Vi sono evidenze sul fatto che l’efficacia della terapia cognitiva si esplichi attraverso un
cambiamento delle cognizioni, tuttavia queste si modificano anche inseguito ad una terapia
farmacologica.
Soluzione dei problemi sociali
Il Social Problem Solving è una tecnica terapeutica per il trattamento del disagio psicologico
conseguente a problemi di vita per i quali non si trova una soluzione immediata.
La tecnica prevede che il terapeuta aiuti il paziente a mettere a fuoco il problema, e lo guidi
nell’individuare il maggior numero di soluzioni, indipendentemente dalla loro attuabilità o efficacia.
A questo punto si valutano le possibili conseguenze di ogni soluzione, si mette in atto la decisione
presa e si valuta la sua efficacia rispetto al raggiungimento dello specifico obiettivo. Se la soluzione
non è efficace si ricomincia con una nuova valutazione e messa in atto.
Questa tecnica si è dimostrata utile con gli anziani in casa di riposo, con bambini in età scolare, e
nel rafforzamento delle abilità sociali di pazienti psichiatrici.
Psicoterapia cognitivo costruttivista
Si caratterizza per l’integrazione di tecniche cognitivo comportamentali all’interno di una
teorizzazione e di una prassi terapeutica che si avvicinano a quelle delle psicoterapie
psicodinamiche e umanistiche.
Ogni persona è considerata come portatrice di un proprio sistema conoscitivo che organizza la
rappresentazione di sé, regola le interazioni con gli altri, ed elabora a livello consapevole e
inconscio le informazioni provenienti dagli stimoli interni e ambientali. Questo sistema conoscitivo
si costituirebbe sulla base di modelli operativi interni appresi nei primi anni di vita nelle relazioni di
attaccamento, sviluppandosi successivamente attraverso l’integrazione al suo interno di nuove
conoscenze ed esperienze. È inoltre affermata l’indipendenza delle emozioni dalla cognizione.
La sofferenza psicologica originerebbe da eventi interni o di vita che contrastano con le
rappresentazioni di sé e del mondo che sono alla base del sistema conoscitivo, eventi che la persona
non riesce a gestire e integrare a causa dell’eccessiva rigidità e incoerenza del proprio sistema
conoscitivo.
Scopo della psicoterapia cognitivo costruttivista è quello di aiutare il paziente ad acquisire
consapevolezza degli schemi prevalenti del proprio sistema conoscitivo, del proprio stile di
attaccamento, e delle loro influenze sulla sofferenza psicologica, risolvere la sintomatologia, e
quindi aiutare il paziente a riorganizzare, secondo scelte autonome, un sistema conoscitivo più
coerente con gli scopi della persona e più flessibile. Nel processo terapeutico sono utilizzate
tecniche comportamentali e di ristrutturazione cognitiva, e contemporaneamente si pone attenzione
alla relazione, e alla conoscenza del mondo fenomenologico del paziente.
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La prassi terapeutica prende in considerazione i seguenti punti:
- Creazione di un’alleanza collaborativa tra paziente e terapeuta. Comporta la valutazione dello
stile relazionale del paziente, e il collegamento, mediato dai racconti di storia familiare, con lo
stile d’attaccamento appreso nell’infanzia. Nel caso sia presente un modello di attaccamento che
produce difficoltà nella comunicazione, mancanza di fiducia e sofferenza, gli interventi del
terapeuta mirano a rendere consapevole il paziente del problema, e alla creazione di una buona
alleanza collaborativa.
- Individuazione e valorizzazione delle risorse del sistema, cioè delle aree dell’esistenza non
compromesse dai sintomi, e delle capacità residue del paziente di far fronte ai problemi.
- Comprensione dello stile di conoscenza. Comporta, da parte del terapeuta e del paziente,
l’individuazione dello stile conoscitivo disfunzionale che ha contribuito all’insorgere della
patologia e che contribuisce a mantenere la sofferenza. Sono ipotizzati quattro stili di
conoscenza collegati al modo con cui le persone affrontano le situazioni che invalidano il loro
modo di pensare: stile di ricerca attiva (la persona ricerca attivamente nuove esperienze e
integra le invalidazioni), stile evitante (la persona evita le esperienze e le situazioni che hanno
portato ad un’invalidazione), stile immunizzante (la persona tratta l’invalidazione come se non
fosse avvenuta), stile ostilità (la persona attacca l’autorevolezza della fonte dell’invalidazione)
Frequente è l’uso di compiti a casa di tipo comportamentale o cognitivo, che il terapeuta dà al
paziente allo scopo di individuare meglio e far riconoscere al paziente i processi mentali
connessi con la sofferenza psicologica.
- Analisi degli eventi che hanno preceduto l’esordio della sintomatologia e del significato che il
paziente ha dato a questi eventi. Questa analisi fornisce importanti informazioni sui problemi
che hanno messo in crisi il sistema conoscitivo.
- Interventi sul sintomo. Prevedono sia rendere consapevole il paziente dei meccanismi cognitivi,
emotivi e relazionali che hanno prodotto e che mantengono la sofferenza, sia l’uso di varie
tecniche comportamentali e cognitive d’intervento diretto sul sintomo.
- Costruzione di un sistema conoscitivo più flessibile che sia fondato su scelte autonome del
paziente.
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Psicoterapie umanistiche
Fondamenti comuni delle psicoterapie ad orientamento umanistico sono: l’adozione di un punto di
vista fenomenologico (modo personale con cui si percepiscono e categorizzano gli eventi della
propria vita) alla comprensione delle persone, e l’assunto di una tendenza innata
all’autorealizzazione, all’autonomia, e al sano sviluppo, obiettivi che si raggiungono attraverso la
consapevolezza dei propri bisogni, motivazioni e obiettivi.
All’origine del disagio psicologico sono ipotizzati in modo generico stili educativi e relazionali che
non favoriscono lo sviluppo delle proprie caratteristiche, ma l’accettazione acritica dei desideri e
delle aspettative dei genitori. Pertanto obiettivo comune delle terapie umanistiche è quello di
aiutare l’individuo a ripristinare la tendenza all’autorealizzazione e al sano sviluppo,
incrementando la consapevolezza e l’espressione delle proprie motivazioni e bisogni.
L’azione terapeutica si concentra sulla situazione attuale piuttosto che sul passato della persona, e
viene dato particolare rilievo alla relazione terapeutica come esperienza di crescita.
Le terapie umanistiche più note e diffuse sono la terapia centrata sul cliente di Rogers, la terapia
della Gestalt di Fritz Perls e la terapia esistenziale basata sulle idee della filosofia esistenzialista
europea e di alcuni psichiatri di orientamento fenomenologico.
La terapia centrata sul cliente di Carl Rogers
Rogers ritiene che le persone, partendo da innate potenzialità biologiche, si sviluppino, attraverso
un processo di maturazione, verso la differenziazione, l’autonomia e l’autorealizzazione. In questo
percorso sarebbe fondamentale l’accettazione incondizionata e positiva delle caratteristiche del
bambino da parte dei genitori. L’accettazione condizionata (ti amo se sei così come ti voglio)
porterebbe invece alla formazione di un concetto di sé su basi eteronome e rigide. Una volta
formato, il concetto di sé determinerebbe una percezione degli eventi in modo da mantenere il più
possibile coerente il proprio mondo fenomenologico (concetto di coerenza della personalità). In
altre parole per mantenere la coerenza i dati esperenziali (emozioni, desideri ecc...) verrebbero
vagliati, e se compatibili con il concetto di sé vengono percepiti. Quando non sono compatibili il
concetto di sé può modificarsi se c’è plasticità, oppure, nel caso di un concetto di sé rigido ed
eteronomo, i dati o non arrivano alla percezione o arrivano in modo distorto. In quest’ultimo caso il
concetto di sé rimane integro, ma alienato.
Per quanto riguarda la prassi terapeutica, Rogers ritiene che i terapeuti debbano evitare di imporre
obiettivi, ma limitarsi a creare le condizioni per cui il cliente possa prendere contatto con se stesso e
valutare da solo quale stile di vita sia per lui il migliore. Secondo Rogers, infatti, le persone devono
prendersi la responsabilità della propria vita, e il terapeuta deve astenersi dal dare consigli per non
ostacolare il processo di crescita.
L’atteggiamento e lo stile relazionale del terapeuta sono considerati un fattore terapeutico
fondamentale.
Il terapueta dovrebbe avere tre fondamentali qualità: l’autenticità o congruenza, che comprende la
spontaneità, l’apertura e la genuinità (il terapeuta non deve nascondersi dietro una facciata
professionale, ma esprimere in modo sincero i suoi sentimenti e pensieri, presentandosi per quello
che veramente è, fornendo così al cliente un modello di come anche lui potrebbe essere), una
considerazione positiva incondizionata (accettazione e apprezzamento di quello che il cliente è e
comunica, anche quando non lo approva), ed una profonda comprensione empatica (capacità di
vedere il mondo con gli occhi del cliente).
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Vengono considerati due tipi di intervento verbale empatico:
- empatia primaria: si riaffermano al cliente i suoi pensieri, sentimenti ed esperienze dal suo
punto di vista, comunicando comprensione ed accettazione dal punto di vista del cliente.
- empatia avanzata: viene espressa una opinione che tiene in considerazione il mondo del
cliente ma che concettualizza le cose in modo diverso e più costruttivo; questo intervento
viene costruito sulle informazioni raccolte in un certo numero di sedute. Lo scopo è quello
di un passaggio dall’attuale mondo fenomenologico del cliente ad un altro.
Gli interventi di empatia primaria si propongono di rimuovere gradualmente gli impedimenti
all’autorealizzazione e all’autenticità. A tale scopo i sentimenti e i pensieri del cliente vengono
rispecchiati senza giudizi e disapprovazioni, permettendo al cliente di osservarli, chiarirli,
riconoscerli e accettarli. Pensieri e emozioni prima troppo minacciosi per la coerenza del sé possono
così avere accesso alla coscienza e diventare parte del concetto di sé, promuovendo la possibilità
per il cliente di comunicare con se stesso e con gli altri in modo più sincero ed emotivamente
pregnante. Rogers ritiene che poter comunicare in tale modo sia uno dei motori principali del
cambiamento.
Gli interventi di empatia avanzata hanno, invece, una qualità intrinsecamente più direttiva e
interpretativa perché, di fatto, il terapeuta presta una attenzione selettiva alle comunicazioni e guida
il cliente verso gli aspetti da esaminare. Con l’empatia avanzata il terapeuta fa inoltre inferenze
sulle cause del disagio del cliente e propone un modo di vedere le cose diverso da quello prospettato
dal cliente, una prospettiva nuova tesa a modificare il mondo fenomenologico.
Le ricerche sull’efficacia della terapia centrata sul cliente evidenziano un significativo
miglioramento del disagio psicologico dei pazienti rispetto a persone che non ricevono alcun
trattamento, ma non diverso da quello ottenibile con altri tipi di terapia breve di orientamento
psicodinamico applicati a persone lievemente disturbate, come sono quelle che di solito sono
trattate dai terapeuti rogersiani. Le ricerche relative ai fattori terapeutici non permettono di
confermare l’assunto di Rogers che le qualità del terapeuta, pur importanti, siano da sole sufficienti
a produrre cambiamento nei pazienti.
Terapia esistenziale
L’approccio è di tipo fenomenologico e viene ipotizzata una tendenza al sano sviluppo, se questo
non viene ostacolato da paure infondate e da restrizioni sociali. Il comportamento viene considerato
come intenzionale e viene posto l’accento sul concetto di responsabilità e di ansia esistenziale.
Quest’ultima viene messa in relazione con la consapevolezza della morte e dell’impotenza di fronte
alle circostanze casuali della vita, con la consapevolezza che comunque dobbiamo prendere delle
decisioni, agire e vivere con tutte le conseguenze che questo implica, e che dobbiamo costruire noi
il significato della nostra vita e che in questo siamo soli. L’ansia sarebbe inevitabile nelle scelte
importanti, evitare tali scelte e fingere che non debbano essere fatte può proteggere l’individuo
dall’ansia ma fa vivere una vita senza significato.
Il terapeuta esistenziale opera dando sostegno ed empatia e, adottando il sistema di riferimento
fenomenologico dell’individuo, lo aiuta ad esaminare il suo comportamento, i sentimenti, le
relazioni con gli altri e ciò che la vita significa per lui. Viene data inoltre molta importanza
all’autenticità nella relazione terapeutica e nella relazione con gli altri. Lo scopo principale è quello
di rendere più consapevole il paziente delle sue potenziali capacità di scelta e di crescita, favorire
l’assunzione di responsabilità e la possibilità di ridefinire se stessi in modo diverso in ogni
momento. Nella terapia esistenziale vi sono aspetti di tipo comportamentistico, nel senso che
durante la terapia viene richiesto al paziente un comportamento diverso sia verso il terapeuta sia
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verso il mondo esterno. Piuttosto che una serie di tecniche terapeutiche, l’approccio esistenziale è
un atteggiamento generale assunto dal terapeuta verso l’individuo.
La valutazione dell’efficacia della terapia esistenziale si basa unicamente su resoconti di casi clinici.
Terapia della Gestalt
Ha come riferimento l’opera e l’insegnamento di F.S. Perls. Condivide con la terapia centrata sul
cliente una visione ottimistica della natura umana, l’assunto di una tendenza naturale al sano
sviluppo, e l’approccio fenomenologico, secondo il quale la percezione delle situazioni è
influenzata dai nostri bisogni, paure e desideri.
Scopo della terapia della Gestalt è quello di incrementare nei pazienti la consapevolezza,
l’accettazione e l’espressione delle proprie spinte motivazionali, e la consapevolezza degli
atteggiamenti di evitamento, visti come ostacoli che le persone pongono alla realizzazione dei
propri obiettivi e desideri. Al paziente viene chiesto di specificare i cambiamenti che desidera
apportare a se stesso e lo si aiuta poi, con vari accorgimenti tecnici, ad accrescere la sensibilità
verso i propri bisogni e desideri, e la consapevolezza delle frustrazioni che opera su stesso, a
riappropriarsi delle parti negate della sua personalità, e a sperimentare il cambiamento.
In seduta l’attenzione viene posta sul qui ed ora, con lo scopo di rendere le persone consapevoli di
ciò che sta succedendo in loro, di cosa pensano, fantasticano e vogliono in quel momento, delle loro
emozioni, della loro postura, espressione facciale, tensione muscolare, gesti, e tono della voce. La
ricerca di cause nel passato viene scoraggiata perché porterebbero all’evitamento della
responsabilità di operare scelte nel presente, e se il passato produce turbamento esso viene portato
nel presente.
A differenza delle altre terapie di orientamento umanista i terapeuti gestaltisti fanno largo uso di
tecniche terapeutiche e di sedute di gruppo. Fra le tecniche più note ricordiamo:
- Parlare in prima persona: ai pazienti è richiesto di esprimere sempre i propri pensieri e i
propri sentimenti in prima persona (ad es. se la persona afferma che una situazione ha
prodotto in lui una determinata reazione emotiva, gli si chiede di riformulare la frase
dicendo “io ho provato questa emozione in quella situazione). Questa richiesta viene fatta
per incoraggiare l’assunzione della responsabilità dei propri sentimenti e del proprio
comportamento, e ridurre il senso di passività di fronte agli eventi esterni.
- La sedia vuota: è una tecnica che si propone di incrementare la consapevolezza dei propri
sentimenti e il senso delle proprie emozioni. Consiste nella richiesta di parlare ad un
sentimento o un’emozione che compare in seduta, o a una persona, o ad un oggetto che
viene nominato o ricordato, dopo averlo immaginato seduto su una sedia vuota posta di
fronte al paziente (ad es. parlare alla propria tristezza, ad una vecchia foto di sé bambino, ad
un regalo ricevuto, ad un amico che ci ha aiutato o da cui non siamo stati compresi, ecc.).
- La proiezione dei sentimenti: questa tecnica, usata nelle sedute di gruppo, è finalizzata a
rendere consapevoli i pazienti dell’influenza del proprio mondo fenomenologico sulla
percezione della realtà e le interazioni sociali. Consiste nel porre le persone in coppia una di
fronte all’altra ad occhi chiusi, con la richiesta di immaginare il volto di una persona con cui
sono affettivamente legati e i sentimenti che provano, e quindi riaprire gli occhi e guardare il
volto della persona che hanno di fronte ponendo attenzione su ciò che sentivano verso
l’altro. Di seguito la situazione veniva riproposta con la richiesta di immaginare qualcosa di
neutro.
- Il rovesciamento: consiste nella richiesta al paziente di assumere durante la seduta
caratteristiche comportamentali opposte a quelle sue tipiche (ad es. ad un timido si chiede di
essere sfrontato). Lo scopo è quello di produrre nel paziente la consapevolezza di aspetti
potenziali ed inibiti della propria personalità. Nelle sedute di gruppo questa tecnica può
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essere utilizzata assegnando determinati ruoli recitativi in un breve copione teatrale proposto
dal terapeuta.
- La messa in scena: consiste nella messa in scena da parte del terapeuta di una situazione
collegata metaforicamente con i problemi e le difficoltà del paziente, al fine di fargli
prendere consapevolezza di un qualche problema in modo esperenziale simbolico nel qui ed
ora.
Il terapeuta gestaltista, inoltre, pone e induce nel paziente particolare attenzione, all’osservazione
al comportamento non verbale inteso come indicatore di ciò che realmente si prova, sollecita con
forza il paziente ad essere più spontaneo, più espressivo e più sensibile ai propri bisogni, e
trasmette esplicitamente e implicitamente il messaggio che la persona non è prigioniera del suo
passato e che può in ogni momento essere diversa.
Alcuni studi sugli effetti della terapia della Gestalt ne confermano l’efficacia rispetto all’aumento di
consapevolezza delle proprie emozioni e della capacità di esprimerle, ma come giustamente
sottolineano Devison e Neale queste tecniche dovrebbero essere utilizzate da persone molto esperte
(e probabilmente su persone sufficientemente sane) perché possono in alcuni casi essere di danno
più che di aiuto, per esempio incrementando in alcuni pazienti l’ansia a causa di un’esposizione
troppo diretta a situazioni che richiamano direttamente i problemi irrisolti (con il rischio di
scompensi acuti nei pazienti più fragili), o incrementando in altri l’egocentrismo e una poca
attenzione verso i bisogni degli altri, con conseguenze negative nella vita relazionale fuori della
terapia. Non va inoltre sottovalutato il rischio di un atteggiamento eccessivamente suggestivo e
carismatico del terapeuta insito in questo approccio terapeutico, atteggiamento che può favorire
un’eccessiva dipendenza dal terapeuta per mantenere il proprio benessere.
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Parte III: I metodi di ricerca in psicologia clinica
LO STUDIO DEI CASI
Per essere esauriente lo studio di un caso clinico dovrebbe comprendere la descrizione dettagliata
della situazione psicologica attuale e passata della persona, informazioni sulla storia della sua vita e
sulla famiglia attuale e di origine, l’anamnesi medica, il background educativo e lavorativo, dettagli
riguardanti l’adattamento alle situazioni di vita stressanti presenti e passate, la personalità, e una
descrizione degli eventuali tentativi terapeutici. Il paradigma di riferimento del clinico determina
fortemente il tipo di informazioni a cui si presta attenzione e che vengono riferite.
Il resoconto clinico di singoli casi ha avuto e ha un ruolo importante nello studio del disagio
psicologico, perché offre una ricchezza di informazioni superiore a quella degli altri metodi di
ricerca, pur mancando del grado di controllo e di obiettività del metodo correlazionale e
sperimentale.
Può essere usato nei seguenti modi:
DESCRIZIONE
I resoconti di casi clinici possono fornire dettagliate informazioni su fenomeni non comuni o non
conosciuti, su nuovi procedimenti diagnostici e terapeutici, e su specifici problemi inerenti ad un
determinato tipo di trattamento. Può gettare luce su come si possa sviluppare un disagio psicologico
e sui fattori terapeutici di un determinato trattamento, senza tuttavia potere fornire prove
soddisfacenti di relazioni di causa-effetto.
La lettura dei casi clinici descritti da Freud (Studi sull’isteria; Caso clinico di Dora; Caso clinico
dell’uomo dei topi; Caso clinico dell’uomo dei lupi; In Opere, vol. I, IV, VI, VII, Boringhieri, 1974)
può fornire un ottimo esempio dell’importanza della ricerca sul caso clinico.
PROVA DI DISCONFERMA
Lo studio dei casi può fornire esempi significativi che smentiscono una presunta relazione
universale o una proposizione teorica particolare.
La storia di un caso non fornisce la prova in favore di una particolare teoria o trattamento, essendo
di solito assenti i mezzi per confermare un’ipotesi ed escludere ipotesi alternative.
FORMULAZIONE DI IPOTESI
Lo studio del caso può essere di grande valore euristico. E’ un eccellente modo per esaminare in
dettaglio la vita emotiva e il comportamento di una persona, e per formulare ipotesi che poi possono
essere verificate con una ricerca controllata. Confrontando le storie di un gran numero di pazienti e i
resoconti di trattamenti psicoterapeutici, i clinici possono cogliere analogie che permettono di
formulare ipotesi importanti che non potrebbero essere formulate con ricerche più controllate.
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METODO DELLA CORRELAZIONE
Serve a stabilire se c’è una relazione tra due o più variabili, rispondendo ad interrogativi del tipo:
c’è una relazione fra livelli diversi d’ansia (misurata con un questionario ad hoc) e la presenza di un
determinato tratto di personalità (misurato per mezzo di un questionario di personalità)? E’ un
metodo largamente usato in psicologia clinica.
Per determinare una correlazione è necessario ottenere coppie di osservazioni delle variabili in
discussione per ciascun membro di un gruppo di soggetti. Ottenute le coppie si calcolano il
coefficiente di correlazione (per es. r di Pearson), che esprime la forza della relazione, e la
significatività statistica per stabilire che la relazione non sia dovuta al caso.
Seguono la logica correlazionale anche tutte quelle ricerche che confrontano le persone assegnate
ad una determinata categoria diagnostica con persone normali (gruppo di controllo) o appartenenti
ad un’altra categoria diagnostica (es. relazione fra l’esordio di determinati disturbi psicologici e
numero di eventi di vita stressanti nei sei mesi precedenti la comparsa dei sintomi), anche se il
confronto è effettuato con un test statistico che confronta le medie come l’analisi della varianza.
Le categorie diagnostiche, infatti, così come tutte le caratteristiche che ricorrono naturalmente (es.
sesso), sono variabili classificatorie e non sono manipolabili dal ricercatore.
Il metodo della correlazione non consente di determinare relazioni di causa-effetto per il problema
della direzionalità e della terza variabile.
Con direzionalità si intende il fenomeno per cui la correlazione fra due variabili ci dice solamente
che esse sono in relazione tra loro ma non se una è causa dell’altra o viceversa. Sebbene la
correlazione non implichi la causalità, determinare se due variabili sono correlate o no, può
permettere la disconferma di ipotesi causali perché la causalità implica la correlazione. È sempre
possibile che la causa di una correlazione sia una variabile diversa dalle due prese in considerazione
e non ancora identificata, questa variabile è detta terza variabile. Per esempio tutte le ricerche che
segnalano la presenza di alterazioni biochimiche in un determinato disturbo psicologico lasciano
irrisolto sia il problema della direzionalità, sia il dubbio che l’origine di entrambi i fenomeni sia da
ricercare altrove. Per avere una qualche certezza si dovrebbe provocare sperimentalmente
l’alterazione biochimica in soggetti normali (esiste però un problema etico) e misurarne gli effetti
sintomatologici, e successivamente ricercare la causa dell’alterazione biochimica.
McBurney (Metodologia della ricerca in psicologia; Il Mulino, 1986) chiarisce bene la questione
con un suggestivo esempio:
Se un ricercatore studiasse la relazione fra numero di campanili presenti in determinate città a
prevalenza di religione cristiana e numero di reati commessi, troverebbe sicuramente un
correlazione significativa, nel senso che all’aumentare dei campanili corrisponderebbe un aumento
dei reati segnalati all’autorità giudiziaria. Questo dato potrebbe aprire un dibattito sui giornali fra
opinionisti che sosterranno l’ipotesi che la religione ha un’influenza negativa sugli uomini e quelli
che sosterranno che i dati devono essere letti come lo sforzo della chiesa di essere presente là dove
c’è più bisogno di valori etici. Un opinionista più attento potrebbe fare presente che la spiegazione
va ricercata in una terza e ovvia variabile, cioè che una maggiore densità di abitanti in determinate
città spiega sia il numero maggiore delle chiese sia la più alta frequenza di reati.
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METODO SPERIMENTALE
Permette di determinare relazioni di causa-effetto fra eventi. Implica la manipolazione di variabili
indipendenti (sperimentali) e la misura dei loro effetti sulle variabili dipendenti, e l’assegnazione a
caso dei soggetti alle condizioni oggetto di studio. Lo scopo è quello di verificare l’ipotesi che la
manipolazione di una variabile determinerà un cambiamento specifico dell’altra variabile (es. effetti
di stimoli emotigeni di diversa intensità e qualità sull’assetto ormonale). Un esperimento ben
condotto deve ottemperare ad alcuni criteri di validità
Validità interna
Un esperimento ha validità interna se l’effetto ottenuto può essere attribuito con sicurezza alla
manipolazione della variabile indipendente.
L’inclusione di un gruppo o di una condizione di controllo, l’assegnazione casuale dei soggetti al
gruppo sperimentale o a quello di controllo, e il doppio cieco sono accorgimenti metodologici che
garantiscono la validità interna negli esperimenti.
Se due gruppi di soggetti contengono una variabile interveniente (per es. età e sesso), cioè in grado
di influire sulla variabile dipendente, è bene bilanciare il numero dei soggetti appartenenti ai diversi
gruppi per bilanciare l’effetto della variabile interveniente.
Nel caso l’esperimento preveda una successione seriale delle diverse variabili indipendenti, l’ordine
di presentazione deve essere randomizzato in più sequenze ed ogni soggetto deve incontrare una
sola sequenza, in modo da evitare effetti dovuti all’apprendimento di materiale seriale.
Validità di costrutto
Concerne la questione della conformità fra i risultati ottenuti e la teoria che sta alla base della
ricerca. E’ necessario avere una teoria, una buona definizione operativa dei concetti teorici, degli
strumenti di misura adeguati e bisogna potere escludere altre possibili spiegazioni teoriche.
Validità statistica
Riguarda l’accidentalità della relazione causa-effetto. Per convenzione la probabilità che il risultato
dell’esperimento sia dovuta al caso deve essere inferiore al 5%
Validità esterna
Riguarda il grado di generalizzabilità dei risultati ad altri soggetti, altri luoghi e altri tempi
(problema dell’uso come soggetti degli studenti universitari; esperimenti con animali). Non ci sono
modi univoci e adeguati per affrontare questo problema, e il meglio che si può fare è replicare gli
studi in nuovi setting e con nuovi soggetti.
Il metodo sperimentale è poco usato nella ricerca clinica per problemi pratici ed etici spesso
insormontabili (per esempio non possiamo creare e sottoporre i soggetti a situazioni che producono
un vero disturbo psicologico). Di solito si ricorre all’esperimento quando si vogliono valutare gli
effetti di un trattamento farmacologico o di una psicoterapia (es. effetti di una terapia sull’ansia
valutata con questionari di autovalutazione o con misure psicofisiologiche), o si studiano fenomeni
attinenti o analoghi a quello da indagare come ad esempio l’induzione di stati d’ansia transitori in
laboratorio sottoponendo i soggetti a stimoli cosiddetti stressanti. Più frequentemente si ricorre a
protocolli misti combinando il metodo sperimentale con quello correlazionale, suddividendo i
soggetti sulla base di variabili classificatorie (soggetti con un determinato disturbo vs soggetti
normali).
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LA RICERCA EPIDEMIOLOGICA
Studia la frequenza, la distribuzione e l’andamento nel tempo dei disturbi psicologici all’interno
della popolazione generale o di una determinata popolazione oggetto d’indagine e i fattori che
aumentano la probabilità di sviluppare un disturbo psicologico.
I dati sono raccolti su campioni numerosi di persone rappresentative della popolazione generale o
bersaglio, utilizzando allo scopo questionari, interviste strutturate e dati tratti dall’anagrafe sanitaria
e dalle cartelle cliniche.
La ricerca epidemiologica è interessata principalmente ad indagare:
La prevalenza: è la percentuale della popolazione affetta da un determinato disturbo psicologico al
momento preso in considerazione dall’indagine o nell’arco di vita. Questo dato permette di
delineare un quadro complessivo della salute mentale della popolazione, e di meglio distribuire le
risorse dei servizi addetti alla salute mentale.
L’incidenza: valutazione del numero di nuovi casi rilevato in determinato intervallo, di solito un
anno. Questo dato valutato periodicamente può fornire informazioni sugli effetti di una campagna di
prevenzione, o suggerire che qualche nuovo importante fattore causale è comparso o si è modificato
nella popolazione studiata, per esempio un cambiamento nella cultura o nella situazione
socioeconomica.
I fattori di rischio: si studiano le variabili che aumentano la probabilità di comparsa di un
determinato disturbo, come la familiarità o una diversa distribuzione di frequenza a seconda del
sesso, dell’età, delle condizioni socioeconomiche, degli eventi di vita presenti e passati ecc..
Questi dati empirici possono fornire importanti informazioni che suggeriscono ipotesi sulle cause
dei disturbi psicologici.
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Parte IV: Strumenti d’indagine e di valutazione
IL COLLOQUIO IN PSICOLOGIA CLINICA
Il colloquio psicologico è uno strumento di conoscenza che utilizza l’incontro e la comunicazione
fra due o più persone, allo scopo di raccogliere informazioni e acquisire conoscenze che riguardano
l’ambito d’interesse della psicologia, con fini di ricerca, di diagnosi o di presa in carico per un
determinato trattamento. Presuppone che uno dei partecipanti abbia conoscenze e competenze
psicologiche, titolo per usarle, e che le usi in accordo con gli interlocutori.
Spesso chi si avvicina per la prima volta allo studio della psicologia clinica pensa che vi sia una sola
tipologia di colloquio psicologico e una solo modo di condurlo. La realtà è molto più complessa,
perché il paradigma di riferimento dello psicologo, le sue scelte metodologiche e il diverso scopo
che può avere un colloquio, possono portare a caratteristiche strutturali, a modi di conduzione e a
contenuti dello scambio comunicativo molto diversi fra di loro.
Un approfondimento di alcuni concetti chiave aiuterà a comprendere meglio la complessità e la
varietà di questo strumento di conoscenza.
FATTORI CHE HANNO UN RILIEVO SULLE CARATTERISTICHE DEL COLLOQUIO E
CHE POSSONO INFLUENZARE I CONTENUTI E L’ASCOLTO DELLA COMUNICAZIONE
E L’INTERAZIONE FRA I PARTECIPANTI
GRADO DI STRUTTURAZIONE DEL COLLOQUIO
E’ definito dal grado di predeterminazione dell’andamento dello scambio comunicativo e dei suoi
contenuti, o in altre parole dal grado di libertà comunicativa concessa ai partecipanti al colloquio.
Un alto grado di strutturazione fa preferire nella lingua italiana l’uso del termine intervista a quello
di colloquio. Secondo il grado di strutturazione possiamo distinguere due tipi di intervista e due tipi
di colloquio.
1) Intervista strutturata: il contenuto, la forma e la successione delle domande sono
predeterminate. Le risposte possono essere libere o più o meno predefinite.
2) Intervista semistrutturata: una traccia di riferimento predetermina i contenuti delle domande,
ma non il numero, la forma e l’ordine. Le risposte sono libere.
3) Colloquio orientato: lo psicologo ha come riferimento alcune aree o argomenti da sondare,
senza predisporre una griglia predeterminata di domande, e può approfondire o sondare altre
aree secondo l’andamento del colloquio.
4) Colloquio clinico: lo psicologo concede all’intervistato ampia libertà di decidere i contenuti e
l’ordine con cui sono esposti, considerando tutte le modalità dello scambio comunicativo una
forma di conoscenza dell’altro. In alcuni momenti il colloquio clinico può assumere le
caratteristiche del colloquio orientato.
MODALITA’ DI CONDUZIONE
Fanno riferimento alle strategie che il conduttore può utilizzare allo scopo di attivare e direzionare
la comunicazione dell’intervistato e di favorire una determinata dinamica relazionale. Sono
condizionate dal grado di strutturazione del colloquio. Sono definite attraverso i concetti di:
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- polo di centratura: si riferisce alla prevalenza dello psicologo o dell’intervistato nella gestione dei
tempi, dei contenuti, e degli sviluppi del colloquio. Si pone lungo un continuo che va dal polo di
centratura sull’intervistato al polo di centratura sullo psicologo.
- direttività: è definita dal modo di porsi o non porsi dello psicologo in modo valutativo e giudicante
verso l’intervistato. La non direttività va intesa come una tendenza perseguita con accorgimenti
quali l’uso di domande in termini di ripresa di parole e concetti dell’intervistato, e un’adeguata
calibratura del polo di centratura e dello stile di conduzione.
-stile di conduzione: sono modi di porsi dello psicologo verso l’intervistato a volte predeterminati, a
volte condizionati dalle caratteristiche personali dello psicologo o del suo interlocutore. Sono
riconducibili a quattro modalità: a) Stile duro, b) Stile amichevole, c) Stile consultivo, d) Stile
partecipativo.
SCELTA METODOLOGICA
E’ conseguente al tipo di approccio epistemologico alla conoscenza. Influenza le scelte tecniche
relative al grado di strutturazione del colloquio e alle modalità di conduzione. E’ influenzata dallo
scopo del colloquio e dalla teoria di riferimento.
- Prospettiva psicometrica: è improntata ad un approccio quantitativo verso il fenomeno da studiare.
Presuppone che il colloquio abbia qualità metriche di validità e attendibilità e che produca risultati
quantificabili. Privilegia pertanto un alto grado di strutturazione del colloquio, una tecnica di
conduzione che tenda ad evitare qualsiasi influenza dell’intervistatore sulle comunicazioni
dell’intervistato, una focalizzazione sul contenuto manifesto delle risposte, e una predeterminazione
della messa a verbale del materiale raccolto.
- Prospettiva clinica: deriva dalla prassi medica del colloquio anamnestico e dell’esame obiettivo.
Presuppone che il colloquio produca risultati valutabili sulla base delle conoscenze teoriche e
dell’esperienza clinica del conduttore e/o di altri esperti. Privilegia un basso grado di strutturazione
del colloquio, un polo di centratura sull’intervistato, e una focalizzazione su ciò che il soggetto dice,
sul come lo dice, e sulle modalità relazionali Considera il conduttore un elemento attivo che
modifica il campo relazionale, e che utilizza questa specificità con consapevolezza e in modo
appropriato.
PARADIGMA DI RIFERIMENTO
Si riferisce all’insieme di assunti generali che riguardano la scelta dell’oggetto di studio, la modalità
di raccolta dei dati e la concezione del funzionamento della mente e del comportamento. Include
tutti gli assunti e le teorie accettate come vere dallo psicologo.
Determina il tipo di informazione che si cerca e quella che si ottiene. Influenza le scelte
metodologiche le tecniche di conduzione, il grado di strutturazione del colloquio e l’interpretazione
dei dati.
Uno psicologo clinico di formazione psicoanalitca, ad esempio, rivolgerà la sua attenzione
prevalentemente alle problematiche evolutive, agli aspetti emotivi, ai conflitti psicologici e al tipo
di relazione che si instaura con il cliente, uno psicologo di orientamento umanistico privilegerà
l’osservazione del mondo fenomenologico del suo interlocutore e l’ascolto empatico, ed entrambi
saranno orientati verso l’approccio tipico del colloquio clinico. Uno psicologo clinico di
orientamento comportamentista, al contrario, sarà orientato a rilevare le manifestazioni esplicite del
comportamento e le condizioni ambientali che lo favoriscono, al fine di individuare le strategie
terapeutiche più opportune per modificare il comportamento indesiderato, e pertanto privilegerà le
tecniche dell’intervista.
SCOPO DEL COLLOQUIO
Si riferisce al tipo di richiesta esplicita che è fatta allo psicologo da colui che lo consulta o da terzi,
o al tipo di scopo che lo psicologo intende perseguire.
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Influenza le scelte metodologiche e tecniche e i contenuti del colloquio, e può modificare
l’atteggiamento dell’esaminando e dell’esaminatore e il campo globale. Per esempio un colloquio di
consultazione dovrà necessariamente tenere conto delle richieste esplicite ed implicite del cliente
(analisi della domanda) e queste a loro volta influenzeranno l’atteggiamento dello psicologo, le
modalità di conduzione e i contenuti del colloquio; un colloquio con finalità diagnostica di tipo
nosografico-descrittivo, dopo una prima fase a basso grado di strutturazione, virerà necessariamente
verso la tecnica dell’intervista strutturata o semistrutturata, e verso un atteggiamento direttivo i cui
effetti sul paziente dovranno essere attentamente monitorati; un colloquio finalizzato alla presa in
carico terapeutica dovrà tenere conto oltre che della valutazione clinica, anche delle reali
motivazioni del futuro paziente, ed inoltre la mente dello psicologo sarà contemporaneamente
occupata a valutare gli aspetti relazionali, la propria competenza a trattare quel determinato disturbo
e la potenzialità del paziente di trarre giovamento dalla tecnica terapeutica che si intende proporre;
infine in un colloquio effettuato con il fine di redigere una perizia in ambito legale o assicurativo lo
psicologo dovrà confrontarsi, se perito della controparte o del tribunale, con il problema della
possibile non sincerità, o con la più o meno aperta ostilità dell’interlocutore.
MOTIVAZIONE DEI PARTECIPANTI
E’ definita dal grado di convincimento e di interesse autentico di entrambi i partecipanti a aderire
all’incontro e allo scambio comunicativo. E’ influenzata dall’ambito di applicazione e dallo scopo
del colloquio. Influenza il grado di strutturazione, le modalità di conduzione e l’andamento dello
scambio comunicativo e dell’interazione. Si pone lungo un continuo fra due estremi:
- Motivazione intrinseca: l’incontro è richiesto o accettato da entrambi i partecipanti. E’ necessaria
per un colloquio clinico.
-Motivazione estrinseca: l’incontro avviene a prescindere da un’adesione autentica di uno o
entrambi i partecipanti. E’ sufficiente per un’intervista strutturata.
Un esempio di cliente con motivazione estrinseca che può comportare problemi di difficile
soluzione è quello dell’adolescente condotto in consultazione dai genitori senza un autonomo
convincimento. Un esempio di psicologo con motivazione estrinseca è quello di chi si appresta ad
una consultazione pur essendo molto stanco o con la mente altrove per problemi personali.
CARATTERISTICHE DELL’ INTERVISTATORE
Si riferiscono alle conoscenze psicologiche, alle competenze ed esperienze specifiche e a diversi
dati personali che possono essere rilevanti o meno per la conduzione di un certo tipo di colloquio o
di quel particolare colloquio o intervista.
- Conoscenze psicologiche: riguardano il livello di cultura generale e di professionalità, e il
paradigma teorico di riferimento.
- Competenza ed esperienza specifica: riguardano le conoscenze relative allo specifico ambito e
scopo del colloquio, e l’esperienza conseguita nella conduzione di colloqui.
- Dati personali: riguardano età, sesso, contesto geo-socio-culturale di provenienza, percezione del
proprio ruolo, personalità. Queste caratteristiche interagendo con quelle dell’intervistato possono
influenzare l’interazione fra i partecipanti (es. psicologo con pregiudizi razziali; psicologo giovane
e interlocutore dell’età dei suoi genitori).
CARATTERISTICHE DELL’ INTERVISTATO
Si riferiscono a diversi dati personali (età, sesso, stato socioeconomico, scolarità, professione,
contesto geo-socio-culturale di origine, personalità) che possono essere rilevanti o meno ai fini di
un certo tipo di colloquio o condizionare la dinamica relazionale di singoli colloqui tramite
l’attivazione di specifiche misure di sicurezza.
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LA COMUNICAZIONE NEL COLLOQUIO PSICOLOGICO
Il colloquio psicologico si basa sullo scambio di messaggi fra persone a scopo informativopragmatico, che avviene mediante un insieme di segni, simboli e regole che danno luogo ad un
linguaggio verbale, supportato, integrato, o sostituito da un linguaggio non verbale. Una buona
conoscenza delle caratteristiche generali e delle funzioni della comunicazione verbale e non verbale
è una premessa indispensabile per la conduzione di un buon colloquio da parte dello psicologo
clinico, sia per ottimizzare la propria comunicazione, e avere consapevolezza degli effetti che può
provocare sul paziente, sia per comprendere al meglio la ricchezza d’informazioni anche di carattere
clinico che il paziente veicola con la sua comunicazione verbale e non verbale.
LINGUAGGIO VERBALE
E’ costituito da suoni articolati, organizzati in parole, atte ad individuare immagini, concetti, azioni
e relazioni.
Il linguaggio verbale è in prevalenza di tipo digitale, si basa cioè su parole dal significato
convenzionale, ordinate in discorsi, e su una grammatica e una sintassi proprie di ogni lingua. E’ di
tipo analogico quando la comprensione si basa su esperienze condivise all’interno di un
determinato contesto socio- culturale.
LINGUAGGIO NON VERBALE
Consiste in messaggi che provengono dallo sguardo dalla mimica facciale, da gesti e movimenti del
corpo, dalla postura, dalla distanza interpersonale, dagli elementi non verbali del parlato, da
manifestazioni di tipo neurovegetativo, da caratteristiche fisiche, e da artefatti. Il linguaggio non
verbale è prevalentemente di tipo analogico.
Ha la funzione di:
- Rinforzare e supportare la comunicazione verbale, rendendola più efficace mediante gesti,
movimenti del corpo o degli occhi, modificazioni del tono della voce o della mimica facciale, che
possono ad esempio veicolare una richiesta di attenzione o di consenso, ribadire o illustrare quanto
detto in parole, mettere in rilievo una parte del discorso, ecc..
- Integrare la comunicazione verbale per esempio completando un concetto o un pensiero espresso
a parole con un indicatore dello stato emotivo quale il tono della voce o la mimica facciale.
- Sostituire la comunicazione verbale per esempio con gesti simbolici (es. alzare le mani in segno di
resa; segnalare l’alt con la mano; alzare il pugno in segno di sfida ecc..), modificazioni della postura
(es. irrigidirsi durante un abbraccio ecc..), o modificazioni della distanza spaziale.
- Metacomunicare cioè trasmettere attraverso gesti, movimenti degli occhi, espressioni facciali,
tono della voce, come deve essere intesa la comunicazione verbale in quel contesto (es. che il
discorso va preso seriamente; che non deve riguardare altri, ecc..).
- Regolare il flusso comunicativo e la relazione per esempio schiarendosi la voce o alzando la mano
per chiedere la parola, annuire col capo per assentire e invitare a proseguire, avvicinarsi o
allontanarsi per dimostrare interesse o per segnalare l’intenzione di terminare lo scambio
comunicativo, alzare il tono della voce, abbassare o alzare lo sguardo ecc..
Nel colloquio psicologico la comunicazione verbale di tipo digitale è il mezzo concordato dello
scambio comunicativo, ma essa sarà sempre supportata, integrata, e a volte sostituita da una
componente analogica e non verbale, che può facilitare la corretta comprensione del messaggio
verbale, e fornire elementi relativi al coinvolgimento emotivo nella relazione. L’importanza che
sarà data a quest’ultimo in sede di valutazione varia secondo il tipo di colloquio.
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CANALI DELLA COMUNICAZIONE NON VERBALE
- Il volto e la mimica facciale
Possono svolgere tutte le funzioni della comunicazione non verbale. In particolare trasmettono
messaggi relativi allo stato emozionale e al coinvolgimento nella relazione. (es. espressioni facciali
delle emozioni, aggrottare la fronte, spingere in avanti le labbra, alzare un sopracciglio, ecc..)
- Lo sguardo e i movimenti degli occhi
Possono indicare stati d’animo e intenzioni, sono un forte indicatore del grado di coinvolgimento
relazionale, e possono essere usati per regolare lo scambio verbale e definire i ruoli. (es. guardare
fisso negli occhi, alzare o abbassare lo sguardo, guardare altrove o nel vuoto, sguardo di tenerezza,
di sfida ecc..).
- I gesti della mano e del braccio
Sono movimenti della mano e del braccio che possono essere suddivisi in:
Emblemi, cioè gesti che sostituiscono e possono essere sostituiti dalla comunicazione verbale (es.
fare alt con la mano, chiamare a sé col braccio, muovere il dito indice per ammonire o dissentire
ecc..).
Gesti illustrativi che ribadiscono la comunicazione verbale rinforzandola (es. indicare la strada con
movimenti del braccio, ecc..).
Indicatori emozionali, cioè gesti correlati a stati emotivi (es. stingere i pugni, ecc..);
Gesti regolatori del discorso che delimitano i ruoli nel parlare e ascoltare e segnalano il grado di
coinvolgimento (es. cedere la parola con un movimento del braccio ecc..).
Gesti adattatori che hanno lo scopo di riequilibrare uno stato di tensione. Possono essere distinti in
autoadattatori (es. aggiustarsi i capelli, mangiarsi le unghie ecc..), adattatori su oggetti (es.
giocherellare con la matita o metterla in bocca ecc..), adattatori sull’altro (es. mettere a posto una
piega del vestito dell’altro ecc..).
Uno stesso gesto può essere contemporaneamente emblematico e/o illustratore e/o indicatore
emozionale e/o regolatore del discorso.
- Movimenti del capo, del corpo e degli arti inferiori
Possono essere emblemi, indicatori emozionali, regolatori del discorso, e segnalare il grado di
coinvolgimento e di partecipazione (es. annuire col capo in segno di approvazione, scuoterlo
lentamente o rapidamente in segno di disaccordo o impazienza, movimenti del busto in avanti o
indietro come segno di coinvolgimento ecc..).
- Postura
Posture tipiche e persistenti possono segnalare tratti del carattere, se situazionali possono segnalare
disposizioni all’azione (es. postura rigida o rilassata, ecc..).
- Distanza interpersonale
Distinzione in 4 zone, estese da un minimo a un massimo a seconda di fattori socioculturali:
Distanza intima: è quella entro cui il canale visivo perde importanza nel percepire l’altro e
assumono rilievo udito, olfatto e tatto.
Distanza personale: è quella entro cui è possibile toccarsi allungando un braccio, o evitarlo se uno
non vuole.
Distanza sociale: è quella entro la quale si presta attenzione ad un estraneo che si avvicina e non è
possibile ignorare una persona conosciuta se non ostentatamente.
Distanza pubblica: è la zona oltre il margine di riconoscimento obbligatorio.
- Collocazione nello spazio
Riguarda prevalentemente l’orientazione dei partecipanti frontale o laterale e l’altezza delle
posizioni.
- Elementi non verbali del parlato
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Sono elementi espressivi della voce più o meno connessi alla componente verbale. Possono indicare
stati d’animo e intenzioni, aspetti della personalità, coinvolgimento relazionale, e possono essere
usati per regolare lo scambio verbale e definire i ruoli.
Tono (alto, basso, grave, solenne, dolce, affettuoso ecc.), timbro (maschile, femminile), e melodia
(la successione dei suoni verbali può essere animata da un ritmo che può produrre attenzione, noia,
assopimento, ecc.).
Elementi paralinguistici: sono relativi al modo in cui si parla. a) qualità dell’eloquio (velocità,
pause, esitazioni); b) fluenza (scorrevole, ecc..); c) pronuncia; d) inflessione (dialettale, straniera);
e) manifestazioni organiche (Tossire, schiarirsi la voce, sbadigliare).
Elementi metalinguistici: sono relativi a variazioni del modo di esprimersi e riguardano a) lo stile
(retorico, teatrale, affabulatorio, ecc..); b) il grado d’istruzione (linguaggio elementare, ricco,
forbito, ecc..); c) l’esclusività linguistica (linguaggio specialistico, burocratico, gergale, ecc..); d)
l’uso d’imprecazioni e d’espressioni volgari; e) l’intercalare (cioè, praticamente, no, vero, ecc..).
- Caratteristiche fisiche
Riguardano l’aspetto generale del corpo, altezza, peso, attrazione, colore della pelle, sudore,
rossore, odore, ecc.. Possono in alcuni casi influenzare l’interazione fra i partecipanti al colloquio.
- Artefatti
Comprendono abbigliamento, acconciatura dei capelli, trucco, profumi, occhiali, ecc.. Solitamente
forniscono informazioni sull’immagine che la persona vuole dare di sé. Un insieme eccessivamente
trasandato o eccentrico può fornire informazioni sulla capacità di prendersi cura di sé, e su aspetti
della personalità. Fra gli artefatti, l’uso degli occhiali scuri crea problemi nell’interazione fra i
partecipanti.
- Ambiente
Include l’arredamento, il colore delle pareti, gli odori, l’illuminazione, la temperatura, il telefono, la
separazione da altri ambienti ecc.. E’ parte integrante della cornice del colloquio e può avere
importanti effetti sulla dinamica relazionale.
FUNZIONI GENERALI DELLA COMUNICAZIONE
- Trasmissione delle informazioni: la funzione informativa è assolta prevalentemente dalla
comunicazione verbale di tipo digitale. La funzione informativa di base della comunicazione
analogica è relativa allo stato emotivo.
- Definizione della relazione: questa funzione è assolta prevalentemente dalla comunicazione
analogica (es. presentarsi col proprio ruolo o grado; uso del tu, del lei, o del voi; sfumature del tono
della voce; gesti; ecc..).
- Induzione di comportamenti o di emozioni: questa funzione è assolta sia dalla comunicazione
digitale sia da quella analogica (es. uso dell’imperativo; instillare un dubbio o una preoccupazione;
mettere zizzania; sguardo; tono della voce; gesti ecc..). Può essere esplicita o implicita, intenzionale
o inconsapevole.
- Definizione delle modalità dello scambio comunicativo: questa funzione è svolta in prevalenza
dalla comunicazione analogica. Può riguardare la gestione del tempo (durata del colloquio) e dello
spazio (distanza e orientamento degli interlocutori); la libertà di determinare il contenuto della
comunicazione e di fare domande; la disponibilità a iniziare, mantenere o concludere la
comunicazione; la regolazione del flusso comunicativo.
- Metacomunicare: questa funzione può essere assolta sia dalla comunicazione digitale sia da
quella analogica. Consiste nel comunicare sulla comunicazione in atto. Può riguardare il senso della
trasmissione delle informazioni, la definizione della relazione, l’induzione pragmatica e la
definizione delle modalità dello scambio comunicativo. Si attua quando si teme l’incomprensione o
si vuole mettere in discussione ciò che l’altro sta proponendo implicitamente (es. sto scherzando;
stiamo divagando; guarda che parlo seriamente; non mi stai capendo; non sei mio padre ecc..). Sul
piano analogico si può metacomunicare enfatizzando gli elementi formali della comunicazione per
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rimarcarne l’ufficialità, o accentuando un tono confidenziale per rimarcare l’aspetto informale, o
adottando un’espressione seria o scherzosa, ecc..
CARATTERISTICHE GENERALI DELLA COMUNICAZIONE
- Intenzionalità e consapevolezza: l’intenzionalità fa riferimento al grado di volontarietà e la
consapevolezza al grado di coscienza dell’atto comunicativo e del suo significato. I due concetti
sono relativamente indipendenti fra loro, infatti si può essere consapevoli del messaggio che
comunichiamo anche quando non è intenzionale (es. rossore del viso, tremore della voce, rendersi
conto di stare dicendo qualcosa che non volevamo dire), e non essere consapevoli di tutto ciò che
comunichiamo e di come lo comunichiamo in una comunicazione intenzionale (es. comunicazione
non verbale, non rendersi conto di tutte le implicazioni di ciò che stiamo dicendo). È opportuno che
durante il colloquio lo psicologo comunichi in modo intenzionale e consapevole, tenendo conto che
gli aspetti analogici della comunicazione non possono essere controllati oltre una certa misura, pena
l’inautenticità. Mantenere un buon livello di consapevolezza del proprio comportamento verbale
(scelta delle parole usate nella comunicazione) e non verbale (gesti, espressioni facciali, impulsi
motori, impulsi a parlare ecc..) permette infatti una migliore comprensione del tipo di relazione che
tende a mettere in atto con l’intervistato, e riduce la possibilità di incomprensioni e fraintendimenti.
Parimenti un’adeguata valutazione del grado di intenzionalità e di consapevolezza della
comunicazione dell’intervistato può fornire all’intervistatore importanti informazioni per la
valutazione del colloquio.
- Capacità informativa: si riferisce all’efficacia della comunicazione nel trasmettere le informazioni
che si intende fornire. L’efficacia della comunicazione digitale è in relazione con il grado di
conoscenza da parte degli interlocutori del codice linguistico usato nello scambio comunicativo;
quella della comunicazione analogica con l’appartenenza degli interlocutori allo stesso contesto
socioculturale. Per valutare l’efficacia di una comunicazione nel trasmettere informazioni si può
fare riferimento alle categorie conversazionali di Grice che si riferiscono alla:
Quantità delle informazioni fornite. Include: a) comunicare tutte le informazioni richieste; b) non
comunicare più informazioni di quelle richieste.
Qualità delle informazioni fornite. Si riferisce all’esattezza delle informazioni e include: a) non dire
cose che si sanno false; b) non dire cose di cui non si ha prova adeguata.
Relazione. Si riferisce ai contenuti e include: a) comunicare informazioni pertinenti; b) comunicare
informazioni rilevanti.
Modo. Si riferisce a come si dice ciò che viene detto e richiede: a) di essere chiari evitando oscurità;
b) di essere ordinati nell’espressione, cioè non confusi; c) di evitare ambiguità; d) di evitare
prolissità non necessarie.
Attenersi a questi principi è il modo più efficace per trasmettere informazioni, e l’intervistatore
deve tenerne conto quando formula le sue domande, quando restituisce all’intervistato le
impressioni e le opinioni che ha ricavato dal colloquio, e quando stende il resoconto. Per avere un
riscontro di quanta parte della comunicazione giunge efficacemente a destinazione o è recepita in
modo distorto è importante avere grande attenzione per i segnali retroattivi che provengono
dall’intervistato e modularsi su di loro. Per altro verso, valutare la capacità e l’efficacia informativa
dell’intervistato può fornire dati importanti sul modo di funzionare della sua mente (es. stato di
confusione, tratti ossessivi, ecc..). Lo psicologo per avere un riscontro della sua comprensione della
comunicazione dell’intervistato può utilizzare la tecnica della riformulazione (es. lei ha detto
che…). È bene tenere comunque presente che la comunicazione può essere usata per nascondere
informazioni o per distorcerle (vedi misure di sicurezza), e che in un colloquio psicologico non è
scontato che l’intervistato abbia piena fiducia nello psicologo.
- Capacità pragmatica: si riferisce al grado di influenza della comunicazione sull’interlocutore e
può essere valutata nei termini di coinvolgimento nell’interazione e di cambiamenti del
comportamento e dello stato emotivo. Per valutare la capacità pragmatica bisogna tenere conto oltre
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che delle richiesta esplicita o implicita contenuta nel messaggio anche del contesto del colloquio e
del ruolo asimmetrico intervistato/intervistatore. La richiesta più semplice contenuta in qualsiasi
messaggio è quella di ricevere ascolto, altre possono essere ricevere comprensione, e via via
reazioni che implicano un maggiore coinvolgimento. È importante tenere presente che un colloquio
comporta un coinvolgimento di tutti i partecipanti, perciò l’intervistatore, prima, durante, e dopo il
colloquio deve porsi alcune domande sulla sua comunicazione e su quella dell’intervistato quali ad
esempio: dove chiedo o chiede che vada l’attenzione; quali risposte mi attendo o si attende; che
reazione emotiva voglio o vuole suscitare; che tipo di relazione stabilisco o stabilisce e con quali
ruoli.
-Incongruenza comunicativa: consiste nella trasmissione contemporanea di due messaggi
contraddittori. Vi possono concorre sia la comunicazione verbale sia non verbale, e sia la modalità
digitale sia analogica. Quando c’è incongruenza la comunicazione non verbale prevale su quella
verbale e si tende a dare maggiore credito agli aspetti analogici rispetto a quelli digitali, a meno che
non ci sia una posizione di dipendenza. Quando c’è incongruenza fra gli indici non verbali gli
elementi espressivi della voce sono più influenti dei segnali visivi. L’indice non verbale a cui si
presta maggiore attenzione è la violazione della distanza interpersonale. La comunicazione
incongruente fa perdere di credibilità al messaggio se l’interlocutore rileva la contraddizione; se
l’interlocutore è in posizione di dipendenza e non può permettersi di accorgersi dell’incongruenza si
può creare un disagio psichico perché il messaggio incongruente tende a veicolare una richiesta
pragmatica contraddittoria. L’incongruenza può essere il risultato di un conflitto psichico o di un
tentativo consapevole o inconsapevole di ingannare gli altri o se stessi.
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LE DINAMICHE RELAZIONALI NEL COLLOQUIO PSICOLOGICO
Come risulta evidente da quanto detto sul processo comunicativo ogni scambio verbale comporta
l’instaurarsi di una relazione fra i partecipanti (vedi funzioni della comunicazione).
Nel colloquio psicologico un’adeguata percezione da parte dell’intervistatore della relazione che
s’instaura con l’intervistato, nei suoi aspetti fenomenologici e dinamici, è un punto fondamentale
per una buona conduzione del colloquio. Inoltre, nel caso di un colloquio clinico, proprio
dall’osservazione delle dinamiche relazionali lo psicologo potrà ricavare importanti elementi per la
valutazione delle caratteristiche psicologiche dell’intervistato. Fondamentale per la valutazione
della dinamica relazionale è la capacità dello psicologo di essere nella relazione e
contemporaneamente essere consapevole di ciò che sta avvenendo, osservando se stesso e l’altro,
raccogliendo gli elementi che provengono dalle parole sue e dell’intervistato, dalla comunicazione
verbale e non verbale di tipo analogico, e dal suo vissuto emotivo. Deve dunque ascoltare e
ascoltarsi, osservare e osservarsi, e monitorare ciò che sta avvenendo.
- Intensità della relazione
Per intensità della relazione s’intende il grado di coinvolgimento emotivo dei partecipanti al
colloquio. Si valuta mediante osservazione e autosservazione di indici verbali (es. verbalizzazione
di stati emotivi, tipo di aggettivazione usata), elementi espressivi della voce (es. tono, ritmo, fluenza
dell’eloquio, comparsa di inflessioni dialettali), espressioni facciali delle emozioni, sguardo, gesti e
movimenti del corpo in avanti e indietro, modificazioni della distanza interpersonale.
Soggettivamente comporta la percezione della presenza di una qualche emozione o affetto e l’idea
che ciò che stiamo dicendo o ascoltando sia importante o comunque interessante.
- Qualità della relazione
La qualità della relazione può essere descritta fenomenologicamente attraverso alcune dicotomie
comportamentali, poste lungo un continuo d’intensità, e variamente interagenti e correlate fra di
loro: cooperazione/competizione, dominanza/sottomissione, fiducia/diffidenza, apertura/chiusura,
controllo/adattamento, seduzione/rifiuto, ecc.. Queste dimensioni relazionali possono essere
spiegate, a seconda della teoria di riferimento, in termini di stima di Sé, forza dell’Io, ecc.., e di
motivazioni e bisogni come quello di affiliazione o di sicurezza, ed esprimersi attraverso la ricerca
di un adattamento alle necessità dell’altro o dell’altro alle proprie necessità, e di una simmetria o
asimmetria relazionale. Ad esempio il bisogno di affiliazione può muoversi verso la ricerca di
concordanza, di intimità, di approvazione, di accudimento, ed esprimersi attraverso diverse
gradazioni di adattamento o di influenzamento reciproco. Ciò può portare ad atteggiamenti di
cooperazione, ma anche di compiacenza o di sottomissione, se si ritiene di non essere
sufficientemente accettabili o stimabili per quello che si è, o si ritiene di essere (questo può valere
anche per un intervistatore insicuro di sé e del proprio ruolo). Considerazioni analoghe possono
essere fatte per il bisogno di sicurezza che, se non molto intenso, può esprimersi attraverso la
ricerca di una distanza emotiva e relazionale che permette atteggiamenti di cooperazione, ma che
più spesso tende a muoversi verso l’adattamento dell’altro alle proprie necessità e la realizzazione
di un’asimmetria relazionale. Compaiono in questo caso atteggiamenti competitivi e di dominanza
o, se il timore dell’altro prevale, tentativi di influenzamento mediante la seduzione o la
sottomissione compiacente. La qualità della dinamica relazionale può essere valutata mediante
l’osservazione e l’autosservazione della comunicazione verbale e non verbale, in particolare di tipo
analogico, tenendo conto delle funzioni della comunicazione (informativa, definizione della
relazione, induzione di comportamenti e di emozioni, definizione delle modalità dello scambio
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comunicativo), e delle sue caratteristiche (intenzionalità, consapevolezza, capacità informativa e
pragmatica, congruenza). Soggettivamente la dinamica relazionale comporta lo sperimentare stati
emotivi più o meno differenziati, e l’impulso a mettere in atto o la messa in atto di comportamenti
verbali o azioni che appaiono motivati dal comportamento dell’altro o dalla situazione. La
percezione di motivazioni provenienti da propri bisogni o caratteristiche necessita di una presa di
distanza e di una riflessione.
- Contatto psicologico
Un breve discorso a parte è opportuno per la qualità della relazione definita dalla dimensione
apertura/chiusura, che fa riferimento al grado di disponibilità a comunicare in modo sincero e
partecipe, e di ricettività verso la comunicazione dell’altro. L’importanza di questa dimensione
relazionale è dovuta allo stretto collegamento con un concetto molto importante per la conduzione e
valutazione di un colloquio, quello di contatto psicologico. Con questo termine si fa riferimento ad
un complesso insieme di disposizioni verso di sé e verso l’altro che dà luogo ad una “apertura”
relazionale che permette di comunicare in modo sincero, partecipato e congruente, e di essere
ascoltati con interesse e partecipazione, senza distorsioni e fraintendimenti, con la consapevolezza
di entrambi i partecipanti che tutto ciò sta avvenendo. Il concetto di contatto psicologico non è
sovrapponibile a quello di intensità del coinvolgimento emotivo. Contatto e coinvolgimento
possono, infatti, andare di pari passo, ma anche essere in relazione inversa, nel senso che alti gradi
di coinvolgimento possono influire in senso negativo sul grado di contatto psicologico. Sul grado di
contatto possono inoltre influire la tipologia del colloquio, il modo di condurlo e caratteristiche
personali dell’intervistatore (competenza e abilità, tratti di personalità, preoccupazioni della vita
quotidiana) e dell’intervistato (deficit nella percezione emozionale relativa a sé e all’altro, tipo di
disagio psicologico, caratteristiche di personalità che favoriscono la chiusura, l’elusività, o
un’eccessiva dipendenza affettiva o psicologica).
- Congruità della dinamica relazionale
L’intensità e la qualità della relazione e il grado di contatto psicologico possono variare da
colloquio a colloquio sulla base delle caratteristiche dei partecipanti, in particolare dell’intervistato,
se il colloquio è ben condotto. Non bisogna tuttavia dimenticare che le modalità e i contenuti dello
scambio comunicativo sono in varia misura predeterminati dalle caratteristiche del colloquio o
dell’intervista che s’intende condurre (grado di strutturazione, modo di conduzione, scopo,
paradigma di riferimento). Le varie combinazioni di questi fattori possono dare luogo a diverse
cornici (setting), ognuna delle quali delimiterà un particolare ambiente psicologico. Potrà essere un
ambiente anonimo o arredato tenendo conto delle esigenze dell’intervistato o dell’intervistatore, più
o meno caldo o freddo e che in ogni caso influenzerà in una qualche misura l’intensità e la qualità
della dinamica relazionale. Sarà compito dell’intervistatore valutare la congruità della dinamica con
la cornice e con l’ambiente psicologico entro cui si sta svolgendo un determinato colloquio. Ad
esempio un’intervista strutturata con domande su temi generali non dovrebbe comportare dinamiche
relazionali particolarmente intense o di qualità tale da interferire con il buon esito dell’intervista, ma
se il contenuto riguarda la vita intima dell’intervistato, possiamo aspettarci delle modalità più
intense e variegate di interazione. D’altra parte in un colloquio non strutturato che comporti
esplicitamente una valutazione dobbiamo aspettarci di norma un certo grado di coinvolgimento
emotivo e diversi gradi di cooperazione/competizione, fiducia/diffidenza, apertura/chiusura, a
seconda dell’ambito di applicazione, dello scopo e dell’oggetto del colloquio.
- Livelli di valutazione
Una volta valutata l’intensità e la qualità della dinamica relazionale, e la congruità con il tipo di
colloquio o intervista che sta conducendo, lo psicologo potrà, se necessario per lo scopo del
colloquio, o per superare eventuali impasse nello scambio comunicativo, formulare delle ipotesi
integrando queste informazioni con le conoscenze tratte dall’esperienza e dalle conoscenze teoriche.
La finalità sarà quella di giungere ad una migliore comprensione dei bisogni e delle motivazioni che
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promuovono una determinata dinamica relazionale, del loro fondamento in fattori contingenti come
ad es. un particolare stile di conduzione e/o in esperienze del passato che possono per es. avere
inciso sulla fiducia di base verso l’altro, e del loro possibile collegamento con le varie forme del
disagio psicologico. Primo passo nel processo di valutazione della dinamica relazionale è dunque
quello di osservarla e descriverla tenendo conto dell’intensità e della qualità della relazione. I quadri
che ne possono emergere sono molti e complessi, diversi da colloquio e colloquio e all’interno dello
stesso colloquio. Per averne un’idea proviamo a pensare alle quattro combinazioni delle dimensioni
cooperazione/competizione e dominanza/sottomissione tenendo conto di tre possibili gradi
d’intensità (alta, media e bassa). Una visualizzazione grafica mediante gli assi cartesiani ci può
aiutare allo scopo. Mettiamo dunque sull’asse delle ordinate la dimensione
cooperazione/competizione e sull’asse delle ascisse la dimensione dominanza/sottomissione e
creiamo lungo gli assi una graduazione da uno a tre. A questo punto possiamo collocare all’interno
di uno dei quadranti o lungo uno degli assi il modo di proporsi nella relazione dell’intervistatore
scegliendo fra 61 possibilità e successivamente aggiungere il modo di porsi dell’intervistatore che
potrà essere complementare o dare luogo ad una nuova proposta e ad una dinamica che può essere
osservata e descritta secondo un andamento temporale. Successivo passo nel processo di
valutazione è quello di giudicare la congruità della dinamica relazionale rispetto al tipo di colloquio
o intervista che si sta conducendo. Questo per decidere se la proposta dell’intervistatore permetta un
sufficiente scambio comunicativo e quindi di portare a termine in modo soddisfacente il colloquio,
o se sia necessario intervenire per cercare di modificarla. Questo livello di valutazione comporta
un’integrazione dell’osservazione partecipe con i dati dell’esperienza e della teoria. Lo psicologo,
infatti, nel momento in cui valuta la congruità, opera un confronto fra ciò che avviene e le sue
aspettative, e se c’è incongruità formula ipotesi sulle caratteristiche psicologiche dell’intervistatore
e su come queste interagiscano con la cornice e l’ambiente psicologico del colloquio.
Quando il tipo di colloquio lo preveda si passerà poi ad un terzo livello di valutazione che consiste
nell’integrare i contenuti della comunicazione verbale con l’andamento della dinamica relazionale,
congrua o incongrua che sia. Si potrà così giungere ad una valutazione globale del colloquio in
relazione al suo scopo.
- Dinamiche relazionali di interesse generale
Come abbiamo visto parlando dell’intensità e qualità della relazione, le dinamiche che si possono
creare nel corso di un colloquio psicologico sono molteplici e dipendono da vari fattori che
interagiscono fra loro: tipo di colloquio, caratteristiche dell’intervistatore e dell’intervistato, e
risposte che quest’ultimo riceve dall’intervistatore rispetto alle sue attese e ai suoi bisogni. Per
esempio persone diverse intervistate dalla stessa persona sullo stesso argomento possono
relazionarsi in modi diversi a seconda delle loro caratteristiche psicologiche, e una persona,
intervistata sullo stesso argomento da persone diverse, può relazionarsi in modo diverso sulla base
di caratteristiche fisiche dell’interlocutore (sesso, età, modo di vestire), o anche d’impercettibili
comunicazioni di tipo non verbale (uso dello spazio, distanza interpersonale, postura, tono della
voce, ecc..), che segnalano accoglimento o distanza emotiva. Entrare nel dettaglio anche solo delle
più frequenti dinamiche relazionali che si possono creare, e del loro significato, è un compito che
esula dagli scopi di questo corso, anche perché ogni descrizione risulterebbe statica se non inserita
in uno specifico contesto, e ancorata ad un determinato paradigma teorico di riferimento.
L’affinamento di queste conoscenze sarà compito dei training di formazione e dell’esperienza.
In questa sede ci limiteremo a delineare alcune dinamiche d’interesse generale, che possono
improntare in particolare i momenti iniziali di un colloquio psicologico e che possono porre
problemi di conduzione o di analisi della domanda. Si tratta di alcune dinamiche relazionali
collegate alle cosiddette misure di sicurezza, cioè strategie difensive messe in atto dall’intervistato a
fronte dei timori mossi dall’asimmetria relazionale, o collegate a determinati ruoli che l’intervistato
tende ad assegnare allo psicologo sulla base delle proprie aspettative e bisogni.
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- Le misure di sicurezza
Con questo termine s’intendono alcune strategie psicologiche di natura più o meno cosciente che le
persone adottano per fare fronte a pericoli o minacce reali o presunte provenienti dall’interazione
con altre persone. Nella situazione di colloquio psicologico, in particolare quando la motivazione è
estrinseca, possono attivarsi in varia misura per il timore dell’intervistato di essere sondato e
valutato al di là della propria volontà o di un giudizio negativo, per il timore che le informazioni che
fornisce possano comunque danneggiarlo (Es. sfiducia nella riservatezza dello psicologo), o per il
rifiuto di un ruolo e di una situazione non liberamente scelta. Le misure di sicurezza influiscono
sulla dinamica relazionale e sul contenuto della comunicazione, e in alcuni casi non permettono di
portare a termine il colloquio in modo soddisfacente. Possono innescare nel conduttore risposte
complementari o simmetriche di tipo collusivo, e porre problemi nella conduzione del colloquio, ma
anche fornire importanti informazioni. La qualità delle misure di sicurezza dipende infatti dalla
personalità dell’intervistato e in particolare dal tipo di rapporto con l’autorità che ha caratterizzato
la sua storia (Es. dipendenza, paura, ammirazione, ribellione, ecc..). L’intensità è influenzata
dall’ambito di applicazione (Es. scolastico, giudiziario), dallo scopo del colloquio (Es. diagnosi,
perizia), dalle modalità di conduzione (Es. direttività), dall’oggetto di conoscenza (Es. opinioni
generali o aspetti della vita privata), e dalle caratteristiche personali dell’intervistatore (Es. età,
sesso, ecc..). Scopo delle misure di sicurezza è quello di sottrarsi al ruolo imposto dal colloquio e
alla richiesta di fornire informazioni su di sé. Fra le più frequenti modalità con cui si esprimono le
misure di sicurezza ricordiamo: l’elusività, la seduzione compiacente, e la ribellione.
L’elusione: consiste nell’apparente accettazione delle regole e delle richieste del colloquio e nel
loro evitamento nei fatti mediante l’omissione di informazioni importanti, e l’offerta di
informazioni generiche, banali, o altre rispetto alla domanda, evitando di esprimere ciò che
realmente si sa, si pensa e si sente (Es. adolescente con motivazione estrinseca al colloquio che
instaura con lo psicologo una modalità comunicativa e relazionale che mantiene il rapporto senza
contrapporsi direttamente, ma senza tuttavia sottomettersi, così come fa con i genitori e con
l’autorità). Modalità comunicative e relazionali elusive possono essere attuate per esempio
rispondendo ad una domanda con un'altra domanda, con il parlare per allusioni o di terze persone,
con l’uso del soggetto impersonale (Es. è giusto dire che…, molte persone dicono che…),
dichiarando la propria ignoranza o incompetenza su un determinato argomento (Es. non saprei
proprio cosa dire, non ho mai pensato a questo in modo approfondito), facendo precedere la risposta
da un preambolo che attenua o inficia le affermazioni successive (Es. è solo un’impressione, non so
se è vero, ecc..), depotenziando un’affermazione con una serie di ma e di se, dando più informazioni
di quelle richieste in modo di avere lo spunto per cambiare argomento, sostituendo l’espressione di
un sentimento con un altro più adeguato (Es. sono stanco invece di non voglio più parlare). La
modalità elusiva può produrre nello psicologo un senso di insoddisfazione e di irritazione e indurre
risposte collusive di tipo simmetrico (Es. imbarazzo nel porre domande) o complementare (Es.
aumentare la frequenza delle domande, dare segni di insofferenza).
La seduzione compiacente: si caratterizza per una modalità comunicativa e relazionale che tende
ad ottenere la benevolenza e l’indulgenza dell’intervistatore. Può essere attuata mediante
dichiarazioni di interesse e lusinghe (Es. commenti sull’importanza della psicologia o
dell’argomento, o sulle capacità dello psicologo con frasi del tipo: come lei avrà già capito), e con
risposte compiacenti rispetto alle presunte aspettative dell’intervistatore. Comporta un
atteggiamento elusivo verso la presentazione di aspetti di sé positivi o negativi che si teme non
accettati dall’altro (Es. evidenziare le paure e le debolezze e non i propri successi e capacità per
evitare una dinamica competitiva). Può indurre nello psicologo risposte collusive di tipo simmetrico
(Es. interventi di tipo rassicurativo), o complementare (Es. distanziamento emotivo, sospettosità).
La ribellione: si caratterizza per un manifesto atteggiamento di non collaborazione. Nei casi più
eclatanti si può manifestare con il silenzio, con la menzogna ostentata o con atteggiamenti
provocatori di scherno e svalutazione dello psicologo o della sua professione. Con modalità meno
evidenti si manifesta con la trasgressione delle regole implicite del colloquio psicologico, e la
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competizione rispetto all’acquisizione di un ruolo dominante (Es. stabilire il contenuto della
comunicazione, fare domande, interrompere l’altro quando parla, commentare lo scambio
comunicativo, ecc..). Può indurre risposte di tipo collusivo di tipo simmetrico (Es. accettare lo
scontro per ripristinare la dominanza), o complementare (Es. difesa di ufficio dello scopo del
colloquio, rinuncia a portare avanti lo scambio comunicativo).
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IL COLLOQUIO CLINICO
Il colloquio clinico è uno strumento di indagine e di valutazione finalizzato a raccogliere
informazioni allo scopo di comprendere e aiutare una persona che si affida alla competenza e
professionalità di uno psicologo clinico.
Peculiarità del colloquio clinico è quella di considerare tutte le modalità dello scambio
comunicativo come una forma di conoscenza dell’altro. Presuppone che il colloquio produca
risultati valutabili sulla base delle conoscenze teoriche e dell’esperienza clinica dello psicologo.
Privilegia un basso grado di strutturazione del colloquio, un polo di centratura sull’intervistato, una
modalità di conduzione non direttiva, uno stile di conduzione consultivo o partecipativo, e una
focalizzazione su ciò che il soggetto dice, sul come lo dice, e sulle modalità relazionali Considera lo
psicologo un elemento attivo che modifica il campo relazionale, e che utilizza questa specificità con
consapevolezza e in modo appropriato. Questa tecnica di indagine è usata prevalentemente, ma non
esclusivamente, dai clinici di orientamento psicodinamico o umanistico, e la valutazione dei dati è
fortemente influenzata dal paradigma di riferimento.
In un colloquio clinico ben condotto lo psicologo deve permettere e facilitare il fatto che i contenuti
della comunicazione e il campo della relazione interpersonale siano stabiliti e delineati
prevalentemente dal paziente. Del tutto particolare è anche il modo con cui il clinico raccoglie i
dati. Egli, infatti, oltre a partecipare alla relazione, dovrebbe essere consapevole di cosa sta
avvenendo, raccogliendo gli elementi che provengono dalle parole del paziente, dall’osservazione
del comportamento non verbale e dal proprio vissuto emotivo. Deve ascoltare e ascoltarsi, osservare
e osservarsi. Il colloquio clinico non è dunque uno strumento di facile gestione, ed è necessaria una
grande capacità ed esperienza per condurre un buon colloquio.
LA CORNICE O SETTING
Con setting (sfondo, messa in scena) si intende l’insieme dell’ambiente sia fisico sia psicologico,
all’interno del quale avviene il colloquio clinico. Il setting è un fattore situazionale che può avere
importanti effetti sulla dinamica relazionale e di conseguenza anche sui contenuti del colloquio e sul
processo di valutazione. Per quanto possibile il setting deve restare pertanto una variabile costante
tra gli elementi stimolo dell’incontro e se è modificato, il cambiamento deve essere tenuto in
considerazione. Compito dello psicologo sarà quello di avere particolare cura nel predisporre
l’ambiente più adatto a fare sentire l’interlocutore a proprio agio.
L’ambiente fisico del setting, vale a dire la stanza entro cui si svolge il colloquio, deve permettere la
possibilità di parlare senza essere disturbati e di potersi ascoltare reciprocamente senza interferenze.
Questa stanza deve dunque avere una porta che non deve essere aperta da altre persone durante lo
svolgimento del colloquio, e un sufficiente isolamento acustico. Sembrano suggerimenti ovvi, ma
chi lavorerà nelle istituzioni pubbliche imparerà ben presto come sia difficile difendere la stanza dai
colleghi e dal personale infermieristico e amministrativo che avrà bisogno di comunicare qualcosa
di urgente, o che busseranno o entreranno alla ricerca di una stanza libera o per prendere qualche
oggetto precedentemente dimenticato, e chi giovane psicologo affitterà una stanza in un
appartamento moderno, insieme con altri colleghi, non dovrà stupirsi, se non prende adeguati
provvedimenti, di fare colloqui in stereofonia con le voci che provengono dalla stanza accanto.
Anche il telefono è un elemento di intrusione importante, e la sua presenza nella stanza non è
consigliabile. Un telefono che squilla, oltre che creare nella mente di entrambi i partecipanti fastidio
e curiosità, può interrompere una sequenza comunicativa importante; tanto più rispondere alla
telefonata di un familiare o peggio di un altro paziente può distrarre la mente dello psicologo anche
per lungo tempo, e creare nella mente del cliente dubbi sulla piena disponibilità dello psicologo
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all’ascolto e dubbi sulla sua riservatezza. In un colloquio senza queste interferenze il paziente
apprezzerà molto il constatare che siamo disponibili solo per lui e che rispettiamo la sua intimità.
Dell’aspetto fisico della stanza fanno parte anche il colore delle pareti, la luce e l’arredamento. Un
colore neutro o gradevole delle pareti e una luce non troppo intensa contribuirà a creare un ambiente
confortevole e accogliente. Per quanto riguarda l’arredamento, è bene ricordare, come segnalato in
precedenza, che è un canale di comunicazione non verbale, e che sarà recepito come tale dal cliente,
che su tale base può formarsi un pregiudizio, che assimila le caratteristiche dell'arredamento alla
competenza e alla personalità del clinico. Detto questo, un utile suggerimento per il proprio studio
privato, è quello di arredare l’ambiente secondo il proprio gusto, evitando sia un eccessivo
anonimato, sia un eccessiva pretenziosità. Due poltroncine comode, poste alla stessa altezza, né
troppo vicine alla distanza intima né troppo lontane rispetto alla distanza personale, senza
l’interposizione di una scrivania, che tuttavia difficilmente mancherà negli studi pubblici, oltre a
permettere un buono scambio comunicativo, eviteranno una definizione non verbale di dominanza
dello psicologo nella relazione.
L’ambiente fisico contribuisce, dunque, anche alla creazione dell’ambiente psicologico del setting,
ma ancora più determinante per quest’ultimo sarà la presenza dello psicologo che con la sua gestalt
(è buona regola evitare di presentarsi con aspetto trasandato, abiti troppo eccentrici o pose
stravaganti) e la sua mente può segnalare accoglimento o distanza emotiva. In un setting ottimale la
mente dello psicologo deve essere libera da preoccupazioni e pregiudizi, disponibile ad un ascolto
attento e ad un interesse genuino, consapevole del proprio stile comunicativo verbale e non verbale,
e del fatto che l’interlocutore non ci racconterà una storia che abbiamo già ascoltato, ma una nuova
storia, che forse ci ricorderà altre storie.
Qualche ultima notazione, infine, su due altri aspetti del setting: la durata dell’incontro e il prendere
appunti durante il colloquio.
Un tempo di 45-50 minuti è di solito sufficiente per acquisire informazioni, senza stancare né chi
parla né chi ascolta. Nel caso che sia necessario un ulteriore approfondimento, o che lo psicologo
ritenga opportuna una pausa di riflessione prima della restituzione, è buona regola dare un secondo
appuntamento, o anche un terzo.
Per quanto riguarda il prendere appunti durante il colloquio, l’argomento è fonte di controversia fra
chi sostiene che tale pratica permette la stesura di un resoconto cartaceo più fedele, e chi ne
sottolinea gli aspetti di interferenza sull’ascolto dello psicologo e di possibile fonte di disagio per il
paziente e di interferenza nei contenuti della sua comunicazione, se lo scrivere dello psicologo
viene interpretato come segno dell’importanza o meno di ciò che viene detto in quel momento.
Un buon compromesso può essere quello di prendere il minimo di annotazioni durante il colloquio e
il massimo dopo, monitorando le reazioni del paziente.
Ancora più controverso è l’uso della videoregistrazione del colloquio, perché all’eventuale
vantaggio della fedeltà del resoconto si contrappone lo svantaggio dell’ineludibile comparsa della
fantasia di un terzo osservatore, e ciò può alterare la relazione e la comunicazione di entrambi i
partecipanti. Tale tecnica dovrebbe essere pertanto limitata, previo consenso del interlocutore, ai
soli colloqui con fini di ricerca.
I PRELIMINARI
Riguardano il momento che va dal momento in cui per la prima volta lo psicologo sente parlare o
comunica direttamente con la persona con cui effettuerà il colloquio, al momento in cui i due
interlocutori si siedono uno di fronte all’altro.
Il paziente può arrivare al clinico tramite consiglio di un medico o di un collega, su pressione dei
famigliari, oppure di sua libera iniziativa. Può capitare, quindi, che sia il cosiddetto inviante a
parlare per primo allo psicologo dei problemi del paziente, fornendo a volte una propria diagnosi o
indicazioni su cosa si aspetta dal nostro intervento. Queste situazioni vanno attentamente valutate in
quanto possono ingenerare nello psicologo delle aspettative e dei pregiudizi che potranno interferire
con il futuro ascolto del diretto interessato; nel caso poi che l’inviante sia un genitore o il coniuge
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del paziente è bene accertare, prima di prendere un appuntamento, se l’interessato è stato informato
della telefonata e se è motivato all’incontro.
Quando è il cliente ha telefonare per chiedere l’appuntamento la situazione è più semplice, ma non
priva di potenziali insidie. Di norma la richiesta è effettuata con poche parole, e l’appuntamento può
essere fissato senza problemi, ma può capitare che la persona inizi per telefono un racconto delle
sue vicende, che costringe lo psicologo ad un gentile, ma fermo invito a rimandare ciò al momento
del colloquio. Inoltre, anche il prendere l’appuntamento può dare luogo in alcuni casi ad una
complessa trattativa, per esempio con quei pazienti per i quali qualsiasi ora o giorno è troppo tardi,
e con quelli che hanno già un impegno per ogni giorno od ora proposta. Nel primo caso è bene
aderire nei limiti del possibile all’urgenza se si ha l’impressione di un paziente gravemente
depresso, consigliare il nome di uno psichiatra se percepiamo un rischio di scompenso psicotico, e
restare fermi sull’ora libera più vicina per le altre situazioni. Nel secondo caso sarà inevitabile che
nella mente dello psicologo si formi, una sensazione di fastidio e un pregiudizio sulle reali
motivazione del suo interlocutore.
Ulteriore momento di questa fase preliminare è quello dell’arrivo del paziente nella stanza del
colloquio e l’incontro con lo psicologo. Come in ogni appuntamento ci sarà la persona che arriverà
all’ora stabilita spaccando il secondo, chi arriverà in anticipo e chi con variabile ritardo, e la
possibilità che ciò corrisponda ad un tratto caratteriale si affaccerà nella mente dello psicologo. A
ciò seguirà l’incontro fisico, l’eventuale proposta di stretta di mano o qualche segnale non verbale
di non desiderarla, la visione del volto, dell’aspetto fisico e del modo di vestire ecc. che potranno
veicolare messaggi sullo stato d’animo, sulla capacità di prendersi cura di sé, sul piacere o sulla
vergogna dell’esibirsi, e quant’altro. Tutto questo è di nuovo fonte di pregiudizi che uno psicologo
clinico esperto dovrà trasformare come quelli considerati in precedenza come ipotesi al momento
senza conferma.
LA FASE INIZIALE
Una volta che il paziente si è seduto di fronte allo psicologo inizia il colloquio clinico vero e
proprio. Se abbiamo ricevuto delle informazioni sul paziente da altre persone è sempre meglio
comunicarle al paziente all’inizio del colloquio, così come è consigliabile chiarire i limiti temporali
e le modalità con cui si svolgerà il colloquio.
La fase iniziale del colloquio (che può durare pochi minuti, o occupare quasi tutto il tempo di un
primo incontro) deve essere dedicata prevalentemente all’ascolto di ciò che il cliente desidera
spontaneamente dire sui motivi che lo hanno indotto a consultare uno psicologo, e all’osservazione
della dinamica relazionale che propone, ed eventuali richieste di chiarimenti devono essere
rimandate ad un momento successivo. Compito dello psicologo sarà quello di facilitare la
comunicazione e una adeguata dinamica relazionale, dimostrando attenzione ed interesse, e
contemporaneamente raccogliere gli elementi che provengono dalle parole del paziente,
dall’osservazione del comportamento non verbale e dal proprio vissuto emotivo.
L’uso del “lei” di cortesia è prassi abituale nei colloqui con gli adulti, e la richiesta dell’uso del “tu”
da parte di giovani adulti, va sempre valutata per il possibile significato di attuazione di una misura
di sicurezza.
Di solito è sufficiente un cenno della mano per dare inizio alla conversazione, ma se lo psicologo
nota qualche difficoltà può incoraggiare il proprio interlocutore con frasi del tipo: “Qual è il motivo
che la spinta a chiedere quest’incontro”, o, “Mi racconti cosa la preoccupa”, ecc.. Un silenzio
prolungato all’inizio del colloquio è un’evenienza rara, se accade, di solito è un segno di uno stato
di angoscia, la cui origine è bene esplorare subito, o di una motivazione estrinseca.
I contenuti della comunicazione del paziente saranno, ovviamente, i più vari, tuttavia vi sono alcune
aperture del discorso che ricorrono con frequenza (Semi, 1985). Una prima apertura tipica è quella
del comunicare subito i sintomi o il problema, proseguendo poi con qualche racconto che li
contestualizza; in alcuni casi alla descrizione dei sintomi segue il silenzio e l’attesa di un intervento
dello psicologo, che dia un senso a qualcosa che viene vissuto come incomprensibile (per es. un
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attacco di panico), ed estraneo a se stessi e alla propria storia. Una seconda apertura tipica è quella
di chi inizia con un preambolo che può riguardare la propria storia passata o qualche evento del
contesto di vita presente. Questo preambolo quasi sempre è indicativo di una connessione causale,
proposta più o meno consapevolmente dal cliente, fra il contesto storico o l’evento di vita presente e
il motivo della consultazione. In qualche caso il preambolo consiste nel comunicare il nome del
collega o del medico inviante, o dell’amico che ha suggerito il nome dello psicologo, forse anche
nella speranza di ottenere una maggiore attenzione.
Per quanto riguarda le caratteristiche delle dinamiche relazionali che si possono attivare nel corso di
questa prima parte del colloquio, molto è già stato detto nella parte generale di questo scritto, ed è
sufficiente ribadire l’attenzione particolare a non instaurare atteggiamenti collusivi di fronte
all’attivazione di misure di sicurezza, o di atteggiamenti transferali che veicolano la richiesta allo
psicologo di assumere il ruolo del genitore che conforta e solleva da ogni preoccupazione, o del
medico che con una ricetta risolve ogni male, o del giudice che può decretare la colpa della persona
o rendere giustizia per i torti subiti.
LA FASE CENTRALE.
Inizia nel momento in cui nella mente dello psicologo cominciano ad apparire in modo
sufficientemente chiaro delle idee sotto forma di ipotesi e fantasie; idee che nascono da una prima
valutazione delle comunicazioni del paziente e dalle sensazioni prodotte dalla dinamica relazionale;
idee che sono filtrate dalla propria esperienza di vita, dalla pratica clinica e dalla propria teoria di
riferimento, e che produrranno il desiderio di approfondire qualcosa che il paziente ha detto, o di
avere qualche informazione in più sulla vita del paziente.
La fase centrale, dunque, concerne soprattutto la richiesta e la raccolta di informazioni su queste
aree che lo psicologo vuole approfondire, o che non sono emerse durante il resoconto spontaneo del
paziente, e che sono ritenute utili alla comprensione del problema che ha condotto il cliente ad
interpellarlo. Il colloquio in questa fase tenderà di conseguenza ad assumere le caratteristiche del
colloquio orientato, perché la comunicazione sarà guidata dalle ipotesi e dalle opinioni che lo
psicologo si è costruito nella fase iniziale, e alcune delle aree esplorate potranno in parte coincidere
con quelle dell’esplorazione biografica di un’intervista anamnestica (per es. eventi di vita rilevanti
dell’infanzia e del presente e risorse del paziente nel farvi fronte, composizione e clima affettivo
della famiglia di origine, vita affettiva e lavorativa attuale, relazioni sociali ecc.). Assume inoltre
rilievo lo scopo del colloquio.
Il porre domande apparentemente è una cosa semplice, ma nei fatti non lo è. Innanzitutto lo
psicologo deve avere ben chiaro cosa vuole chiedere e a che scopo, e fare attenzione che a che le
domande non suonino inquisitorie per il paziente o inutilmente intrusive. Una buona conoscenza
della funzioni delle domande e del corretto modo di formularle è sicuramente di aiuto. Giovannini
(1998) così le sintetizza:
Funzione delle domande nel colloquio clinico
La funzione principale delle domande in un colloquio clinico è quella di ottenere informazioni da
parte dell’intervistato. Indipendentemente dalla volontà dell’intervistatore le domande possono
assolvere anche altre funzioni:
- Focalizzano l’attenzione dell’intervistato sull’oggetto della domanda. Viene cioè indicato
indirettamente che riteniamo importante l’argomento.
- Possono mettere in rilievo nessi fra aree tematiche o fra vari aspetti di una situazione.
- Possono creare un ordine nella successione degli avvenimenti.
- Possono orientare sulla causa, sullo scopo, sul modo.
- Possono spostare l’osservazione dal generale al particolare e viceversa.
- Possono avere una funzione di punteggiature all’interno della relazione, introducendo un
cambiamento d’argomento o di clima emotivo.
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- Possono essere utilizzate per modificare la comunicazione dell’intervistato quando il soggetto è
incapace o vuole evitare di mettere a fuoco una determinata questione o quando una comunicazione
eccessivamente verbosa, senza pause, e non significativa ai fini dello scopo del colloquio viene
utilizzata come misura di sicurezza.
- Possono veicolare un giudizio o un’aspettativa dell’intervistatore.
Formulazione delle domande
- Meglio porre una domanda per volta. Le domande costituite da più parti producono confusione e
possono rendere inutilizzabile una risposta sintetica.
- Devono essere chiare, prive di ambiguità e poste con termini semplici e lentezza, senza dare cose
per scontate.
- Evitare frasi, termini, aggettivi o elementi paralinguistici che indichino valutazioni e preferenze
dell’intervistatore.
- Avere chiaro che cosa si vuole ottenere da ogni domanda.
- Evitare l’uso della negazione perché può orientare la risposta, e della doppia negazione perché può
generare incomprensione e può essere difficile valutare il si o il no della risposta.
- Evitare le domande retoriche o che in ogni modo mascherino un’affermazione.
- Quando possibile introdurre la domanda con il come piuttosto che con il perché (es. come è
avvenuta la sua scelta… piuttosto che perché ha scelto…). L’espressione perché.. può avere una
connotazione inquisitoria e può apparire una richiesta di giustificazione, inoltre il soggetto potrebbe
non conoscere la risposta e attenderla dallo psicologo.
Quando desideriamo approfondire il tema verbalizzato dall’intervistato senza rimandare la domanda
ad un momento successivo è utile utilizzare una delle tecniche di rilancio:
- Semplice ripresa del contenuto (per es. In che senso…; Può dirmi qualcosa di più.. ; Vorrei capire
meglio..).
- Il rilancio a specchio, che consiste nella ripetizione ad eco di una frase, o di un concetto, o delle
ultime parole pronunciate dall’intervistato.
- Riassunto sintetico delle ultime cose dette (per es. Se ho capito bene..; Per riassumere..; Mi
sembra che lei mi abbia detto..). Si usa quando si fa riferimento a concetti o frasi troppo articolate
per un rilancio a specchio, o quando si vuole introdurre un nuovo tema puntualizzando la
connessione, o vogliamo anche un riscontro della nostra comprensione di quanto detto. Se lo
riteniamo utile possiamo anche anticipare ciò che l’intervistato ha quasi detto.
LA FASE CONCLUSIVA
E’ il momento della restituzione, o in altre parole il momento in cui lo psicologo, tenendo conto del
motivo per cui è stato consultato, comunica all’intervistato le impressioni che ha tratto dal colloquio
e le conclusioni cui è giunto. Può essere effettuata prima del termine del colloquio o in un incontro
successivo. Una buona restituzione può avere un importante valore terapeutico e può fornire
ulteriori elementi di valutazione; necessita pertanto di un adeguato spazio di tempo e deve essere
condotta seguendo alcuni criteri:
- Evitare il linguaggio tecnico che può essere frainteso o non capito.
- Attenersi il più possibile al linguaggio e all’esperienza del soggetto, aderendo il più possibile ai
dati del colloquio per oggettivare quanto si sostiene.
- Evitare qualsiasi dogmatismo e genericità.
- Non comunicare troppe cose tutte assieme.
- Scegliere cosa dire sulla base di cosa l’intervistato è in grado di utilizzare, comunicando con tatto
e contatto, evitando di intellettualizzare o di essere troppo protettivo.
- Sul piano della forma, solitamente è bene proporre la restituzione sotto forma di ipotesi con
richiesta di feedback. In alcuni casi (timore di una sottovalutazione di un problema serio; uso da
parte dell’intervistato del dubbio in forma ossessiva; necessità di un intervento immediato) può
essere necessario essere fermi e procedere per affermazioni.
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- Il motivo della consultazione, la storia della persona e la situazione di vita del momento può
orientare la ricostruzione nel senso di una restituzione di tipo ricostruttivo globale, tendente cioè a
fornire una lettura del problema attuale in relazione con le vicende affettive e relazionali della storia
dell’intervistato, o mirata su un aspetto specifico ripetitivo nella vita della persona, o dominante
nella situazione attuale.
Il feedback del paziente all’intervento di restituzione può fornire nuove ed importanti informazioni
che possono integrare le ipotesi dello psicologo. Al di là di questo, è bene stimolare il paziente ad
esprimere la propria opinione su quanto detto, per avere un riscontro di quanto è stato compreso e di
quanto è stato frainteso o non recepito.
Gli ultimi minuti sono inoltre un’occasione importante per valutare il modo in cui un paziente si
confronta con l’ansia di separazione. Indizi della presenza di difficoltà sono per esempio anticipare
lo psicologo nel decretare la fine del colloquio, o il protrarre la conversazione sulla soglia dello
studio.
Il colloquio non finisce con l’uscita del paziente dalla stanza, in quanto sia il paziente sia il
terapeuta possono continuare a pensare a quanto è successo: nuove connessioni possono venire in
mente, dubbi o perplessità posso sorgere. Se il colloquio è stato proficuo, lo psicologo avvertirà la
sensazione di avere fatto bene il suo lavoro, e il paziente se ne andrà con la consapevolezza di una
visione differente della sua situazione e della possibilità di ricevere aiuto per le sue difficoltà.
Testi di riferimento e di approfondimento
Baldaro B., Baldoni F., Ravasini C. Il colloquio clinico. In G. Trombini (A cura di). Introduzione
alla clinica psicologica. Bologna: Zanichelli, 1998.
Del Corno F., Lang M. (A cura di). Elementi di psicologia clinica. Milano: Franco Angeli, 2005.
Del Corno F., Lang M. (A cura di). La relazione con il paziente. Milano: Franco Angeli,1996.
Del Corno F., Lang M. (A cura di). Modelli di colloquio in psicologia clinica. Milano: Franco
Angeli,1997.
Giovannini D ( A cura di) Colloquio psicologico e relazione interpersonale. Roma: Crrocci, 1998.
Lis A., Venuti P., De Zordo M.R. Il colloquio come strumento psicologico. Firenze: Giunti, 1991.
Quadrio A. Il colloquio in psicologia. Bologna: Il Mulino, 1997.
Semi A.A. Tecnica del colloquio. Milano: Cortina, 1985.
Trentini G. (A cura di). Manuale del colloquio e dell’intervista. Torino: UTET, 1995.
Trentini G. (A cura di). Teoria e prassi del colloquio e dell’intervista. Roma: La Nuova Italia
Scientifica, 1989.
48
I TEST PSICOLOGICI
INTRODUZIONE
DEFINIZIONE DI TEST
Un test psicologico è una tecnica standardizzata di valutazione, che permette di posizionare un
individuo, relativamente ad una data caratteristica psicologica, all’interno dello spettro di variabilità
che quella caratteristica possiede nella popolazione.
USO DEI TEST IN PSICOLOGIA CLINICA
I test in psicologia clinica possono essere utilizzati per: valutare il funzionamento psichico, normale
o patologico, o singole funzioni di esso; rilevare tratti di personalità che si presume siano predittivi
di comportamenti futuri, normali o patologici. I test, dunque, forniscono dati per:
- formulare una diagnosi.
- individuare il trattamento più adeguato per quel determinato paziente od il punto focale del
trattamento.
- valutare l’andamento del trattamento od il suo esito finale in termini di miglioramento della
funzione esaminata.
- effettuare uno screening1, ad esempio all’interno del metodo epidemiologico.
SCELTA DEL TEST
Le scelta dell’utilizzo di un test o di una batteria di test non deve seguire le “simpatie” dello
psicologo clinico, ma deve essere effettuata in base al tipo di informazione che si vuole ottenere ed
in base all’obiettivo per il quale è stato richiesto l’uso del test. Prima di utilizzare qualsiasi test lo
psicologo clinico dovrebbe conoscerne l’orientamento teorico, le caratteristiche pratiche, la
validità, l’attendibilità e la standardizzazione.
Orientamento teorico
Ogni test ha come suo fondamento la definizione del costrutto teorico all’interno del quale è inserita
la variabile che si vuole misurare2, ed è costruito, per esempio, sulla base di specifici modelli
descrittivi o esplicativi della personalità e del disturbo psichico. Pertanto ciascun test può dare solo
un predeterminato tipo d’informazione, che a sua volta assume senso solo se è inserita all’interno di
un paradigma compatibile con quello che è alla base della costruzione del test.
Caratteristiche pratiche
Quando si sceglie di applicare un test è necessario domandarsi prima se il paziente è in grado di
comprendere ed eseguire quel determinato test, e se la preparazione di chi lo somministra è
adeguata.
La validità di un test
Per validità si intende il fatto che un test misuri effettivamente la caratteristica presa in
considerazione: se intendo valutare la presenza o meno di sintomi d’ansia, lo strumento che ho a
disposizione deve essere adeguato a tale scopo. Esistono diversi tipi di validità:
Validità di contenuto
È determinata valutando se un test prende in esame tutti i possibili aspetti del fenomeno che vuole
misurare. Nel caso dell’ansia, per esempio, il questionario dovrebbe prevedere domande che spazino
dagli aspetti più strettamente biologici e fisiologici a quelli che riguardano le disfunzioni affettive e
comportamentali.
1
diagnosi precoce per rilevare soggetti a rischio o portatori di malattia.
in testologia si intende le corrispondenza tra fatto empirico e numero, dove il numero non indica una quantità ma una
posizione (vedi definizione di test).
2
49
Validità predittiva
Corrisponde alla capacità di un test di prevedere qualcosa che riguarda il futuro dei soggetti in esame
sulla base dei risultati ottenuti dal soggetto al test (per es. la capacità di predire l’andamento di un
disturbo o l’esito di una terapia).
Validità concorrente\discriminante.
Per valutare la validità concorrente (o concomitante)/discriminante ci si basa su un confronto
contemporaneo con altri strumenti che misurano la stessa variabile (ad es. punteggi ad un test
d’ansia confrontati con i valori della misura della conduttanza cutanea) o una variabile opposta (ad
es. uno strumento che misura l’estroversione deve dare risultati diversi da quelli di uno strumento
che misura l’introversione; se i risultati fossero parzialmente sovrapponibili dedurremmo che
entrambi gli strumenti o uno di essi non riesce a cogliere in maniera esclusiva la variabile indagata).
Validità di costrutto.
Prevede un esame attento del costrutto teorico che sta alla base del test, per esempio, nel caso di un
test che valuta la depressione, una disamina di una serie di variabili previste dal costrutto, come ad
esempio eventi stressanti recenti, esperienze di perdita o di separazione nell’infanzia, tendenza ad
assumersi la responsabilità per gli eventi negativi, ideali di comportamento poco realistici ecc.; il
passo successivo prevede delle ricerche atte a confermare la relazione fra i risultati al test e le
variabili dedotte dal costrutto. Questa procedura comporta una approfondita conoscenza della
dimensione psicologica che il test intende valutare ed sicuramente di non facile applicazione, ma
consente sia un’efficace validazione del test, sia una verifica importante di una teoria.
Attendibilità di un test
Questa proprietà che deve possedere un test è indicata anche con i termini di affidabilità, fedeltà,
replicabilità. Un reattivo viene considerato attendibile quando, applicato in tempi diversi alla stessa
persona (anche da parte di persone diverse e in luoghi differenti) dà risultati simili. Un certo grado
di variabilità nei punteggi è comunque ineliminabile (per es. a causa di errori di somministrazione,
caduta di attenzione del testando, condizioni ambientali diverse, intrinseca poca stabilità nel tempo
della condizione psicologica esaminata, come nel caso dell’ansia), per cui la valutazione
dell’attendibilità si basa su una stima del grado di stabilità dei risultati, saggiata seguendo quattro
possibili metodi.
1) Metodo del test-retest: consiste nell’applicare, a distanza di tempo, due volte lo stesso test ad un
gruppo di soggetti e nel calcolare il coefficiente di correlazione per determinare il grado di
concordanza dei risultati ottenuti nelle due applicazioni. Più alta è la correlazione e tanto
maggiore è l’attendibilità del test. Questo metodo è influenzato dal tempo che intercorre fra le
due somministrazioni a causa delle vicende di vita che possono accadere o dell’evolvere di una
psicopatologia.
2) Metodo delle forme parallele: richiede la costruzione di due versioni comparabili del test, che
sono somministrate ad uno stesso gruppo una di seguito all’altra, o comunque senza frapporre
un ampio intervallo di tempo. Il coefficiente di correlazione fra i due test darà una stima
dell’attendibilità. Si applica per motivi di praticità, o quando si vogliono evitare le distorsioni
del metodo del test-retest, evitando parimenti che i soggetti rispondano ricordando le risposte
alla prima prova.
3) Metodo della divisione a metà (split half): l’insieme delle varie prove o degli item che formano
un test viene diviso in due parti in modo tale che si possano considerare come due forme
parallele, anche se ridotte, del test originale. Il coefficiente di correlazione fra i punteggi delle
due metà del test darà una stima dell’attendibilità, o per meglio dire in questo caso della
50
coerenza interna del test. Il metodo della coerenza interna può anche essere applicato alle
risposte date ai singoli item attraverso il calcolo dell’alfa di Cronbach.
4) Metodo della concordanza dei giudizi: si applica quando il risultato di un test si basa sul
giudizio del clinico o comunque implica un certo grado di soggettività nell’assegnazione dei
punteggi. Il metodo si basa sulla valutazione del grado di concordanza tra i giudizi espressi da
operatori diversi sulle prove di uno stesso gruppo di soggetti.
Standardizzazione
La standardizzazione implica la predeterminazione delle norme e delle procedure che riguardano la
somministrazione, la siglatura, la valutazione e l’interpretazione del test, regole che devono restare
costanti per evitare il bias3 dato da chi somministra, sigla e interpreta il test. La standardizzazione di
un test comporta dunque:
1) Che le istruzioni siano uguali per tutti i soggetti.
2) Che tutti i soggetti vengano sottoposti con modalità costanti alle stesse domande, alle stesse
prove, o alle stesse situazioni stimolo.
3) Che l’attribuzione dei punteggi o la siglatura del test sia definita in anticipo e in modo chiaro.
4) Che siano disponibili i dati normativi relativi alla popolazione generale a cui il soggetto
sottoposto al test appartiene. Senza questi dati non sarebbe possibile dare significato alla
siglatura del test.
3
deviazione sistematica rispetto ad un andamento generale, in questo caso l’intervento della variabile sperimentatore.
51
I TEST PROIETTIVI DI PERSONALITÀ
I test proiettivi sono strumenti di valutazione della personalità e della psicopatologia, che si
avvalgono di stimoli standardizzati poco strutturati, vaghi e senza un significato determinato, e
che lasciano al soggetto ampia libertà nella risposta, secondo il senso che lo stimolo ha per lui. Il
razionale di questi test si fonda sull’ipotesi proiettiva (da non confondere con il meccanismo di
difesa della proiezione), che presuppone che le persone percepiscono e organizzano, in modo
inconsapevole, gli stimoli dell’ambiente, e in particolare quelli ambigui, secondo le proprie
memorie, desideri, sentimenti, timori, bisogni, conflitti ecc.., per cui le risposte fornite al test
sarebbero indicative della personalità dell’esaminando. I test proiettivi sono utilizzati
prevalentemente dai clinici di orientamento psicodinamico, perché permettono di evidenziare
aspetti della personalità non consapevoli e pertanto non evidenziabili con i questionari di
autovalutazione. Presentano tuttavia importanti limiti che riguardano la validità, attendibilità e
standardizzazione, e pertanto dovrebbero essere somministrati da clinici con notevole esperienza e
specifica preparazione. I test proiettivi a disposizione degli psicologi sono molti, nel nostro corso
ci soffermeremo su due dei più noti e utilizzati nella pratica clinica: il test di Rorschach e il TAT
(Tematic Apperception Test).
IL TEST DI RORSCHACH
Il test di Rorschach è il più noto ed usato test proiettivo in psicologia clinica. Fu ideato dallo
psichiatra svizzero Hermann Rorschach, inizialmente per studiare la relazione fra percezione e
personalità, e successivamente, quando notò che le risposte erano influenzate anche da vissuti
personali e dalla presenza di una psicopatologia, per ottenere indicazioni diagnostiche a partire dal
modo in cui i soggetti interpretano gli stimoli proposti.
Il test è composto da 10 tavole, in cui, su sfondo bianco, sono riprodotte delle immagini ottenute
lasciando cadere delle gocce d’inchiostro su un foglio di carta che successivamente veniva piegato
in due per ottenere due immagini simmetriche rispetto ad un asse centrale. Sette tavole sono di
colore grigio e nero, in due di queste è presente anche il colore rosso, e tre tavole sono variamente
colorate. Le tavole sono di forma rettangolare, con lato superiore ed inferiore prestabiliti.
Dopo la prematura morte di Rorschach, la mancanza di criteri chiari relativi alla somministrazione,
siglatura e interpretazione del test, ha dato luogo a modi diversi di utilizzarlo, e solo negli anni ’70
le ricerche di Exner hanno portato ad un sistema di somministrazione standardizzato, ad una
siglatura condivisa e ad un data base normativo che permette un confronto fra le risposte
dell’esaminando e il suo gruppo d’appartenenza (Sistema Comprensivo di Exner). Il sistema di
Exner, che propone una interpretazione del test prevalentemente di tipo quantitativo e ateorico, ha
migliorato le caratteristiche psicometriche di attendibilità e validità dello strumento, e per questo
negli ultimi anni il suo utilizzo, specialmente nell’ambito della ricerca si sta sempre più
diffondendo. Molti clinici, in particolare quelli ad orientamento psicodinamico, ritengono tuttavia
che l’approccio di tipo quantitativo porti ad una sostanziale riduzione delle informazioni che il test è
in grado di dare, e per questo preferiscono usare metodi intrerpretativi, come quello della scuola
svizzera di Passi Tognazzo o quello di Lerner che integra l’approccio quantitativo con una
interpretazione qualitativa collegata ad un modello teorico.
Somministrazione
La tecnica consigliata prevede che la somministrazione del test avvenga in una stanza ben
illuminata, con esaminando e psicologo seduti ad angolo retto allo stesso tavolo, sul quale sono
preparate capovolte e in ordine prefissato le dieci tavole del test.
Una breve istruzione (Ora le mostrerò delle tavole e lei mi dirà cosa potrebbero essere),
accompagna il gesto di porre nelle mani dell’esaminando la prima tavola, e da inizio alla prova. Il
52
soggetto è libero di dare più risposte, anche se questo non viene precisato se non su precisa
domanda (Exner ha proposto un elenco delle domande più frequenti e delle risposte più opportune).
Durante la somministrazione delle tavole lo psicologo annota, nella prima di tre colonne di un
foglio di registrazione, tutte le risposte, la posizione della tavola al momento della risposta, il tempo
totale del test (alcuni autori registrano anche il tempo che intercorre fra la presentazione di ogni
tavola e la prima risposta alla stessa), ed eventuali commenti ed espressioni del viso
dell’esaminando. In caso di non risposta ad una o più tavole, Exner propone di incoraggiare il
soggetto a rispondere, mentre altri autori sono dell’opinione di accettare il rifiuto senza commenti.
Al termine della presentazione delle 10 tavole, è prevista un’inchiesta finalizzata a chiarire
eventuali dubbi relativi a quale parte della tavola si riferisca una determinata risposta, e a quali
siano state le caratteristiche della macchia che hanno determinato la risposta. Le risposte
dell’esaminando sono annotate sulla seconda colonna del foglio di registrazione. Infine, una volta
congedato l’esaminando, lo psicologo procede alla siglatura delle risposte, che viene annotata nella
terza colonna del foglio di registrazione.
Siglatura
Tutti gli autori concordano su una classificazione di ogni risposta secondo tre dimensioni di base
(localizzazione, determinanti e contenuto), a cui si aggiunge una quarta dimensione relativa alla
frequenza statistica della risposta. Vi sono peraltro divergenze, a seconda delle varie scuole di
pensiero, sul numero di categorie che fanno parte delle tre dimensioni principali, sulle sigle
utilizzate per indicare le singole categorie, e su eventuali dimensioni aggiuntive. In Italia la maggior
parte dei clinici ha come riferimento il metodo di siglatura della scuola svizzera di Passi Tognazzo,
negli ultimi anni si sta peraltro diffondendo il metodo di siglatura di Exner, mentre alcuni clinici di
orientamento psicoanalitico preferiscono utilizzare la siglatura di Lerner .
Metodo di Passi Tognazzo
Comporta la siglatura delle risposte in base alla localizzazione, alle determinanti, ai contenuti, e alla
frequenza statistica.
Localizzazione: comporta la siglatura della risposta secondo l’area della tavola a cui si riferisce
(l’intera figura o dettagli più o meno grandi).
G: è primario quando la risposta è relativa alla macchia nella sua totalità e risulta da un unico atto
percettivo (es. farfalla alla Tav. I). Può essere anche simultaneo (la risposta globale è costruita con
più elementi percepiti simultaneamente, es. due angeli che sollevano una donna alla Tav. I) o
combinatorio (quando gli elementi vengono uniti successivamente, es. alla Tav. VIII due orsi, al
centro un albero. Gli orsi si stanno arrampicando su un albero appoggiandosi su una roccia).
DG: risposta globale costruita a partire da un dettaglio (es. alla Tav. V un coniglio, a partire dalla
testa con le orecchie). È confabulatoria se non considera la forma delle altre parti dell’insieme (es.
alla Tav. V una lumaca, a partire dalla testa con le corna).
DdG: risposta globale costruita a partire da un dettaglio piccolo (es.alla Tav. VI un gatto, a partire
dai baffi).
Gbi: risposta globale in cui le parti bianche assumono il ruolo di completamento della figura ( es.
alla Tav. I muso di animale, dove i dettagli bianchi interni sono gli occhi)
Γ: risposta globale incompleta (es. alla tavola II non sono considerati i rossi superiori)
53
D: quando riguarda un dettaglio grande che per la sua forma e posizione costituisce una unità a sé
(es. farfalla Tav. III rosso centrale), o quando un dettaglio piccolo è interpretato molto di frequente.
Dd: quando riguarda un dettaglio piccolo interpretato poco frequentemente.
DdD: se la risposta dettaglio è costruita a partire da un dettaglio piccolo (es. Tav. VI testa di gatto, a
partire dai baffi).
Dbi: quando riguarda uno spazio bianco (es. trottola Tav. II bianco centrale). DbiD o DbiDd se lo
spazio bianco contribuisce ad una risposta di dettaglio grande o piccolo.
Do: parte di una figura umana che di solito viene vista completa (es. Tav. III teste di uomini).
Determinanti: la siglatura si riferisce alla caratteristica della tavola che ha determinato la risposta (la
forma , il colore, il movimento, o il chiaroscuro).
F: quando è la forma della macchia o della parte della macchia a determinare la risposta. È la
determinante più frequente; l’aggiunta dei segni + e – indica inoltre la qualità della percezione, a
seconda che la risposta corrisponda sufficientemente o meno alla forma della macchia.
M: quando la risposta si riferisce ad una figura umana vista in movimento (es. Tav. due uomini che
sollevano qualcosa). Se la figura è un animale la siglatura è FM, se è un oggetto inanimato la
siglatura è m ( es. vulcano in eruzione).
C: quando è il colore a determinare in modo esclusivo la risposta (es. sangue, erba); la siglatura FC
è utilizzata quando la risposta è stata determinata primariamente dalla forma e secondariamente dal
colore, mentre si sigla CF quando il colore predomina sulla forma, e Cn se il colore è solo
nominato.
Cho: quando è solo l’impressione del chiaroscuro diffuso a determinare la risposta (nebbia, fumo);
quando la forma concorre nel determinare la risposta si utilizzano le siglature FCho e ChoF, se
sono le diverse sfumature di grigio a determinare la risposta si sigla F(C)).
Contentuti: la siglatura consiste nell’indicazione della classe di appartenenza di ciò che
l’esaminando ha visto nella tavola. Le categorie più comuni sono siglate per mezzo di
abbreviazioni:
A: contenuto animale (es. un pipistrello), Ad se la risposta si riferisce solo ad una parte di un
animale (es. la testa di…)
U: contenuto umano, Ud se si riferisce solo ad una parte del corpo, (U) se si riferisce a esseri
fantastici.
Anat: parti interne del corpo (per es. colonna vertebrale).
Sex: indica una risposta a contenuto sessuale.
Ogg: oggetti o cose inanimate.
Pt: sta per pianta e si riferisce a risposte a contenuto vegetale.
Nat: sta per natura e si riferisce a risposte tipo montagna, lago ecc.
Arch: sta per architettura e si riferisce a risposte tipo chiesa, monumento ecc.
Geo: indica una risposta geografica tipo isola ecc.
Altre risposte si segnano senza abbreviazioni (es. sangue, nuvole ecc.).
Frequenza statistica: alcune risposte possono essere classificate in base alla loro frequenza in una
data popolazione in banali (Ban), che sono risposte date da almeno un soggetto su sei (è disponibile
un elenco), e originali (Orig), cioè risposte che compaiono raramente e che sono siglate con un + o
con un – a seconda della qualità della forma.
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Metodo di Exner
Il sistema comprensivo di Exner prevede una siglatura di ogni risposta secondo cinque dimensioni:
localizzazione, qualità evolutiva, determinanti, qualità formale, contenuto.
Localizzazione: si riferisce alla parte della macchia che corrisponde alla risposta.
W: risposta globale.
D: risposta di dettaglio comune (area della macchia identificata di frequente).
Dd: risposta di dettaglio inconsueto.
S: risposta di spazio bianco
Qualità evolutiva: si riferisce alla qualità dell’organizzazione della risposta.
DQ+: risposta sintetizzata (due o più parti della macchia sono descritte con forme specifiche e in
relazione fra loro, ad es. due uomini che ballano attorno ad un palo).
DQv/+: risposta sintetizzata di tipo vago (due o più parti della macchia sono descritte senza forma
specifica e in relazione fra loro, ad es. nuvole che si muovono).
DQo: risposta ordinaria (la risposta è relativa ad un’area specifica della tavola che ha una forma che
ben si adatta al contenuto espresso, ad es. farfalla).
DQv: risposta vaga (ciò che viene visto non ha una forma specifica).
Determinanti: caratteristica della tavola che ha determinato la risposta (la forma , il colore, il
movimento, o il chiaroscuro).
F: risposta basata esclusivamente sulla forma della macchia.
M: risposta di movimento umano, FM se di movimento animale, m se di movimento inanimato. Il
movimento viene specificato in attivo o passivo.
C: risposta di colore cromatico puro (es. sangue), CF se il colore è associato alla forma (verde come
una foglia), FC se la forma è associata al colore (es. farfalla rossa), Cn se il colore è solo nominato.
C’: risposta di colore acromatico puro (il grigio, il bianco, o il nero sono intesi come colori, es.
fango nero), C’F se il colore acromatico è associato alla forma (es. pezzo di carbone nero), FC’ se
la forma è associata al colore acromatico (es. pipistrello nero).
Y: risposta di chiaroscuro puro (es. il crepuscolo), YF se il chiaroscuro puro è associato alla forma
(es. radiografia con diverse sfumature), FY se la forma è associata al chiaroscuro puro (nuvole
chiare e scure).
T: risposta chiaroscuro tattile pura (qualcosa di appiccicoso), TF se si associa alla forma (es. pelle
liscia), FT se la forma si associa al chiaroscuro tattile (es. mantello di pelliccia).
V: risposta che interpreta il chiaroscuro come effetto di profondità o dimensionalità (questa parte è
più in basso o sporgente), VF o FV se è associata alla forma.
FD: risposta di dimensionalità basata sulla forma pura (es. uomo inclinato all’indietro).
Fr: risposta di forma vista come immagine riflessa o speculare.
Qualità formale: codifica la bontà o la povertà della forma quando nella risposta, qualsiasi sia la
determinante è presente una forma più o meno specificata.
FQ+: qualità formale superiore superelaborata.
FQo: qualità formale ordinaria.
FQu: qualità formale singolare o insolita.
FQ-: qualità formale negativa.
Contenuti: codifica sulla base della classe di appartenenza dell’oggetto della risposta. Sono previste
sigle per 27 classi di contenuti.
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Alcune risposte sono valutate in base ad ulteriori categorie, quali: risposte Pari (risposte che
basandosi sulla simmetria delle macchie descrivono oggetti identici che non sono visti come figure
riflesse), risposte Popolari (risposte che compaiono in almeno un protocollo su tre), Attività
organizzativa (riguarda le risposte che includono la forma e che soddisfano alcuni specifici criteri),
siglature speciali che includono verbalizzazioni devianti, combinazioni inappropiate, logica
inappropiata ecc..
Metodo di Lerner
Comporta la siglatura delle risposte in base alla localizzazione, alle determinanti, al livello formale
ai contenuti, e alle verbalizzazioni devianti.
Localizzazione: siglatura della risposta secondo l’area della tavola a cui si riferisce (l’intera figura o
dettagli più o meno grandi).
W: quando la risposta è relativa alla macchia nella sua totalità.
D: quando riguarda un dettaglio grande identificato di frequente.
Dd: quando riguarda un dettaglio piccolo.
Dr: dettaglio raro.
De: dettaglio esterno (non si riferisce ad un’area vera e propria, ma a una parte del contorno).
S: quando riguarda uno spazio bianco.
Do: dettaglio oligofrenico (area della macchia che di solito è vista come parte di una risposta
globale o di dettaglio grande).
Determinanti: la siglatura si riferisce alla caratteristica della tavola che ha determinato la risposta.
F: quando è la forma della macchia o della parte della macchia a determinare la risposta.
M: quando la risposta si riferisce ad una figura umana vista in movimento. Se la figura è un animale
la siglatura è FM.
C: quando è il colore a determinare in modo esclusivo la risposta; la siglatura FC è utilizzata
quando la risposta è stata determinata primariamente dalla forma e secondariamente dal colore,
mentre si sigla CF quando il colore predomina sulla forma.
Cc: colore sfumato. Si usa quando la tessitura o la gradazione contribuisce alla risposta colore (es.
sangue annacquato). Le siglature FCc e CFc segnalano il contributo della forma alla risposta.
Ch: quando è solo l’impressione del chiaroscuro diffuso a determinare la risposta (es. nebbia, tutto
e confuso con questo chiaroscuro); quando la forma concorre nel determinare la risposta si
utilizzano le siglature FCh (es. pelle di animale, per il contorno e perché sembra peloso) e ChF (es.
nuvole, sembrano morbide e hanno il contorno delle nuvole).
Fcarb: forma colore arbitrario, si usa quando il colore è incompatibile con la forma (es. orsi rossi).
C’: risposta di colore acromatico (es. colore nero), C’F se il colore acromatico è associato alla
forma (es. nuvole tempestose, sono nere e hanno il contorno delle nuvole), FC’ se la forma è
associata al colore acromatico (es. pipistrello nero).
Fc: quando il chiaroscuro è usato per articolare una risposta forma (es. una faccia, la parte più scura
è la bocca e queste macchie più chiare sono gli occhi).
Livello formale: si riferisce al grado di pertinenza percettiva fra la risposta e la sua localizzazione,
indica cioè la buona definizione o la vaghezza della risposta fornita.
F+: risposta convincente, accuratamente percepita e ben articolata.
Fo: risposta accurata, ma che viene vista comunemente.
Fw+: risposte vaghe, ma accettabili. L’esaminatore deve sforzarsi un po’ per vedere la risposta.
Fw-: risposte deboli, poco congruenti con la localizzazione, difficili da vedere per l’esaminatore.
F-: risposte che non mostrano alcuna congruenza con l’area considerata.
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Fv: la forma è vaga (es. nuvole, fumo).
Fs: forma deteriorata. Una risposta accettabile è distorta o indebolita da una specificazione
incongruente (un uomo con la coda pelosa).
Contentuti: la siglatura consiste nell’indicazione della classe di appartenenza di ciò che
l’esaminando ha visto nella tavola.
A: forma animale intera. Ad se solo una parte.
H: figura umana intera. Hd: parte di figura umana.
Anat: risposte anatomiche.
Sex: indica una risposta a contenuto sessuale.
Obj: oggetti o cose inanimate.
Pt: sta per pianta e si riferisce a risposte a contenuto vegetale.
Nat: sta per natura e si riferisce a risposte tipo montagna, lago ecc.
Arch: sta per architettura e si riferisce a risposte tipo chiesa, monumento ecc.
Geog: indica una risposta geografica tipo isola ecc.
Bl: sangue.
Cl: nuvole.
Cloth: risposte relative al vestiario.
Verbalizzazioni devianti: sono risposte che tengono poco conto delle propietà percettive della
macchia, o che sono eccessivamente arricchite con elaborazioni associative
Fab: risposta fabulata (risposte con una elaborazione affettiva inappropiata, ma accettabile, es. una
faccia di lupo arrabbiata).
Incom: combinazione incongrua (dettagli o immagini della macchia sono fusi insieme
inappropiatamente in un unico oggetto, es. un pollo a due teste)
Fab-Comb: combinazione fabulata (due percetti visti in modo accurato sono combinati in modo
arbitrario, es. due castori che si arrampicano su un cono gelato).
Confab: confabulazione (risposte connotate in senso affettivo con creazione di una fantasia, es. un
uomo minaccioso che sta venendo a prendermi).
Contam: contaminazione (due percetti separati sono fusi in un unico percetto, es. un coniglio
pipistrello).
Alog: logica inappropiata (risposte giustificate con una base logica poco convenzionale, es. il polo
nord perché è in cima).
Pec: verbalizzazione peculiare (risposta fuori del comune, che potrebbe essere appropiata al di fuori
della situazione testistica (es. due elefanti in punta di piedi).
Queer: verbalizzazione bizzarra (verbalizzazioni inusuali che non sarebbero considerate
convenzionali e appropiate al di fuori della situazione testistica, es. mi ricorda il sesso femminile)
Vague: vaghezza (la vaghezza non è riferita alla forma, ma all’indecisione, es. potrei dire
pipistrello, ma non so, forse queste potrebbero essere le ali).
Conf: confusione (si riferisce ad una confusione implicita nella risposta o nel vissuto o nella
comunicazione, es. potrebbero sembrare dei topi, no sono procioni o scoiattoli e stanno passando
sopra questa farfalla).
Incoh: incoerenza (materiale estraneo o irrilevante si insinua nella risposta e la disorganizza, es. una
scena subacquea. Il rosso è come quello della maglietta di mio fratello dopo l’incidente. Che
confusione! Forse sono pesci che lottano).
Siglature addizionali:si situano al di fuori delle cinque categorie principali, e sono utilizzate per
sottolineare aspetti specifici del processo di risposta.
C denial, C’ denial, Ch denial: la determinante è menzionata ma in forma di negazione (non penso
per il rosso).
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C ref, C’ ref, Ch ref: la determinante è riferita, ma non è integrata nella risposta ( es. le parti rosse
sono dei cavallucci marini).
C avoid, C’ avoid, Ch avoid: nel giudizio dell’esaminatore la determinante è implicita nella
risposta, ma non è esplicitamente espressa durante l’inchiesta (due donne africane. Inchiesta: perché
hanno i colli lunghi).
C impot, C’ impot, Ch impot: il soggetto commenta l’incapacità ad usare una determinante (vedo i
colori, ma non posso costruirci niente).
C sym: il colore è usato in modo simbolico o intellettuale (es. per i colori penso al bene e al male).
m: movimento ascritto ad un oggetto inanimato (es. vulcano in eruzione).
La valutazione del protocollo
Dopo aver classificato le risposte a ciascuno dei dati viene dato un particolare significato
psicologico, tale significato non deve essere utilizzato in modo rigido ed il protocollo dovrà essere
interpretato come un tutto unitario dove ciascun elemento si inquadrerà in un contesto globale.
Il metodo della Passi Tognazzo prevede inizialmente un’analisi quantitativa del protocollo basata
sul calcolo delle frequenze e percentuali delle varie categorie di siglatura, dati che sono riassunti in
uno psicogramma. La lettura quantitativa verte su tre dimensioni: approccio mentale, affettività e
adattamento sociale. L’analisi quantitativa viene successivamente integrata da un’analisi qualitativa
che tiene conto di alcuni fenomeni particolari, quali: 1) lo choc (espressioni di stupore o disagio,
tempo di reazione ritardato, ecc..) al colore , al rosso, al chiaroscuro, al contenuto, cinestesico; 2) il
rifiuto di una o più tavole; 3) cambiamenti di posizione delle tavole; 4) consapevolezza
dell’atteggiamento interpretativo; 5) espressioni verbali con significato d’insicurezza; 6)
perseverazione; 7) risposte posizione; 8) autoriferimenti; 9) espressioni mimiche; risposte
posizione; 10) risposte non classificabili come vere risposte; 11) risposte tattili e di colore scuro.
Il metodo di Exner propone una valutazione del protocollo basata essenzialmente su un approccio
psicometrico che tiene conto prevalentemente di aspetti quantitativi interconnessi fra loro. La
valutazione prende l’avvio dal sommario strutturale, costituito dall’insieme delle frequenze,
proporzioni e percentuali delle siglature, disposte su un foglio di spoglio predisposto per una
elaborazione computerizzata; altri fattori presi in esame sono le siglature delle risposte e la loro
sequenza, le verbalizzazioni prodotte durante l’associazione libera e durante l’inchiesta. Le
dimensioni prese in considerazione per l’interpretazione dei dati sono: 1) affetti, 2) controllo, 3)
ideazione, 4) mediazione, 5) percezione interpersonale, 6) percezione di sé, 7) elaborazione
dell’informazione.
Il metodo di Lerner, che ha ampliato e aggiornato le idee di Rapaport, propone una lettura del test di
tipo sostanzialmente qualitativo che prende in considerazione cinque fonti d’informazione: 1)
aspetti formali delle risposte, incluse le siglature e le loro interelazioni, 2) il contenuto delle risposte
incluso l’atteggiamento del soggetto nei confronti di queste ultime, 3) la sequenza delle risposte, 4)
il comportamento del paziente durante la somministrazione, comprese le verbalizzazioni spontanee,
5) la natura e l’andamento della relazione fra esaminando e clinico. Ogni fonte viene prima
considerata separatamente e poi integrata con le altre al fine di giungere ad una valutazione che
comprende la struttura del carattere, l’organizzazione del pensiero, l’organizzazione degli affetti, le
dinamiche centrali, le difese prevalenti, e le indicazioni al trattamento.
Testi di approfondimento:
Passi Tognazzo (1968) Il metodo Rorschach: elementi di tecnica psicodiagnostica. Firenze: Giunti e
Barbera.
Lis, Pinna, Zennaro (1999). Il test di Rorschach: introduzione al sistema comprensivo di Exner.
Padova: Unipress.
Lerner (2000) Il Rorschach: una lettura psicoanalitica. Milano: Raffaello Cortina.
58
IL TAT
Il Thematic Apperception Test di Murray (1943) rappresenta il prototipo di test proiettivo tematico,
che si basa sull’assunto che gli stimoli ambientali vengano percepiti e interpretati, in modo
inconsapevole, sulla base dei propri bisogni, stati d’animo attuali, e memorie di esperienze passate.
Il test si propone di valutare la personalità in un’accezione globale (anche se non sempre ben
definita), avendo come riferimento teorie orientate in senso psicodinamico. Attualmente sono in atto
ricerche volte ad integrare la lettura psicodinamica del test con una prospettiva di tipo cognitivo
Il test è composto da 31 tavole, in trenta delle quali sono riprodotte delle immagini che raffigurano
personaggi umani da soli o in situazioni sociali, mentre una è bianca.
Alcune tavole sono applicabili a tutti i tipi di soggetti, altre solo ai maschi o alle femmine, altre
ancora agli adolescenti o agli adulti. La batteria differenziata per ogni tipo di soggetto è composta di
20 tavole, somministrate in due sedute di 10 immagini ciascuna. Le immagini della seconda serie
sono volutamente poco usuali, più drammatiche di quelle del primo gruppo.
Sebbene Murray (1943) sostenesse che tutti i soggetti dovessero essere sottoposti a tutte le venti
tavole del test nel corso delle due sedute successive, nella pratica i clinici spesso scelgono un
numero di tavole che va da 6 a 10, selezionando per ciascun paziente le tavole che elicitano temi
che si pensa siano pertinenti ai conflitti ed alle preoccupazioni del soggetto.
Il TAT nasce originariamente come espressione della teoria dei bisogni-pressioni di Murray, una
teoria dialettica della personalità che considera come determinanti del comportamento umano sia le
componenti psicobiologiche sia quelle ambientali.
I due costrutti centrali della sua teoria sono i bisogni e le pressioni. I bisogni sono intesi come forze
interne (bisogni primari: fame, sete, sesso; secondari: dominanza, autonomia, ecc..) che organizzano
la scelta degli aspetti del mondo che sono percepiti e il significato che viene dato ad essi, e che
forniscono energia al comportamento nella direzione della loro soddisfazione. Le pressioni fanno
riferimento alle forze ambientali (obiettive e reali o soggettive) che contrastano che la persona si è
proposta di conseguire.
Istruzioni
La richiesta che viene fatta all’esaminando è quella di raccontare per ciascuna tavola una storia che
contenga le motivazioni che hanno determinato la situazione mostrata nella figura, la descrizione di
cosa avviene in quel momento e di ciò che i personaggi sentono e pensano, ed infine di come si
concluderà la vicenda.
L’interpretazione
Nella pratica clinica vengono formulati due tipi di “lettura” del TAT, una di tipo formale e una di
contenuto.
La lettura formale riguarda il modo con cui il soggetto costruisce o presenta il racconto e la sua
leggibilità, lettura che fornisce importanti informazioni sul funzionamento cognitivo e affettivo
della mente dell’esaminando e sulla presenza di un’eventuale psicopatologia; la consegna data
all’esaminando richiede infatti una complessa articolazione di capacità quali: identificare i
protagonisti e il problema del racconto, collocare gli eventi lungo una dimensione temporale,
attribuire pensieri desideri ed emozioni ai personaggi, porre i personaggi in relazione, ed infine
identificare una soluzione o comunque un finale.
La lettura riferita al contenuto riguarda i conflitti, le emozioni e le caratteristiche delle relazioni dei
personaggi del racconto, visti in un’ottica psicodinamica.
Il metodo originale di analisi delle storie proposto da Murray era basato sull’analisi dei bisogni del
protagonista (indipendenza, sottomissione, successo, protezione, ecc..), delle pressioni
dell’ambiente (coercizione, seduzione, aggressività, ecc..), e degli eventuali conflitti che potevano
insorgere.
59
Bellak ha proposto un sistema di valutazione del test basato su 10 variabili: tema principale, eroe
principale, bisogni e pulsioni dell’eroe, concezione dell’ambiente, modalità di rappresentazione
delle figure, conflitti significativi, natura dell’angoscia, principali difese contro i conflitti e le paure,
adeguatezza del Super-Io, livello d’integrazione dell’Io. È un sistema di valutazione di orientamento
psicodinamico, che prende in considerazione sia gli aspetti formali del racconto, intesi come
indicatori dell’integrità delle funzioni dell’Io, sia i contenuti delle storie, intesi come indicatori
dell’organizzazione strutturale della personalità, della presenza di conflitti, e delle difese messe in
atto.
Una lettura del test in chiave psicodinamica è stata proposta anche da autori americani afferenti
all’indirizzo della psicologia dell’Io, che focalizzano l’attenzione sulle caratteristiche formali del
racconto (conformità alla consegna, e dei personaggi alla storia), e sul contenuto (caratterizzazione
dei personaggi, sentimenti espressi ecc..).
Recentemente Westen ha messo a punto uno strumento di interpretazione del test basato su una
valutazione multidimensionale delle relazioni oggettuali e della cognizione sociale (SCORS: Social
Cognition and Object Relations Scales). Lo strumento è articolato in quattro scale, che misurano la
complessità delle rappresentazioni degli altri (grado di differenziazione fra sé e l’altro), il tono
affettivo della relazione (qualità affettiva delle rappresentazioni delle persone e della relazione), la
comprensione della causalità sociale (capacità di comprendere le motivazioni, intenzioni, e pensieri
di chi compie l’azione), e la capacità d’investimento emotivo nelle relazioni e negli standard morali.
60
I QUESTIONARI DI PERSONALITÀ
I questionari di personalità fanno parte dei cosiddetti strumenti oggettivi di misura delle
caratteristiche psicologiche. Richiedono un’autodescrizione delle proprie caratteristiche, sulla base
di risposte ad asserzioni che possono applicarsi o meno al soggetto, e forniscono una
rappresentazione quantitativa delle caratteristiche studiate. Possono essere costruiti sulla base di una
specifica teoria della personalità o empiricamente. I questionari di personalità presentano, come tutti
i test, problemi di validità e attendibilità, e pertanto lo psicologo prima di utilizzare lo strumento
deve conoscerne le caratteristiche psicometriche. Sono spesso usati con finalità diagnostiche, ma i
dati devono sempre essere integrati dal giudizio clinico.
Il più noto e utilizzato questionario di personalità è il MMPI-2.
MMPI-2
Il Minnesota Multiphasic Personality Inventory-2 (MMPI-2) è un questionario di autovalutazione
costruito per individuare caratteristiche strutturali della personalità e la presenza di disturbi
psicologici. È costituito da 567 item che comportano risposte dicotomiche (vero/falso).
Può essere facilmente somministrato sia a singoli individui, sia a gruppi di persone. Per la sua
leggibilità e comprensione è richiesto un grado di istruzione conseguibile con il completamento
della scuola dell’obbligo. Un minimo di cooperazione e di impegno è necessario per rispondere in
modo adeguato al questionario. Il test possiede meccanismi di controllo interni (scale di validità),
che permettono di rilevare se i criteri sopra indicati vengono soddisfatti.
È la versione aggiornata del MMPI, questionario elaborato verso la fine degli anni ’30, da
Hathaway e McKinley. Il MMPI nella sua forma originaria è stato costruito su base empirica,
sottoponendo a vari gruppi di pazienti con diagnosi di uno specifico disturbo mentale (ipocondria,
depressione, isteria, psicopatia, paranoia, psicoastenia, schizofrenia, ipomania), e a soggetti normali,
rappresentativi della popolazione del Minnesota, un numeroso gruppo di asserzioni indicative di
problemi psicologici. Per ogni gruppo di pazienti furono individuati gli item che lo discriminavano
sia dai normali, sia dagli altri gruppi clinici, e gli item così ottenuti furono raggruppati in otto scale
cliniche (Hs, D, Hy, Pd, Pa, Pt, Sc, Ma), a cui furono aggiunte due scale addizionali (mascolinitàfemminilità e introversione sociale) e quattro scale dette di validità o di controllo, atte a valutare i
possibili atteggiamenti nei confronti del test (Non so, Menzogna, Frequenza, e Correzione), per un
totale di 550 item.
Rispetto alla versione MMPI originaria, il MMPI-2 è stato modificato con la modernizzazione del
contenuto e della forma linguistica di alcuni item, l’eliminazione di item considerati intrusivi,
ambigui o obsoleti, e l’aggiunta di nuovi item. Il test nella sua forma definitiva ha mantenuto le 10
scale cliniche e le scale di validità tradizionali, a cui sono state aggiunte 3 scale di controllo (VRIN,
TRIN, F-Back), 15 scale di contenuto, e alcune scale supplementari. Dal 1992 è disponibile anche
la forma per adolescenti (MMPI-A), composta da 478 item, riducibili a 350.
61
Scale cliniche
Scala 1 – Hs: Ipocondria. “Questa misura fu sviluppata con un gruppo di pazienti nevrotici che
mostravano una preoccupazione eccessiva per la loro salute, presentavano una varietà di disturbi
somatici con origine organica scarsa o assente, e non accettavano le ripetute assicurazioni di non
avere niente dal punto di vista fisico. Alcuni item di questa scala riguardano particolari sintomi o
specifici disturbi, ma molti altri concernono una preoccupazione più generale per il corpo o verso se
stessi” (Hataway e McKinley, 1995)1.
Scala 2 – D: Depressione. “Questa scala fu sviluppata con pazienti psichiatrici che presentavano
varie forme sintomatiche di depressione, principalmente pazienti con reazioni depressive o in fase
depressiva della psicosi maniaco-depressiva. Gli item che formano questa scala non si riferiscono
solo a sensazioni di scoraggiamento, pessimismo e disperazione, che caratterizzano il quadro clinico
delle persone depresse, ma anche ad aspetti della personalità di base riguardanti eccessivo senso del
dovere, standard personali elevati e intrapunitività” (Hataway e McKinley, 1995).
Scala 3 – Hy: Isteria. “Questa scala fu costruita con pazienti che manifestavano forme di disturbi
sensoriali o motori, per i quali non era stata riscontrata nessuna base organica. Alcuni dei 60 item
componenti la scala concernono specifici disturbi fisici o stati d’agitazione, ma molti altri item
implicano negazione di problemi nella propria vita, o mancanza d’ansia sociale, spesso osservata in
persone che utilizzano questo tipo di difese” (Hataway e McKinley, 1995).
Scala 4 – Pd: Deviazione Psicopatica. “Questa scala fu sviluppata con soggetti indirizzati al
servizio psichiatrico per chiarire il motivo dei loro continui problemi con la legge, sebbene non
fossero culturalmente deprivati, possedessero un’intelligenza normale e non avessero seri disturbi di
tipo nevrotico o psicotico. Alcuni item presenti in questa scala riguardano la disponibilità ad
ammettere questo tipo di problemi, altri item riflettono il disinteresse per la maggior parte delle
norme sociali e morali di condotta” (Hataway e McKinley, 1995).
Scala 5 – Mf: Mascolinità-Femminilità. “Gli item di questa scala riguardano vari tipi di reazioni
emotive, interessi, atteggiamenti e sentimenti verso il lavoro, i rapporti sociali e gli hobby, che di
solito differenziano uomini e donne” (Hataway e McKinley, 1995).
Scala 6 – Pa: Paranoia. “Questa scala fu sviluppata inizialmente con un gruppo di pazienti che
presentavano condizioni di tipo paranoideo, o stati paranoidi. Il contenuto degli item riflette sia
ipersensibilità nei rapporti interpersonali, sia la tendenza a fraintendere le motivazioni e le
intenzioni degli altri. Alcuni item riguardano l’insicurezza e la tendenza a centrarsi sulla propria
persona” (Hataway e McKinley, 1995).
Scala 7 – Pt: Psicastenia. “Questa scala fu sviluppata, inizialmente, con pazienti che manifestavano
problemi di tipo ossessivo, rituali compulsivi o paure esagerate, scelti tra i soggetti nevrotici che
venivano indicati, a quell’epoca, come sofferenti di psicastenia (una debolezza nel controllo
mentale delle azioni e dei pensieri), corrispondente all’attuale designazione di disturbo ossessivocompulsivo. Mentre alcuni contenuti degli item riguardano queste varie sintomatologie, la scala nel
suo insieme riflette stati generalizzati d’ansia e preoccupazione, ma anche esplicita adesione ad alti
standard di moralità, atteggiamento autocritico in caso di insuccesso, controllo dei propri impulsi”
(Hataway e McKinley, 1995).
Scala 8 – Sc: Schizofrenia. “Questa scala fu derivata da un gruppo di pazienti psichiatrici con
manifestazioni del disturbo schizofrenico. Il contenuto degli item riguarda un’ampia varietà di
bizzarre convinzioni, esperienze insolite e percezioni particolari, che sono caratteristiche di tali
pazienti” (Hataway e McKinley, 1995).
Scala 9 – Ma: Ipomania. “Questa scala fu sviluppata con pazienti nei primi stadi di un episodio
maniacale del disturbo maniaco-depressivo. Il contenuto degli item prende in considerazione alcuni
aspetti comportamentali di questa condizione e caratteristiche ad essa associate (ambizione
eccessiva, estroversione ed elevati livelli di aspirazione)” (Hataway e McKinley, 1995).
Scala 0 – Si: Introversione sociale. “Questa scala fu sviluppata da Drake (1946) con campioni di
studenti di college che ottenevano punteggi estremi alla scala introversione-estroversione sociale
1
Hataway e McKinley (1995). Manuale MMPI-2. O.S. Firenze (Adattamento italiano di P. Pancheri e S. Sirigatti).
62
del Thinking-Social-Emotional Introversion Inventory (Evans e McConnel, 1941). Punteggi
superiori alla media rispecchiano livelli crescenti di timidezza sociale, preferenza per attività da
svolgere da soli e carenza di assertività sociale. Punteggi sotto la media indicano, viceversa,
tendenze verso la partecipazione e la dominanza sociale” (Hataway e McKinley, 1995).
Scale di validità
1)“ ? “ (Non so): non costituisce una vera e propria scala, si tratta di un semplice conteggio del
numero di item cui il soggetto non ha dato risposta, o a cui ha dato contemporaneamente le risposte
“vero” e “falso”. Un alto numero di mancate risposte riduce la validità del profilo (Hataway e
McKinley, 1995).
2)“ L “ (Lie-Menzogna): individua il tentativo consapevole, ma ingenuo, di presentare se stesso in
una luce favorevole. E’ composta da 15 item in cui vengono affermati piccoli difetti, ai quali il 95%
della popolazione risponde “vero”. Sebbene possa indicare la tendenza a mentire nel compilare il
test, la scala L non può essere considerata come una misura della tendenza generale a mentire,
falsificare o ingannare gli altri nella vita quotidiana. Questa scala serve piuttosto come indice della
probabilità che un determinato protocollo sia stato alterato a causa di un determinato stile di risposta
(Hataway e McKinley, 1995).
3)“ F “ (Frequency): è composta da 60 item, a cui è stato risposto affermativamente da meno del
10% della popolazione adulta “normale”. Persone che non vogliono aderire alle istruzioni possono
simulare l’esecuzione del test, rispondendo in realtà in modo casuale agli item. Altri soggetti con
istruzione e competenza nella lettura assai limitate, o che sono in contatto precario con la realtà,
possono fare la stessa cosa. Altri ancora possono deliberatamente esagerare le loro difficoltà e le
loro preoccupazioni per assicurarsi una considerazione o un’attenzione speciale. Ognuno di questi
atteggiamenti verso il test può determinare punteggi elevati in questa scala. Esistono alcuni criteri
per discriminare, a seconda dei risultati, tra queste tre possibilità (Hataway e McKinley, 1995).
4)“ K “ (Correction): Riguarda caratteristiche che molti soggetti preferiscono negare a se stessi e ai
loro familiari. E’ composta da 30 item individuati in protocolli di pazienti clinicamente malati che
avevano ottenuto però profili normali. Riguarda caratteristiche che molti soggetti preferiscono
negare a se stessi e ai loro familiari. Alti punteggi possono indicare una tendenza inconsapevole al
diniego della patologia. La scala “K” fornisce un “fattore di correzione” da applicare ad alcune
scale cliniche (Hataway e McKinley, 1995).
5)“Fb” (Back-page Infrequency): ne fanno parte 40 item e viene utilizzata insieme con la scala “F”,
i cui item compaiono prevalentemente nella prima parte del foglio di somministrazione. Gli item
della “Fb”, presenti successivamente nel protocollo, permettono di individuare se un soggetto, le cui
risposte sono valide in base alla scala “F”, ha smesso di prestare attenzione al contenuto degli item,
rispondendo in modo casuale. Qualora il protocollo sia già invalidato in base alla scala “F”, la “Fb”
diventa inutile (Hataway e McKinley, 1995).
6)“VRIN” (Variable Response Inconsistency): si basa su 67 coppie di item, di contenuto simile o
opposto. Attraverso questa scala, soprattutto se confrontata con la scala “F”, si può avere una
possibilità di discriminazione più precisa fra modalità di risposta casuale, tentativi deliberati di
falsificare i dati, confusione e psicopatologia (Hataway e McKinley, 1995).
7)“TRIN” (True response Inconsistency): utilizza 23 coppie di item di significato fra loro opposto.
Valuta la tendenza a rispondere, in modo indiscriminato, in senso affermativo o negativo (Hataway
e McKinley, 1995).
63
Scale supplementari
Sono disponibili varie scale addizionali costruite, sulla base dell’analisi fattoriale o su base
empirica, per facilitare l’interpretazione delle scale di base, ed aumentare la varietà dei problemi
clinici esaminati. Nell’interpretazione delle scale non sono specificati i valori di soglia assoluti per
punteggi alti e bassi. In generale, punti T superiori a 65 dovrebbero essere considerati come elevati,
e punti T inferiori a 40 dovrebbero essere considerati bassi.
Scala A (Ansietà -Anxiety). Punteggi elevati indicano ansia, disagio e turbamento emozionale
generalizzato, mentre punteggi bassi indicano l’assenza di disagio e tensione emotiva, o la tendenza
a preferire l’azione alla riflessione.
Scala R (Repressione -Repression). Alti punteggi indicano la tendenza ad essere convenzionali,
sottomessi e far di tutto per evitare situazioni spiacevoli o contrasti. Le persone che ottengono bassi
punteggi tendono ad essere disinvolte, energiche, disinibite, informali, piene di entusiasmo per la
vita, aggressive e dominanti.
Scala Es (Forza dell’Io -Ego Strength) Fu costruita per valutare la capacità di trarre beneficio da
una psicoterapia. Si può considerare una misura di adattabilità, di capacità di recupero, di
intraprendenza e di efficienza. E’ un buon indicatore generale di salute psicologica.
Scala MAC-R (Scala MacAndrew di Alcolismo Rivista). Punteggi elevati possono essere associati
ad una propensione generale alla tossicodipendenza, e alla tendenza a correre rischi. Le persone che
ottengono bassi punteggi tendono ad essere introverse, timide, e con poca fiducia in se stesse.
Scala O H (Ostilità ipercontrollata -Overcontrolled hostility). Misura la capacità di tollerare le
frustrazioni senza reagire. Fu costruita confrontando le risposte di detenuti violenti e non violenti.
Alti punteggi indicano una tendenza a rispondere di solito adeguatamente alle provocazioni.
Punteggi bassi possono indicare aggressività.
Scala Do (Dominanza -Dominance). Fu costruita confrontando le risposte di studenti molto o poco
dominanti nelle relazioni interpersonali. Alti punteggi sono associati a intraprendenza, sicurezza,
perseveranza, capacità di leadership, bassi punteggi a sottomissione, influenzabilità, senso di
inadeguatezza.
Scala Re (Responsabilità sociale –Social responsability). Fu costruita confrontando le risposte al
test di studenti classificati dai compagni o dagli insegnanti sulla base del loro grado di
responsabilità. Alti punteggi indicano la tendenza a percepirsi e essere percepiti come affidabili,
onesti e responsabili nei confronti del gruppo.
Scala Mt (Disadattamento universitario- College maladjustment). Fu costruita per distinguere gli
studenti universitari in base al loro adattamento emotivo. È utile per identificare la presenza di
problemi emozionali, ma non è predittiva di future difficoltà di adattamento.
Scale GM e GF (Ruolo del genere maschile e femminile – Masculine and feminine gender role).
Furono costruite sulla base degli item scelti dalla maggioranza degli uomini e da meno del 10%
delle donne, e dalla maggioranza delle donne e da meno del 10% degli uomini.
Scale PK e PS (Scale di Disturbo Post-traumatico da Stress – Post Traumatic Stress Disorder
scales). La scala PK fu costruita confrontando veterani della guerra del Vietnam con disturbi
psichiatrici e disturbo Post- Traumatico da Stress o senza questa ulteriore complicazione. La scala
PS fu costruita confrontando reduci dal Vietnam con buon adattamento emotivo con reduci con
Disturbo Post- Traumatico da Stress, senza altri disturbi psichiatrici. Le due scale non sono
correlate e possono essere usate contemporaneamente.
Scala MDS (Scala di disagio coniugale – Marital Distress Scale). È stata costruita per identificare la
presenza di disagio e contrasti nell’ambito delle relazioni di coppia.
Scala APS (Scala di Tossicodipendenza Potenziale –Addiction Potential Scale). Punteggi elevati
suggeriscono un’elevata probabilità di problemi legati all’abuso di sostanze in assenza di altri
significativi disturbi psicologici. Gli item riguardano dimensioni della personalità o situazioni di
vita associate con l’abuso di sostanze, e non contengono riferimenti espliciti all’assunzione di alcool
o droghe.
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Scala AAS (Scala di Ammissione di Tossicodipendenza –Addiction Ammission Scale). Consiste di
item concernenti l’abuso di sostanze ed è usata ad integrazione della scala APS.
Scale di contenuto
A differenza delle altre scale del MMPI-2, gli item che compongono queste scale non sono stati
selezionati su base empirica, ma sono stati raggruppati sulla base dell’omogeneità del loro
contenuto. Sono utilizzate per sviluppare e integrare le ipotesi interpretative delineate
dall’interpretazione delle scale cliniche.
ANX (Ansia - Anxiety). Le persone con alti punteggi in questa scala riferiscono sintomi generali di
ansia (es., tensione, disturbi del sonno, preoccupazioni, scarsa concentrazione, ecc.).
FRS (Paure – Fears). Un punteggio elevato in questa scala indica una persona con molte paure
specifiche.
OBS (Ossessività – Obsessiveness). Le persone con alti punteggi sono eccessivamente preoccupate,
hanno grande difficoltà nel prendere decisioni, sono portate a rimuginare eccessivamente su
argomenti e problemi.
DEP (Depressione – Depression). Punteggi elevati in questa scala caratterizzano le persone con
pensieri significativamente depressivi.
HEA (Preoccupazione per la Salute – Health Concerns). Le persone con alti punteggi riferiscono
molteplici sintomi fisici, riguardanti apparati diversi. Si preoccupano della loro salute e si sentono
più malati della media delle persone.
BIZ (Ideazione Bizzarra – Bizzarre Mentation). Processi di pensiero di tipo psicotico caratterizzano
le persone con punteggio elevato in questa scala.
ANG (Rabbia – Anger). Alti punteggi denotano problemi di controllo della rabbia.
CYN (Cinismo – Cynism). Tendenze alla misantropia caratterizzano coloro che ottengono alti
punteggi.
ASP (Comportamenti Antisociali – Antisocial Practices). Gli individui con un alto punteggio
riferiscono problemi di comportamento durante gli anni di scuola e abitudini antisociali che li hanno
portati ad avere guai con la legge, come furti o taccheggi.
TPA (Tipo A – Type A). Le persone con alto punteggio sono ipermotivate, si muovono
rapidamente e sono centrate sul lavoro, diventano spesso impazienti, irritabili e infastidite.
LSE (Bassa Autostima – Low Self-Esteem). Punteggi elevati sono caratteristici di persone con
bassa stima di sé, che non credono di piacere agli altri e hanno numerosi atteggiamenti negativi
verso se stesse.
SOD (Disagio Sociale – Social Discomfort). Le persone con alto punteggio, quando sono in mezzo
alla gente, si sentono inadeguate ed imbarazzate, si percepiscono come timide e preferiscono stare
per conto proprio.
FAM (Problemi Familiari – Family Problems). Le persone con alti punteggi dichiarano notevoli
contrasti in famiglia.
WRK (Difficoltà sul Lavoro – Work Interference). Un alto punteggio è indicativo di
comportamenti o atteggiamenti che, probabilmente, contribuiscono a prestazioni lavorative
scadenti.
TRT (Indicatori di Difficoltà di Trattamento – Negative Treatment Indicators). Punteggi elevati
indicano persone con atteggiamenti negativi verso i medici e i trattamenti riguardanti la salute.
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Somministrazione
Il test in Italia è disponibile in forma di libretti di 12 pagine che contengono i 567 item sotto forma
di frasi (es. Mi sveglio fresco e riposato tutte le mattine; Mai sono felice a meno che non sia in giro
o in viaggio; Ho pensieri strani d insoliti ecc..), ad ognuna delle quali il soggetto deve rispondere
barrando con una crocetta la lettera V (vero) o F (falso) posta accanto alla frase, a seconda che
ritenga la frase dell’item vera (o prevalentemente vera) o falsa (o prevalentemente falsa) con
riferimento alla propria persona.
Costruzione del profilo
I libretti sono predisposti per l’applicazione di griglie per il calcolo dei punteggi grezzi ottenuti
nelle singole scale. I punteggi così calcolati vengono registrati su un foglio di profilo, appropriato al
sesso del soggetto, predisposto per la trasformazione in punti T dei punteggi grezzi ottenuti nelle 10
scale cliniche e nelle scale di validità L, F e K. Tutte le omissioni e gli item con doppia risposta
sono considerati come risposte “Non so (?)”. Il foglio di profilo permette anche una visione grafica
del profilo del soggetto.
Sono disponibili anche le griglie per le scale supplementari e di contenuto, i cui punteggi non
vengono riportati sul foglio di profilo. Nel manuale sono reperibili le tabelle per la trasformazione
dei punteggi grezzi in punti T.
Interpretazione
Una volta determinata la validità del protocollo (punteggi nelle scale di validità), si procede
all’interpretazione del test sulla base dei punteggi nelle scale cliniche.
Interpretazione per punte delle scale cliniche: Valori dei punti T compresi tra 60 e 65 costituiscono
tendenze di personalità, mentre elevazioni che superano 65 possono essere indicative di uno stato
patologico.
Interpretazione per codici-tipo: Quando le punte sono più di una è preferibile una valutazione che
tenga conto della configurazione del profilo. Codici tipo basati su due e, talvolta, su tre elevazioni
sono reperibili in atlanti e manuali interpretativi.
I punteggi nelle scale di contenuto possono essere utilizzati per sviluppare e integrare le ipotesi
interpretative delineate dall’interpretazione delle scale cliniche. Specifici quesiti possono essere
esaminati per mezzo delle scale supplementari.
Sono stati inoltre definiti vari indici del test, utilizzati nelle versioni di interpretazione
computerizzata del protocollo.
a) Percentuale di risposte “Vero”
Questo indice può essere utilizzato per identificare soggetti che non collaborano e rispondono
“Vero” a tutte, o quasi, le domande del test.
b) Percentuale di risposte “Falso”
E’ un indice che individua protocolli con tutte, o quasi tutte, risposte “Falso” agli item. Una
percentuale elevata di risposte “Falso” suggerisce che il soggetto abbia risposto agli item negando i
problemi in maniera indiscriminata.
c) Elevazione media del profilo
I valori dei punti T in otto delle scale cliniche (Hs, D, Hy, Pd, Pa, Pt, Sc e Ma) forniscono
un’indicazione approssimativa del grado complessivo di disadattamento espresso attraverso il
MMPI-2. Punti T medi superiori a 65 suggeriscono, di solito, la presenza di problemi psicologici di
notevole entità.
d) Indice F – K
L’indice di Dissimulazione sviluppato da Gough (1947) si calcola sottraendo K da F. Costituisce
un’utile misura dell’atteggiamento volto a dissimulare, o ad indicare, un numero eccessivo di
problemi nella compilazione del test. Punteggi superiori a +15 vengono di solito interpretati come
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contraffazione delle risposte in senso peggiorativo, o la dichiarazione di un numero eccessivo di
problemi psicologici.
e) Indice di Goldberg
Goldberg (1965) ha dimostrato come una semplice combinazione lineare di determinati punteggi al
MMPI permetta di ottenere una formula di predizione in grado di discriminare profili di soggetti
nevrotici da quelli di psicotici. Tale indice viene calcolato aggiungendo e sottraendo i punti T nel
modo seguente: L + Pa + Sc – Hy – Pt.
Se il valore che ne risulta è maggiore di 45, si suggerisce una diagnosi di psicosi.
67
I QUESTIONARI SINTOMATOLOGI
IL BECK DEPRESSION INVENTORY (BDI)
La depressione è “..uno stato emotivo caratterizzato da grande tristezza ed apprensione, dalla
sensazione che nulla abbia veramente valore, da sensi di colpa, dall’isolarsi dagli altri, dalla perdita
di sonno, dell’appetito e del desiderio sessuale, o dalla perdita di interesse e di piacere nelle attività
che si è soliti svolgere.” [Davison, Neale, 2000].
Il Beck Depression Inventory (BDI; Beck, Ward, Mendelson, Mock & Erbaugh, 1961) è un
questionario self-report per la valutazione dei sintomi e degli atteggiamenti caratteristici della
depressione.
Beck aveva osservato come i pazienti depressi fossero caratterizzati da rappresentazioni negative
circa se stessi, le esperienze presenti e il futuro (triade negativa). Egli raccolse le descrizioni fornite
dagli stessi pazienti depressi circa i propri sintomi e le raggruppò in 21 sintomi e atteggiamenti. Tali
sintomi e atteggiamenti, considerati caratteristici dei pazienti depressi, costituiscono i 21 item del
questionario.
Il Beck Depression Inventory è stato costruito con lo scopo di valutare la gravità dei sintomi nei
soggetti depressi ma anche per rilevare la presenza di depressione nella popolazione normale (adulti
e adolescenti) .
Descrizione
Il Beck Depression Inventory è costituito da 21 item relativi a sintomi ed atteggiamenti tipici dei
soggetti depressi:
1) tristezza, 2) pessimismo, 3) senso di fallimento, 4) senso di insoddisfazione, 5) senso di
colpa, 6) senso di punizione, 7) auto-avversione, 8) auto-accusa, 9) ideazione suicidaria, 10)
scoppi di pianto, 11) irritabilità, 12) ritiro sociale, 13) indecisione, 14) cambiamento
nell’immagine corporea, 15) difficoltà lavorative, 16) insonnia, 17) affaticabilità, 18) perdita
di appetito, 19) perdita di peso, 20) preoccupazioni somatiche, 21) perdita di interesse
sessuale.
Per ogni item vengono fornite 4 alternative di risposta che corrispondono alla gravità del sintomo (
assente = 0, lieve = 1, moderato = 2, grave = 3).
Esempi di items sono: “non mi sento particolarmente in colpa; mi sento in colpa per buona parte del
tempo; mi sento in colpa per la maggior parte del tempo; mi sento sempre in colpa”. Particolare
attenzione va prestata agli items che indicano il pericolo che il soggetto possa essere a rischio di
comportamento suicidiario.
Interpretazione
Lo scoring del questionario è semplice: Il punteggio totale al questionario si ottiene sommando i
singoli punteggi dei 21 item. Un punteggio maggiore di 16 è considerato il cut-off per l’allarme
clinico.
5 – 9: punteggi normali
10 – 18: depressione lieve
19 – 29: depressione moderata
30 – 63: depressione grave
68
LO STATE-TRAIT ANXIETY INVENTORY (STAY-Y)
L’ansia si caratterizza per la presenza di una spiacevole sensazione di paura e di apprensione
generalmente non legata a ragioni obiettive (disturbo di panico, disturbo d’ansia generalizzato) che
può portare il soggetto a comportamenti di evitamento (fobie) o alla percezione soggettiva di un
impulso irresistibile a compiere certe azioni (tipico delle compulsioni e del disturbo ossessivocompulsivo) e, nei casi più seri, fino alla paralisi e ai sintomi detti “neurologici” (isteria di
conversione) [Davison, Neale, 2000].
La costruzione di questo test iniziò nel 1964 con l’elaborazione di un unico gruppo di item,
somministrato con modalità diverse, per la misurazione sia dell’ansia di stato che di quella di tratto.
Successivamente, gli sviluppi teorici nella concezione dell’ansia ed i risultati delle ricerche
empiriche indussero a modificare le procedure e gli item del test e fu messa a punto la forma X
dello STAI. Più di 6000 studenti di High School, 600 pazienti neuropsichiatrici e ospedalizzati, 200
reclusi furono testati per la standardizzazione e la validazione della forma X del questionario
(Spielberger, Gorsuch, 1968).
Nel 1979 Spielberger iniziò una sostanziale revisione della scala. Le ragioni principali che
guidarono tale operazione furono:
- sviluppare uno strumento di misura che discriminasse maggiormente i sentimenti di ansia dalla
depressione e che permettesse una migliore diagnosi differenziale tra pazienti colpiti da disturbi
d’ansia o da reazioni depressive;
- migliorare la struttura della scala con un più adeguato bilanciamento tra le voci dell’ansia presente
e dell’ansia assente;
- sostituire alcune voci che si prestavano ad interpretazioni particolari.
Nella nuova forma Y fu sostituito il 30% degli item della forma X, migliorando le proprietà
psicometriche di entrambe le sub-scale.
Lo State-Trait Anxiety Inventory forma Y (Spielberger, Gorsuch, Lushene, Vagg, Jacobs, 1983)
(Traduzione italiana a cura di Pedrabissi, Santinello, 1989) è un questionario di autovalutazione, in
forma di Scala Likert, dove il soggetto valuta su una scala da 1 a 4 (con 1 = per nulla e 4 =
moltissimo) quanto diverse affermazioni si addicono al proprio comportamento. La STAI è
composta da un totale di 40 domande, 20 riguardano l’ansia di stato (Y1) e 20 l’ansia di tratto (Y2).
L’ansia di stato indica quanto la persona si percepisca in ansia “proprio in quel momento” ed
esprime una sensazione soggettiva di tensione e preoccupazione, comportamenti relazionali di
evitamento (o avvicinamento eccessivo e prematuro) e un aumento dell’attività del sistema nervoso
autonomo (incremento della frequenza cardiaca, della risposta galvanica…etc..) relativa ad una
situazione stimolo, quindi transitoria e di intensità variabile;
L’ansia di tratto si riferisce a come il soggetto si senta abitualmente, ad una condizione più duratura
e stabile della personalità che caratterizza l’individuo in modo continuativo, indipendentemente da
una situazione particolare [Spielberger, Gorsuch e Lushene, Vagg, Jacobs, 1983].
Somministrazione del test
Lo STAI può essere somministrato sia a singole persone che a gruppi. L’inventario non ha limiti di
tempo. Si impiegano circa 8 minuti per completare una delle scale e all’incirca 15 per completarle
entrambe.
Le istruzioni complete per le scale di Tratto e di Stato sono stampate sulle schede del test.
Le istruzioni nelle due scale sono diverse: nella scala di Stato si chiede al soggetto di indicare come
si sente adesso, in questo momento mentre nella scala di Tratto si chiede al soggetto di indicare
come si sente abitualmente.
La scala di Stato viene sempre fatta compilare per prima poiché è sensibile alle condizioni nelle
quali l’esaminato affronta il test ed il relativo punteggio può essere influenzato dal clima emotivo
che si può creare se viene somministrata prima la scala di Tratto. Inoltre, le due sottoscale possono
venire utilizzate anche separatamente ed indipendentemente l’una dall’altra. Si ricavano quindi due
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punteggi: uno per l’ansia di tratto ed uno per l’ansia di stato. Esempi di domande di tale strumento
sono “mi sento turbato” o “mi sento indeciso”. La STAI, oltre ad essere stata ampiamente validata,
è una scala largamente utilizzata ed è uno strumento assai agile ed economico nella
somministrazione e nella quantificazione dei risultati.
IL SYMPTON QUESTIONNAIRE
Il Symptom Questionnaire (SQ) di R. Kellner (1987) è un questionario di autovalutazione della
personalità che deriva dall’elenco originale dei sintomi da cui è stato costruito il Symptom Rating
Test (Kellner, Scheffield, 1973). Il Symptom Questionnaire si differenzia dalle ultime versioni del
Symptom Rating Test per il fatto di essere costituito da item anziché da domande e per la estrema
semplicità e brevità del suo testo. Rispetto al Symptom Rating Test il numero di item del Symptom
Questionnaire è stato aumentato dall’autore per incrementare la sensibilità delle scale. Inoltre è
composto da item sì/no e vero-falso invece che da scale che si basano sulla gravità o frequenza dei
sintomi. Il Symptom Questionnaire, infine, presenta non solo item che indicano sintomi ma anche
item che indicano stati di benessere, introdotti dall’autore per aumentare la consistenza interna dei
risultati.
Descrizione del Symptom Questionnaire
Il Symptom Questionnaire (versione italiana a cura di Fava G. A. e Kellner R., 1982) è costituito da
92 item di cui 68 indicano sintomi (che costituiscono le sottoscale dei sintomi) e 24 indicano
situazioni di benessere (che costituiscono le sottoscale del benessere) contrarie ad alcuni sintomi.
Il Symptom Questionnaire è composto da 4 scale e da 8 sottoscale. Le 4 scale principali sono:
1. depressione
2. ansia
3. rabbia-ostilità
4. somatizzazione.
Le 8 sottoscale si suddividono in 4 sottoscale relative agli stati di benessere e 4 sottoscale
sintomatologiche.
Le sottoscale relative agli stati di benessere sono:
a) contentezza
b) rilassatezza
c) socievolezza
d) benessere fisico.
Le sottoscale sintomatologiche sono:
a) sintomi depressivi
b) sintomi ansiosi
c) sintomi di rabbia e ostilità
d) sintomi somatici.
Somministrazione
Esistono tre versioni del questionario: quella oraria, quella giornaliera e quella settimanale, che si
riferiscono allo stato psicologico rispettivamente dell’ora, del giorno, della settimana precedente la
somministrazione del test. Il questionario può essere utilizzato sia in ambito di ricerca che in ambito
clinico e può essere somministrato e conteggiato anche da non esperti dopo un breve training.
70
Elaborazione delle risposte
Se il punteggio di una scala risulta essere superiore di 1 deviazione standard rispetto alla media per i
soggetti normali vi è moderato distress, mentre un punteggio che supera le 2 deviazioni standard
suggerisce la presenza di grave distress o di psicopatologia. Tuttavia, un punteggio considerato
singolarmente non può essere indicativo di una patologia senza una valutazione clinica aggiuntiva.
Inoltre, il punteggio alla scala somatica non può da solo fornire una prova della presenza di
somatizzazione e deve essere effettuata una valutazione accurata per formulare la diagnosi
differenziale con un disturbo fisico.
Nel processo diagnostico e valutativo, il clinico può basarsi sui risultati di un questionario di
autovalutazione come il Symptom Questionnaire, utilizzando un particolare cut-off nel punteggio
della scala, ottenuto da precedenti studi di valutazione. Questo cut-off può essere la base per
successivi approfondimenti clinici, da ottenersi mediante intervista e/o scale di eterovalutazione. In
ogni caso il punteggio al questionario di autovalutazione fornisce le basi per una valutazione
quantitativa dello stato di malessere del soggetto.
71
I test d’intelligenza
I test di intelligenza sono strumenti standardizzati, costituiti da domande e compiti, usati per la
valutazione delle capacità mentali superiori. Prima di entrare nel merito qualche nota sul concetto
d’intelligenza. Molti psicologi si sono occupati di questo problema, proponendo differenti
definizioni e diverse modalità di misura. Spearman [1971] ritiene che esista una intelligenza
generale (definita fattore G di Spearman], che comprende varie prestazioni di pensiero,
ragionamento, abilità verbali e numeriche, e una serie più o meno numerosa di fattori specifici,
legati all’esecuzione di compiti particolari. Cattell [1963] sostiene, invece, l’esistenza di una
intelligenza fluida e di una intelligenza cristallizzata. La prima fa riferimento alle capacità di
elaborazione, di soluzione dei problemi e di memoria; la seconda riguarda l’intelligenza come
“sapere culturale” (linguaggio e abilità sociali). L’intelligenza varia con il passare del tempo perché
è legata all’apprendimento e alla stimolazione che l’ambiente offre all’individuo, ma hanno un
ruolo rilevante anche le componenti genetiche, che ne stabiliscono i limiti. Una delle descrizioni più
esaurienti rimane la definizione di Piaget [1947, 1970], secondo il quale una delle funzioni chiave
dell’intelligenza è generare la previsione, cioè produrre l’anticipazione del cambiamento e quindi
l’azione costruttiva per realizzarlo o annullarlo. Piaget ha offerto forse la sistematizzazione più
completa di un modello interno al soggetto che si sviluppa dall'agire in senso motorio all'agire
logico astratto.
Se molti studiosi individuano diversi fattori che compongono il costrutto di intelligenza, altri,
invece, parlano di diverse intelligenze. Esisterebbe a loro avviso un certo numero di abilità separate,
che contribuiscono a determinare un positivo rapporto dell’individuo con l’ambiente circostante.
Alle abilità di tipo cognitivo (per esempio abilità di ragionamento, abilità nell’imparare, abilità nel
risolvere problemi ecc.) si aggiungerebbero l’intelligenza verbale che renderebbe conto dell’abilità
lessicale, di esposizione orale e di comprensione dei messaggi vocali, l’intelligenza sociale che
implica complesse capacità di riconoscimento di segnali sociali e quindi di adattamento della propria
condotta ad una determinata situazione, l’intelligenza emotiva che si riferisce alla capacità di
riconoscere le emozioni altrui e al controllo delle proprie. L’intelligenza, comunque la si voglia
intendere, è dunque un costrutto che comprende molti aspetti: abilita’ o processi di tipo cognitivo,
ma anche fattori che sono più propri dei tratti della personalità che delle capacità cognitive.
Tali fattori comprendono tratti quali la perseveranza, la concentrazione, l’ansia, l’entusiasmo, il
controllo degli impulsi e la consapevolezza dei fini che influiscono sulle prestazioni, tutti tratti che
sono in gran parte indipendenti da qualsiasi abilità intellettiva specifica quali capacità logiche, di
ragionamento, memoria. Per questa ragione essi sono più propriamente indicati come fattori nonintellettivi dell’intelligenza. Tali fattori operano a tutti i livelli di intelligenza ed incidono sulle
capacità del soggetto d’intelligenza superiore come su quelle del soggetto poco dotato. Essi possono
rendere attento un soggetto lento e meno ricettivo un soggetto brillante, e ciò può avere il suo peso
sull’ampia variabilità inter-test osservata nelle prestazioni di alcuni soggetti.
E’ tuttavia da evitare la tentazione di ascrivere tutte le differenze osservate all’intervento di questi
fattori. I fattori non-intellettivi sono componenti necessari del comportamento intelligente, ma non
possono però sostituire le abilità cognitive fondamentali.
Il primo test d’intelligenza, la Scala Stanford-Binet, successivamente revisionata e standardizzata da
Terman e Merril, fu ideato all’inizio del secolo scorso, e applicato ai bambini con lo scopo di
arrivare ad una misura predittiva del successo scolastico. Il concetto d’intelligenza era collegato ad
abilità e conoscenze in gran parte di tipo verbale, e i criteri per la validazione concorrente e
predittiva erano le votazioni scolastiche. L’unità di misura era inizialmente l’Età Mentale (età
corrispondente al superamento di tutte le prove di livello che la maggioranza dei bambini di
quell’età superava, più un dato numero di mesi per ogni test risolto fino al livello in cui nessuna
prova era superata). Successivamente fu aggiunto il QI, ottenuto dividendo l’età mentale per l’età
reale e moltiplicando per 100.
72
LE SCALE WECHSLER
La pubblicazione nel 1939 della Scala d’Intelligenza Wechsler-Bellevue segnò una data cruciale
nella storia della valutazione dell’intelligenza dell’adulto. Per la prima volta, infatti, veniva
costruita una batteria di prove individuali, eterogenee, ben accette dai soggetti adulti e, soprattutto,
tarate in funzione dell’età cronologica. Abbandonando il concetto di età mentale, Wechsler
riprendeva invece quello di Quoziente Intellettivo (QI) concependolo, però, come una scala
standardizzata con media 100 e deviazione standard 15. In tale modo venivano eliminati i limiti del
metodo precedente e forniti degli indici statistici funzionali a cogliere correttamente il potenziale
intellettivo individuale. Benché tale scala fosse stata concepita inizialmente per valutare il livello
d’intelligenza globale del soggetto, lo strumento fu rapidamente applicato con diversi altri scopi:
quello di misurare l’eventuale deterioramento mentale, di differenziare la tipologia di intelligenza,
pratica o verbale, della persona e di individuare le eventuali carenze in particolari funzioni
cognitive. Proprio per tali requisiti, lo strumento divenne, molto rapidamente, il più usato
nell’ambito della valutazione e della diagnosi dell’intelligenza. Successivamente si giunse ad una
prima revisione globale del materiale (WAIS; Wechsler Adult Intelligence Scale; dai 16 anni in poi)
e alla creazione di altre scale simili destinate a soggetti di differenti fasce d’età: bambini in età
prescolare (WPPSI; Pre-school and Primary Scale of Intelligence; 3-7 anni) e bambini in età scolare
(WISC; Wechsler Intelligence Scale for Children; 7-16 anni).
La scala d’intelligenza WAIS è un test di intelligenza generale, intendendo come tale “la capacita’
globale dell’individuo ad agire con uno scopo, a pensare ragionevolmente, e a gestire effettivamente
il proprio ambiente”(Wechsler, 1939). Wechsler considerava la sua definizione una risposta non
definitiva all’annoso problema di che cosa sia quella che viene chiamata intelligenza. L’autore
cercò di ideare una sufficiente ampia varietà di questioni che riflettessero la sua definizione di
intelligenza, ma riconosceva che tutto non poteva essere incluso. Wechsler concluse comunque che
la scala potesse essere usata come un indice fedele della capacità globale dell’individuo. La
somministrazione della WAIS, è lunga e complessa, ma proprio per questa sua articolazione è
possibile trarre informazioni dettagliate sul funzionamento cognitivo del paziente, come la
personale modalità che il paziente ha di organizzare le proprie strategie di risoluzione di problemi in
base alle nozioni acquisite e la capacità di accedere al proprio bagaglio mnemonico in cui tali
informazioni sono contenute, organizzandole secondo pattern di funzionamento legati alla
comprensione del problema.
La scala WAIS è costituita da 11 sub-test differenti: sei misurano le abilità cognitive di natura
prevalentemente verbale e gli altri cinque le abilità cognitive di natura principalmente visiva,
spaziale e manipolativa. I risultati delle prime sei scale danno origine al Quoziente Intellettivo
Verbale, i punteggi delle ultime cinque confluiscono nel Quoziente Intellettivo di Performance. La
media di questi due indici è il Quoziente Intellettivo Totale. Le differenze individuali nel Quoziente
Intellettivo (QI) possono dipendere sia da differenze genetiche sia da variabili ambientali-culturali.
Sicuramente il patrimonio genetico individuale ha un’importanza fondamentale nel determinare le
basi e i meccanismi dello sviluppo, ma è anche vero che è necessaria una società ed un ambiente
adatto perché si possa sviluppare un’intelligenza normale. Il modo più semplice per studiare quanto
i geni determinino il QI è lo studio dei gemelli monozigoti (quindi con lo stesso DNA) che siano
stati separati dalla nascita (cresciuti quindi in ambienti differenti). L’interpretazione dei risultati di
queste ricerche è controversa. Tendenzialmente è possibile affermare che il corredo genetico
influisce per il 50% nel determinare le basi dell’intelligenza. Sembra quindi che i geni e l’ambiente
contribuiscano in uguale misura alla formazione del QI. Particolarmente interessanti sono gli studi
per individuare eventuali differenze legate al sesso, alla classe sociale ed alla razza. Per quanto
riguarda le eventuali differenze tra i due sessi, nel livello di intelligenza media la risposta è certa e
definitiva: non esistono differenze significate tra uomini e donne. Vi sono invece differenze grandi
e nette nel QI medio di membri di classi sociali e professionali diverse. Chi svolge lavori
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intellettuali riporta valori più elevati nei test di intelligenza, anche se ciò potrebbe essere dovuto a
una maggiore familiarità di questi lavoratori con i compiti richiesti nei test. Il fattore fondamentale
sembra essere l’istruzione ricevuta. Il contesto sociale di riferimento è comunque essenziale:
differenze legate alla classe sociale compaiono già prima dei 5 anni di età. Ciò implica che i fattori
ambientali rilevanti operino già prima che il bambino vada a scuola. Anche da questo punto di vista
viene sottolineato il fondamentale ruolo della famiglia nell’influenzare tutto lo sviluppo intellettivo
del soggetto. Il dibattito più acceso è nato intorno al ruolo della razza nel determinare minori e
maggiori punteggi nei test di intelligenza. Gli studi condotti negli Stati Uniti rilevano infatti che la
popolazione di colore riporta punteggi significativamente inferiori rispetto alla popolazione bianca.
Questo è un dato certo, ma l’interpretazione è da ricercare sovrapposizione tra razza e contesto
sociale disagiato.
Successive revisioni della scala WAIS e WISC, (WAIS-R, WISC-R), sono state tradotte e tarate per
la popolazione italiana, mentre non sono ancora disponibili le versioni WAIS-III e IV e WISC-IV,
già pubblicate negli Stati Uniti.
LA SCALA WAIS-R
Attualmente in Italia il più utilizzato test di intelligenza è la WAIS-R (Wechsler Adult Intelligence
Scale Revised; 1981). La scala WAIS-R amplia la linea di sviluppo sulla valutazione
dell’intelligenza negli adulti, iniziata con la Wechsler-Bellevue e continuata con la sua revisione, la
scala WAIS. Proprio in funzione delle numerose ricerche condotte utilizzando la scala WAIS e
delle critiche e obiezioni avanzate rispetto alla sua applicazione, l’obiettivo principale della WAISR è stato l’aggiornamento dei contenuti della WAIS e la considerazione di nuove norme di
riferimento, derivate dalle risposte e dai punteggi di campioni attuali della popolazione. Circa l’80%
degli item della WAIS sono stati mantenuti o lievemente modificati, mentre sono stati rivisti o
eliminati quegli item che sembravano obsoleti e ridondanti, e sono stati aggiunti dei nuovi quesiti. È
stato modificato anche l’ordine di somministrazione delle prove a causa dei cambiamenti di
difficoltà degli item, ed anche l’assegnazione dei punteggi per alcune prove avviene in maniera
diversa, in accordo con i risultati dell’analisi dei nuovi dati. Mentre nella WAIS le prove di
performance seguivano quelle verbali, nell’ordine di presentazione dei subtest della WAIS-R quelli
verbali si alternano a quelli di performance. L’esperienza ha infatti dimostrato che variare i compiti
in questo modo aiuta a mantenere vivo l’interesse dei soggetti che si sottopongono alla prova.
Come la scala originaria, la WAIS-R consta di 11 subtest, di cui 6 compongono la Scala Verbale
(Informazione, Comprensione, Ragionamento aritmetico, Analogie, Memoria di cifre e
Vocabolario) e 5 la Scala di Performance (Associazione simboli a numeri, Completamento di
figure, Disegno con i cubi, Riordinamento di storie figurate e Ricostruzione di oggetti); insieme, gli
11 subtest costituiscono la Scala Totale.
Scala Verbale (si definisce tale, perché formata da subtest principalmente basati, per la loro
soluzione, sul linguaggio verbale e sul ragionamento verbale e numerico)
INFORMAZIONE (il subtest è costituito da semplici domande di cultura generale che riguardano
informazioni che l’adulto normale dovrebbe avere acquisito nella sua esperienza, ad esempio, a
quale temperatura bolle l’acqua..)
COMPRENSIONE (il subtest propone delle situazioni problematiche implicanti principi morali,
sociali, legali e di relazione interpersonale, a cui il soggetto deve rispondere utilizzando giudizio
sociale, senso comune, capacità di cogliere convenzioni sociali ed abilità ad usare appropriatamente
le conoscenze)
RAGIONAMENTO ARITMETICO (viene presentata oralmente una serie di problemi che il
soggetto deve risolvere. È una prova a tempo)
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ANALOGIE (viene presentata una serie di coppie di parole e al soggetto viene chiesto di spiegare
in che cosa si assomiglino)
MEMORIE DI CIFRE (al soggetto viene chiesto di ascoltare e successivamente di ripetere gruppi
di cifre o nell’ordine in cui vengono lette o nell’ordine inverso)
VOCABOLARIO (al soggetto viene presentata una serie di parole e gli viene chiesto di spiegarne il
significato)
Scala di Performance (si definisce tale perché basata sulla manipolazione di oggetti e di figure)
ASSOCIAZIONE SIMBOLI A NUMERI (a partire da una serie prefissata di simboli associata a dei
numeri, il soggetto deve associare in appropriati spazi gli stessi simboli sotto tutta una serie di
numeri proposti. È una prova a tempo).
COMPLETAMENTO DI FIGURE (viene chiesto di ricostruire delle figure significative a partire da
pezzi predisposti. È una prova a tempo
DISEGNO CON CUBETTI (viene chiesto al soggetto di utilizzare dei blocchi colorati per
riprodurre dei disegni. È una prova a tempo).
RIORDINAMENTO DI STORIE FIGURATE (vengono presentate alcune serie di figure. Ciascuna
serie è disposta in un ordine prefissato e, se riordinate, acquista una sua logica. Compito del
soggetto è individuare l’ordine logico della storia e riordinare la serie in tale ordine. È una prova a
tempo).
RICOSTRUZIONE DI FIGURE (vengono presentate delle immagini di oggetti o scene comuni in
cui manca una parte importante e al soggetto è chiesto di identificarla. È una prova a tempo).
I due gruppi, verbale e di performance, possono essere somministrati insieme o da soli permettendo,
ad esempio, di somministrare la prima a persone con deficit del linguaggio, oppure solo la seconda
a soggetti che hanno handicap visuomotori. È preferibile, comunque, somministrare entrambe le
sezioni per fornire ai soggetti esaminati un maggior numero di prove per dimostrare le loro capacità
e per consentire agli esaminatori maggiori opportunità di valutazione delle abilità cognitive
complessive. Il QI, calcolato dai dati della Scala Verbale, di Performance o Totale, è ricavato dal
confronto diretto dei risultati ottenuti al test dal soggetto con quelli ottenuti dai soggetti appartenenti
alla stessa classe d’età; esso costituisce forse il più significativo elemento d’informazione circa le
capacità mentali del soggetto, in quanto è proprio il confronto con i coetanei che può essere assunto
come la relazione più significativa.
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Parte V: La classificazione e la diagnosi
La diagnosi nosografica
La diagnosi nosografica ha come riferimento il modello medico della diagnosi delle malattie
somatiche, e si basa sull’assunto che i disturbi psicologici, al di là della loro origine organica,
psichica o socio ambientale, possano essere descritti come entità distinte l’una dall’altra sulla base
di specifici insiemi di segni e sintomi.
Quest’assunto, anche se non è accettato in modo unanime e acritico 4 da coloro che si occupano
della salute mentale, ha comunque il merito di favorire la ricerca di criteri condivisi che permettono
ai clinici di comunicare fra loro i risultati delle loro osservazioni e trattamenti. Per una corretta
comunicazione fra clinici è, infatti, necessario che essi s’intendano sul quadro psicologico dei loro
pazienti, e per rendere valida e affidabile quest’intesa è indispensabile possedere un sistema
condiviso di categorizzazione delle varie situazioni cliniche.
Attualmente sono in uso due sistemi di classificazione dei disturbi psicologici, l’International
Classification of Diseases, Injuries and Causes of Death, che include la classificazione dei disturbi
psichici, giunto alla decima edizione (ICD-10), e il Diagnostic and Statistical Manual of Mental
Disorders, giunto alla quarta edizione (DSM-IV).
Ai fini del nostro corso prenderemo in considerazione in modo dettagliato il sistema diagnostico del
DSM-IV.
Prima di entrare nel merito, un breve cenno su un tema complesso: la discriminazione fra normalità
e patologia. Su questo tema i sistemi diagnostici nosografici sono costretti di fatto ad una presa di
posizione. Come accennato in precedenza sono state proposte alcune definizioni di normalità e
patologia, nessuna delle quali da sola è soddisfacente, per cui i disturbi psicologici sono di solito
definiti sulla base della presenza contemporanea di più criteri:
- Criterio statistico: considera anormale un comportamento (o una caratteristica della persona)
che si discosta molto da quello medio della popolazione. Questo criterio si applica bene alla
diagnosi di ritardo mentale, ma non offre alcuna guida certa per stabilire quale comportamento
infrequente debba essere considerato patologico.
- Criterio della sofferenza personale: è certamente una caratteristica di molti dei cosiddetti
disturbi psicologici, ma vi sono disturbi (es. il disturbo antisociale di personalità) in cui la
sofferenza non è presente, e situazioni normali caratterizzate dalla sofferenza personale (es. il
lutto).
- Criterio della conformità alle norme sociali: propone di considerare anormale qualunque
comportamento che violi le regole sociali e minacci o renda ansiosi coloro che lo osservano.
Può adattarsi ad alcuni disturbi come la schizofrenia, il disturbo antisociale di personalità o ad
alcuni dei disturbi correlati a sostanze, ma non si adatta a molti altri; inoltre non tiene conto
delle differenze culturali, e dell’impropria sovrapposizione di ruoli fra psicologo e giudice
penale.
- Criterio della compromissione di importanti aree dell’esistenza (es. lavoro, relazioni sociali): si
adatta alla diagnosi di molti disturbi ( es. disturbi d’ansia, disturbi somatoformi ecc.), ma non a
4
Le critiche (alle quali possono essere fatte delle contro obiezioni) ai sistemi diagnostici
nosografici vertono principalmente: sulla pretesa di poter individuare una linea netta di separazione
fra normalità e patologia, sulla possibile perdita d’informazioni rispetto all’unicità delle persone, e
sulla validità delle singole categorie diagnostiche (es. in una categoria potrebbero essere inseriti,
sulla base di sintomi comuni, persone il cui disagio ha origini diverse).
76
-
tutti. Questo criterio inoltre necessiterebbe di una definizione più precisa del concetto di
compromissione.
Criterio dell’imprevedibilità: propone di considerare patologiche le reazioni (es. la sofferenza o
la compromissione) sproporzionate ed imprevedibili a fattori ambientali stressanti.
IL DSM IV
Quarta edizione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, pubblicato dalla
American Psychiatric Association, il DSM-IV è il sistema di classificazione nosografica dei disturbi
mentali, attualmente utilizzato dagli psichiatri e dagli psicologi clinici degli Stati Uniti e di molti
altri paesi compresa l’Italia. Caratteristiche del DSM-IV sono l’ateoricità, e la diagnosi multiassiale.
La scelta dell’ateoricità, cioé il non prendere posizione sulle cause dei vari disturbi psicologici,
limitandosi ad una prospettiva puramente descrittiva, è conseguenza della necessità di rendere
fruibile il manuale a clinici di diverso orientamento teorico. È tuttavia esplicito l’invito ai fruitori di
dare impulso a ricerche finalizzate alla comprensione delle cause dei disturbi e all’approfondimento
della reale omogeneità eziologica delle singole categorie diagnostiche.
La diagnosi multiassiale prevede la valutazione di ogni soggetto rispetto a cinque diversi assi,
obbligando il clinico a prendere in considerazione altre importanti informazioni oltre la raccolta dei
sintomi. I primi due assi identificano i diversi disturbi mentali concepiti come entità discrete,
differenziate attraverso criteri di inclusione ed esclusione: ciascun disturbo è rappresentato da una
serie di sintomi e la presenza o assenza di alcuni di questi sintomi è il punto di discrimine tra un
disturbo e l’altro. I disturbi clinici dell’asse I vengono mantenuti separati da quelli di personalità e
dal ritardo mentale (asse II) per garantire che l’attenzione rivolta verso il disturbo attuale della
persona non trascuri l’esistenza di un disturbo a lunga durata. Sull’Asse III si annota qualsiasi
condizione medica ritenuta rilevante ai fini del disturbo mentale in esame. L’Asse IV codifica i
problemi di natura psicosociale e ambientali, come problemi lavorativi e/o economici, che
potrebbero contribuire al disturbo. Sull’Asse V viene indicato il funzionamento adattivo attuale
dell’individuo in varie aree dell’esistenza.
Inoltre, nell’ultima versione sono state aggiunte tre scale opzionali:
- la Scala del Funzionamento Difensivo prevede che il clinico indichi lo stile difensivo, o
meccanismo di difesa, specifico al momento della valutazione
- la Scala di Valutazione Globale del Funzionamento Relazionale che permette di stimare il grado
in cui una società o una famiglia soddisfano i bisogni strumentali e affettivi dell’individuo
- la Scala di Valutazione del Funzionamento Sociale e Lavorativo si focalizza sul livello di
funzionamento sociale ed occupazionale al di là della gravità della sintomatologia psichica.
L’affidabilità interrater del DSM-IV (grado di concordanza di giudizio di diversi osservatori sullo
stesso eventi) è buona per la maggior parte delle categorie diagnostiche; ancora aperta è la
questione della validità eziologica (stessi fattori causali in tutti i soggetti appartenenti ad una
categoria diagnostica), concomitante (scoperta che altri sintomi, non contemplati dal manuale,
caratterizzano le persone appartenenti ad una categoria diagnostica), e predittiva (capacità di
prevedere l’andamento futuro e la prognosi e la risposta ad una determinata terapia delle persone
appartenenti alla medesima categoria diagnostica).
77
ASSE I
DISTURBI CLINICI: sono codificate 15 classi di disturbi ( Disturbi solitamente diagnosticati per
la prima volta nell’infanzia, nella fanciullezza, o nell’adolescenza; Delirium, demenza, disturbi
amnestici e altri disturbi cognitivi; Disturbi mentali dovuti ad una condizione medica generale non
classificati altrove; Disturbi correlati a sostanze; Schizofrenia e altri disturbi psicotici; Disturbi
dell’umore; Disturbi d’ansia; Disturbi somatoformi; Disturbi fittizzi; Disturbi dissociativi; Disturbi
sessuali e della identità di genere; Disturbi dell’alimentazione; Disturbi del sonno; Disturbi del
controlli degli impulsi non classificati altrove; Disturbi dell’adattamento), ognuna delle quali
contiene la descrizione dei criteri diagnostici dei singoli disturbi psicologici compresi nella
categoria.
ALTRE CODIZIONI CHE POSSONO ESSERE OGGETTO DI ATTENZIONE CLINICA: sono
codificati in 6 categorie (Fattori psicologici che influenzano una condizione medica; Disturbi del
movimento indotti da farmaci; Altro disturbo indotto da farmaci; Problemi relazionali; Problemi
correlati a maltrattamento o abbandono; Ulteriori condizioni che possono essere oggetto di
attenzione clinica), ognuna delle quali contiene la descrizione dei criteri diagnostici dei singoli
disturbi psicologici compresi nella categoria.
ASSE II
DISTURBI DELLA PERSONALITA’: sono presi in considerazione i criteri diagnostici di 10 disturbi
di personalità (Gruppo A: Disturbo paranoide di personalità; Disturbo schizoide di personalità;
Disturbo Schizotipico di personalità. Gruppo B: Disturbo antisociale di personalità; Disturbo
borderline di personalità; Disturbo istrionico di personalità; Disturbo narcisistico di personalità.
Gruppo C: Disturbo evitante di personalità; Disturbo dipendente di personalità; Disturbo ossessivocompulsivo di personalità. Disturbo di personalità non altrimenti specificato).
RITARDO MENTALE: è classificato secondo la gravità (lieve, moderato, grave, gravissimo).
ASSE III
CONDIZIONI MEDICHE GENERALI: è utilizzato per registrare tutte le condizioni mediche
generali potenzialmente rilevanti per la comprensione o la gestione del caso. La condizione medica
può: 1) essere la causa di un disturbo classificato sull’asse I; 2) essere considerata come un fattore
stressante precipitante; 3) essere importante per la gestione del caso; 3) essere un reperto
accidentale.
ASSE IV
PROBLEMI PSICOSOCIALI E AMBIENTALI: sono elencate 9 categorie di problemi di cui la
persona può avere avuto esperienza ( di solito relativi all’ultimo anno) e che possono avere un
impatto sulla comprensione o gestione del caso: 1) problemi con il gruppo di supporto primario (es.
78
morte o problemi di salute fra i familiari, divorzio, abuso fisico o sessuale, iperprotettività dei
genitori, nascita di un fratello ecc.); 2) problemi correlati all’ambiente sociale (es. perdita del
supporto sociale, pensionamento, difficoltà di acculturazione ecc.); 3) problemi educazionali (es.
analfabetismo, problemi con gli insegnanti o con i compagni ecc.); 4) problemi lavorativi (es.
disoccupazione, insoddisfazione ecc.); 5) problemi abitativi (casa inadeguata, problemi con i vicini
ecc.); 6) problemi economici (es. povertà estrema ecc.); 7) problemi riguardanti l’accesso ai servizi
sanitari (es. servizi sanitari inadeguati, mancanza di mezzi di trasporto ecc.); 8) problemi collegati
col sistema legale o penale (es. cause in corso, arresto, essere state vittime di qualche crimine ecc. );
8) altri problemi psicosociali o ambientali (es. esposizione a disastri naturali, guerra ecc.).
ASSE V
VALUTAZIONE GLOBALE DEL FUNZIONAMENTO: codifica l’attuale funzionamento adattivo
della persona su una scala da 100 (funzionamento superiore alla norma in un ampio spettro di
attività ecc.) ad 1 (persistente pericolo di far del male a se stesso o agli altri ecc.). Può essere
utilizzata per documentare gli esiti del trattamento, il tipo di trattamento (es. ospedaliero o
ambulatoriale), il diritto all’assistenza o alla pensione d’invalidità.
ASSI OPZIONALI
SCALA DEL FUNZIONAMENTO DIFENSIVO: È utilizzata in particolare dai clinici di
orientamento psicodinamico. Consta di 27 meccanismi di difesa raggruppati in 7 livelli difensivi: 1)
alto livello adattivo (es. sublimazione, affiliazione ecc.); 2) livello delle inibizioni mentali (es.
rimozione, spostamento dissociazione ecc.); 3) livello lieve di distorsione dell’immagine
(svalutazione, idealizzazione, onnipotenza); 4) livello del disconoscimento (negazione, proiezione,
razionalizzazione); 5) livello grave di distorsione dell’immagine (fantasie autistiche, identificazione
proiettiva, scissione); 6) livello dell’azione (messa in atto, ritiro apatico ecc.); 7) livello della
sregolazione difensiva (proiezione delirante, negazione psicotica, distorsione psicotica).
SCALA DI VALUTAZIONE GLOBALE DEL FUNZIONAMENTO RELAZIONALE: È utilizzata, in
particolare dai clinici interessati all’approccio familiare sistemico, per valutare il funzionamento di
una famiglia o di un’altra entità relazionale su una scala da 100 (entità relazionale funzionante in
modo soddisfacente) a 1 (entità relazionale troppo mal funzionante per consentire una continuità di
contatto e di attaccamento), rispetto a tre aree (soluzione dei problemi, organizzazione, atmosfera
emozionale.
SCALA DI VALUTAZIONE DEL FUNZIONAMENTO SOCIALE E LAVORATIVO: simile alla scala
di valutazione globale del funzionamento dell’asse V, se ne differenzia perché valuta il
funzionamento tenendo conto anche dei problemi che derivano da malattie fisiche e non della
gravità dei sintomi.
LE DIAGNOSI DSM IV
-
DISTURBI DELL’INFANZIA, DELLA FANCIULLEZZA E DELL’ADOLESCENZA
Comprendono dieci categorie di disturbi, diagnosticati di solito, ma non sempre, prima del raggiungimento dell’età
adulta: Ritardo mentale; Disturbi dell’apprendimento (disturbo della lettura, del calcolo, o dell’espressione scritta);
Disturbo delle capacità motorie; Disturbi della comunicazione (disturbo dell’espressione del linguaggio, misto
dell’espressione e della ricezione, della fonazione, balbuzie); Disturbi generalizzati dello sviluppo (disturbo autistico, di
Rett, di Asperger, disintegrativo della fanciullezza); Disturbi da deficit dell’attenzione e da comportamento dirompente
(disturbo da deficit dell’attenzione/iperattività, disturbo della condotta, disturbo oppositivo provocatorio); Disturbi della
nutrizione e dell’alimentazione (Pica, di ruminazione, della nutrizione dell’infanzia o della prima fanciullezza); Disturbi
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da tic (disturbo di Tourette, cronico da tic motori o vocali, transitorio da tic); Disturbi dell’evacuazione (enuresi,
encopresi); Altri disturbi dell’infanzia, della fanciullezza o dell’adolescenza (disturbo d’ansia di separazione, mutismo
selettivo, reattivo dell’attaccamento, da movimenti stereotipati). Molti di questi disturbi non devono essere considerati
come disturbi mentali.
-
DELIRIUM, DEMENZA, DISTURBO AMNESTICO E ALTRI DISTURBI COGNITIVI
Disturbi caratterizzati da un deficit cognitivo (Delirium: alterazione della coscienza accompagnata da modificazioni
cognitive, per es. allucinazioni, disorientamento, perdita della memoria ecc.; Demenza: deficit della memoria
accompagnato da afasia, aprassia, agnosia o disturbi delle funzioni operative; Amnesia: menomazione della memoria)
dovuto agli effetti diretti di una condizione medica generale (es. disturbi metabolici, alzheimer, trauma cranico ecc.) o
dall’uso di qualche sostanza.
DISTURBI MENTALI DOVUTI AD UNA CONDIZIONE MEDICA GENERALE NON
CLASSIFICATI ALTROVE
La caratteristica comune è quella della presenza di sintomi psicopatologici causati da una condizione medica generale.
Comprende otto disturbi i cui criteri diagnostici sono collocati in altre sezioni (es. delirium dovuto a.., disturbo d’ansia
dovuto a.., disturbo dell’umore dovuto a.. ecc.) e tre categorie di disturbi che non hanno posto altrove (disturbo
catatonico dovuto a.., modificazione della personalità dovuta a.., disturbo mentale non altrimenti specificato dovuto a..).
-
DISTURBI CORRELATI A SOSTANZE
Sono forniti i criteri generali e specifici per la diagnosi dei disturbi collegati all’uso di sostanze (dipendenza e abuso) e
di quelli indotti dall’effetto diretto delle sostanze sul sistema nervoso centrale (intossicazione, astinenza, delirium,
demenza, disturbo dell’umore, disturbo d’ansia ecc..) Il termine sostanza si riferisce alle droghe d’abuso, ma anche ai
farmaci e alle tossine. Sono prese in considerazione 12 classi di sostanze (alcool; amfetamine; caffeina; cannabis;
cocaina; allucinogeni; inalanti; nicotina; oppiacei; fenciclidina; sedativi, ipnotici e ansiolitici; sostanze diverse).
-
SCHIZOFRENIA E ALTRI DISTURBI PSICOTICI
Comprende nove disturbi (Schizofrenia, Disturbo schizofreniforme, Disturbo schizoaffettivo, Disturbo delirante,
Disturbo psicotico breve, Disturbo psicotico condiviso, Disturbo psicotico dovuto a condizione medica generale,
Disturbo psicotico indotto da sostanze, Disturbo psicotico non altrimenti specificato) caratterizzati dalla presenza di
sintomi psicotici (deliri, allucinazioni, eloquio disorganizzato, comportamento disorganizzato o catatonico, sintomi
negativi) che variano da disturbo a disturbo.
Non sono compresi in questa sezione i disturbi psicotici correlati ai disturbi dell’umore, al delirium, alla demenza, e il
disturbo catatonico dovuto ad una condizione medica generale.
-
DISTURBI DELL’UMORE
Comprendono sette disturbi (Disturbo depressivo maggiore, Disturbo distimico, Disturbo bipolare I, Disturbo bipolare
II, Disturbo ciclotimico, Disturbo dell’umore dovuto a una condizione medica generale, Disturbo dell’umore indotto da
sostanze) caratterizzati principalmente dalla presenza di umore (stato affettivo pervasivo e prolungato) prevalentemente
depresso, esaltato o irritabile.
-
DISTURBI D’ANSIA
Comprendono dodici disturbi (Fobia specifica, Fobia sociale, Disturbo d’ansia generalizzato, Disturbo ossessivocompulsivo, Disturbo di panico con e senza agorafobia, Agorafobia senza anamnesi di disturbo di panico, Disturbo
post-traumatico da stress, Disturbo acuto da stress, Disturbo d’ansia dovuto a condizione medica generale, Disturbo
d’ansia indotto da sostanze, Disturbo d’ansia non altrimenti specificato), caratterizzati dall’ansia o dall’evitamento
fobico come sintomi dominanti.
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-
DISTURBI SOMATOFORMI
Includono sette disturbi (Disturbo di somatizzazione, disturbo somatoforme indifferenziato, Disturbo di conversione,
Disturbo algico, Ipocondria, Disturbo di dimorfismo corporeo, Disturbo somatoforme non altrimenti specificato) la cui
caratteristica determinante è una lamentela fisica o una preoccupazione somatica che non è meglio attribuibile ad una
condizione medica generale o ad un altro disturbo mentale.
-
DISTURBO FITTIZIO E SIMULAZIONE
Comprende situazioni in cui il paziente simula o produce intenzionalmente sintomi per ingannare il clinico.
-
DISTURBI DISSOCIATIVI
Comprendono cinque disturbi (Amnesia dissociativa; Fuga dissociativa; Disturbo dissociativo dell’identità; Disturbo di
depersonalizzazione; Disturbo dissociativo non altrimenti specificato) caratterizzati da un’alterazione delle funzioni
integrate di coscienza, memoria, identità e percezione.
-
DISTURBI SESSUALI E DELL’IDENTITA’ DI GENERE
Comprendono tre categorie di disturbi: Le disfunzioni sessuali (Disturbi del desiderio sessuale, dell’eccitazione
sessuale, dell’orgasmo, da dolore sessuale) che fanno riferimento ad anomalie del desiderio o del funzionamento
sessuale, le parafilie (esibizionismo, feticismo, frotteurismo, pedofilia, masochismo sessuale, sadismo sesuale, feticismo
di travestimento, voyeurismo) che fanno riferimento a preferenze sessuali insolite, e il disturbo dell’identità di genere.
-
DISTURBI DELL’ALIMENTAZIONE
Comprendono tre categorie di disturbi (Anoressia nervosa, Bulimia nervosa e Disturbi dell’alimentazione non altrimenti
specificati) caratterizzati da alterazione del comportamento alimentare e della percezione dell’immagine corporea.
-
DISTURBI DEL SONNO
Comprendono quattro categorie di disturbi (Disturbi primari del sonno, Disturbi del sonno correlati ad un altro disturbo
mentale, Disturbo del sonno dovuto ad una condizione medica generale, Disturbo del sonno indotto da sostanze)
organizzati in base alla presunta eziologia.
-
DISTURBI DEL CONTROLLO DEGLI IMPULSI NON CLASSIFICATI ALTROVE
Comprendono sei categorie di disturbi (Disturbo esplosivo intermittente, Cleptomania, Piromania, Gioco d’azzardo
patologico, Tricotillomania, Disturbo del controllo degli impulsi non altrimenti specificato) caratterizzati da un
comportamento impulsivo clinicamente significativo, non meglio attribuibile ad altro disturbo mentale.
-
DISTURBI DELL’ADATTAMENTO
Sono caratterizzati dalla presenza di sintomi emotivi o comportamentali, clinicamente significativi (umore depresso,
ansia, umore depresso e ansia misti, alterazioni della condotta, alterazione mista della condotta e dell’emotività), ma al
di sotto della soglia stabilita dai criteri stabiliti per i vari disturbi, che si sviluppano a seguito di uno o più eventi
stressanti identificabili, e non persistono una volta che l’evento sia stato superato.
-
DISTURBI DELLA PERSONALITA’
Prendono in considerazione i criteri diagnostici di 10 disturbi di personalità, suddivisi in tre gruppi (Gruppo A: Disturbo
paranoide di personalità; Disturbo schizoide di personalità; Disturbo Schizotipico di personalità. Gruppo B: Disturbo
antisociale di personalità; Disturbo borderline di personalità; Disturbo istrionico di personalità; Disturbo narcisistico di
personalità. Gruppo C: Disturbo evitante di personalità; Disturbo dipendente di personalità; Disturbo ossessivocompulsivo di personalità), definiti in generale come modalità pervasive e costanti di pensare, sentire ed agire in modo
81
rigido e non adattivo, che deviano marcatamente rispetto alle aspettative della cultura dell’individuo, e che causano un
disagio clinicamente significativo e compromissione di importanti aree dell’esistenza.
-
ALTRE CONDIZIONI CHE POSSONO ESSERE OGGETTO DI ATTENZIONE CLINICA
Sono considerate alcune condizioni che possono essere oggetto di attenzione clinica a livello di diagnosi e di
trattamento, ma che non sono di per sé disturbi mentali: Fattori psicologici che influenzano una condizione medica;
Disturbi del movimento indotti da farmaci; Altro disturbo indotto da farmaci; Problemi relazionali (problema
relazionale genitore-bambino, problema relazionale tra partner, ecc.); Problemi correlati a maltrattamento o abbandono
(maltrattamento fisico del bambino o dell’adulto, abuso sessuale del bambino o dell’adulto, abbandono del bambino);
Ulteriori condizioni che possono essere oggetto di attenzione clinica (non collaborazione al trattamento, comportamento
antisociale del bambino, dell’adolescente o dell’adulto, declino cognitivo dovuto all’età, lutto, problema scolastico o
lavorativo, problema di acculturazione, problema relativo ad una fase della vita ecc).
La diagnosi esplicativa
Lo scopo della diagnosi esplicativa è quello di giungere alla comprensione delle cause del disagio
psicologico di un determinato individuo. Questa diagnosi non è, comunque, alternativa a quella
nosografica, e può essere, pertanto, applicata alla creazione di un sistema di classificazione basato
su nuove categorie unificate da una causa etiologica comune, o alla comprensione dei fattori
eziologici all’interno delle singole categorie diagnostiche di uno dei sistemi di classificazione
nosografica in uso. A differenza della diagnosi nosografica dove i sintomi rimandano solo a se
stessi, alla loro durata e alla frequenza con cui compaiono in combinazione con altri segni e sintomi,
la diagnosi esplicativa si sforza di dare significato ai sintomi, all’interno di un contesto dove anche
ciò che non è patologico assume importanza.
Limite della diagnosi esplicativa è la necessità di avere come riferimento imprescindibile l’insieme
di assunti generali sul funzionamento della mente e sulle cause dei disturbi psicologici, così come
sono concettualizzati da un determinato paradigma. Pertanto, clinici di diverso orientamento
teorico, nel loro procedere diagnostico, esploreranno aree diverse del funzionamento psichico e
relazionale dei loro pazienti, o a volte le stesse aree, ma utilizzando una diversa terminologia ed
enfatizzandone in modo diverso l’importanza. Brevi esemplificazioni sulla diagnosi esplicativa
relativa al paradigma psicoanalitico e cognitivo aiuteranno a meglio comprendere questi concetti:
- La diagnosi psicoanalitica: Il paradigma psicoanalitico concettualizza i disturbi psicologici
come conseguenze di carenze o traumi ambientali e di conflitti intrapsichici dell’età evolutiva,
(riattivati da circostanze attuali nel caso di disturbi comparsi a distanza di tempo), tali da
produrre deficit strutturali dell’Io o del Super-io, risposte emozionali (per es.angoscia,
sentimento di colpa, vergogna) e/o operazioni mentali difensive (meccanismi di difesa) adattive
o compensatorie che possono portare a distorsioni del funzionamento dell’Io e del Super-io e
della personalità nel suo complesso, e alla comparsa di sintomi. La diagnosi psicoanalitica
esplicativa, pertanto focalizza l’attenzione del clinico sull’individuazione dei traumi e dei
conflitti intrapsichici attuali e passati, sulla valutazione dei deficit strutturali dell’Io (per es.
scarsa capacità introspettiva, bassa tolleranza alle frustrazioni, minore capacità di gestire
adeguatamente i propri bisogni ed emozioni, persistenza di caratteristiche di pensiero concreto e
82
magico, scarsa autostima e fragile senso d’identità ecc.) e del Super-io (per es. eccessiva rigidità
morale o incapacità a adeguarsi alle norme sociali ecc.), sulla valutazione degli affetti (ansia,
depressione, vergogna, gelosia , rabbia ecc.) e dei meccanismi di difesa prevalenti, e delle
modalità relazionali con le persone significative e con il clinico.
Gli strumenti di valutazione di cui si avvale il clinico ad orientamento psicodinamico per
giungere alla diagnosi sono principalmente il colloquio clinico ed eventualmente test proiettivi di
personalità.
-
La diagnosi cognitiva: nella prospettiva cognitivo razionalista i disturbi psicologici sono
concettualizzati come conseguenze di asserzioni e convinzioni irrazionali sul dover essere in
determinati modi, e di convinzioni negative su se stessi, il mondo e il futuro, mantenute grazie
ad errori di logica, mentre nella prospettiva cognitivo strutturalista sono enfatizzate le
conseguenza di sistemi conoscitivi rigidi e incoerenti e di stili d’attaccamento insicuri, di cui le
persone avrebbero poca consapevolezza. Momento centrale della valutazione diagnostica è
pertanto l’individuazione degli schemi cognitivi irrazionali e negativi o degli schemi prevalenti
del sistema conoscitivo e delle esperienze precoci d’attaccamento che producono il disagio
psicologico dei pazienti. Per tale valutazione i clinici si avvalgono di colloqui clinici, interviste
più o meno strutturate, questionari di autovaluazione e risposte a situazioni stimolo
standardizzate. Dato che gli psicologi clinici ad orientamento cognitivo si avvalgono anche di
tecniche terapeutiche di tipo comportamentale, la valutazione diagnostica spesso viene estesa
alle situazioni ambientali che precedono il problema del paziente e alle sue risposte esplicite,
utilizzando l’osservazione diretta del comportamento, interviste diagnostiche e questionari di
autovalutazione.
83
Parte VI: I disturbi psicologici
DISTURBI D’ANSIA
Comprendono dodici disturbi caratterizzati dall’ansia o dall’evitamento fobico come sintomi
dominanti.
-
Fobia Specifica
-
Fobia sociale
-
Disturbo d’Ansia Generalizzato
-
Disturbo Ossessivo-Compulsivo
-
Disturbo di Panico con e senza agorafobia
-
Agorafobia senza anamnesi di disturbo di panico
-
Disturbo Post-traumatico da Stress
-
Disturbo acuto da Stress
-
Disturbo d’Ansia dovuto a condizione medica generale
-
Disturbo d’Ansia indotto da sostanze
-
Disturbo d’Ansia non altrimenti specificato
84
FOBIA SPECIFICA
Diagnosi DSM-IV
La fobia specifica si caratterizza per una marcata e persistente paura, eccessiva o irragionevole,
provocata dalla presenza o dall’attesa di un oggetto o di una situazione specifici (per es. animali,
sangue, volare, altezze) [criterio A]. L’esposizione allo stimolo fobico provoca un’immediata
risposta ansiosa che può sfociare in un attacco di panico situazionale (nei bambini l’ansia può essere
espressa tramite pianti, scoppi d’ira, irrigidimenti, o aggrappandosi) [criterio B]. La persona, non
necessariamente i bambini, riconosce che le paure sono eccessive ed irragionevoli [criterio C]. Le
situazioni fobiche vengono evitate o sopportate con intenso disagio [criterio D], e l’evitamento o il
disagio collegato alle situazioni temute deve significativamente interferire con il funzionamento
lavorativo, sociale o deve essere presente marcato disagio per il fatto di soffrire di questo disturbo
[criterio E]. La durata del disturbo nei minori deve essere di almeno 6 mesi [criterio F]; infine, il
disturbo non deve essere meglio giustificato da altro disturbo mentale o da una condizione medica
generale o dall’assunzione di sostanze [criterio G].
[Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 226-228].
Le fobie specifiche sono dunque comportamenti di evitamento di cose o situazioni specifiche che
attivano un’ansia sproporzionata e irragionevole. Possono essere divise in sottotipi a seconda della
fonte della paura, e il loro contenuto può variare nelle varie culture. Sono esperienze comuni e
ubiquitarie che spesso non creano un problema tale da richiedere un trattamento. Importante per il
discrimine fra normalità e patologia e quindi per considerare questi comportamenti come un
disturbo psicologico è il criterio E.
La teoria psicoanalitica spiega la fobia specifica come conseguenza dello spostamento (meccanismo
di difesa) dell’angoscia segnale su oggetti o situazioni che hanno una relazione simbolica con la
situazione traumatica rimossa, in questo modo il pericolo viene fronteggiato con l’evitamento, e
viene rafforzata la rimozione della situazione originaria fonte dell’ansia (vedi il caso del piccolo
Hans descritto da Freud).
Le teorie comportamentali considerano le fobie specifiche come comportamenti appresi mediante
condizionamento classico, operante e imitazione di modelli.
La teoria del condizionamento all’evitamento ritiene che la fobia si sviluppi attraverso due processi
di apprendimento interconnessi, un iniziale condizionamento classico che porta ad associare un
evento che produce dolore o paura ad uno stimolo neutro e un successivo condizionamento operante
all’evitamento con rinforzo positivo determinato dalla conseguente riduzione dell’ansia. Gli studi
clinici e sperimentali basati su questa teoria hanno prodotto dati molto contrastanti (vedi Davison e
Neale, pag. 129-132) che suggeriscono il coinvolgimento anche di processi di diverso tipo.
La teoria dell’apprendimento vicario, considera all’origine delle fobie l’osservazione delle reazioni
di paura degli altri o la descrizione di ciò che potrebbe accadere. Anche in questo caso non si tratta
di un modello esplicativo valido per tutte le fobie, perché non tutti i fobici riferiscono di avere
assistito ad esperienze spiacevoli di altre persone, e molte persone che vi hanno assistito non
sviluppano fobie.
Le teorie cognitive sull’origine delle fobie danno rilievo al fatto che le persone che sviluppano fobie
o altri disturbi d’ansia, a differenza di quelle che non le sviluppano avrebbero una spiccata tendenza
a prestare attenzione agli stimoli negativi e una più alta aspettativa sul verificarsi di eventi negativi
nel futuro.
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FOBIA SOCIALE
Diagnosi DSM-IV
La fobia sociale si contraddistingue per una paura marcata e persistente nei confronti di situazioni
sociali o prestazioni che comportano l’esposizione a persone non familiari o il possibile giudizio di
altri. In tali situazioni la persona teme di mostrare ansia o di agire in modo umiliante ed
imbarazzante (nei bambini deve essere presente la capacità di stabilire rapporti appropriati all’età
con persone familiari, e l’ansia deve manifestarsi nell’interazione con i coetanei e non solo con gli
adulti) [criterio A]. L’esposizione alla situazione temuta causa ansia che può assumere le forme
dell’attacco di panico causato o sensibile alla situazione (nei bambini l’ansia può essere espressa
con pianti, scoppi d’ira o irrigidimento) [criterio B]. La persona adulta, non necessariamente i
bambini, riconosce che la paura è eccessiva o irragionevole [criterio C]. Le situazioni temute sono
evitate o sopportate con intensa ansia o disagio [criterio D] e l’evitamento delle situazioni, l’ansia
anticipatoria o il disagio provato nelle situazioni sociali o prestazionali interferiscono
significativamente con il funzionamento lavorativo (o scolastico), o con le attività e le relazioni
sociali, oppure è presente marcato disagio per il fatto di avere la fobia [criterio E]. Il disturbo, nei
minori, deve essere presente da almeno sei mesi [criterio F]. La fobia non deve essere giustificabile
dall’assunzione di sostanze o da una condizione medica generale, o da una diverso disturbo mentale
[criterio G], e nel caso fossero presenti altri disturbi mentali (ad es. un disturbo della
comunicazione) o una condizione medica generale compromessa (ad es. il tremore nella malattia di
Parkinson) la paura non deve essere a loro correlata [criterio H].
[Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 228-230].
Così come per le fobie specifiche, anche un certo grado di ansia sociale può considerarsi come
un’esperienza comune, per esempio quando si deve parlare in pubblico o si affronta un esame, o si
partecipa a feste o riunioni senza conoscere nessuno. Il confine fra normalità e patologia lo
troviamo negli aggettivi marcata e persistente che accompagnano il termine paura nel criterio A, e
nel forte disagio e notevole compromissione della vita sociale e lavorativa che il disturbo produce
nelle persone che ne soffrono, come specificato dal criterio E. Si tratta di un disturbo con un tasso di
prevalenza superiore al 10%, con esordio spesso nell’adolescenza e che presenta un alto tasso di
comorbilità con altri disturbi d’ansia e con il disturbo evitante di personalità. Può presentarsi in
forma circoscritta a determinate situazioni o in forma generalizzata. Il criterio C stabilisce il confine
fra la fobia sociale e l’evitamento sociale della schizofrenia o del disturbo schizotipico di
personalità.
La teoria psicoanalitica spiega la fobia sociale come conseguenza dell’interiorizzazione nel Super Io
e nell’Ideale dell’Io di rappresentazioni di genitori o agenti di cura o fratelli, idealizzati nelle loro
capacità e prestazioni, e che inducono vergogna o imbarazzo, criticano, ridicolizzano, umiliano per
le ovvie goffaggini dei primi tentavi di esibizione delle proprie capacità. La proiezione di questi
introietti sugli estranei permette alla persona di gestire l’ansia con l’evitamento.
Le teorie comportamentali considerano la fobia sociale, similmente alle fobie specifiche, come un
comportamento appreso mediante condizionamento classico, operante e imitazione di modelli.
Le teorie cognitive danno rilievo alla tendenza a prestare attenzione agli stimolo negativi e
all’immagine di sé presentata agli altri, ad una più alta aspettativa sul verificarsi di eventi negativi
nel futuro, e ad un deficit nell’apprendimento delle abilità sociali che faciliterebbe il non sentirsi a
proprio agio con gli altri, e l’essere oggetto di critiche per gli errori commessi.
86
DISTURBO D’ANSIA GENERALIZZATO
Diagnosi DSM-IV
Il disturbo d’ansia generalizzato è caratterizzato da ansia e preoccupazione eccessive per vari eventi
o attività, che si manifestano per la maggior parte dei giorni e per almeno sei mesi [criterio A].
L’ansia e la preoccupazione sono difficilmente controllabili [criterio B], e sono associate ad
almeno tre sintomi tra i seguenti: irrequietezza, facile affaticabilità, difficoltà a concentrarsi o vuoti
di memoria, irritabilità, tensione muscolare, alterazioni del sonno [criterio C]. L’oggetto dell’ansia
non deve limitarsi a preoccupazioni specifiche di altri disturbi dell’asse I, come per es. l’ansia di
avere un attacco di panico (disturbo di panico), di rimanere imbarazzati in pubblico (fobia sociale),
di essere contaminati (disturbo ossesivo-compulsivo), di prendere peso (anoressia nervosa), di avere
diversi disturbi fisici (disturbo di somatizzazione) ecc., e l’ansia e la preoccupazione non devono
manifestarsi esclusivamente durante un disturbo post-traumatico da stress [criterio D]. I sintomi
devono causare disagio significativo nella sfera personale, lavorativa, sociale od in altre aree
importanti dell’esistenza [criterio E]. Il disturbo, infine, non è dovuto all’uso di sostanze, ad una
condizione medica generale e non si manifesta durante un disturbo dell’umore, un disturbo
psicotico o un disturbo pervasivo dello sviluppo [criterio F].
[Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 237-238].
Anche in questo caso è importante distinguere il disturbo dalle preoccupazioni cosiddette normali e
da quelle transitorie, il carattere distintivo di questo disturbo è, infatti, la cronicità e pervasività
della preoccupazione ansiosa con i suoi correlati somatici, e la mancanza di controllo della
preoccupazione, che non permette alla persona di gestire efficacemente i problemi che di volta in
volta assillano la sua mente. Vi sono evidenze di eventi di vita stressanti nell’insorgenza del
disturbo. La comorbilità con altri disturbi d’ansia e dell’umore è alta, ed è maggiore la frequenza
nelle donne.
La teoria psicoanalitica spiega il disturbo d’ansia generalizzato come la conseguenza
dell’attivazione persistente dell’angoscia segnale a seguito di eventi di vita collegati
associativamente con conflitti intrapsichici o traumi rimossi della storia della persona. La
persistenza del segnale d’ansia e la variabilità dei contenuti a cui si appoggia viene spiegata con
l’inefficienza dei vari meccanismi di difesa messi in atto, o a causa di un Io fragile o a causa di una
persistente sollecitazione di situazioni ambientali collegate con conflitti intrapsichici e traumi
rimossi.
Il modello esplicativo comportamentale è del tutto simile quello proposto per le fobie.
Il modello esplicativo delle teorie cognitive si basa sui concetti di controllo e impotenza. Le persone
che soffrono di questo disturbo percepirebbero gli eventi potenzialmente minacciosi come
completamente fuori del loro controllo. A ciò si aggiungerebbe una tendenza ad interpretare gli
stimoli ambigui come minacciosi, un’attenzione privilegiata per gli stimoli minacciosi, anche
quando non sono percepibili a livello conscio, e una più alta aspettativa sul verificarsi di eventi
negativi nel futuro.
Le ricerche biologiche ipotizzano in questi pazienti la presenza di un difetto del sistema GABA che
inibisce l’ansia.
87
DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO
Diagnosi DSM-IV
Il disturbo ossessivo-compulsivo è caratterizzato dalla presenza di ossessioni e di compulsioni così
definite:
Ossessioni: pensieri, impulsi o immagini ricorrenti e persistenti che la persona vive come intrusivi o
inappropiati, che causano ansia e disagio marcati, e che la persona tenta di ignorare o sopprimere
attraverso altri pensieri o azioni. Questi pensieri, impulsi o immagini non sono semplici
preoccupazioni per avvenimenti della vita reale e la persona riconosce che sono prodotti della
propria mente e non imposti dall’esterno.
Compulsioni: comportamenti ripetitivi (es. lavarsi, riordinare, controllare) o azioni mentali (es.
pregare, contare mentalmente) che la persona sente di dover mettere in atto in risposta ad
un’ossessione e secondo regole rigide, per prevenire o ridurre il disagio, o per prevenire, in modi
non realistici o eccessivi, eventi temuti. [criterio A]
Nel corso del disturbo le persone, ma non sempre i bambini, riconoscono, almeno in qualche
momento, che le ossessioni e le compulsioni sono eccessive o irragionevoli [criterio B]. Le
ossessioni o le compulsioni devono, inoltre, causare marcato disagio, far consumare tempo (più di
un’ora al giorno), o interferire significativamente con le abitudini della persona, con il
funzionamento lavorativo o con le attività relazionali e sociali usuali [criterio C].
In caso di concomitanza di un altro disturbo, le ossessioni e le compulsioni non devono essere
riferite al contenuto specifico di quel disturbo, ad esempio l’ossessione per il cibo nei disturbi
dell’alimentazione, o per il proprio aspetto nel disturbo di dismorfismo corporeo, lo strapparsi i
capelli nella tricotillomania o la ruminazione di colpa in presenza di un disturbo depressivo
maggiore [criterio D]. Il disturbo, infine, non deve essere causato dall’uso di sostanze o da una
condizione medica generale [criterio E].
[Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 230-232].
Saltuarie ossessioni (per es. sotto forma di pensieri, immagini o melodie che si presentano
improvvisamente nella mente senza apparente motivo, creando fastidio per il loro contenuto o per la
difficoltà a metterli da parte) o compulsioni (per es. sotto forma di rituali propiziatori prima di
qualche evento importante, o che si trasformano in abitudini) fanno parte, in qualche momento della
vita, dell’esperienza comune delle persone, senza tuttavia interferire in modo significativo con le
normali attività. Ben diversa è la situazione delle persone che soffrono del disturbo ossessivocompulsivo per le quali la quotidiana presenza dei sintomi ossessivi e/o compulsivi, persistenti e
incontrollabili, diventa fonte di notevole disagio e di significativa compromissione della vita
affettiva, sociale e lavorativa. Frequente è inoltre l’associazione con altri disturbi d’ansia, con
disturbi dell’umore e con vari disturbi di personalità.
La teoria psicoanalitica spiega il disturbo ossessivo-compulsivo come la conseguenza
dell’attivazione di meccanismi di difesa quali, la formazione reattiva, l’annullamento e l’isolamento
per controllare l’angoscia segnale attivata da eventi di vita collegati associativamente con conflitti
psichici rimossi. Questi ultimi vengono ricondotti fondamentalmente al timore di perdere il
controllo su desideri e impulsi di natura aggressiva e/o sessuale ritenuti come riprovevoli e
vergognosi da un Super Io rigido, frutto dell’interiorizzazione delle aspettative e dei divieti dei
genitori durante il periodo dell’apprendimento del controllo comportamentale e degli sfinteri.
Le teorie cognitivo comportamentali considerano le compulsioni come comportamenti appresi
rinforzati dalla conseguente riduzione dell’ansia. Per le ossessioni viene ipotizzato che in questi
pazienti, a causa di esperienze infantili da cui hanno appreso che alcuni pensieri sono pericolosi o
riprovevoli, non tollerino pensieri spiacevoli che si affacciano casualmente alla mente per cui
cercano di sopprimerli creando un effetto paradosso di una forte concentrazione su di essi.
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La prospettiva biologica ipotizza una possibile diatesi genetica e un ruolo della dopamina e
dell’acetilcolina.
DISTURBO DI PANICO SENZA AGORAFOBIA E DISTURBO DI PANICO CON
AGORAFOBIA
Diagnosi DSM-IV
Si caratterizzano per la presenza di attacchi di panico (vedi definizione) ricorrenti ed inaspettati, di
cui almeno uno è seguito per almeno un mese da uno o più dei seguenti sintomi: 1) preoccupazione
persistente di avere altri attacchi; 2) preoccupazione a proposito delle implicazioni dell’attacco o
delle sue conseguenze (per es. perdere il controllo, avere un attacco cardiaco, impazzire); 3)
significativa alterazione del comportamento correlata agli attacchi [criterio A]. La presenza o
l’assenza di agorafobia (vedi definizione) è l’elemento per una diagnosi differenziale tra i due
disturbi [criterio B]. Gli attacchi di panico non devono essere meglio giustificati, da una generale
condizione medica o da uso di sostanze [criterio C], o da un diverso disturbo mentale come una
fobia specifica o sociale un disturbo d’ansia di separazione, un disturbo ossessivo-compulsivo o
post-traumatico da stress [criterio D].
[Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 223-225].
ATTACCO DI PANICO
L’attacco di panico si manifesta come un preciso periodo di paura o disagio intensi, durante il quale
si sviluppano improvvisamente, raggiungendo un picco in circa dieci minuti, almeno quattro dei
seguenti sintomi: 1) palpitazioni, cardiopalmo o tachicardia; 2) sudorazione; 3) tremori fini o a
grandi scosse; 4) dispnea o sensazione di soffocamento; 5) sensazione d’asfissia; 6) dolore o
fastidio al petto; 7) nausea o disturbi addominali; 8) sensazione di sbandamento, d’instabilità, di
testa leggera o di svenimento; 9) derealizzazione (senso d’irrealtà del mondo) o di
depersonalizzazione (sensazione di essere distaccati da se stessi); 10) paura di perdere il controllo o
di impazzire; 11) paura di morire; 12) parestesie (sensazione di torpore o di formicolio); 13) brividi
o vampate di calore.
Gli attacchi di panico sono definiti come causati dalla situazione quando sono fortemente associati a
fattori scatenanti ben individuabili, come sensibili alla situazione quando l’associazione è meno
forte, e inaspettati quando appaiono in situazioni che non li giustificano. Per fare diagnosi di
disturbo di panico devono essere presenti attacchi inaspettati e ricorrenti, mentre l’esclusiva
presenza di attacchi causati dalla situazione riflette la presenza di una fobia.
[Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 221-222].
AGORAFOBIA
Con agorafobia si intende l’ansia relativa al trovarsi in luoghi o situazioni dai quali sarebbe difficile
o imbarazzante allontanarsi, o nei quali potrebbe non essere disponibile aiuto nel caso di un attacco
di panico inaspettato o sensibile alla situazione o di sintomi tipo panico. Il timore agorafobico
riguarda situazioni caratteristiche che includono l’essere fuori casa da soli, l’essere in mezzo alla
folla o in coda, l’essere su un ponte, il viaggiare in autobus, in treno od in automobile [criterio A].
Tali situazioni vengono attivamente evitate oppure sopportate con grande disagio e con l’aspettativa
di incorrere in un attacco di panico, oppure viene richiesta la presenza di un accompagnatore
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[criterio B]. L’ansia e l’evitamento non sono giustificati da un altro disturbo come la fobia
specifica (evitamento limitato ad una specifica situazione), la fobia sociale (evitamento limitato a
situazioni sociale che possono causare imbarazzo), disturbo ossessivo-compulsivo (evitamento delle
situazioni specificatamente legate alla ossesione), disturbo post-traumatico da stress (evitamento
limitato a situazioni associate con il trauma subito), disturbo d’Ansia da separazione (evitamento
specifico della separazione dalla casa o dai familiari) [criterio C].
[Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 222-223].
AGORAFOBIA SENZA ANAMNESI DI DISTURBO DI PANICO
Diagnosi DSM-IV
Si caratterizza per la presenza di agorafobia correlata alla paura della comparsa di sintomi di tipo
panico, come vertigini o diarrea [criterio A]. Nell’anamnesi non devono risultare soddisfatti i
criteri per il disturbo di panico [criterio B], ed il disturbo non è dovuto all’assunzione di sostanze o
da altra condizione medica generale [criterio C]. Nel caso sia presente una condizione medica
generale la paura di cui al criterio A deve essere chiaramente in eccesso rispetto a quella
abitualmente legata a quella condizione [criterio D].
[Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 225-226].
Il disturbo di panico è caratterizzato al suo esordio dalla comparsa improvvisa e inaspettata di uno o
più episodi di ansia estrema, apparentemente priva di contenuti psicologici, accompagnata da una
vasta gamma di correlati fisiologici di questa emozione (tachicardia, sudorazione, dispnea, ecc.), e
dagli effetti fisiologici dell’iperventilazione (testa leggera, parestesie, tetania muscolare ecc.) che
alimentano l’ansia, in un continuo crescendo, a causa del significato di possibile morte imminente
che la persona attribuisce alla sintomatologia fisica. Il tentativo, inoltre, di prendere una distanza
emotiva dall’evento e attenuare l’ansia dissociandosi dall’evento, può inoltre dare luogo ai
fenomeni della depersonalizzazione e derealizzazione, che alimentano ulteriormente l’ansia per la
paura che siano segno di una imminente perdita delle facoltà mentali. A questo esordio acuto,
specialmente se il disturbo non viene subito riconosciuto e trattato, fa seguito una cronicizzazione
del disagio psicologico causata dalla paura del ripetersi di un attacco di panico. Questa paura
provoca, infatti, una focalizzazione dell’attenzione della persona sul proprio corpo, con la tendenza
ad interpretare come prodromi dell’attacco ogni segnale di attivazione fisiologica anche di lieve
entità, cosa che a sua volta tende a generare un nuovo attacco di panico. Un’ulteriore complicazione
del quadro clinico deriva dall’attivarsi di comportamenti d’evitamento (agorafobia) di tutti quei
luoghi o situazioni che la persona teme possano attivare un attacco di panico, senza la possibilità di
allontanarsi o ricevere aiuto. Questi comportamenti di evitamento predispongono, infatti, alla
comparsa di attacchi di panico situazionali o sensibili alla situazione, e progressivamente riducono
gli spazi vitali della persona, fino a giungere nelle forme più gravi a situazioni in cui la persona si
allontana da casa solo in perimetri limitati considerati sicuri e con un accompagnatore di fiducia, o
si rinchiude in casa con la richiesta della presenza continua di un’altra persona, pena la ricomparsa
del panico.
Il disturbo insorge tipicamente nell’adolescenza, ma può presentasi anche in età adulta, associato ad
eventi di vita stressanti, ed è comune la comorbilità con il disturbo depressivo maggiore e con i
disturbi di personalità.
Nella concezione psicoanalitica l’attacco di panico è conseguente all’attivazione dell’angoscia
segnale a seguito di eventi di vita che implicano l’aspettativa di un qualche cambiamento di vita, a
causa della perdita o del timore della perdita di figure d’attaccamento significative, e/o di spinte
90
verso l’indipendenza e l’autonomia. Si tratterebbe, di frequente, di persone che hanno difficoltà a
modulare l’oscillazione fra i bisogni di autonomia e dipendenza, e che fino ad allora hanno condotto
la loro vita mostrando agli altri e a se stessi autonomia e indipendenza, ma in situazioni di fatto
protette. Questi eventi di vita riattiverebbero situazioni traumatiche infantili che avevano fatto
vivere con ansia la socializzazione primaria, la separazione come una minaccia, e l’attaccamento
come una trappola senza uscita. Esempi di questi traumi sono una separazione prematura dai
genitori che anima un profondo senso di solitudine e angoscia depressiva a causa di una costanza
dell’oggetto non sufficientemente consolidata (immagine interna del genitore che protegge e
tranquillizza), o un conflitto intrapsichico che prende le mosse da una tendenza temperamentale,
innata o facilitata dall’ambiente, a vivere il nuovo e l’estraneo alla famiglia come una minaccia, e
che porta il piccolo bambino a rivolgersi alla protezione di genitori vissuti però come critici,
controllanti ed esigenti, o comunque non supportivi per le fragilità psicologiche, ma solo per la
malattia fisica. Il conseguente animarsi di sentimenti di rabbia verso i genitori provocherebbe un
circolo vizioso di colpa e paura di abbandono, un’accentuazione della dipendenza e quindi
dell’ostilità (Gabbard, 2002). Lo spostamento del segnale d’angoscia da una situazione psicologica,
vissuta senza via d’uscita e che mette in crisi il senso d’identità, ai sintomi somatici, nell’immediato
accentua l’angoscia, ma subito dopo ne facilita l’attenuazione perché per la malattia fisica o per ciò
che è incomprensibile si può chiedere e ricevere aiuto senza avvertire l’umiliazione della
dipendenza. Ulteriori difese a consolidamento della rimozione possono complicare il quadro
clinico. Si tratta di difese basate sullo spostamento dell’ansia sui fenomeni fisici, sulla proiezione
dei bisogni di dipendenza e delle difficoltà di separazione su persone implicate nel conflitto attuale,
e sull’evitamento fobico di luoghi o situazioni che la persona teme possano attivare il panico, specie
in presenza di estranei, cosa che l’esporrebbe alla vergogna del mostrare la propria paura, senza la
possibilità di allontanarsi o di ricevere aiuto immediato (agorafobia).
I clinici di orientamento cognitivo enfatizzano il ruolo di schemi cognitivi che portano a vivere con
eccessiva preoccupazione le sensazioni fisiologiche anche lievi, che verrebbero, quando
inesplicabili, amplificate e considerate, segno di una malattia fisica grave e incombente. Si
generebbe così una spirale d’ansia che scatena l’attacco di panico. L’agorafobia viene ricondotta
alla “paura della paura”, cioè alla paura di perdere il controllo di sé, in caso di un attacco di panico
in un luogo pubblico (Davison e Neal, 2000). Per i clinici di orientamento cognitivo costruttivista
un fattore predisponente al disturbo di panico é uno stile di attaccamento di tipo preoccupato.
La ricerca di tipo biologico ha richiamato l’attenzione sulla familiarità del disturbo, e sul ruolo
scatenante l’attacco di panico dell’iperventilazione e dell’accumulo di acido lattico prodotto dallo
sforzo muscolare. Per questi ultimi fattori le ricerche evidenziano, tuttavia, che non è lo stimolo
biologico a scatenare l’attacco, ma la reazione psicologica dei soggetti che già soffrono del disturbo.
DISTURBO POST-TRAUMATICO DA STRESS
Diagnosi DSM-IV
Per la diagnosi del disturbo post-traumatico da stress è innanzi tutto necessario che la persona abbia
vissuto, assistito o si sia confrontata con un evento traumatico che ha implicato la morte o la
minaccia di morte o gravi lesioni o una minaccia all’integrità fisica propria o altrui, e che la persona
abbia reagito all’evento con intensa paura, sentimenti d’impotenza o di orrore (nei bambini questi
ultimi sintomi possono essere espressi con comportamento disorganizzato) [criterio A].
91
Successivamente l’evento traumatico viene rivissuto persistentemente attraverso una o più dei
seguenti modi: 1) ricordi ricorrenti ed intrusivi dell’evento (nei bambini posso presentarsi giochi
ripetitivi che presentano aspetti legati al trauma); 2) sogni spiacevoli ricorrenti legati al trauma; 3)
sensazione di rivivere l’evento traumatico tramite allucinazioni, illusioni, o episodi dissociativi di
flashback; 4) intenso disagio all’esposizione di stimoli che ricordano anche simbolicamente
l’evento traumatico; 5) aumentata reattività fisiologica all’esposizione a stimoli che possono essere
associati anche solo simbolicamente all’evento traumatico [criterio B].
Il disturbo é caratterizzato inoltre dall’evitamento persistente degli stimoli associati al trauma e
attenuazione della reattività generale [criterio C], e dalla presenza persistente di sintomi di
aumentato arousal [criterio D]. Il criterio C è soddisfatto se sono presenti tre o più dei seguenti
elementi: 1) sforzi per evitare pensieri, sensazioni, conversazioni, associate al trauma; 2) sforzi per
evitare attività, luoghi o persone associate al trauma; 3) incapacità di ricordare aspetti del trauma; 4)
marcata riduzione dell’interesse o della partecipazione ad attività significative; 5) sentimenti di
distacco o di estraneità verso gli altri; 6) ridotta affettività; 7) sentimenti di diminuzione delle
prospettive future. Il criterio D è soddisfatto se sono presenti in modo persistente almeno due dei
seguenti sintomi: difficoltà a addormentarsi od a mantenere il sonno; irritabilità; difficoltà a
concentrarsi; ipervigilanza; esagerate risposte d’allarme.
La durata del disturbo deve essere superiore ad un mese [criterio E], ed infine il disturbo deve
causare un disagio clinicamente significativo o menomazione nel funzionamento sociale, lavorativo
o in altre aree importanti dell’esistenza [criterio F].
Il disturbo post-traumatico da stress viene classificato come acuto se la durata dei sintomi é
inferiore a 3 mesi, cronico se la durata dei sintomi è di 3 o più mesi, ad esordio ritardato se i
sintomi compaiono dopo almeno 6 mesi dall’evento stressante.
[Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 237-238].
Descritto già all’inizio del secolo scorso durante la prima guerra mondiale, il disturbo posttraumatico da stress è stato introdotto come categoria diagnostica a seguito dell’evidenza dei gravi
postumi psicologici riscontrati in molti reduci della guerra del Vietnam. La definizione diagnostica
del disturbo richiama subito l’attenzione sulla sua causa, un evento traumatico di notevole intensità
(morte, minaccia di morte, gravi lesioni, minaccia fisica), che ha coinvolto direttamente la persona
come vittima o come osservatore; evento di fronte al quale la persona si è sentita impotente e che ha
comportato una immediata reazione emotiva di paura ed orrore, e a cui segue, per un tempo
superiore al mese, un corredo sintomatologico caratterizzato dall’oscillazione fra il rivivere con
persistenza l’evento tramite ricordi, incubi e flashback, il persistente mantenimento di uno stato
d’allerta, e all’opposto il tentativo di dimenticare l’evento o almeno attenuare la percezione delle
proprie emozioni.
Questa definizione dà particolare rilievo alla gravità dello stress, ma tiene conto solo in parte dei
fattori soggettivi quando parla della reazione immediata di intensa paura e di orrore e senso
d’impotenza, non considerando a sufficienza altri fattori individuali, che dovrebbero spiegare il
fatto che non tutte le persone che hanno subito o assistito ad un evento traumatico del tipo
considerato dalla diagnosi sviluppano il disturbo. Si tratta di una scelta atta ad evitare che nelle
cause di risarcimento la responsabilità del disagio psicologico venisse attribuita a difetti di carattere
della persona e non al trauma subito. Varie ricerche hanno comunque indagato sui fattori individuali
predisponenti o facilitanti e sull’importanza del significato soggettivo con cui si vive l’evento,
fermo restando che al crescere della gravità dell’evento traumatico, del tempo di esposizione, e
dell’intensità della reazione psicologica immediata, aumenta la probabilità di comparsa del disturbo.
Fra i fattori individuali predisponenti e facilitanti è stata richiamata l’attenzione sull’appartenenza al
sesso femminile, sulla familiarità o la presenza di qualche disturbo psicologico, su esperienze
negative o traumatiche nell’infanzia, sulla compromissione del sistema di supporto sociale, sulla
92
tendenza ad assumersi la responsabilità per gli eventi negativi, sulla tendenza a percepire il locus of
control come esterno e a adottare strategie di coping centrate sul controllo delle emozioni.
I clinici di orientamento psicoanalitico spiegano la sintomatologia del disturbo con l’oscillazione fra
il tentativo di rimuovere il trauma o attenuarne l’impatto emotivo con i meccanismi di difesa della
dissociazione e dell’evitamento, che però impediscono l’elaborazione dell’evento, e la coazione a
ripetere, intesa come tentativo di integrare l’evento e le emozioni da esso prodotte nelle preesistenti
convinzioni su di sé e sul mondo.
La teoria dell’apprendimento spiega il disturbo con un processo di condizionamento classico della
paura conseguente all’associazione fra l’evento traumatico e stimoli neutri e con un successivo
condizionamento operante all’evitamento con rinforzo positivo determinato dalla riduzione
dell’ansia.
I clinici di orientamento cognitivista danno rilievo alle conseguenze del senso di perdita di controllo
e di ineluttabilità provocate dall’evento traumatico.
DISTURBO ACUTO DA STRESS
Diagnosi DSM-IV
Per la diagnosi del disturbo acuto da stress è innanzitutto necessario che la persona abbia vissuto,
assistito o si sia confrontata con un evento traumatico che ha implicato la morte o la minaccia di
morte o gravi lesioni o una minaccia all’integrità fisica propria o altrui, e che la persona abbia
reagito all’evento con intensa paura, sentimenti di impotenza o di orrore [criterio A]. Inoltre
durante o dopo l’evento, la persona deve presentare almeno tre dei seguenti sintomi dissociativi:
sensazione soggettiva d’insensibilità, distacco, o assenza di reattività emozionale; riduzione della
consapevolezza dell’ambiente circostante (per es. rimanere storditi); derealizzazione;
depersonalizzazione; amnesia dissociativa (cioè incapacità di ricordare qualche aspetto importante
del trauma) [criterio B].
Ulteriori criteri per la diagnosi sono: il rivivere persistentemente l’evento traumatico attraverso
immagini, pensieri, sogni, illusioni, flashback, oppure disagio all’esposizione a ciò che ricorda
l’evento traumatico [criterio C]; un marcato evitamento degli stimoli associati al trauma (pensieri,
sensazioni, conversazioni, attività, luoghi, persone) [criterio D]; la presenza di sintomi di ansia o di
aumentata reattività emozionale (difficoltà a dormire, irritabilità, scarsa capacità di concentrazione,
ipervigilanza, risposte di allarme esagerate, irrequietezza motoria) [criterio E]. Il disturbo, inoltre,
deve causare disagio clinicamente significativo o disfunzione nel funzionamento sociale, lavorativo
o in altre aree importanti, oppure compromettere la capacità di svolgere compiti fondamentali e di
chiedere aiuto ai familiari [criterio F], deve durare almeno due giorni e fino ad un massimo di
quattro settimane, manifestarsi entro quattro settimane dal trauma, e deve concludersi nell’arco di
sei mesi [criterio G], e, infine non deve essere causato dall’assunzione di sostanze o da una
condizione medica generale, non deve essere meglio giustificabile da un Disturbo Psicotico Breve,
o rappresentare l’esacerbazione di un altro disturbo preesistente [criterio H].
[Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 237-238].
Si tratta di una nuova e controversa categoria diagnostica introdotta nel DSM-IV. I criteri
diagnostici sono simili a quelli del disturbo post-traumatico da stress, da cui si differenzia per
l’inclusione dei sintomi dissociativi e per la minore durata. Nel 40% dei casi il disturbo acuto
evolve nel disturbo post-traumatico. Il criterio F è importante per differenziare questo disturbo dalle
reazioni sintomatologiche allo stress estremo considerate come prevedibili e normali.
93
[Da alcuni clinici è stato proposto di includere questo disturbo fra i disturbi dissociativi, o di creare
una sezione separata basata sull’eziologia correlata allo stress che comprendesse il disturbo acuto e
post-traumatico da stress e il disturbo dell’adattamento.]
DISTURBO D’ANSIA DOVUTO A CONDIZIONE MEDICA GENERALE
Quadri clinici in cui predominano ansia rilevante, o attacchi di panico, o ossessioni e compulsioni, e
vi è evidenza dall’anamnesi, dall’esame fisico o dai dati di laboratorio che il disturbo è la
conseguenza diretta di una condizione medica generale (per es. iper e ipotiroidismo, ipoglicemia,
aritmia, iperventilazione, deficit di vitamina B, encefaliti, tumori cerebrali ecc.). Il disturbo deve
causare disagio clinicamente significativo.
DISTURBO D’ANSIA INDOTTO DA SOSTANZE
Quadri clinici in cui predominano ansia rilevante, o attacchi di panico, o ossessioni e compulsioni, e
vi è evidenza dall’anamnesi, dall’esame fisico o dai dati di laboratorio che i sintomi sono comparsi
entro un mese dall’intossicazione o dall’astinenza da sostanze eziologicamente correlate al disturbo.
Il disturbo deve causare disagio clinicamente significativo.
DISTURBO D’ANSIA NON ALTRIMENTI SPECIFICATO
Quadri clinici in cui predominano ansia o evitamento fobico e che non soddisfano i criteri di alcuno
degli altri disturbi d’ansia o del disturbo dell’adattamento.
94
DISTURBI DISSOCIATIVI
Comprendono cinque disturbi caratterizzati da un’alterazione delle funzioni integrate di
coscienza, memoria, identità e percezione.
-
Amnesia Dissociativa
-
Fuga Dissociativa
-
Disturbo Dissociativo dell’Identità
-
Disturbo di Depersonalizzazione
-
Disturbo Dissociativo non altrimenti specificato
Amnesia Dissociativa
Diagnosi DSM-IV
L’amnesia dissociativa si caratterizza per la presenza di almeno un episodio d’incapacità a ricordare
dati personali importanti, di solito di natura traumatica o stressante, che risulta troppo estesa per
essere spiegata come banale tendenza a dimenticare [criterio A]. L’alterazione della memoria non
deve manifestarsi esclusivamente nel corso di un disturbo dissociativo d’identità, fuga dissociativa,
disturbo post-traumatico da stress, disturbo Acuto da Stress o disturbo di Somatizzazione, e non è
dovuta all’effetto fisiologico diretto di una sostanza, oppure a una condizione medica generale o
neurologica [criterio B]. Inoltre l’amnesia deve causare disagio clinicamente significativo oppure
menomazione nel funzionamento sociale, lavorativo, o in altre aree importanti [criterio C].
[Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 255].
Il disturbo si manifesta di solito con un episodio transitorio di perdita della memoria relativa ad un
evento di vita traumatico (ad es. un’azione di guerra, una calamità naturale, un’aggressione,
un’accesa lite familiare, la perdita di una persona cara ecc.) che precede la comparsa del disturbo
(amnesia selettiva). In alcuni casi l’episodio amnestico può protrarsi per lungo tempo o riguardare
un periodo di tempo più esteso (amnesia continua), fino ad interessare l’intera vita della persona
(amnesia generalizzata), che comunque mantiene intatte le proprie capacità. L’amnesia di solito
termina all’improvviso, con un recupero completo della memoria.
La teoria psicoanalitica spiega l’amnesia dissociativa come la conseguenza dell’attivazione del
meccanismo di difesa della dissociazione che relega in una coscienza parallela, non accessibile a
quella principale, il ricordo di un trauma e degli affetti ad esso collegati. Questa difesa permette
alla vittima del trauma di distaccarsi dell’evento mentre questo si verifica e di posporre il lavoro di
elaborazione e integrazione del trauma nel contesto della propria vita (Gabbard, 2002). Così come
per il disturbo post-traumatico da stress, è necessario tenere presente che il trauma da solo non è
condizione sufficiente per causare il disturbo, se non sono presenti fattori che predispongono alla
vulnerabilità e alla scelta del sintomo.
95
Il modello esplicativo delle teorie cognitive è simile, e considera la dissociazione come una risposta
d’evitamento mediata da un processo di autoipnosi che pone il ricordo dell’evento traumatico fuori
della coscienza (Davison e Neal, 2000). Un’elevata suscettibilità ipnotica caratterizzerebbe le
persone che sviluppano amnesia in seguito ad un trauma (Butler et al., 1996).
Fuga Dissociativa
Diagnosi DSM-IV
Si manifesta con un allontanamento inaspettato dai luoghi in cui la persona abitualmente risiede,
con incapacità di ricordare il proprio passato [criterio A], e confusione circa l’identità personale
oppure assunzione di una nuova identità [criterio B]. L’alterazione non si manifesta in corso di
Disturbo Dissociativo dell’Identità, e non è dovuta agli effetti fisiologici diretti di una sostanza,
oppure a una condizione medica generale [criterio C], e causa disagio clinicamente significativo
oppure menomazione nel funzionamento sociale, lavorativo, o in altre aree importanti [criterio D].
[Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 256].
Questo disturbo, rispetto al precedente, si caratterizza per una perdita più estesa della memoria a
seguito di un evento particolarmente stressante, un allontanamento da casa inaspettato, che di solito
si limita a spostamenti senza scopo apparente, senza contatti sociali e per breve tempo, e un certo
grado di confusione sulla propria identità personale, che in casi estremi comporta l’assunzione di
una nuova identità. I modelli esplicativi psicoanalitico e cognitivo sono gli stessi dell’amnesia
dissociativa.
Disturbo Dissociativo dell’Identità
Diagnosi DSM-IV
Si caratterizza per la presenza di due o più identità o stati di personalità distinti, ciascuno con i suoi
modi relativamente costanti di percepire, di relazionarsi, e di pensare nei confronti di se stesso e
dell’ambiente [criterio A], che assumono in modo ricorrente il controllo del comportamento della
persona [criterio B]. Inoltre, l’incapacità di ricordare importanti notizie personali deve essere
troppo estesa per essere spiegata con una banale tendenza alla dimenticanza [criterio C], e
l’alterazione non deve essere conseguenza degli effetti fisiologici diretti di una sostanza o di una
condizione medica generale (nei bambini i sintomi non sono attribuibili all’esistenza di un
compagno immaginario o ad altri giochi di fantasia) [criterio D].
[Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 256-257].
Questo disturbo caratterizzato dalla presenza di identità distinte e parallele, senza memoria l’una
dell’altra, è sicuramente il più suggestivo dei disturbi dissociativi, al punto di essere stato oggetto di
racconti di letteratura e cinematografici. È un disturbo dalla diagnosi problematica perché la
maggior parte dei pazienti presenta poche finestre in cui è possibile osservare le presenza delle
diverse identità. Esordisce di solito nell’infanzia, anche se la diagnosi avviene quasi sempre in
epoca successiva, ed è stato messo in relazione con traumi d’abuso, con successiva organizzazione
delle personalità intorno ad affetti e ricordi prevalenti. Fattori predisponenti favorirebbero la scelta
di questa modalità di reazione al trauma. Il meccanismo di difesa della dissociazione e il fenomeno
96
dell’autoipnosi sono chiamati in causa dalla teoria psicoanalitica e rispettivamente dalla teoria
cognitiva.
Disturbo di Depersonalizzazione
Diagnosi DSM-IV
Con disturbo di depersonalizzazione s’intende un’esperienza persistente o ricorrente di sentirsi
distaccato o di sentirsi un osservatore esterno dei propri processi mentali o del proprio corpo
[criterio A], durante la quale l’esame di realtà rimane intatto [criterio B]. La depersonalizzazione
deve inoltre causare disagio clinicamente significativo, o menomazione nel funzionamento sociale,
lavorativo, o in altre aree importanti [criterio C], e non manifestarsi esclusivamente nel corso di un
altro disturbo mentale come Schizofrenia, Disturbo di Panico, Disturbo Acuto da Stress, oppure un
altro Disturbo Dissociativo, o essere dovuta agli effetti fisiologici diretti di una sostanza, oppure a
una condizione medica generale[criterio D].
[Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 257].
Questo disturbo è l’unico fra i disturbi dissociativi a non presentare un problema di memoria. In
questo caso la difesa dissociativa dall’evento traumatico provoca il fenomeno della
depersonalizzazione ( sentire la propria mente al di fuori del corpo o senso di distacco e di
estraneità a se stessi), intesa come tentativo estremo di prendere una distanza emotiva, di rendersi
estraneo all’evento o al ricordo dell’evento.
Disturbo Dissociativo Non Altrimenti Specificato
Diagnosi DSM-IV
Questa categoria comprende alcuni disturbi in cui la manifestazione predominante è un sintomo
dissociativo che, tuttavia non soddisfa i criteri dei disturbi dissociativi specifici. Esempi sono: i
quadri clinici simili al disturbo dissociativo dell’identità in cui non vi sono due o più distinti stati di
personalità, oppure non si verifica amnesia per le notizie personali importanti; la derealizzazione
non accompagnata da depersonalizzazione negli adulti; stati di dissociazione che si manifestano in
persone sottoposte a persuasione coercitiva, prolungata e intensa (per es., lavaggio del cervello, o
indottrinamento in corso di prigionia).; il disturbo dissociativo di trance, tipico di certe aree e
culture: alterazioni singole o episodiche dello stato di coscienza, dell’identità o della memoria che
sono abituali in certe aree e culture (la trance dissociativa comporta restringimento della coscienza
dell’ambiente circostante, oppure comportamenti o movimenti stereotipati che vengono vissuti
come al di fuori del proprio controllo; la trance di possessione il rimpiazzo dell’abituale senso della
propria identità personale con una nuova identità, attribuita all’influenza di uno spirito, divinità, o
altra persona, associata con movimenti stereotipati “involontari” o amnesia); perdita di coscienza, o
stupor, non attribuibile a una condizione medica generale.
[Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 258-259].
I disturbi dissociativi possono essere diagnosticati solo uno per volta e non in comorbilità fra loro. Il
disturbo dissociativo dell’identità, quando presente, ha la precedenza sulle altre diagnosi, perché
amnesia, fuga e depersonalizzazione sono caratteristiche del quadro clinico globale, la fuga
dissociativa ha la precedenza sull’amnesia, e l’amnesia sulla depersonalizzazione.
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DISTURBI SOMATOFORMI
Sono inclusi sette disturbi in cui la caratteristica determinante è una lamentela fisica o una
preoccupazione somatica che non è meglio attribuibile ad una condizione medica generale o ad un
altro disturbo mentale.
- Disturbo di Conversione
- Disturbo di Somatizzazione
- Disturbo Somatoforme Indifferenziato
- Disturbo Algico
- Ipocondria
- Disturbo di Dismorfismo Corporeo
- Disturbo Somatoforme Non Altrimenti Specificato
Sono disturbi al limite tra le condizioni mediche generali e i disturbi mentali, e i soggetti che
presentano questi quadri tendono a fare la spola tra ambienti medici e psichiatrici. Questo può
portare a diagnosi errate da entrambe le parti (per es., un soggetto con disturbo di somatizzazione
può subire molti interventi chirurgici non necessari, e ad un paziente con sclerosi multipla può
essere diagnosticato un disturbo di conversione).
Importante è la diagnosi differenziale con: 1) Sintomi fisici attribuibili ad una condizione medica
generale che non si è ancora manifestata con reperti obiettivi chiaramente distinguibili; 2) Sintomi
fisici meglio attribuibili ad un altro disturbo psichico (per es., Disturbo di Panico, Disturbo
Depressivo Maggiore, Astinenza da Cocaina); 3) Sintomi fisici prodotti intenzionalmente dal
soggetto (Disturbo fittizio, Simulazione).
Disturbo di Conversione
Diagnosi DSM-IV
La diagnosi del disturbo di conversione prevede la presenza di uno o più sintomi o deficit
riguardanti funzioni motorie volontarie o sensitive, che suggeriscono una condizione neurologica o
medica generale [criterio A]. Questi sintomi o deficit devono inoltre essere associati con qualche
fattore psicologico, nel senso che un conflitto o un altro tipo di fattore stressante deve precedere
l’esordio o l’esacerbazione del sintomo o del deficit [criterio B]. Il sintomo o deficit non deve
essere prodotto volontariamente o simulato [criterio C], e non deve essere meglio spiegato da una
condizione medica generale o dagli effetti di una sostanza o da un’esperienza o da una esperienza o
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comportamento culturalmente determinato [criterio D]. I sintomi, infine, devono causare disagio
clinicamente significativo o menomazione del funzionamento sociale, lavorativo o in altre aree
importanti, o richiedere assistenza medica [criterio E], e non devono limitarsi a disfunzioni
sessuali, o manifestarsi durante un disturbo di somatizzazione, o essere meglio spiegabile con
qualche altro disturbo mentale [criterio F].
A seconda della tipologia dei sintomi il disturbo viene codificato: 1) con sintomi di tipo motorio, 2)
con attacchi epilettiformi o convulsioni, 3) con deficit sensitivi, 4) con una sintomatologia mista.
[Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 246-247].
Il disturbo di conversione ha un ruolo di grande importanza nella storia della psicologia clinica,
perché dallo studio di questo disturbo (allora conosciuto con il nome di isteria) ha preso le mosse la
psicoanalisi come teoria e come terapia. Rispetto ai quadri clinici descritti da Freud e alle ipotesi
eziologiche da lui formulate, la diagnosi proposta dal DSM-IV (che ha come detto un orientamento
ateorico) ha mantenuto l’ipotesi che la causa del disturbo sia di natura psicologica, senza comunque
riferimenti a motivazioni inconsce, mentre per quel che riguarda il quadro clinico si limita a
considerare i sintomi di tipo neurologico che interessano le funzioni motorie volontarie (per es.
paralisi, senso di debolezza, tremori, posture anomale, afonia) o sensitive (per es. anestesie,
ipoestesie, iperestesie, sensazioni di caldo e di freddo, cecità, campo visivo tubolare, anosmia).
Altri sintomi di tipo neurologico (es. perdita di coscienza), o mediati dal sistema nervoso autonomo
(es. vomito), o non neurologici (es. pseudociesi), che erano compresi nella descrizione classica
dell’isteria, vengono inclusi dal DSM-IV in altre categorie diagnostiche (disturbo dissociativo non
altrimenti specificato, disturbo somatoforme non altrimenti specificato, disturbo somatoforme
indifferenziato).
Fondamentale per una corretta diagnosi è l’esclusione di una causa attribuibile ad una condizione
medica generale che non si è ancora manifestata con reperti obiettivi chiaramente distinguibili.
Il disturbo di conversione di solito esordisce in adolescenza o all’inizio dell’età adulta, può
terminare con una remissione spontanea improvvisa, così come all’improvviso era comparso, anche
se tende poi a ripresentarsi, a volte con sintomi differenti.
Nella concezione psicoanalitica il disturbo di conversione è la conseguenza del meccanismo di
difesa della conversione attivato per fronteggiare l’angoscia segnale che si sviluppa a seguito di
eventi di vita che hanno animato desideri di natura sessuale o aggressiva vissuti come inaccettabili e
fonte di senso di colpa e di vergogna, perché collegati associativamente con traumi e/o conflitti
infantili rimossi della fase edipica. La conversione consiste nella trasposizione e rappresentazione
simbolica sul corpo del desiderio e della proibizione, e interessa parti del corpo collegate
fattivamente o simbolicamente al desiderio, o implicate nella relazione che lo ha attivato, o
collegate con tracce di memoria relative ad eventi in cui il desiderio era stato appagato. Di solito il
sintomo è plurideterminato e la parte del corpo prescelta è quella che si presta a rappresentare
simbolicamente più cose.
Nella prospettiva comportamentale è stato proposto di considerare il disturbo di conversione come
l’assunzione consapevole del ruolo di malato, cioè verrebbero imitati sintomi fisici in precedenza
sperimentati o osservati in altri con la finalità di ridurre lo stress collegato ad eventi di vita o di
ottenere comunque conseguenze positive. Le ricerche di ambito cognitivo depongono a favore del
fatto che questi comportamenti siano determinati a livello inconscio.
99
Disturbo di Somatizzazione
Diagnosi DSM-IV
Nell’anamnesi della persona deve essere presente una storia di molteplici lamentele fisiche, con
esordio precedente i 30 anni, che si sono manifestate lungo un periodo di numerosi anni e che hanno
condotto alla ricerca di una cura o hanno comportato menomazioni significative nel funzionamento
sociale, lavorativo, o in altre aree importanti [criterio A]. Tutti i sintomi elencati di seguito devono
essere stati presenti in qualche momento nel corso del disturbo: 1) almeno quattro sintomi dolorosi
(storia di dolore riferita ad almeno quattro localizzazioni o funzioni come testa, addome, schiena,
articolazioni, arti, torace, retto, dolori mestruali, dolore nel rapporto sessuale o durante la
minzione); 2) almeno due sintomi gastrointestinali (storia di almeno due sintomi gastrointestinali
come: nausea, meteorismo, vomito al di fuori della gravidanza, diarrea, intolleranza a numerosi cibi
diversi); 3) almeno un sintomo sessuale (storia di almeno un sintomo sessuale o riproduttivo come:
indifferenza sessuale, disfunzioni dell’erezione o dell’eiaculazione, cicli mestruali irregolari,
eccessivo, sanguinamento mestruale, vomito durante la gravidanza); 4) almeno un sintomo
pseudoneurologico (storia di almeno un sintomo o deficit che fa pensare ad una condizione
neurologica non limitata al dolore, come: alterazioni della coordinazione o dell’equilibrio, paralisi o
ipostenia localizzate, difficoltà a deglutire o nodo alla gola, mancamenti, afonia, ritenzione urinaria,
allucinazioni, perdita della sensibilità tattile o dolorifica, diplopia, cecità, sordità, convulsioni,
sintomi dissociativi come amnesia, o perdita di coscienza con modalità diverse dai mancamenti)
[criterio B]. A seguito di indagini mediche appropriate deve emergere che ciascun sintomo non è
meglio spiegabile con l’assunzione di sostanze o con la presenza di una condizione medica generale
conosciuta, o nel caso quest’ultima sia collegata, le lamentele fisiche o la menomazione in ambito
sociale o lavorativo sono sproporzionate rispetto a quanto ci si dovrebbe aspettare [criterio C].
Inoltre, i sintomi non devono essere stati riprodotti intenzionalmente o simulati [criterio D].
[Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 243-244].
Si tratta, dunque, di un disturbo caratterizzato da una storia di lunga durata di molteplici lamentele
relative a sintomi che interessano vari organi ed apparati, sintomi che non sono spiegabili da una
condizione medica o, se questa è presente, che comportano menomazioni sociali e lavorative, e
lamentele sproporzionate rispetto all’obiettività clinica. La diagnosi di solito viene posta dai medici
di famiglia che seguono nel tempo questi pazienti malati da sempre, e abituali frequentatori dei loro
ambulatori, spesso a causa di nuovi sintomi. Anche per questo disturbo è fondamentale la diagnosi
differenziale, spesso difficile, rispetto alle eventuali cause mediche, evitando parimenti procedure
mediche o chirurgiche non necessarie e potenzialmente pericolose. Complessa è anche la diagnosi
differenziale rispetto al disturbo d’ansia generalizzato e alle forme croniche di disturbo dell’umore.
Frequente è la comorbilità con i disturbi d’ansia e dell’umore. Un rischio che corrono questi
pazienti è quello di non essere ascoltati qualora compaia una lamentela legittimata da una causa
organica.
Nell’approccio psicoanalitico al disturbo di somatizzazione sono presenti due diverse concezioni,
non inconciliabili, sull’origine del disturbo. Una prima concezione fa riferimento ad un concetto
esteso di conversione, secondo il quale la trasposizione e la rappresentazione simbolica sul corpo
dei conflitti intrapsichici può riguardare anche organi e apparati innervati dal sistema nervoso
autonomo, e riguardare desideri e bisogni collegati alle vicende pre-edipiche della relazioni
primaria (conversione pregenitale). Una seconda concezione non considera i sintomi da cui
originano le lamentele del paziente come espressione di significati simbolici, ma li considera come
l’espressione a livello fisico di stati emotivi cronici, collegati ad eventi di vita e a conflitti specifici,
100
e che attivano le innervazioni motorie o sensitive o del simpatico o del parasimpatico, a seconda che
le emozioni siano finalizzate a comportamenti di lotta-fuga o di ricerca della dipendenza. Più
recentemente è stato ipotizzato in questi pazienti un deficit nel processamento delle emozioni
(alessitimia) che comporta una difficoltà ad esprimere sentimenti ed emozioni, una difficoltà a
distinguere le emozioni dalle sensazioni somatiche che le accompagnano, e uno stile di pensiero
utilitaristico e orientato all’esterno.
Nella prospettiva cognitivo-comportamentale il disturbo di somatizzazione è ricondotto ai correlati
fisiologici dell’ansia prodotta da eventi di vita stressanti, a una tendenza accentuata a prestare
attenzione alle sensazioni corporee e ad amplificarle (comportamento abnorme di malattia), e ai
successivi rinforzi ambientali che la persona riceve in quanto malato (es. attenzione, vantaggi ed
esenzioni di ordine sociale).
Disturbo Somatoforme Indifferenziato
Diagnosi DSM-IV
Devono essere presenti una o più lamentele fisiche, come stanchezza, perdita di appetito, problemi
gastrointestinali o urinari [criterio A], che dopo appropriate indagini mediche, non sono
pienamente spiegabili con gli effetti diretti di una sostanza, o con una condizione medica generale
conosciuta, o nel caso quest’ultima fosse presente, le lamentele fisiche o la menomazione sociale o
lavorativa conseguente sono sproporzionate rispetto a quanto ci si dovrebbe aspettare dalla storia,
dall’esame fisico o dai reperti di laboratorio [criterio B]. I sintomi devono causare disagio
clinicamente significativo o menomazione del funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree
importanti [criterio C]. Il disturbo deve durare almeno sei mesi [criterio D] e l’alterazione non
deve essere meglio spiegabile con un altro disturbo mentale [criterio E]. I sintomi, infine, non
devono essere intenzionalmente prodotti o simulati [criterio F].
[Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 245-245].
Rispetto al disturbo di somatizzazione, questo disturbo si caratterizza per il minor numero di
lamentele fisiche, e per la minore durata richieste per la diagnosi. Secondo molti clinici dovrebbe
essere compreso nella categoria non altrimenti specificato.
Disturbo Algico
Diagnosi DSM-IV
È caratterizzato da dolore in uno o più distretti anatomici, di gravità sufficiente a giustificare
un’attenzione clinica [criterio A]. Il dolore deve causare malessere clinicamente significativo
oppure menomazione del funzionamento sociale, lavorativo o in altre aree importanti [criterio B].
Qualche fattore psicologico deve avere un ruolo importante nell’esordio, gravità, esacerbazione o
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mantenimento del dolore [criterio C]. Il dolore non deve essere intenzionalmente prodotto o
simulato [criterio D], e non deve essere meglio attribuibile ad un disturbo dell’umore, d’ansia o
psicotico, o a dispareunia. [criterio E].
Il disturbo può essere di tipo acuto se ha una durata inferiore a sei mesi, o cronico se ha una durata
maggiore, di tipo associato con fattori psicologici, o di tipo con fattori psicologici e con una
condizione medica se si valuta che anche quest’ultima abbia un ruolo nell’esordio, gravità,
esacerbazione o mantenimento del dolore.
[Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 247-249].
Questa categoria diagnostica deve essere usata solo quando il dolore è l’oggetto principale
dell’attenzione clinica e quando si valuta che i fattori psicologici abbiano un ruolo importante.
Nella prospettiva psicoanalitica il disturbo algico viene ricondotto all’espressione simbolica nel
corpo di conflitti, in cui sono implicati, nello specifico di questo disturbo. il dolore per la perdita o il
timore della perdita di persone significative o l’appagamento di un senso di colpa inconscio o il
controllo di impulsi ostili rimossi.
Nella prospettiva cognitivo-comportamentale si ipotizza che un iniziale stimolo che provoca dolore
possa esacerbarsi o evolvere in dolore cronico a causa di rinforzi positivi provenienti dall’ambiente
e collegati al ruolo di malato. Viene data inoltre importanza a fattori cognitivi collegati al concetto
di comportamento abnorme di malattia, cioè al modo con cui il sintomo viene percepito, valutato e
manifestato.
Ipocondria
Diagnosi DSM-IV
È caratterizzata dalla preoccupazione o dalla convinzione di avere una grave malattia, basata sulla
interpretazione erronea dei sintomi somatici da parte del soggetto [criterio A]. Questa
preoccupazione, inoltre, persiste nonostante le valutazioni e le rassicurazioni mediche appropriate
[criterio B] e non deve assumere un’intensità delirante (come nel disturbo delirante di tipo
somatico) o essere circoscritta all’aspetto fisico (come nel disturbo di dismorfismo corporeo)
[criterio C]. La preoccupazione deve causare disagio clinicamente significativo o menomazione del
funzionamento sociale, lavorativo o in altre aree importanti. [criterio D]; deve durare almeno sei
mesi [criterio E], e non deve essere meglio attribuibile al disturbo d’ansia generalizzato, al disturbo
ossessivo-compulsivo, al disturbo di panico, al disturbo depressivo maggiore, al disturbo d’ansia di
separazione o ad altro disturbo somatoforme [criterio F].
[Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 249-250].
Si tratta di un disturbo caratterizzato da un’erronea interpretazione di segni e sintomi fisici reali che
dà luogo alla preoccupazione o alla convinzione persistente di avere una malattia grave, e dalla non
responsività alle appropriate rassicurazioni del medico. La persistenza dei pensieri tormentosi
nonostante le rassicurazioni mediche differenzia il disturbo dalle comuni preoccupazioni per la
salute fisica e paure di avere una malattia. Sono pazienti che si sottopongono incessantemente a
visite mediche alla ricerca di una conferma alle loro paure, e che difficilmente si rivolgono agli
operatori della salute mentale.
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Disturbo di Dismorfismo Corporeo
Diagnosi DSM-IV
Consiste nella preoccupazione per un supposto difetto nell’aspetto fisico, o nel caso sia presente una
lieve anomalia corporea, l’importanza che le viene data è significativamente eccessiva [criterio A].
Questa preoccupazione deve causare disagio clinicamente significativo, o menomazione nel
funzionamento lavorativo, sociale o in altre aree importanti [criterio B], e non deve risultare meglio
attribuibile ad un altro disturbo mentale [criterio C].
[Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 250-250].
Il confine fra questo disturbo e le normali preoccupazioni e insoddisfazioni per il proprio aspetto
fisico è difficile da definire, e la diagnosi dovrebbe limitarsi a quelle persone che sono dominate e
tormentate dalla preoccupazione, fino a passare molte ore allo specchio o evitarli accuratamente, o
dedicare molto tempo a cercare di nascondere il presunto difetto con la convinzione che tutti lo
notino. La diagnosi viene fatta di solito dai chirurghi plastici, a quali questi pazienti si rivolgono
nella speranza, spesso vana, di trovare sollievo alla loro angoscia.
Dal punto di vista psicoanalitico il disturbo può essere letto come uno spostamento del segnale
d’angoscia su una parte del corpo. Questo spostamento permette di mantenere la rimozione, ma la
non possibilità di un successivo evitamento fobico, e pertanto l’ansia persiste collegata alla parte del
corpo.
Dal punto di vista comportamentale il disturbo può essere spiegato con il tentativo di sopprimere il
pensiero spiacevole affacciatosi casualmente nella mente e la creazione di un effetto paradosso di
forte concentrazione su di esso, o con il rinforzo positivo della preoccupazione dato dalla
distrazione da emozioni e pensieri ancora più negativi. Fattori sociali e culturali possono svolgere
un ruolo facilitante.
Da alcuni clinici è stato avanzato il dubbio che questo disturbo non abbia una sua specificità, ma
che debba essere considerato un sintomo di altri disturbi psichici.
Disturbi Somatoformi non Altrimenti Specificati
Diagnosi DSM-IV
In questa categoria comprende tutti i disturbi somatoformi che non incontrano i criteri diagnostici
per nessuno dei disturbi somatoformi specifici. Esempi sono: la pseudociesi, cioè il falso
convincimento di gravidanza associato con segni obiettivi di gravidanza, che possono comprendere
dilatazione addominale, riduzione dei flussi mestruali, amenorrea, sensazione soggettiva di
movimenti fetali, nausea, ingorgo e secrezioni mammarie, e doglie alla data prevista per il parto; un
disturbo che presenti sintomi ipocondriaci non psicotici di durata inferiore ai 6 mesi; un disturbo
che presenti lamentele fisiche non giustificate (per es., stanchezza o astenia fisica) di durata
inferiore ai 6 mesi e non collegate a un altro disturbo mentale.
[Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 251-251].
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DISTURBI DELL’ALIMENTAZIONE
Comprendono tre categorie di disturbi caratterizzati da alterazione del comportamento
alimentare e della percezione dell’immagine corporea.
-
Anoressia Nervosa
-
Bulimia Nervosa
-
Disturbi dell’Alimentazione Non Altrimenti Specificati
ANORESSIA NERVOSA
Diagnosi DSM-IV
L’anoressia nervosa si caratterizza per un marcato rifiuto a mantenere il proprio peso corporeo al di
sopra del limite minimo considerato normale rispetto all’età ed alla statura (per es. perdita di peso
che porta a mantenere il peso al di sotto dell’85% rispetto a quello previsto) [criterio A]. Devono
essere presenti anche un’intensa paura di acquisire peso o di diventare grassi anche quando si è
sottopeso [criterio B], un’alterazione nel modo di vivere il proprio peso e la forma del corpo, o
un’eccessiva influenza del peso e della forma corporea sui livelli di autostima, o rifiuto di
ammettere la gravità della condizione di sottopeso [criterio C]. Nel sesso femminile, dopo il
menarca, deve presentarsi anche amenorrea, cioè l’assenza di almeno 3 cicli mestruali consecutivi
[criterio D].
L’anoressia nervosa può essere distinta in due sottotipi: 1) con restrizioni, quando il soggetto non
presenta regolarmente abbuffate o condotte di eliminazione (vomito autoindotto, uso inappropriato
di lassativi, diuretici ed enteroclismi); 2) con abbuffate e/o condotte di eliminazione, quando queste
condotte sono presenti regolarmente.
[Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 281-282].
L’anoressia non è dunque caratterizzata, come potrebbe fare intendere il nome del disturbo, dalla
mancanza di appetito, ma dal rifiuto a mantenere il peso corporeo al disopra del peso minimo
normale, a causa di una intensa paura di ingrassare e di una distorsione dell’immagine del proprio
corpo.
Il disturbo interessa in prevalenza il sesso femminile, e inizia di solito in maniera subdola con il
desiderio di intraprendere una dieta dimagrante, in una età compresa fra la prima adolescenza e
104
l’inizio dell’età adulta. A differenza della maggior parte delle persone che intraprendono una dieta, i
futuri anoressici persistono nel regime ipocalorico anche quando il dimagrimento raggiunge
dimensioni allarmanti. Nelle fasi iniziali del disturbo le pazienti avvertono un incremento della
propria autostima collegata alla perdita di peso e alle reazioni positive dell’ambiente, e in alcuni
casi può essere presente un vero e proprio stato di euforia con sensazione di una grande energia
mentale e fisica. Ben presto, tuttavia, la presenza della distorsione dell’immagine corporea
ripropone l’insoddisfazione per il proprio aspetto fisico, continuamente monitorato con l’immagine
riflessa da specchi che rimandano una immagine soggettivamente deformata. Il desiderio di
dimagrire ulteriormente e la paura d’ingrassare cominciano a dominare la mente, le restrizioni
alimentari si fanno sempre più severe, ma ciò si accompagna ad un aumento della pressione
biologica e psicologica ad assumere cibo, che in alcuni casi si concretizza in episodi di abbuffate
che muovono vergogna e senso di colpa, e attivano condotte di eliminazione. Si instaura così un
circolo vizioso caratterizzato da restrizione alimentare→ pressione biologica ad assumere cibo→
paura d’ingrassare→ restrizione alimentare più severa con incremento dell’attività fisica per
bruciare calorie, o delle condotte di eliminazione a seguito di abbuffate o anche dell’assunzione di
modiche quantità di cibo→ ulteriore incremento della pressione biologica e psicologica ad assumere
cibo e della paura d’ingrassare ecc.. Il tono dell’umore vira verso la depressione (in alcuni casi la
depressione può essere già presente prima dell’inizio del disturbo alimentare), compare
l’amenorrea, e con il cronicizzarsi della malattia le pazienti riducono gradualmente le proprie
attività ed interessi, che con l’andare del tempo si limitano al pensiero del cibo e del peso del corpo.
Particolarmente severe possono essere le conseguenze fisiche del digiuno e delle condotte di
eliminazione, al punto da mettere a repentaglio la vita delle pazienti. Elevato è anche il rischio di
suicidio.
BULIMIA NERVOSA
Diagnosi DSM-IV
La bulimia nervosa è caratterizzata da ricorrenti abbuffate [criterio A], definite come l’ingestione
in un intervallo di tempo relativamente breve (per es. 2 ore) di una quantità di cibo
significativamente maggiore di quella che la maggior parte delle persone mangerebbe nello stesso
intervallo temporale, e contemporanea sensazione di perdita di controllo (per es. sensazione di non
potere smettere di mangiare o di non potere controllare cosa e quanto si sta mangiando). Inoltre
devono devono essere presenti ricorrenti e inappropriate condotte compensatorie per prevenire
l’aumento di peso, come vomito autoindotto, abuso di lassativi, diuretici, eccessivo digiuno o
esercizio fisico [criterio B]. Le abbuffate e le condotte compensatorie devono verificarsi in media
almeno due volte la settimana per almeno tre mesi [criterio C]. I livelli di autostima devono essere
fortemente influenzati dalla forma e dal peso corporeo [criterio D], ed il disturbo non deve
presentarsi esclusivamente nel corso di episodi di anoressia nervosa. [criterio E].
La bulimia nervosa può essere distinta in due sottotipi. Il sottotipo con condotte di eliminazione
prevede il regolare uso di vomito autoindotto o uso inappropriato di lassativi o diuretici. Il sottotipo
senza condotte di eliminazione il peso corporeo è mantenuto tramite comportamenti quali il digiuno,
l’eccessivo esercizio fisico senza condotte di evacuazione autoindotte.
[Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 282-283].
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Si tratta di un disturbo caratterizzato da una ricorrente perdita di controllo sul comportamento
alimentare che si concretizza in episodi di abbuffate durante i quali in poco tempo vengono
letteralmente ingurgitate notevoli quantità di cibo. Alle abbuffate seguono delle condotte
compensatorie per tenere sotto controllo il peso, condotte caratterizzate dal digiuno e dall’attività
fisica, o dal vomito autoindotto e dall’uso di lassativi e diuretici. Queste condotte compensatorie
sono motivate così come nell’anoressia, dalla paura di ingrassare e da una distorsione
dell’immagine corporea che influenza fortemente l’autostima, ma non conducono ad una perdita di
peso, che pertanto rimane nei limiti della norma. Le abbuffate avvengono di solito di nascosto e in
solitudine, e spesso sono programmate in anticipo e sono precedute in modo confuso da stati
d’animo di solitudine, tristezza, noia, ansia o collera. L’ingestione del cibo avviene in modo vorace
e compulsivo, senza particolare attenzione al gusto alla consistenza e gradevolezza degli alimenti, e
si accompagna spesso ad uno stato d’animo dissociato, con sensazioni di stordimento e benessere
simili a quelle dell’assunzione di una sostanza d’abuso. Dopo poco tempo dalla crisi lo stato
mentale vira verso la depressione, con caduta dell’autostima e comparsa di sentimenti di colpa e di
vergogna. Negli intervalli di tempo fra una crisi bulimica e l’altra le pazienti mantengono di solito
le normali occupazioni, ma la loro mente è sempre più occupata dal controllo dell'alimentazione,
dal disagio per l’aspetto del proprio corpo avvertito come grasso, dal pensiero del cibo e dalla paura
di perdere nuovamente il controllo e ingrassare, seguiti dal desiderio di una nuova abbuffata e dalla
spasmodica ricerca di cibo per attuarla, con comportamenti che ricordano la ricerca della sostanza
del tossicodipendente.
Il disturbo inizia di solito nella tarda adolescenza o nella prima età adulta, interessa con netta
prevalenza il sesso femminile, e i primi episodi di alimentazione incontrollata si manifestano di
solito durante una dieta restrittiva motivata dal sovrappeso. Può essere presente comorbilità con la
depressione, disturbi d’ansia e di personalità, tendenza all’abuso di sostanze e alla promiscuità.
L’andamento del disturbo è tendenzialmente intermittente con intervalli di remissione e ricadute in
occasione di eventi stressanti. Le condotte di eliminazione possono portare a complicazioni fisiche
collegate a squilibri elettrolitici provocati dal vomito e dalla diarrea, e alle lesioni provocate dagli
acidi gastrici durante la risalita del cibo nel vomito autoindotto.
La distinzione dell’anoressia e della bulimia come entità diagnostiche separate è stata messa in
discussione da alcuni clinici, a causa dei molti punti di contatto fra i due disturbi. Coloro che sono
favorevoli alla distinzione fanno presente che vi sono molti casi puri di anoressia senza abbuffate e
condotte di eliminazione, e casi puri di bulimia che non vanno mai sotto il peso normale e che non
presentano una marcata alterazione dell’immagine corporea; diverse sono inoltre le implicazioni
terapeutiche.
DISTURBI DELL’ALIMENTAZIONE NON ALTRIMENTI SPECIFICATI
Diagnosi DSM-IV
Questa categoria include tutti quei disturbi dell’alimentazione che non soddisfano tutti i criteri
dell’anoressia o della bulimia nervosa. Esempi sono: 1) la presenza nelle donne di tutti i criteri per
l’anoressia nervosa eccetto l’amenorrea; 2) presenza di tutti i criteri per l’anoressia nervosa ad
eccezione del peso che, se pur diminuito, risulta nella norma; 3) tutti i criteri per la bulimia nervosa
risultano soddisfatti tranne il fatto che le abbuffate e le condotte compensatorie hanno una
frequenza inferiore ai due episodi per settimana per 3 mesi; 4) soggetti di peso normale che si
dedicano regolarmente ad inappropriate condotte compensatorie dopo avere ingerito piccole
quantità di cibo; 5) soggetti che ripetutamente masticano e sputano, senza deglutire, grandi quantità
106
di cibo; 6) disturbo da alimentazione incontrollata: ricorrenti episodi di abbuffate in assenza delle
regolari condotte compensatorie inappropriate tipiche della bulimia nervosa.
[Fonte: adattamento da Mini DSM-IV, Masson: Milano, 1997, pag. 283-284].
Attualmente i disturbi dell’alimentazione sono considerati di origine multifattoriale, frutto
dell’interazione fra fattori predisponenti, scatenanti e perpetuanti.
Fattori predisponenti socioculturali e legati al genere:
Le ricerche epidemiologiche evidenziano come i disturbi dell’alimentazione siano più diffusi nei
paesi occidentali industrializzati, dove vi è una maggiore pressione culturale verso la magrezza
come ideale di bellezza e salute, e contemporaneamente una maggiore disponibilità di cibo che ha
portato ad un progressivo incremento del peso medio della popolazione giovanile.
Nell’amplificazione di entrambi i fenomeni un ruolo non secondario è da attribuire ai messaggi
pubblicitari dell’industria dietetica, dell’industria alimentare e della moda. Si sarebbe così
determinato, in particolare fra gli adolescenti, uno scarto fra aspetto fisico reale ed ideale, che può
favorire una iniziale distorsione della percezione della propria immagine corporea (ritenersi in
sovrappeso anche quando non lo si è), la paura di ingrassare e la spinta ad intraprendere una dieta.
La maggiore prevalenza di questi disturbi nelle donne sarebbe da collegare alle rapide ed importanti
trasformazioni del corpo femminile durante l’adolescenza, che spesso sono in contrasto con gli
standard ideali attuali della cultura giovanile, enfatizzati dalle riviste rivolte al pubblico femminile,
che privilegiano una immagine unisex. Gli studi epidemiologici hanno inoltre richiamato
l’attenzione sul maggiore rischio di sviluppare un disturbo dell’alimentazione fra le giovani che
lavorano come modelle o ballerine e nelle ginnaste.
Fattori predisponenti familiari di ordine biologico:
Le ricerche epidemiologiche evidenziano un maggior tasso di prevalenza dei disturbi alimentari fra
i familiari di sesso femminile di primo e secondo grado, e una maggiore concordanza nei gemelli
omozigoti rispetto ai dizigoti. L’eventuale fattore ereditario in causa potrebbe essere una
predisposizione all’obesità o alla distribuzione del pannicolo adiposo in determinate zone del corpo,
cosa che a sua volta può favorire la non accettazione della propria immagine corporea, e la spinta ad
intraprendere una dieta. Non si può comunque escludere che la familiarità sia mediata da abitudini
alimentari o da una maggiore vulnerabilità alla sofferenza psicologica.
Fattori predisponenti familiari di ordine psicologico:
Gli studi sul ruolo della famiglia nel favorire la comparsa di un disturbo dell’alimentazione
derivano principalmente dalle osservazioni cliniche di S. Minuchin e H. Bruch.
Secondo Minuchin e coll. (1975) caratteristiche tipiche delle famiglie sono la fusionalità (genitori
che ritengono di conoscere esattamente ciò che i figli pensano e provano), l’iperprotettività (estrema
preoccupazione dei membri della famiglia per il benessere gli uni degli altri), la rigidità (tendenza
ad evitare eventi che producono cambiamento, come per es. le richieste di autonomia dei figli
adolescenti), e la mancata soluzione dei conflitti (tendenza ad evitare i conflitti o a vivere in
situazioni di conflitto cronico). Studi successivi hanno solo parzialmente confermato queste
osservazioni, perché spesso i resoconti e i vissuti dei pazienti differiscono da quelli dei genitori, e
comunque resta aperta la possibilità che queste caratteristiche familiari siano conseguenti alla
comparsa del disturbo.
Maggiore riscontri hanno trovato le osservazioni cliniche della Bruch (1973), che danno evidenza
ad un approccio educativo e relazionale da parte dei genitori che non tiene conto dei bisogni, delle
esigenze e volontà dei figli, e che limita le esperienze e le iniziative che non corrispondono alle
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aspettative e ai bisogni dei genitori, ingenerando nei figli dipendenza e senso d’incapacità. Un
particolare rilievo viene inoltre dato alla difficoltà delle madri a discriminare i vari bisogni ed
emozioni del piccolo bambino, e alla tendenza ad usare il cibo per placare ogni stato di disagio; ciò
favorirebbe nel bambino la comparsa di una difficoltà a distinguere i segnali che provengono dal
proprio corpo e a dare nome ai propri stati emotivi.
Fattori predisponenti collegati alla personalità e alla presenza di disturbi psicologici:
Gli studi retrospettivi sulle caratteristiche di personalità precedenti la comparsa del disturbo
alimentare segnalano nelle anoressiche caratteristiche di timidezza, perfezionismo e remissività, e
nelle bulimiche instabilità affettiva e comportamenti istrionici. Studi prospettici ancora in corso
segnalano come importante fattore di rischio la scarsa consapevolezza interocettiva.
La presenza di un disturbo depressivo è stato chiamato in causa come possibile fattore favorente sia
l’anoressia sia la bulimia.
Fattori predisponenti collegati a traumi infantili:
Alcune ricerche hanno riscontrato una relazione fa disturbi alimentari e traumi collegati all’abuso
sessuale e al maltrattamento fisico o psicologico.
Fattori scatenanti:
Il fattore scatenante l’insorgenza dei disturbi alimentari è quasi sempre l’inizio di una dieta
restrittiva. Eventi di vita negativi possono a volte precedere l’esordio del disturbo.
Fattori perpetuanti:
Il principale fattore perpetuante è il circolo vizioso caratterizzato dalla restrizione alimentare che
incrementa l’autostima per il proprio autocontrollo e diminuisce l’ansia collegata alla paura
d’ingrassare, a cui segue un maggiore desiderio di cibo che arriva ad occupare totalmente la mente,
la conseguente paura di perdere o la perdita del controllo sul desiderio con caduta dell’autostima e
ricomparsa dell’ansia, e una rinnovata ricerca di controllo e di restrizione alimentare. Altri fattori
perpetuanti possono essere per l’anoressia lo stato euforico e di apparente energia prodotto dal
rilascio di endorfine endogene durante il digiuno prolungato, e per le bulimiche la ricerca delle
sensazioni di momentaneo stordimento e benessere che si producono durante l’abbuffata. Da non
trascurare, infine, è il fatto che la concentrazione del pensiero sul cibo e la dieta fa passare in
secondo piano tutte le altre possibili fonti di preoccupazione e infelicità.
Le ipotesi psicoanalitiche sull’origine dei disturbi dell’alimentazione prendono le mosse dalle
osservazioni cliniche di H. Bruch sulle caratteristiche della famiglia e delle madri dei futuri
pazienti. Cresciute in un ambiente familiare che privilegia e impone ai bambini i bisogni e i desideri
dei genitori, e che è sostanzialmente incapace di percepire adeguatamente le esigenze, i bisogni, i
desideri e gli stati emotivi dei figli, le giovani anoressiche e bulimiche svilupperebbero un senso di
poco valore di sé, di incapacità a comprendere e discriminare le sensazioni del corpo e gli stati
emotivi, di soddisfare le proprie esigenze, e di impotenza ad incidere sull’ambiente. La tendenza
delle madri a tacitare nella prima infanzia ogni malessere o frustrazione dei figli con il cibo può
inoltre favorire il sovrappeso (futura fonte di difficoltà con i coetanei, e di visione negativa del
proprio corpo), e caricare il cibo di sensazioni ambivalenti, in quanto contemporaneamente capace
di placare l’ansia e il disagio emotivo, e di produrre insoddisfazione perché ripropone alla fine la
sensazione di non comprendersi e di non essere stati realmente compresi.
L’ideale culturale della magrezza, e l’apparente facilità di raggiungerlo con una dieta, offrirebbe in
adolescenza la possibilità di sentirsi capaci, desiderati e ammirati, aumentando così la propria
autostima, e di fantasticare di poter padroneggiare, insieme al bisogno di nutrirsi, tutti quei bisogni
che in passato sono stati fonte di frustrazioni e tutte le sensazioni confuse che provengono dal
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proprio corpo. Strutture caratteriali differenti indirizzerebbero il disturbo dell’alimentazione verso
l’anoressia o la bulimia.
Nella prospettiva cognitivo- comportamentale è dato rilievo i fattori socioculturali e di personalità,
in quanto predisponenti all’insoddisfazione per l’immagine del proprio corpo e alla paura
d’ingrassare. Il digiuno e il calo ponderale assumerebbero la valenza di potente elemento di rinforzo
per il fatto di ridurre l’ansia. La difficoltà a perseguire con costanza una dieta restrittiva
faciliterebbe la comparsa di episodi di alimentazione incontrollata tipici dell’anoressia con condotte
di eliminazione e della bulimia. In questi casi la condotta di eliminazione viene rinforzata dalla
paura d’ingrassare.
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DISTURBI DI PERSONALITÀ
Comprendono 11 disturbi raggruppati in tre gruppi. Sono codificati sull’asse II.
Gruppo A
- Disturbo Paranoie di Personalità
- Disturbo Schizoide di Personalità
- Disturbo Schizotipico di Personalità
Gruppo B
- Disturbo Antisociale di Personalità
- Disturbo Borderline di personalità
- Disturbo Istrionico di Personalità
- Disturbo Narcisistico di Personalità
Gruppo C
- Disturbo Evitante di Personalità
- Disturbo Dipendente di Personalità
- Disturbo Ossessivo-Compulsivo di Personalità
- Disturbo di Personalità non altrimenti specificato
I criteri diagnostici generali del DSM-IV sono sei:
Presenza di un modello abituale di esperienza interiore e di comportamento che devia marcatamente
rispetto alle aspettative della cultura della persona, e che si manifesta in due o più delle seguenti
aree: 1) Cognitività ( modo di percepire e interpretare se stessi, gli altri e gli avvenimenti). 2)
Affettività (varietà, intensità, labilità e adeguatezza della risposta emotiva). 3) funzionamento
interpersonale. 4) Controllo degli impulsi.[criterio A]. Il modello abituale deve risultare inflessibile
e pervasivo e interessare varie situazioni personali e sociali [criterio B], e deve determinare un
disagio clinicamente significativo e compromissione del funzionamento sociale, lavorativo e di altre
importanti aree [criterio C]. Il modello inoltre deve essere stabile e di lunga durata, e l’esordio deve
risalire almeno all’adolescenza o alla prima età adulta [criterio D]. Il modello, infine, non deve
essere meglio giustificato come manifestazione o conseguenza di un altro disturbo mentale [criterio
E], o essere collegato agli effetti fisiologici di una sostanza o di una condizione medica generale
(es. un trauma cranico) [criterio F].
Disturbi di Personalità del Gruppo A
Disturbo Paranoide di Personalità
A. Diffidenza e sospettosità pervasive nei confronti degli altri (tanto che le loro intenzioni
vengono interpretate come malevole), che iniziano nella prima età adulta e sono presenti in
una varietà di contesti, come indicato da quattro (o più) dei seguenti elementi:
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1) sospetta senza una base sufficiente, di essere sfruttato, danneggiato od ingannato
2) dubita senza giustificazione della lealtà o affidabilità di amici o colleghi
3) è riluttante a confidarsi con gli altri a causa di un timore ingiustificato che le
informazioni possano essere usate contro di lui
4) scorge significati nascosti umilianti o minacciosi in rimproveri o altri eventi benevoli
5) porta constantemente rancore, cioè, non perdona gli insulti, le ingiurie o le offese
6) percepisce attacchi al proprio ruolo o reputazione non evidenti agli altri, ed è pronto
a reagire con rabbia o contrattaccare
7) sospetta in modo riccorrente, senza giustificazione, della fedeltà del coniuge o del
partner sessuale.
B. Non si manifesta esclusivamente durante il decorso della Schizofrenia, di un Disturbo
dell’Umore con Manifestazioni Psicotiche, o di un altro Disturbo Psicotico, e non è dovuto
agli effetti fisiologici diretti di una condizione medica generale.
Disturbo Schizoide di Personalità
A. Una modalità pervasiva di distacco dalle relazioni sociali ed una gamma ristretta di
espressioni emotive, in contesti interpersonali, che iniziano nella prima età adulta e sono
presenti in una varietà di contesti, come indicato da quattro (o più) dei seguenti elementi:
1) non desidera nè prova piacere nelle relazioni strette, incluso il far parte di una
famiglia
2) quasi sempre sceglie attività solitarie
3) dimostra poco o nessun interesse per le esperienze sessuali con un altra persona
4) prova piacere in poche o nessuna attività
5) non ha amici stretti o confidenti, eccetto i parenti di primo grado
6) sembra indifferente alle lodi o alle critiche degli altri
7) dimostra freddezza emotiva, distacco o affettività appiattita.
B. Non si manifesta esclusivamente durante il decorso della Schizofrenia, di un Disturbo
dell’Umore con Manifestazioni Psicotiche, di un altro Disturbo Psicotico o di un Disturbo
Pervasivo dello Sviluppo, e non è dovuto agli effetti fisiologici diretti di una condizione
medica generale.
Disturbo Schizotipico di Personalità
A. Una modalità pervasiva di relazioni sociali ed interpersonali deficitarie, evidenziate da
disagio acuto e ridotta capacità riguardanti le relazioni strette, e da distorsioni cognitive e
percettive ed eccentricità del comportamento, che compaiono nella prima età adulta, e sono
presenti in una varietà di contesti, come indicato da cinque (o più) dei seguenti elementi:
1) idee di riferimento (escludendo i deliri di riferimento)
2) credenze strane o pensiero magico, che influenzano il comportamento, e sono in
contrasto con le norme subculturali (per es. superstizione credere nella
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3)
4)
5)
6)
7)
8)
9)
chiarovvegenza, nella telepatia o nel sesto senso; nei bambini e negli adolescenti
fantasie e pensieri bizzarri)
esperienze percettive insolite, incluse illusioni corporee
pensiero e linguaggio strani (per es. vago, circostanziato metaforico, iperelaborato o
stereotipato)
sospettosità o ideazione paranoide
affettività inappropriata o coartata
comportamento o aspetto strani, eccentrici, o peculiari
nessun amico stretto o confidente, eccetto i parenti di primo grado
eccessiva ansia sociale, che non diminuisce con l’aumento della familiarità, e no
tende ad essere associata con preoccupazioni paranoidi piuttosto che con un giudizio
negativo di sè.
B. Non si manifesta esclusivamente durante il decorso della Schizofrenia, di un Disturbo
dell’Umore con Manifestazioni Psicotiche, di un altro Disturbo Psicotico o di un Disturbo
Pervasivo dello Sviluppo.
Disturbi di Personalità del Gruppo B
Disturbo Antisociale di Personalità
A. Un quadro pervasivo di innosservanza e di violazione dei diritti degli altri, che si manifesta
fin dalla età di 15 anni, come indicato da tre (o più) dei seguenti elementi:
1) incapacità di conformarsi alle norme sociali per ciò che concerne il comportemento
legale, come indicato dal ripetersi di condotte suscettibili di arresto
2) disonestà, come indicato dal mentire, usare falsi nomi, o truffare gli altri
ripetutamente, per profitto o per piacere personale
3) impulsività o incapacità di pianificare
4) irritabilità e aggrressività, come indicato da scontri o assalti fisici ripetuti
5) inosservanza spericolata della sicurezza propria e degli altri
6) irresponabilità abituale, come indicato dalla ripetuta incapacità di sostenere
un’attività lavorativa continuativa, o di far fronte ad obblighi finanziari
7) mancanza di rimorso, come indicato dall’essere indifferenti o dal razionalizzazare
dopo aver danneggiato, maltattato o derubato un altro.
B. L’individuo ha almeno 18 anni.
C. Presenza di un Disturbo della Condotta con esordio prima dei 15 anni di età.
D. Il comportamento antisociale non si manifesta esclusivamente durante il decorso della
Schizofrenia o di un Episodio Maniacale.
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Disturbo Borderline di Personalità
A. Una modalità pervasiva di instabilità delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sè e
dell’umore e una marcata impulsività, comparse nella prima età adulta e presenti in vari
contesti, come indicato da cinque (o più) dei seguenti elementi:
1) sforzi disperati di evitare un reale o immaginario abbandono. Nota: non includere i
comportamenti suicidari o automutilanti considerati nel criterio 5
2) un quadro di relazioni interpersonali instabili e intense, caratterizzate dall’alternanza
tra gli estremi di iperidealizzazione e svaòutazione
3) alterazione dell’identità: immagine di sè e percezione di sè marcatamente e
persistentemente instabili
4) impulsività in almeno due aree che sono potenzialmente dannose per il soggetto,
quali spendere, sesso, abuso di sostanze, guida spericolata, abbuffate. Nota: non
includere i comportamenti suicidari o automutilanti considerati nel criterio 5
5) ricorrenti minaccie, gesti, comportamenti suicidari, o comportamento automutilante
6) instabilità affettiva dovuta a una marcata reattività dell’umore (per es. episodica
intensa disforia, irritabilità o ansia, che di solito durano poche ore, e soltanto
raramente più di pochi giorni)
7) sentimenti cronici di vuoto
8) rabbia immotivata e intensa o difficoltà a controllare a rabbia (per es. frequenti
accessi di ira o rabbia costante, ricorrenti scontri fisici)
9) ideazione paranoide, o gravi sintomi dissociativi transitori, legati allo stress.
Disturbo Istrionico di Personalità
A. Un quadro pervasivo di emotività eccessiva e di ricerca di attenzione, che compare entro la
prima età adulta ed è presente in una varietà di contesti, come indicato da cinque (o più) dei
seguenti elementi:
1) è a disagio in situazione nelle quali non è al centro dell’attenzione
2) l’interazione con gli altri è spesso caratterizzata da comportamento sessualmente
seducente o provocante
3) manifesta un’espressione delle emozioni rapidamente mutevole e superficiale
4) costantemente utilizza l’aspetto fisico per attirare l’attenzione su di sè
5) lo stile dell’eloquio è eccessivamente impressionistico e privo di dettagli
6) mostra autodrammatizzazione, teatralità, ed espressione esagerata delle emozioni
7) è suggestionabile, cioè, facilmente influenzato dagli altri e dalle circostanze
8) considera le relazioni più intime di quanto non siano realmente.
Disturbo Narcisistico di Personalità
A. Un quadro pervasivo di grandiosità (nella fantasia o nel comportamento), necessità di
ammirazione e mancanza di empatia, che compare entro la prima età adulta ed è presente in
una varietà di contesti, come indicato da cinque (o più) dei seguenti elementi:
1) ha un senso grandioso di importanza (per es. esagera risultati e talenti, si aspetta di
essere notato come superiore senza un’adeguata motivazione)
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2) è assorbito da fantasie di illimitati successo, potere, fascino, bellezza, e di amore
ideale
3) crede di essere “speciale” e unico, e di dover frequentare e poter essere capito solo da
altre persone (o istituzioni) speciali o di classe elevata
4) richiede eccessiva ammirazione
5) ha la sensazione che tutto gli sia dovuto, cioè, la irragionevole aspettativa di
tattamenti di favore o di soddisfazione immediata delle proprie aspettative
6) sfruttamento interpersonale, cioè, si approffitta degli altri per propri scopi
7) manca di empatia: è inacapace di riconoscere o di identificarsi con i sentimenti e le
necessità degli altri
8) è spesso invidioso degli altri, o crede che gli altri lo invidino
9) mostra comportamenti o atteggiamenti arroganti e presuntuosi.
Disturbi di Personalità del Gruppo C
Disturbo Evitante di Personalità
A. Un quadro pervasivo di inibizione sociale, sentimenti di ineguatezza e ipersensibilità al
giudizio negativo, che compare entro la prima età adulta, ed è presente in una varietà di
contesti come indicato da quattro (o più) dei seguenti elementi:
1) evita attività lavorative che implicano un significativo contatto interpersonale, poichè
teme di essere criticato, disapprovato, o rifiutato
2) è riluttante nell’entrare in relazione con persone, a meno che non sia certo di piacere
3) è inibito nelle relazioni intime per il timore di essere umiliato o ridicolizzato
4) si preoccupa di essere criticato o rifiutato in situazioni sociali
5) è inibito in situazioni interpersonali nuove per sentimenti di inadeguatezza
6) si vede come socialmente inetto, personalmente non attraente, o inferiore agli altri
7) è insolitamente riluttante ad assumere rischi personali o ad ingaggiarsi in qualsiasi
nuova attività, poichè questo può rivelarsi imbarazzante.
Disturbo Dipendente di Personalità
A. Una situazione pervasiva ed eccessiva di necessità di essere accuditi, che determina un
comportamento sottomesso e dipendente e timore della separazione, che compare nella
prima età adulta ed è presente in una varietà di contesti, come indicato da cinque (o più) dei
seguenti elementi:
1) ha difficoltà a prendere le decisioni quotidiane senza richiedere una eccessiva
quantità di consigli e rassicurazioni
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2) ha bisogno che altri si assumano le responsabilità per la maggior parte dei settori
della sua vita
3) ha difficoltà ad esprimere dissaccordo verso gli altri per il timore di perdere supporto
e approvazione. Nota: non includere timore realistici di punizioni
4) ha difficoltà ad iniziare progetti o a fare cose autonomamente (per una mancanza di
fiducia nel proprio giudizio o nelle proprie capacità piuttosto che per mancanza di
motivazione o energia)
5) può giungere a qualsiasi cosa pur di ottenere accudimento e supporto da altri, fino al
punto di offrirsi per compiti spiacevoli
6) si sente a disagio o indifeso quando è solo per timori esagerati di essere incapace di
provare provvedere a se stesso
7) quando termina una relazione stretta, ricerca urgentemente un’altra relazione come
fonte di accudimento e di supporto
8) si preoccupa in modo non realistico di essere lasciato a provvedere a se stesso.
Disturbo Ossessivo-Compulsivo di Personalità
A. Un quadro pervasivo di preoccupazione per l’ordine, perfezionismo, e controllo mentale e
interpersonale, a spese di flessibilità, apertura ed efficienza, che compare entro la prima età
adulta ed è presente in una varietà di contesti come indicato da quattro (o più) dei seguenti
elementi:
1) attenzione per i dettagli, le regole, le liste, l’ordine, l’organizzazione o gli schemi, al
punto che va perduto lo scopo principale dell’attività
2) mostra un perfezionismo che interferisce con il comportamento dei compiti (per es. È
incapace di completare un progetto perchè non risultano soddisfatti i suoi standard
oltremodo rigidi)
3) eccesiva dedizione al lavoro e alla produttività, fino all’esclusione delle attività di
svago e delle amcizie
4) esageratamente coscienzioso, scrupoloso, inflessibile, in tema di moralità, etica o
valori (non giustificato dall’apparenza culturale o religiosa)
5) è incapace di gettare via oggetti consumati o di nessun valore, anche quando non
hanno alcun significato affettivo.
6) è riluttante a delegare compiti o a lavorare con altri, a meno che non si sottomettano
esattamente al suo modo di fare le cose
7) adotta una modalità di spesa improntata all’avarizia, sia per sè che per gli altri; il
denaro è considerato come qualcosa da accomulare in vista di catastrofi future
8) manifesta rigidità e testardaggine.
Disturbo di Personalità Non Altrimenti Specificato
Questa categoria è riservata alle alterazioni del funzionamento della personalità che non soddisfano
i criteri per alcuno specifico Disturbo di Personalità. Un esempio è la presenza di caratteristiche di
uno o più Disturbi di Personalità specifici che non soddisfano completamente i criteri per nessun
Disturbo di Personalità (“personalità mista”), ma che nel complesso causano disagio clinicamente
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significativo o compromissione in una o più aree importanti del funzionamento (per es. sociale o
lavorativo). Questa categoria può essere anche utilizzata quando il clinico giudica che sia
appropriato uno specifico Disturbo di Personalità che non è incluso nella Classificazione. Gli
esempi includono il Disturbo Depressivo di Personalità e il Disturbo Passivo-Aggressivo di
Personalità.
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