Consulta il testo - Il Diritto Amministrativo

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TUTELA DEI PUBBLICI DIPENDENTI
E LACUNE NORMATIVE.
Dauno F.G. Trebastoni
Magistrato TAR Catania –
Professore a contratto di Istituzioni di Diritto Pubblico
presso la Facoltà di Scienze Politiche
dell’Università degli Studi di Catania
INDICE – SOMMARIO
1. La privatizzazione del pubblico impiego. La devoluzione al giudice ordinario di tutte le
controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche Amministrazioni. La
trasformazione degli atti amministrativi in atti privatistici. Il sindacato sugli atti gestionali in base a
parametri privatistici, e il loro annullamento. – 2. Contestabilità degli atti gestionali entro termini di
prescrizione, e mancanza di certezza sui rapporti di lavoro: le ipotesi di mobilità. – 3.1. Il tentativo
obbligatorio di conciliazione. – 3.2. Problemi applicativi legati alla eseguibilità del verbale di
conciliazione. – 4. Cumulabilità di ricorso straordinario e ricorso al giudice del lavoro. L’inutile
trasposizione dinanzi al giudice amministrativo.
Par. 1. La privatizzazione del pubblico impiego. La devoluzione al giudice ordinario di
tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche
Amministrazioni. La trasformazione degli atti amministrativi in atti privatistici. Il sindacato
sugli atti gestionali in base a parametri privatistici, e il loro annullamento.
Con il presente scritto si intende esaminare alcuni istituti, la cui applicazione ha presentato problemi
a causa di quelle che sembrano essere vere e proprie lacune normative, in relazione alla tutela
giurisdizionale dei dipendenti “privatizzati” di pubbliche Amministrazioni.
Come è noto, per "privatizzazione del pubblico impiego" si intende la riforma con la quale i rapporti
di lavoro prima regolati dal diritto pubblico sono stati trasformati in rapporti retti dal diritto privato,
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cosicché quelli che erano rapporti di pubblico impiego in senso oggettivo si sono trasformati in
rapporti di pubblico impiego solo in senso soggettivo1.
Il D. Lgs.vo 165/2001, all’art. 51, relativo alla “disciplina del rapporto di lavoro”, dispone ora che
“il rapporto di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche è disciplinato secondo le
disposizioni degli articoli 2, commi 2 e 3, e 3, comma 1” (ai sensi dei quali “i rapporti di lavoro dei
dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II,
del libro V del codice civile e dalle legge sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa”, e “i
rapporti individuali di lavoro…sono regolati contrattualmente”), e che “la legge 20 maggio 1970 n.
300, e successive modificazioni ed integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a
prescindere dal numero dei dipendenti”.
È da tener presente, come aspetto speculare della parificazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti
di pubbliche Amministrazioni a quelli privati, l’altra fondamentale novità della normativa trasfusa
nel D. Lgs.vo n. 165/2001, cioè la disciplina contenuta nell’art. 632, dedicato alle “controversie
relative ai rapporti di lavoro”:
1. “Sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie
relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni di cui
all'articolo 1, comma 2, ad eccezione di quelle relative ai rapporti di lavoro di cui al comma
4, incluse le controversie concernenti l'assunzione al lavoro, il conferimento e la revoca
degli incarichi dirigenziali e la responsabilità dirigenziale, nonché quelle concernenti le
indennità di fine rapporto, comunque denominate e corrisposte, ancorché vengano in
questione atti amministrativi presupposti. Quando questi ultimi siano rilevanti ai fini della
decisione, il giudice li disapplica, se illegittimi. L'impugnazione davanti al giudice
1 Per un inquadramento sistematico degli argomenti in esame sia consentito rinviare fin d’ora a Trebastoni,
La tutela giurisdizionale dei dipendenti di pubbliche Amministrazioni, Torino, 2006.
2 Già art. 68 del D. Lgs.vo n. 29/93, come sostituito prima dall'
art. 33 del D. Lgs.vo 23 dicembre 1993 n. 546
(“Ulteriori modifiche al D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, sul pubblico impiego”), e poi dall'
art. 29 del D.
Lgs.vo 31 marzo 1998 n. 80 (“Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle
amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa,
emanate in attuazione dell'
articolo 11, comma 4, della L. 15 marzo 1997, n. 59”), e successivamente
modificato dall'
art. 18 del D. Lgs.vo 29 ottobre 1998 n. 387 (“Ulteriori disposizioni integrative e correttive
del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29”).
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amministrativo dell'atto amministrativo rilevante nella controversia non è causa di
sospensione del processo”.
2. “Il giudice adotta, nei confronti delle pubbliche amministrazioni, tutti i provvedimenti, di
accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati. Le sentenze
con le quali riconosce il diritto all'assunzione, ovvero accerta che l'assunzione è avvenuta in
violazione di norme sostanziali o procedurali, hanno anche effetto rispettivamente
costitutivo o estintivo del rapporto di lavoro”.
3. “Sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, le controversie
relative a comportamenti antisindacali delle pubbliche amministrazioni ai sensi dell'articolo
28 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni ed integrazioni, e le
controversie, promosse da organizzazioni sindacali, dall'ARAN o dalle pubbliche
amministrazioni, relative alle procedure di contrattazione collettiva di cui all'articolo 40 e
seguenti del presente decreto”.
4. “Restano devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie in materia
di procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni,
nonché, in sede di giurisdizione esclusiva, le controversie relative ai rapporti di lavoro di
cui all'articolo 3, ivi comprese quelle attinenti ai diritti patrimoniali connessi”.
L’art. 2, relativo alle “fonti”, al comma 1 dispone che “le amministrazioni pubbliche definiscono,
secondo princìpi generali fissati da disposizioni di legge e, sulla base dei medesimi, mediante atti
organizzativi secondo i rispettivi ordinamenti, le linee fondamentali di organizzazione degli uffici;
individuano gli uffici di maggiore rilevanza e i modi di conferimento della titolarità dei medesimi;
determinano le dotazioni organiche complessive”.
L’art. 4, nell’attuare la distinzione (o separazione) tra funzione di indirizzo politico-amministrativo,
da una parte, e funzione gestionale dall’altra, dispone, ai commi 1 e 2, che “gli organi di governo
esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi da
attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento di tali funzioni, e verificano la
rispondenza dei risultati dell'attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti”,
spettando ad essi, tra l’altro, le decisioni in materia di atti normativi e l’adozione dei relativi atti di
indirizzo interpretativo ed applicativo, la definizione di obiettivi, priorità, piani, programmi e
direttive generali per l’azione amministrativa e per la gestione, la individuazione delle risorse
umane, materiali ed economico-finanziarie da destinare alle diverse finalità e la loro ripartizione tra
gli uffici di livello dirigenziale generale, la definizione dei criteri generali in materia di ausili
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finanziari a terzi e di determinazione di tariffe, canoni e analoghi oneri a carico di terzi; mentre ai
dirigenti “spetta l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che
impegnano l’amministrazione verso l’esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica e
amministrativa mediante autonomi poteri di spesa di organizzazione delle risorse umane,
strumentali e di controllo. Essi sono responsabili in via esclusiva dell’attività amministrativa, della
gestione e dei relativi risultati”.
L’art. 5, relativo al “potere di organizzazione”, dispone, al comma 2, che “le determinazioni per
l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti la gestione dei rapporti di lavoro sono assunte
dagli organi preposti alla gestione (cioè i dirigenti) con la capacità e i poteri del privato datore di
lavoro”, ma “nell’àmbito delle leggi e degli atti organizzativi di cui all’articolo 2, comma 1”.
In altri termini, i dirigenti, ai quali è affidata in via esclusiva l’attività amministrativa, emanano gli
atti gestionali aventi natura privatistica, definiti in dottrina di microorganizzazione, nell’ambito e
sulla base degli “atti organizzativi” di carattere generale, detti macroorganizzativi, dal contenuto
normativo in senso lato, mediante i quali gli organi di governo delle Amministrazioni esercitano le
proprie funzioni di indirizzo politico-amministrativo e di individuazione degli obiettivi e dei
programmi da attuare, definiscono le linee fondamentali di organizzazione degli uffici, individuano
gli uffici di maggiore rilevanza e i modi di conferimento della titolarità dei medesimi, e
determinano le dotazioni organiche complessive.
Vale a dire che se in materia di pubblico impiego, quando ancora vi era la giurisdizione esclusiva
del giudice amministrativo, persisteva la necessità di distinguere la natura degli atti emessi, anche al
fine di individuarne il carattere di autoritarietà, e l’esistenza o meno di termini di decadenza,
l’avvenuta privatizzazione del settore ha modificato i termini del problema, perchè la devoluzione al
giudice ordinario di tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze di pubbliche
amministrazioni è stata legata alla qualificazione dell’attività di gestione del datore di lavoro
(pubblico), attribuita ai dirigenti, come attività privatistica, cioè come un’attività che si svolge “con
la capacità e i poteri del privato datore di lavoro”, e quindi mediante atti la contestazione dei quali
non è soggetta a termini di decadenza, ma agli ordinari termini di prescrizione.
Naturalmente, la casistica possibile risulta piuttosto ampia, perché comprende qualsiasi atto con il
quale l’Amministrazione datrice di lavoro gestisce appunto il “singolo” rapporto di lavoro con il
dipendente, eccezion fatta, quindi, oltre che per gli atti di macro organizzazione (regolamenti,
piante organiche, ecc.), anche per le procedure concorsuali, le cui controversie sono state riservate
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al giudice amministrativo, sebbene non in sede di giurisdizione esclusiva, bensì (solo) generale di
legittimità.
Vale a dire che se il rapporto di lavoro con il datore di lavoro pubblico è di diritto privato, i relativi
atti di gestione possono essere solo atti negoziali, di diritto privato, e non atti amministrativi, perchè
ogni Amministrazione, nei confronti dei propri dipendenti, è ormai titolare solo di poteri privati, che
incontrano i limiti dei diritti soggettivi dei dipendenti stessi, nel senso che il sindacato del giudice
civile ordinario non attiene alla validità dell’atto in sé, ma all’esistenza del diritto che si assume
violato dal datore di lavoro3.
E poiché sono ormai atti di gestione, su essi non sono più rilevabili neppure i vizi tipici dell'
atto
amministrativo4. Più in generale, le norme della L. n. 241/90 non sono applicabili ai rapporti di
impiego pubblico privatizzati5.
Tale ultima affermazione va però ridimensionata, nel senso che l’applicabilità della L. n. 241/90 va
ribadita per quanto riguarda il diritto di accesso ai documenti amministrativi, per il quale, già prima
di recenti modifiche normative, si affermava che la relativa disciplina, dettata dagli art. 22 e 23
della citata legge, non fosse “preclusiva in via di principio dell'
ostensibilità degli atti di natura
privatistica della p.a.”6. E se tale disciplina è applicabile per l’attività privatistica in generale, lo
3 Per Cass., Sez. Un., 17 luglio 2001 n. 9650, in Foro it., 2002, I, 2967, “ogni atto di gestione di tali rapporti
risulta privo di connotazione autoritativamente discrezionale e rappresenta espressione non di una
potestà amministrativa, ma della capacità e dei poteri del privato datore di lavoro”. Cass., Sez. Un., 6
febbraio 2003 n. 1807, in Lav. nelle p.a., 2003, 307, precisa che “la tutela giurisdizionale del dipendente
pubblico spetta al giudice ordinario per effetto del riconoscimento di posizioni di diritto soggettivo, quali
sono quelle che derivano dallo strumento paritario costituito dal contratto”.
4 V. Cass., sez. lav., 7 aprile 1999 n. 3373, in Foro amm., 1999, 2038, sull“inapplicabilità del regime proprio
degli atti amministrativi”. Cfr. anche Cons. St., sez. II, 21 maggio 2003 n. 206, in Giust. civ., 2004, I, 1850.
5 Cfr. Cass., sez. lav., 2 aprile 2004 n. 6570, in Cons. St., 2004, II, 1737; Id., 18 febbraio 2005 n. 3360, in
Cons. St., 2005, II, 1016. Vedi da ultimo Cass. Sez. Lav., 26 novembre 2008 n. 28274, in Guida al diritto,
2009, 86, che ribadisce che su questi atti bisogna fare applicazione delle norme del codice civile in tema
di esercizio dei poteri del privato datore di lavoro, e anzi precisando “che le situazioni soggettive del
dipendente interessato possono definirsi in termini di <<interessi legittimi>>, ma di diritto privato e, quindi,
pur sempre ascrivibili alla categoria dei diritti di cui all’art. 2907 del codice civile”.
6 Cfr., ex multis, Cons. St., Ad. Pl., 22 aprile 1999 n. 5, in Foro it., 1999, III, 305.
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sarà naturalmente anche per quell’attività legata alla gestione dei rapporti di lavoro, in relazione alla
quale possano essere presentate, dai dipendenti interessati, richieste di accesso a documenti7.
In sostanza, il parametro per il sindacato del giudice sarà ormai costituito dalla sussistenza di
dimostrabili esigenze tecnico-organizzative, dai principi civilistici della correttezza e buona fede,
nonché dalle prescrizioni formali e sostanziali dettate dalla legge o dalla contrattazione collettiva, in
base alle quali sindacare ad esempio provvedimenti disciplinari e di progressione in carriera8.
Il fatto che gli atti del datore di lavoro pubblico siano ora qualificabili come atti gestionali, consente
quindi ugualmente al giudice ordinario di garantire un tipo di tutela piena, dal punto di vista del
sindacato sugli atti stessi, per la semplice ragione che, non trattandosi più di atti amministrativi,
vengono meno i divieti posti dalla L. 20 marzo 1865 n. 2248, all. E (c.d legge abolitrice del
contenzioso amministrativo), il cui art. 4 prevede, con una disposizione tuttora fondamentale in
materia di poteri del giudice ordinario nei confronti delle pubbliche Amministrazioni, che “quando
la contestazione cade sopra un diritto che si pretende leso da un atto dell’autorità amministrativa, i
tribunali si limiteranno a conoscere degli effetti dell’atto stesso in relazione all’oggetto dedotto in
giudizio”, e, per quanto riguarda l’aspetto in esame, “l’atto amministrativo non potrà essere
revocato o modificato se non sovra ricorso alle competenti autorità amministrative, le quali si
conformeranno al giudicato dei Tribunali in quanto riguarda il caso deciso”.
Ai sensi dell’art. 4, quindi, in genere il giudice ordinario non ha il potere di modificare, e tanto
meno revocare, o annullare, un atto amministrativo. Secondo l’interpretazione estensiva fornita
dalla giurisprudenza, poi, più in generale il giudice ordinario non ha il potere di interferire, in
qualsiasi modo, sull’esercizio della discrezionalità amministrativa9.
7 Vedi anche T.A.R. Lazio, sez. I-quater, 10 marzo 2006 n. 1862, a proposito della possibilità per il
dipendente di presentare richieste di accesso anche una volta collocato a riposo. Con riferimento a
dipendenti in servizio vedi T.A.R. Sicilia, Catania, sez. IV, 9 marzo 2007 n. 437.
8 Vedi ad es. Cass. Civ., sez. lav., 8 luglio 1994 n. 6448, in Giust. civ., Mass., 1994, 937, per il sindacato
sulla violazione dei criteri di correttezza e buonafede, in caso di attribuzione di differenze retributive a
parità di mansioni senza apprezzabili e giustificate motivazioni. Con specifico riferimento alle regole
generali della correttezza fissate dall’art. 1175 c.c., ed alle prescrizioni formali e sostanziali dettate dalla
legge o dalla contrattazione collettiva, v. Cass. Sez. Un., 2 novembre 1979 n. 5688, in Riv. Giur. Lav.,
1979, II, 1025, in relazione ad un ente pubblico economico.
9 Fermo restando, secondo quanto precisato da Corte Cost., 23 luglio 2001 n. 275, in Foro it., 2002, I, 2965,
che “il principio della disapplicazione, desunto…dall'
art. 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E,…ed
il relativo limite ai poteri del giudice ordinario di fronte ad un atto amministrativo illegittimo non
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L’operatività dei limiti alle facoltà del giudice ordinario, stabiliti dagli artt. 4 e 5 della legge del
1865, è però circoscritta agli atti-provvedimenti, cioè alle fattispecie in cui l’Amministrazione
agisca iure imperii, ma non entra in gioco in presenza di atti paritetici (o di gestione) e, più in
generale, tutte le volte in cui l’Amministrazione operi non nell’esercizio di un pubblico potere, ma
iure privatorum, nel quadro di un comune negozio di diritto civile.
E poiché nelle fattispecie in questione quelli che vengono alla cognizione del giudice ordinario non
sono atti amministrativi, bensì atti gestionali, il citato art. 4 non può più trovare applicazione, ed
ecco la ragione per cui l’art. 63 del D. Lgs.vo n. 165/2001, al comma 2, prevede che nella materia
de qua il giudice ordinario “adotta, nei confronti delle pubbliche amministrazioni, tutti i
provvedimenti, di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati.
Le sentenze con le quali riconosce il diritto all’assunzione, ovvero accerta che l’assunzione è
avvenuta in violazione di norme sostanziali o procedurali, hanno anche effetto rispettivamente
costitutivo o estintivo del rapporto di lavoro”.
Il giudice ordinario adotta, cioè, tutta una serie di provvedimenti giurisdizionali che gli sarebbero
preclusi se gli atti del datore di lavoro pubblico fossero ancora atti amministrativi, e non invece
emessi (solo) “con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro”10.
costituiscono una regola di valore costituzionale, che il legislatore ordinario sarebbe tenuto ad osservare
in ogni caso. Infatti, resta rimesso alla scelta discrezionale del legislatore ordinario – suscettibile di
modificazioni in relazione ad una valutazione delle esigenze della giustizia e ad un diverso assetto dei
rapporti sostanziali – il conferimento ad un giudice, sia ordinario, sia amministrativo, del potere di
conoscere ed eventualmente annullare un atto della pubblica amministrazione o di incidere sui rapporti
sottostanti, secondo le diverse tipologie di intervento giurisdizionale previste (argomentando dall'
art. 113,
terzo comma, della Costituzione: ordinanze n. 140 e n. 165 del 2001)”. Infatti, già Corte Cost., 17 maggio
2001 n. 140, in Giur. cost., 2001, aveva precisato che “non esiste un principio costituzionale che escluda
la possibilità per il legislatore ordinario, in determinati casi (rimessi alla scelta discrezionale dello stesso
legislatore), in sede di affidamento della tutela giurisdizionale dei diritti soggettivi nei confronti della
pubblica amministrazione, di attribuire al giudice ordinario anche un potere di annullamento e speciali
effetti talora sostitutivi dell'
azione amministrativa, inadempiente rispetto a diritti che lo stesso legislatore
considera prioritari, anche se ciò può comportare la necessità da parte del giudice di valutazioni ed
apprezzamenti non del tutto vincolati, ma sempre riguardanti situazioni regolate da una serie di previsioni
legislative, che prevedano espressamente l'
esercizio di tali poteri”.
10 Sembra utile ricordare che Corte Cost., 6 luglio 2004 n. 204, in Cons. St., 2004, II, 2613, ha precisato, nel
dichiarare incostituzionali gli artt. 33 e 34 del D. Lgs.vo n. 80/98, come sostituiti dall’art. 7 della L. n.
205/2000, che “la Costituzione, mentre ha riconosciuto al giudice amministrativo piena dignità di giudice
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Par. 2. Contestabilità degli atti gestionali entro termini di prescrizione, e mancanza di
certezza sui rapporti di lavoro: le ipotesi di mobilità.
Le descritte caratteristiche degli atti con i quali ogni pubblica Amministrazione gestisce il singolo
rapporto di lavoro comportano però, o possono astrattamente comportare, alcuni seri inconvenienti,
legati in particolare alla circostanza che per contestarne la validità il dipendente, che fa valere
appunto propri diritti soggettivi, non deve più osservare termini di decadenza, in precedenza legati
alla natura autoritativa degli stessi atti, bensì, più semplicemente, di prescrizione.
Ad esempio, può accadere che nell’ambito di una procedura di mobilità un dipendente riesca ad
ottenere il nulla osta per transitare definitivamente nei ruoli di altra Amministrazione, dello stesso o
di altro comparto, ai sensi dell’art. 30 del D.Lgs. n. 165/2001, relativo al “passaggio diretto di
personale tra amministrazioni diverse”, ai sensi del quale “le amministrazioni possono ricoprire
posti vacanti in organico mediante cessione del contratto di lavoro di dipendenti appartenenti alla
stessa qualifica in servizio presso altre amministrazioni, che facciano domanda di trasferimento. Il
trasferimento è disposto previo consenso dell’amministrazione di appartenenza”.
In generale, la nozione di cessione del contratto è fornita dall’art. 1406 cod.civ., ai sensi del quale
“ciascuna parte può sostituire a sé un terzo nei rapporti derivanti da un contratto con prestazioni
corrispettive, se queste non sono state ancora eseguite, purché l’altra parte vi consenta”.
Per quanto riguarda i “rapporti fra contraente ceduto e cedente” (nel caso in esame,
rispettivamente, dipendente e Amministrazione di provenienza), l’art. 1408 dispone che “il cedente
è liberato dalle sue obbligazioni verso il contraente ceduto dal momento in cui la sostituzione
diviene efficace nei confronti di questo”, cioè dal momento in cui gli è stata notificata o in cui l’ha
accettata.
Di fatto, avviene che il dipendente interessato a trasferirsi in altra Amministrazione, che presenti
una vacanza di quello specifico posto in pianta organica, presenti a questa apposita domanda,
accompagnandola, o facendola seguire, dal nulla osta dell’Amministrazione di appartenenza.
ordinario per la tutela delle situazioni soggettive diverse dai diritti soggettivi (c.d. interessi legittimi) nei
confronti della pubblica amministrazione, secondo il modo in cui era stato inteso l’art. 2 L. 20 marzo 1865
n. 2248 all. E, ha pure recepito, di tale legge, con l’art. 113, il principio a norma del quale un diritto civile o
politico leso da un atto della pubblica amministrazione può essere fatto valere davanti all'
autorità
giudiziaria ordinaria, in modo che la stessa viene a trovarsi nella posizione di qualsiasi litigante privato”.
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Entrambe le Amministrazioni provvedono poi sulla domanda con atto dirigenziale avente natura
privatistica, con il quale “gestiscono” il singolo posto di lavoro; in particolare, l’Amministrazione di
appartenenza “gestisce” un rapporto di lavoro già in atto, risolvendolo, mentre quella di
destinazione il rapporto di lavoro lo instaura ex novo con la stipula del contratto di lavoro.
Ad esempio, il CCNL del comparto Regioni – Autonomie locali del 6 luglio 1995, fatto salvo
dall’art. 45 del CCNL del 22 gennaio 2004 per il quadriennio normativo 2002-2005 ed il biennio
economico 2002-2003, all’art. 14, relativo al “contratto individuale di lavoro”, dispone tra l’altro –
riproducendo una “analoga” previsione contenuta nell’art. 3, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001 –
che “Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato o determinato è costituito e regolato da contratti
individuali, secondo le disposizioni di legge, della normativa comunitaria e del presente contratto”.
Il comma 7 dell’art. 14 del citato CCNL precisa infine che “Il contratto individuale di cui al comma
1…sostituisce i provvedimenti di nomina dei candidati da assumere. In ogni caso produce i
medesimi effetti dei provvedimenti di nomina previsti dagli artt. 17 e 28 del D.P.R. del 9 maggio
1994, n. 487” (“Regolamento recante norme sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche
amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di
assunzione nei pubblici impieghi”, e relativi provvedimenti di nomina in prova e immissione in
servizio).
Disposizioni identiche a quelle appena citate, fatta eccezione per quella del comma 7, talvolta non
espressamente formulata, sono rinvenibili in numerosi altri CCNL (ad es., all’art. 14 del CCNL del
comparto Ministeri del 16 maggio 1995, fatto salvo dall’art. 26 del CCNL del 12 giugno 2003 per il
quadriennio normativo 2002-2005 ed il biennio economico 2002-2003).
Ma nella prassi succede con una relativa frequenza che l’atto dirigenziale con il quale il dipendente
è immesso nei ruoli della nuova Amministrazione venga contestato, dinanzi al giudice del lavoro,
per i motivi più disparati: da una organizzazione sindacale che contesti il mancato avvio di
procedure concorsuali per la copertura del posto, da dipendenti a tempo indeterminato interessati a
coprire quel posto mediante progressione verticale, da dipendenti a tempo determinato che
contestano il mancato avvio delle procedure di “stabilizzazione”, ecc..
Solo che, in precedenza, con tali tipi di contestazioni si facevano valere interessi legittimi, e le
relative azioni dovevano essere proposte entro i noti termini di decadenza (60 giorni dinanzi al
giudice amministrativo, e 120 giorni per proporre ricorso straordinario), cosicchè i soggetti
interessati potevano ad esempio attendere prudenzialmente il decorso di tali termini; dopo la c.d.
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“privatizzazione”, invece, come si è precisato, le situazioni soggettive sono solo diritti soggettivi,
per far valere i quali si hanno i consueti termini di prescrizione, ovviamente ben più ampi.
Ma ciò comporta ogni perdita di certezza delle relazioni giuridiche coinvolte, esposte anche per
molto tempo ad essere travolte dall’esito di una delle azioni giudiziarie ipotizzate eventualmente
intraprese.
Nell’esempio citato, potrebbe ben accadere che il giudice del lavoro, nell’accogliere il ricorso,
dichiari l’illettimità dell’immissione del dipendente nei ruoli della nuova Amministrazione, con la
conseguente risoluzione del nuovo contratto di lavoro già stipulato, considerato che il comma 2 del
citato art. 63 del D.Lgs. 165/2001 dispone espressamente che le sentenze con le quali il giudice del
lavoro “riconosce il diritto all'assunzione, ovvero accerta che l’assunzione è avvenuta in violazione
di norme sostanziali o procedurali, hanno anche effetto rispettivamente costitutivo o estintivo del
rapporto di lavoro”; con la deprecabile conseguenza, per il dipendente trasferitosi (magari anche da
un’altra città), di vedersi risolto il nuovo contratto di lavoro, e di non poter più riprendere servizio
neppure presso la precedente Amministrazione, che nel frattempo potrebbe avere già ricoperto il
posto ormai lasciato vacante.
È evidente come quella descritta, sebbene strettamente legata alla mutata natura degli atti del datore
di lavoro pubblico, e delle relative situazioni soggettive coinvolte, non sia una conseguenza del tutto
inevitabile.
Basterebbe probabilmente che il legislatore prevedesse una ipotesi di decadenza, considerato che
l’art. 2965, relativo alla “inapplicabilità di regole della prescrizione”, dispone che “quando un
diritto deve esercitarsi entro un dato termine sotto pena di decadenza, non si applicano le norme
relative all'interruzione della prescrizione. Del pari non si applicano le norme che si riferiscono
alla sospensione, salvo che sia disposto altrimenti”. Oppure, la materia potrebbe essere disciplinata
nel relativo CCNL11.
In ogni caso, un intervento chiarificatore sembra ineludibile, prima di tutto a tutela dei diritti dei
dipendenti, oltre che degli interessi delle stesse Amministrazioni eventualmente coinvolte.
Par. 3.1. Il tentativo obbligatorio di conciliazione.
11 L’ipotesi di prevedere la possibilità di una riassunzione, eventualmente anche in soprannumero, nella
Amministrazione di provenienza, sembra pregiudicare eccessivamente gli interessi di quest’ultima.
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Altro problema applicativo è legato al fatto che l’art. 65 del D. Lgs.vo 165/2001, relativo al
“tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie individuali”, dispone che per le
controversie individuali debba essere esperito il tentativo obbligatorio di conciliazione previsto
dall'
art. 410 c.p.c., da svolgersi con le procedure previste dai contratti collettivi, ovvero davanti al
collegio di conciliazione di cui all'
art. 66.
I commi 2 e 3 prevedono anche che “la domanda giudiziale diventa procedibile trascorsi novanta
giorni dalla promozione del tentativo di conciliazione”, e che “il giudice che rileva che non è stato
promosso il tentativo di conciliazione…, o che la domanda giudiziale è stata proposta prima della
scadenza del termine di novanta giorni dalla promozione del tentativo, sospende il giudizio e fissa
alle parti il termine perentorio di sessanta giorni per promuovere il tentativo di conciliazione”.
“Espletato il tentativo di conciliazione o decorso il termine di novanta giorni, il processo può
essere riassunto entro il termine perentorio di centottanta giorni. La parte contro la quale è stata
proposta la domanda in violazione dell'articolo 410 del codice di procedura civile, con l'atto di
riassunzione o con memoria depositata in cancelleria almeno dieci giorni prima dell'udienza
fissata, può modificare o integrare le proprie difese e proporre nuove eccezioni processuali e di
merito, che non siano rilevabili d'ufficio. Ove il processo non sia stato tempestivamente riassunto, il
giudice dichiara d'ufficio l'estinzione del processo con decreto cui si applica la disposizione di cui
all'articolo 308 del codice di procedura civile”.
L'
esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione è previsto quale condizione di
procedibilità della domanda, la relativa mancanza deve essere eccepita dal convenuto nella memoria
difensiva di cui all'
art. 416 c.p.c. (Costituzione del convenuto: “Il convenuto deve costituirsi almeno
dieci giorni prima dell'udienza,…mediante deposito in cancelleria di una memoria difensiva, nella
quale devono essere proposte, a pena di decadenza, le eventuali domande in via riconvenzionale e
le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio…deve prendere posizione, in
maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dall'attore a
fondamento della domanda, proporre tutte le sue difese in fatto e in diritto ed indicare
specificamente, a pena di decadenza, i mezzi di prova dei quali intende avvalersi ed in particolare i
documenti che deve contestualmente depositare”), e può essere rilevata anche d'
ufficio dal giudice,
purché non oltre l'
udienza di discussione della causa, con la conseguenza che ove l'
improcedibilità
- Pagina 11 di 27 -
dell'
azione, ancorché segnalata dalla parte, non venga rilevata dal giudice entro il suddetto termine,
la questione non può essere riproposta nei successivi gradi di giudizio12.
L’art. 66 del D. Lgs.vo 165/2001 disciplina minuziosamente la procedura per il concreto
espletamento del tentativo di conciliazione, che deve concludersi entro sessanta giorni dalla
richiesta, da presentare alla Direzione provinciale del lavoro nella cui circoscrizione si trova
l'
ufficio cui il lavoratore è addetto, ovvero era addetto al momento della cessazione del rapporto. Le
medesime procedure si applicano, in quanto compatibili, se il tentativo di conciliazione è promosso
dalla pubblica Amministrazione. La richiesta del tentativo di conciliazione, sottoscritta dal
lavoratore, è consegnata alla Direzione presso la quale è istituito il collegio di conciliazione
competente, o spedita mediante raccomandata con avviso di ricevimento. Copia della richiesta deve
essere consegnata o spedita a cura dello stesso lavoratore anche all’Amministrazione di
appartenenza13.
La richiesta deve precisare:
a) l’Amministrazione di appartenenza e la sede alla quale il lavoratore è addetto;
b) il luogo dove gli devono essere fatte le comunicazioni inerenti alla procedura;
c) l’esposizione sommaria dei fatti e delle ragioni poste a fondamento della pretesa;
d) la nomina del proprio rappresentante nel collegio di conciliazione o la delega per la nomina
medesima ad un’organizzazione sindacale.
Entro trenta giorni dal ricevimento della copia della richiesta, l’Amministrazione, qualora non
accolga la pretesa del lavoratore, deposita presso la Direzione osservazioni scritte. Nello stesso atto
12 Cfr. Cass. Civ., sez. lav., 16 agosto 2004 n. 15956, in Giust. civ., Mass., 2004.
13 Per il dipendente di pubbliche Amministrazioni è quindi prevista espressamente la sua sottoscrizione,
mentre per i dipendenti di datori di lavoro privati si è anche affermato che “se in linea di principio l'
atto
interruttivo della prescrizione deve essere sottoscritto dal creditore, questo non vale con riguardo alla
richiesta per il tentativo obbligatorio di conciliazione, per la quale operano le norme speciali di cui agli art.
410, commi 1 e 2, c.p.c., la prima laddove prevede che il tentativo possa essere promosso anche tramite
l'
organizzazione sindacale cui il lavoratore aderisce, la seconda che stabilisce che <la comunicazione
della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la
durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni
termine di decadenza>”: Cfr. Corte Appello Milano, 4 maggio 2001, in Lavoro nella giur., (Il), 2001, 1100.
Per Trib. Milano, 10 maggio 1999, in D.L. Riv. critica dir. lav., 2000, 255, “La richiesta del tentativo
obbligatorio di conciliazione ex art. 410 c.p.c. può essere effettuata anche personalmente dal difensore
che sia munito di procura conferita anche solo verbalmente”.
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nomina il proprio rappresentante in seno al collegio di conciliazione. Entro i dieci giorni successivi
al deposito, il Presidente fissa la comparizione delle parti per il tentativo di conciliazione. Dinanzi
al collegio di conciliazione, il lavoratore può farsi rappresentare o assistere anche da
un’organizzazione cui aderisce o conferisce mandato. Per l’Amministrazione deve comparire un
soggetto munito del potere di conciliare. Se la conciliazione riesce, anche limitatamente ad una
parte della pretesa avanzata dal lavoratore, viene redatto separato processo verbale sottoscritto dalle
parti e dai componenti del collegio di conciliazione. Il verbale costituisce titolo esecutivo.
Alla conciliazione non si applicano le disposizioni dell'
art. 2113, commi primo, secondo e terzo, del
codice civile, relative alla impugnabilità di rinunzie e transazioni.
Se non si raggiunge l’accordo tra le parti, il collegio di conciliazione deve formulare una proposta
per la bonaria definizione della controversia. Se la proposta non è accettata, i termini di essa sono
riassunti nel verbale con indicazione delle valutazioni espresse dalle parti.
Nel successivo giudizio sono acquisiti, anche di ufficio, i verbali concernenti il tentativo di
conciliazione non riuscito. Il giudice valuta il comportamento tenuto dalle parti nella fase
conciliativa ai fini del regolamento delle spese. La conciliazione della lite da parte di chi
rappresenta la pubblica Amministrazione, in adesione alla proposta formulata dal collegio di cui al
comma 1, ovvero in sede giudiziale ai sensi dell'
art. 420, commi primo, secondo e terzo, c.p.c., non
può dar luogo a responsabilità amministrativa.
Par. 3.2. Problemi applicativi legati alla eseguibilità del verbale di conciliazione.
Ciò che interessa ai fini in esame è che se la conciliazione riesce, anche limitatamente ad una parte
della pretesa avanzata dal lavoratore, viene redatto separato processo verbale sottoscritto dalle parti
e dai componenti del collegio di conciliazione, che “costituisce titolo esecutivo”.
Da questo punto di vista, si evidenzia già una rilevante differenza con le conciliazioni concluse
presso gli uffici provinciali del lavoro con datori di lavoro privati, perché per queste ultime l’art.
411 c.p.c. prevede una fase non prevista invece per le conciliazioni ex art. 66 D. Lgs.vo 165/2001, e
cioè che “il verbale di conciliazione è depositato a cura delle parti o dell’ufficio provinciale del
lavoro e della massima occupazione nella cancelleria del Tribunale nella cui circoscrizione è stato
formato. Il giudice, su istanza della parte interessata, accertata la regolarità formale del verbale di
conciliazione, lo dichiara esecutivo con decreto”.
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Quindi, mentre il verbale di cui all’art. 66 del decreto 165 “costituisce titolo esecutivo” ex lege,
quello legato a conciliazioni concluse con datori di lavoro privati va dichiarato esecutivo con
decreto del Tribunale.
Ora, si pone il problema della valenza giuridica del verbale di conciliazione, e del fatto che, per
espressa disposizione di legge, lo stesso costituisca “titolo esecutivo”.
A tal fine, bisogna distinguere, a seconda che con il verbale vengano riconosciuti al dipendente
benefici di natura economica, o che abbiano invece solo una valenza giuridica.
Nel primo caso, il verbale potrà essere utilizzato al fine di avviare l’esecuzione forzata, considerato
che, come previsto dall’art. 474 c.p.c., “l’esecuzione forzata non può avere luogo che in virtù di un
titolo esecutivo per un diritto certo, liquido ed esigibile”.
Nel caso in cui, invece, il verbale riconosca al dipendente soltanto benefici di natura giuridica (ad
es., una certa anzianità di servizio), sorge il dubbio circa l’utilizzabilità dello stesso verbale per
ottenere anche l’esecuzione forzata di obblighi di fare o non fare, considerato che il citato art. 612
c.p.c. prevede che possa rivolgersi al giudice dell’esecuzione “chi intende ottenere l’esecuzione
forzata di una sentenza di condanna…”, e non anche di un atto, come un verbale di conciliazione,
non equiparabile ad una sentenza di condanna14.
Ed infatti, in giurisprudenza si è affermato che il verbale di conciliazione giudiziale, pur essendo
titolo esecutivo ai sensi dell'
art. 185 c.p.c. – idoneo all’esecuzione per le obbligazioni pecuniarie,
all’esecuzione specifica ex art. 2932 c.c. e alla esecuzione per consegna e rilascio – non legittima
alla esecuzione forzata degli obblighi di fare o di non fare, poiché l’art. 612 c.p.c. menziona quale
unico titolo valido per l’esecuzione la sentenza di condanna (dovendosi intendere estensivamente
con tale espressione ogni provvedimento giudiziale di condanna), in considerazione dell’esigenza di
previo accertamento della fungibilità e quindi della coercibilità dell’obbligo di fare o non fare15.
14 Vedi T.A.R. Sicilia, Catania, sez. III, 15 marzo 2005 n. 450, in Rass.amm.sic., 2005, 636, che ha
annullato una graduatoria scolastica permanente del personale A.T.A., nella parte in cui non riconosceva
il servizio prestato dai ricorrenti, espressamente riconosciuto invece dal verbale di conciliazione.
15 Cfr. Cass. Civ., sez. III, 13 gennaio 1997 n. 258, in Giust. civ. Mass., 1997, 24. Tale sentenza ricorda che
analogo orientamento era stato già assunto da Cass. Civ., 13 ottobre 1954 n. 3637; Id., 24 maggio 1955
n. 1531, e Id., 14 dicembre 1994 n. 10713, in Giust. Civ. mass.. Tale conclusione troverebbe spiegazione,
secondo la Corte, sotto un duplice aspetto. Innanzitutto, gli effetti esecutivi attribuiti al verbale di
conciliazione dall'
art. 185, ult. comma, c.p.c. non possono paragonarsi a quelli di una sentenza passata in
giudicato, dovendosi, invece, assimilare a quelli di un titolo contrattuale esecutivo (come gli atti notarili e
simili indicati nell'
art. 474 n. 3 c.p.c.), posto che il verbale di conciliazione è un atto di composizione
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Ma della questione si è occupata anche la Corte Costituzionale, la quale ha dichiarato non fondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 612 c.p.c. nella parte in cui, secondo il diritto
vivente, non prevede l’esecuzione degli obblighi di fare e non fare sulla base di un verbale di
conciliazione giudiziale sotto il controllo del giudice dell’esecuzione, in quanto l’art. 612 c.p.c. può
essere letto nel senso che esso consenta il procedimento di esecuzione disciplinato dalle
disposizioni che lo seguono anche se il titolo esecutivo sia costituito dal verbale di conciliazione16.
Secondo la Corte, infatti, qualora si escludesse l’efficacia esecutiva del verbale di conciliazione
avente ad oggetto gli obblighi di cui all’art. 612, si costringerebbe la parte a ripercorrere la strada di
un processo di cognizione, così negando il valore di accelerazione della definizione della
controversia che costituisce la principale caratteristica della conciliazione. La Corte ritiene che l’art.
612 possa essere letto nel senso che esso consenta il procedimento di esecuzione disciplinato dalle
disposizioni che lo seguono anche se il titolo esecutivo sia costituito dal verbale di conciliazione, in
quanto le eventuali ragioni ostative devono essere valutate non ex post, e cioè nel procedimento di
esecuzione, bensì, se esse preesistono, in sede di formazione dell’accordo conciliativo da parte del
giudice che lo promuove e sotto la cui vigilanza può concludersi soltanto se la natura della causa lo
volontariamente concluso dalle parti, sia pure con l'
intervento del giudice (cfr. Cass. 18 luglio 1987 n.
6333). Per altro verso, poi, occorre ai fini di specie un titolo contenente l'
accertamento positivo sulla
fungibilità e quindi sulla coercibilità dell'
obbligo di fare.
16 Così Corte Cost., 12 luglio 2002 n. 336, in Giur. cost., 2002, 2573, che rileva che l'
asserito diritto vivente
si sostanzia in poche pronunce del giudice di legittimità, delle quali quelle più recenti (vedi nota
precedente) fanno propri in modo acritico principi enunciati in sentenze risalenti a circa mezzo secolo.
Inoltre, l’argomento, di carattere letterale, facente leva sul fatto che la disposizione fa riferimento
espressamente soltanto all'
esecuzione di una sentenza, escludendo implicitamente la possibilità di
esperire l'
esecuzione di obblighi di fare o di non fare sulla base di titoli esecutivi diversi dalle sentenze, ed
in particolare del verbale di conciliazione, viene considerato debole, tanto che la norma viene intesa
come idonea a disciplinare l'
esecuzione non soltanto delle sentenze, ma anche di altri provvedimenti,
quali, ad esempio, le ordinanze emesse in sede di procedimenti per denuncia di nuova opera o di danno
temuto, nonché, secondo un indirizzo giurisprudenziale, dei provvedimenti concernenti l'
affidamento dei
minori. Per quanto riguarda poi quelle ipotesi (art. 2933, 2° comma, c.c., e obbligo che abbia ad oggetto
una prestazione infungibile), per le quali sarebbe necessaria la valutazione da parte del giudice, la Corte
precisa che a tali argomentazioni si può replicare che l'
art. 183, 1° comma, c.p.c. stabilisce che alla
conciliazione si può pervenire se la natura della causa lo consente. È quindi non illogico ritenere che nelle
situazioni prospettate – pregiudizio all'
economia nazionale derivante dalla distruzione dell'
opera,
infungibilità della prestazione – sia la stessa conciliazione ad essere impedita.
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consente. In presenza di un verbale di conciliazione, cui il codice di rito attribuisce in linea di
principio efficacia di titolo esecutivo (art. 185, 2° comma, e art. 474, 2° comma, numero 1), si deve
ritenere che le eventuali ragioni di ineseguibilità in forma specifica dell’obbligo siano state già
considerate ed escluse, ferma restando la possibilità di far valere quelle sopravvenute.
Inoltre, la Corte precisa che i provvedimenti emessi dal giudice dell’esecuzione ai sensi degli artt.
612 s.s. possono essere oggetto di opposizione per motivi sopravvenuti in caso di conciliazioni
giudiziali, per motivi anche preesistenti in ipotesi di conciliazioni conclusesi al di fuori del controllo
del giudice. Tale lettura esclude per la Corte il denunciato contrasto con gli artt. 3, 24 e 111, 2°
comma, Cost., contrasto che potrebbe profilarsi sul rilievo che escludere l’efficacia esecutiva del
verbale di conciliazione avente ad oggetto gli obblighi di fare o non fare costituirebbe un
irragionevole seppur parziale sacrificio del diritto di difesa, del quale gli strumenti per ottenere in
concreto "il bene della vita" conteso costituiscono aspetto essenziale, nonché una protrazione dei
tempi del processo altrettanto irragionevole.
Da tutto ciò consegue che se il verbale di conciliazione di cui all’art. 66 del D. Lgs.vo 165/2001 può
essere utilizzato al fine del ricorso alla procedura di esecuzione prevista dall’art. 612 c.p.c. – perché
per quelle che sono le premesse teoriche della Corte Costituzionale non può esservi da quel punto di
vista alcuna differenza tra conciliazione giudiziale ed extragiudiziale – non può però essere
utilizzato anche al fine dell’attivazione del giudizio di ottemperanza; infatti, se il verbale di
conciliazione giudiziale, come pure quello extragiudiziale, possono essere equiparati, come
affermato dalla Corte per il primo, alla “sentenza di condanna” prevista dall’art. 612, non possono
però essere ritenuti equivalenti anche ad una sentenza passata in giudicato, che è il presupposto
fondamentale per attivare il giudizio di ottemperanza17.
Pertanto, una volta redatto il verbale di conciliazione ex art. 66, con il quale vengano riconosciuti a
carico dell’Amministrazione obblighi di fare o non fare, l’interessato potrà, per ottenere il rispetto
17 T.A.R. Puglia, Lecce, sez. II, 13 luglio 2002 n. 3278, in Foro amm. TAR, 2002, 2672, ha dichiarato
inammissibile il ricorso per ottemperanza al verbale di conciliazione avanti al collegio previsto dal citato
art. 66, “in quanto il giudizio di ottemperanza riguarda l'
obbligo dell'
autorità amministrativa di uniformarsi
al giudicato e non può essere esteso all'
esecuzione di titoli esecutivi scaturenti da un procedimento che
non vede l'
intervento dell'
autorità giudiziaria, nè sussiste l'
analogia con le tematiche dell'
ottemperanza dei
decreti ingiuntivi non opposti e dei lodi arbitrali, trattandosi di provvedimenti che vedono l'
intervento
dell'
autorità giudiziaria nel procedimento di formazione del titolo (come per il decreto ingiuntivo) o
comunque sono considerati dall'
ordinamento come surrogatori della giurisdizione (ed alla giurisdizione
riportati da vari meccanismi di raccordo, come nell'
ipotesi dei lodi arbitrali)”.
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di tali obblighi, rivolgersi al giudice dell’esecuzione, in base all’art. 612 c.p.c., mentre se vorrà
esperire anche il giudizio di ottemperanza dovrà prima munirsi, naturalmente presso il giudice
ordinario, di un titolo giudiziale idoneo al passaggio in giudicato.
Allo stesso modo, laddove con il verbale si riconoscano a favore del dipendente diritti di natura
economica, egli potrà iniziare direttamente l’esecuzione forzata, proprio sulla base del fatto che il
verbale “costituisce titolo esecutivo”, mentre se vorrà anche adìre il giudice amministrativo per
l’ottemperanza avrà l’onere di rivolgersi previamente al giudice ordinario con ricorso per decreto
ingiuntivo, per ottenere quel titolo giudiziale che, una volta passato in giudicato, se non opposto, lo
legittimerà ad avvalersi anche dell’altro strumento giuridico costituito dal giudizio di
ottemperanza18.
Ciò non toglie il fatto che a tale conclusione si giunga solo in via interpretativa, ma che nell’attuale
assetto normativo manchi una disposizione che espressamente preveda per il dipendente pubblico la
possibilità di rivolgersi al giudice dell’esecuzione, nel caso in cui l’Amministrazione si rifiuti di
fatto di riconoscergli quei benefici di carattere giuridico che gli ha invece già riconosciuto in sede di
conciliazione dinanzi all’Ufficio Provinciale del Lavoro.
Con la conseguente possibilità di discordanti interpretazioni da parte dei diversi giudici di merito, e
finanche del giudice di legittimità, eventualmente adìti.
Par. 4. Cumulabilità di ricorso straordinario e ricorso al giudice del lavoro. L’inutile
trasposizione dinanzi al giudice amministrativo.
Nell’ambito della tutela dei diritti del pubblico dipendente, ha aperto scenari in parte nuovi la
possibilità, riconosciuta in giurisprudenza, che anche avverso gli atti gestionali, quindi privatistici,
emessi dal datore di lavoro pubblico, l’interessato esperisca ricorso straordinario dinanzi al
Presidente della Repubblica.
Prima di verificare come possa trovare applicazione nella materia in esame, è opportuno premettere
che questo tipo di ricorso è disciplinato dagli artt. 8 e ss del D.P.R. 24 novembre 1971 n. 1199, di
“semplificazione dei procedimenti in materia di ricorsi amministrativi”, ai sensi dei quali “contro
gli atti amministrativi definitivi è ammesso ricorso straordinario al Presidente della Repubblica per
18 Per l’impossibilità di adìre il giudice amministrativo in sede di ottemperanza, facendo valere solo il verbale
di conciliazione, vedi T.A.R. Calabria, Catanzaro, 19 maggio 2008 n. 522, nonché Cons. St., sez. V, 22
ottobre 2007 n. 5480.
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motivi di legittimità da parte di chi vi abbia interesse”, da proporre nel termine di centoventi giorni
dalla data della notificazione o della comunicazione dell’atto impugnato, o da quando l’interessato
ne abbia avuto piena conoscenza. Quello in esame è quindi un ricorso “straordinario” (non nel senso
che sia eccezionale, ma solo in quanto può essere proposto solo contro atti definitivi, non soggetti
quindi neppure a ricorso gerarchico), ed è un ricorso amministrativo, proponibile solo per motivi di
legittimità, a tutela sia di interessi legittimi che di diritti soggettivi.
Entro il termine di 120 giorni il ricorso deve essere non soltanto notificato, “nei modi e con le forme
prescritti per i ricorsi giurisdizionali, ad uno almeno dei controinteressati”, ma deve essere anche
“presentato”, con la prova dell’eseguita notificazione, all’organo che ha emanato l’atto o al
Ministero competente. Tale presentazione può avvenire in tre diversi modi: mediante consegna
diretta (nel qual caso l’ufficio ne rilascia ricevuta), mediante notificazione, o mediante lettera
raccomandata con avviso di ricevimento (nel qual caso la data di spedizione vale quale data di
presentazione). L’organo che ha ricevuto il ricorso lo trasmette immediatamente al Ministero
competente, al quale riferisce. Ai controinteressati è assegnato un termine di sessanta giorni dalla
notificazione del ricorso, per presentare al Ministero che istruisce l’affare deduzioni e documenti,
ed eventualmente per proporre ricorso incidentale.
Quando il ricorso sia stato notificato ad alcuni soltanto dei controinteressati, il Ministero ordina
l’integrazione del contraddittorio, determinando i soggetti cui il ricorso stesso deve essere notificato
e le modalità e i termini entro i quali il ricorrente deve provvedere all’integrazione.
Entro il medesimo termine di sessanta giorni dalla notificazione del ricorso, i controinteressati
possono richiedere, con atto notificato al ricorrente e all’organo che ha emanato l’atto impugnato,
che il ricorso sia deciso in sede giurisdizionale (c.d. opposizione dei controinteressati).
In tal caso, il ricorrente, qualora intenda insistere nel ricorso, deve depositare nella segreteria del
giudice amministrativo competente, nel termine di sessanta giorni dal ricevimento dell’atto di
opposizione, l’atto di costituzione in giudizio, dandone avviso mediante notificazione all’organo
che ha emanato l’atto impugnato ed ai controinteressati, e il giudizio prosegue in sede
giurisdizionale (c.d. trasposizione del giudizio). Il collegio giudicante, qualora riconosca che il
ricorso è inammissibile in sede giurisdizionale, ma può essere deciso in sede straordinaria, dispone
la rimessione degli atti al Ministero competente per l’istruzione dell’affare.
Il mancato esercizio della facoltà di scelta preclude ai controinteressati, ai quali sia stato notificato il
ricorso straordinario, l’impugnazione, dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale, della
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decisione di accoglimento del Presidente della Repubblica, salvo che per vizi di forma o di
procedimento propri del medesimo.
Gli articoli da 11 a 15 del citato D.P.R. disciplinano minuziosamente la procedura per la decisione
del ricorso, che viene adottata – previo parere di una sezione consultiva o della commissione
speciale del Consiglio di Stato (che possono rimettere il ricorso all'
Adunanza generale, se rilevano
che il punto di diritto sottoposto al loro esame ha dato luogo o possa dar luogo a contrasti
giurisprudenziali) – con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministero
competente. Questi, ove intenda proporre una decisione difforme dal parere del Consiglio di Stato,
deve sottoporre l’affare alla deliberazione del Consiglio dei Ministri. Qualora il Ministro
competente per l’istruttoria del ricorso non intenda proporre al Consiglio dei Ministri una decisione
difforme dal parere del Consiglio di Stato, la decisione del ricorso deve essere conforme al parere
predetto. Qualora il decreto di decisione del ricorso straordinario pronunci l’annullamento di atti
amministrativi generali a contenuto normativo, del decreto stesso deve essere data, a cura
dell’Amministrazione interessata, nel termine di trenta giorni dalla emanazione, pubblicità nelle
medesime forme di pubblicazione degli atti annullati19.
Ora, il comma 2 dell’art. 8 del citato D.P.R. pone la fondamentale regola – ribadita anche dall’art.
20, ultimo comma, della L. 6 dicembre 1971 n. 1034, di “istituzione dei tribunali amministrativi
regionali” – detta dell’alternatività, secondo cui “quando l'atto sia stato impugnato con ricorso
giurisdizionale, non è ammesso il ricorso straordinario da parte dello stesso interessato”.
Peraltro, l’art. 34, comma 2, del R.D. 26 giugno 1924 n. 1054, di “Approvazione del testo unico
delle leggi sul Consiglio di Stato”, aveva già posto anche la regola inversa, secondo cui non è più
ammesso il ricorso giurisdizionale amministrativo quando sia stato proposto ricorso straordinario.
19 In Sicilia, ai sensi dell’art. 23, comma 4, dello statuto della Regione (approvato con R.D.L. 15 maggio
1946 n. 455, convertito in legge costituzionale 26 febbraio 1948 n. 2), “I ricorsi amministrativi, avanzati in
linea straordinaria contro atti amministrativi regionali, saranno decisi dal Presidente della Regione, sentite
le Sezioni regionali del Consiglio di Stato”, cioè sentito il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la
Regione Siciliana. Quindi le competenze che il D.P.R. n. 1199/1971 attribuisce, nell’istruttoria del ricorso,
al Ministero, sono da intendersi attribuite al competente Assessorato, il quale, ove intenda proporre una
decisione difforme dal parere del Consiglio di Giustizia Amministrativa, deve sottoporre l’affare alla Giunta
Regionale. Oggetto di ricorso al Presidente della Regione possono quindi essere solo gli “atti
amministrativi regionali”, da intendere come gli atti emanati dagli organi regionali o da organi dipendenti,
controllati o vigilati dalla Regione, quindi ivi compresi gli enti locali. Gli altri atti, che non rientrino fra quelli
“regionali”, potranno sempre essere oggetto di ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.
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La regola nasce dalla necessità di evitare, da una parte, che sullo stesso oggetto si formino due
decisioni (una amministrativa ed una giurisdizionale) contrastanti, e dall’altra una doppia pronuncia
del Consiglio di Stato sul merito della stessa questione, perché potrebbe verificarsi che il Consiglio
di Stato si pronunci, quale organo d’appello, sulla medesima questione sulla quale si sia già
pronunciato in sede consultiva, nell’ambito della procedura del ricorso straordinario.
Secondo consolidato orientamento giurisprudenziale – formatosi sull'
art. 10, 3° comma, del citato
D.P.R., relativo alla preclusione, per i controinteressati intimati che non abbiano scelto la sede
giurisdizionale, di impugnare poi in sede giurisdizionale la decisione di accoglimento del Presidente
della Repubblica, salvo che per vizi di forma o di procedimento propri del medesimo – il principio
dell’alternatività tra ricorso al giudice amministrativo e ricorso straordinario si riflette anche
sull’impugnazione giurisdizionale della decisione sul ricorso straordinario, nel senso di rendere
inammissibile un siffatto ricorso giurisdizionale per vizi diversi da quelli di forma e di
procedimento intervenuti successivamente al parere del Consiglio di Stato in sede consultiva20.
In sostanza, in generale l’impugnabilità della decisione del ricorso straordinario è circoscritta ai soli
vizi di forma e del procedimento, mentre è impedita la valutazione di contestazioni che comportino
un qualsiasi riesame del giudizio formulato dal Consiglio di Stato in sede consultiva. Infatti, se
fosse ammissibile il controllo di legittimità della determinazione sul merito del ricorso
straordinario, il giudice amministrativo sarebbe investito della cognizione sui vizi dell’atto lesivo,
per la via mediata della denuncia degli errores in iudicando che inficiano quella decisione; il che
eliderebbe l’effetto preclusivo determinato dalla proposizione del ricorso straordinario e
vanificherebbe il principio di alternatività tra ricorso straordinario e ricorso giurisdizionale21.
20 Cfr., ex multis, T.A.R. Lazio, sez. III, 24 giugno 2004 n. 6168, in Foro amm. T.A.R., 2004, 1746. Come già
chiarito da Corte Cost.,2 luglio 1966 n. 78, la preclusione della via giurisdizionale non determina alcuna
lesione del diritto, riconosciuto dall’art. 113 Cost., di ottenere tutela giurisdizionale, poiché l’utilizzo del
ricorso straordinario è frutto di una autonoma scelta del ricorrente.
21 Cfr. T.A.R. Campania, Napoli, sez. V, 15 maggio 2003 n. 5798, in Foro amm. T.A.R., 2003, 1742. “La
regola dell'
alternatività opera non solo nell'
ipotesi di impugnativa diretta dello stesso atto, ma anche
quando un atto presupposto (come il bando di concorso) venga censurato in sede amministrativa per
dimostrare l'
illegittimità derivata dell'
atto applicativo (come il decreto di esclusione dal concorso),
dovendosi tener conto delle finalità della norma, intesa ad evitare il possibile contrasto di giudizi di diversi
organi giudicanti dello stesso plesso, in ordine al medesimo oggetto”: Cons. St., sez. III, 28 ottobre 2003
n. 1681, in Foro amm. CdS, 2003, 3114.
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Dal punto di vista tecnico, poiché nel processo amministrativo, a differenza che nel processo civile,
perché il rapporto processuale si costituisca non è sufficiente la notifica del ricorso, il mancato
deposito dello stesso impedisce al principio dell’alternatività tra ricorso giurisdizionale e ricorso
straordinario di esplicare i propri effetti, anche qualora il ricorso giurisdizionale sia stato notificato
prima del ricorso straordinario, ma depositato dopo quest'
ultimo22.
Invece, per la rituale introduzione del ricorso straordinario è sufficiente il suo deposito presso
l’Amministrazione che ha emanato gli atti impugnati, prescindendo dalla notifica del gravame alla
stessa Amministrazione, perché il deposito costituisce fonte di piena conoscenza del ricorso23.
Inoltre, poiché, ai sensi dell’art. 8, comma 2, il ricorso straordinario non è ammesso (solo) quando
l’atto sia stato impugnato con ricorso giurisdizionale “da parte dello stesso interessato”, la
violazione del principio di alternatività tra ricorso straordinario e ricorso giurisdizionale
amministrativo si configura solo allorquando vi sia identità del soggetto ricorrente e dell’atto
impugnato, indipendentemente dalla diversità dei motivi tra le due impugnazioni24.
Pertanto, nel caso in cui soggetti distinti, entrambi interessati all’annullamento di un atto
amministrativo, presentino simultaneamente ricorso in sede giurisdizionale e ricorso straordinario, è
possibile che i due rimedi abbiano esiti differenti, così come che entrambi si risolvano
nell’annullamento del medesimo atto; nè la conclusione di uno dei due procedimenti comporta, di
22 Cfr. Cons. St., sez. III, 8 aprile 2003 n. 1863, in Foro amm. CdS, 2003, 1703, nonché Id., sez. III, 28
ottobre 2003 n. 2439, in Foro amm. CdS, 2003, 3115. Cons. St., sez. II, 23 giugno 2004 n. 6576/04, ha
chiarito che “in tema di principio di alternatività, l’atto di rinuncia al ricorso giurisdizionale comunque non
esprime effetti automatici e immediati, richiedendosi sempre una espressa pronuncia dell’organo
giudicante, previa verifica della regolarità e ritualità della rinuncia stessa, oltrechè dell’assenza di
condizioni”.
23 Cfr. T.A.R. Umbria, 14 maggio 2003 n. 363, in Foro amm. T.A.R., 2003, 1625.
24 Cfr. T.A.R. Puglia, Lecce, sez. II, 2 dicembre 2002 n. 7108, in Foro amm. T.A.R., 2002. Anzi, come
precisato da Cons. St., sez. IV, 31 dicembre 2003 n. 9292, in Foro amm. CdS, 2003, 3679,
“L'
inammissibilità del ricorso giurisdizionale avverso un atto già impugnato in sede di ricorso straordinario
è configurabile anche se con il nuovo ricorso vengano sollevate questioni solo in parte coincidenti con
quelle che ebbero a formare l'
oggetto del ricorso straordinario in quanto dedotte o non rilevate, ciò in
applicazione del principio processualistico, operante anche in tal caso, in forza del quale il giudicato
copre il dedotto ed il deducibile”.
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per sé solo, l’improcedibilità del procedimento non ancora concluso, potendosi a ciò pervenire solo
nel caso in cui i due ricorsi presentino identità di petitum e di causa petendi25.
Per quanto riguarda il decreto che decide il ricorso straordinario, esso ha natura non giurisdizionale
ma amministrativa, con la conseguenza che per la sua esecuzione non si può proporre il giudizio
d’ottemperanza al giudice amministrativo26; avverso tale decreto non è pertanto ammissibile
neppure il ricorso per cassazione ex art. 111 Cost27.
In generale, in giurisprudenza si ritiene che il ricorso straordinario non sia necessariamente un
rimedio impugnatorio, e possa avere ad oggetto anche l’accertamento della sussistenza in capo al
ricorrente di un diritto soggettivo, oltre che l’annullamento di un atto, ovvero che possa vertere,
oltre che sull’impugnazione di un provvedimento, anche su un rapporto obbligatorio con una p.A., e
che in questi casi la sua presentazione non sia soggetta al termine decadenziale28.
25 Cfr. Cons. St., sez. IV, 22 maggio 1997 n. 554, in Foro amm., 1997, 1364. Come chiarito da Cons. St.,
sez. IV, 31 dicembre 2003 n. 9292, in Foro amm. CdS, 2003, 3679, “In base al principio di alternatività
non sono opponibili in sede di ricorso giurisdizionale questioni già definite in sede di ricorso straordinario
al Capo dello Stato”.
26 Come chiarito da Cass. Civ., sez. un., 18 dicembre 2001 n. 15978, in Foro it., 2002, I, 2447. La natura
amministrativa del ricorso straordinario è stata ribadita anche da Corte Cost., 21 luglio 2004 n. 254, in
Diritto & Giustizia, 2004, che ha dichiarato inammissibile una questione di legittimità costituzionale
sollevata in sede di ricorso straordinario. Nello stesso senso Corte Cost., 25 novembre 2004 n. 357, in
Giur. cost., 2004. In altri termini, secondo la Corte in questi casi non si registra quel requisito processuale
del giudizio costituzionale, previsto dalla legge 11 marzo 1953 n. 87, recante le norme sulla costituzione
e sul funzionamento della Corte costituzionale, il cui art. 23 affida ad una delle parti o al Pubblico
Ministero la facoltà di sollevare questione di legittimità costituzionale, ma solo “nel corso di un giudizio
dinanzi ad una autorità giurisdizionale”. Il procedimento sul ricorso straordinario e la Sezione del
Consiglio di Stato competente ad esprimere il parere obbligatorio sul medesimo ricorso, secondo la
Corte, non sarebbero, rispettivamente, né un giudizio né un’autorità giurisdizionale. Da ultimo, è tornato
ugualmente ad affermare la possibilità di proporre ricorso per ottemperanza per ottenere l’esecuzione
della decisione di un ricorso straordinario, sul presupposto che “la decisione del ricorso straordinario, una
volta intervenuta la incontrovertibilità, è assimilabile quanto ad efficacia ad un giudicato”, Cons. Giust.
Amm. Reg. Sic., sez. giurisd., 19 ottobre 2005 n. 695, in Lexitalia, www.lexitalia.it/p/52/cga_2005-10-197.htm (il ricorso è stato comunque rigettato nel merito).
27 Cfr. Cass. Civ., sez. un., 17 gennaio 2005 n. 734, in Cons. St., 2005, II, 735.
28 Cfr. Cons. St., sez. II, 18 giugno 2003 n. 3217, in Dir. e Giust., 2004, 88, nonché Cons. St., sez. II, 12
marzo 2003 n. 2759, in Foro it., 2004, III, 225. Per Cons. St., sez. II, parere n. 1036/2002 del 30 aprile
2003, “non appare dubitabile che la domanda di risarcimento possa essere proposta anche in sede di
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Si precisa anche che l’azione di accertamento di un diritto soggettivo è proponibile in sede di
ricorso straordinario anche se la materia rientri nella giurisdizione del giudice ordinario, purché la
pretesa sostanziale inerisca ad un rapporto avente rilievo pubblicistico29.
In sostanza, si tratta dell’applicazione al ricorso straordinario dello stesso principio già da tempo
applicato anche al processo amministrativo, nell’ambito del quale si ritiene che l’impugnazione dei
c.d. “atti paritetici” non sia soggetta all’ordinario termine decadenziale, ma a quello di prescrizione
del relativo diritto, di fronte al quale un atto può oltretutto anche mancare.
Ora, l’utilizzo, nell’ambito dei rapporti di lavoro con datori di lavoro pubblici, dello strumento del
ricorso straordinario, nasce dalla stabile affermazione della giurisprudenza che l’espressione “atto
amministrativo”, contenuta nell’art. 8 del citato D.P.R., “può essere considerata di carattere
"neutro", e si presta a ricomprendere anche atti soggettivamente amministrativi provenienti dalla
p.a., adottati in regime privatistico, come gli atti organizzativi e gli atti concernenti la gestione del
rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici "privatizzati" che siano espressione di funzioni di rilievo
pubblicistico”, con la conseguenza che avverso tali "atti soggettivamente amministrativi" sarebbe
esperibile il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica30.
Tale posizione è integrata con la precisazione che – ad eccezione delle controversie relative a
comportamenti antisindacali delle pubbliche amministrazioni ai sensi dell'
art. 28 della L. n. 300/70,
devolute dall’art. 63, comma 3, del D. Lgs.vo n. 165/2001 al solo giudice ordinario, in funzione di
ricorso straordinario, che è preordinato ad assicurare la tutela contenziosa in coerenza alla natura delle
posizioni giuridiche soggettive dedotte, tenuto anche conto della sua alternatività e fungibilità rispetto al
ricorso giurisdizionale. Oltretutto, escludere la domanda di risarcimento dall’oggetto del ricorso
straordinario significherebbe reintrodurre solo per questo tipo di gravame il criterio del c.d. doppio binario
(prima annullamento in sede straordinaria e poi risarcimento in sede giurisdizionale) che il legislatore ha
voluto espungere dal nostro ordinamento per finalità di economicità, concentrazione, speditezza e non
contraddittorietà di provvedimenti decisori”.
29 Cfr. Cons. St., sez. I, 29 ottobre 2003 n. 3218, in Foro it., 2004, III, 507 (si trattava di ricorso straordinario
col quale i componenti di una giunta comunale avevano chiesto l'
accertamento del diritto al rimborso delle
spese legali da essi sostenute in un giudizio di responsabilità amministrativa davanti alla Corte dei Conti).
30 Così Cons. St., Ad. Gen., 10 giugno 1999 n. 9, in Foro amm., 1999, 2160. In questo contesto, il
riferimento agli atti organizzativi è ovviamente da intendere non come relativo agli atti organizzativi di
carattere generale, di competenza, come già precisato, del giudice amministrativo, bensì alle
“determinazioni per l'
organizzazione degli uffici e le misure inerenti la gestione dei rapporti di
lavoro…assunte dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro”,
di cui all’art. 5, comma 2, del D. Lgs.vo n. 165/2001.
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giudice del lavoro – avverso tale tipo di atti gestionali il ricorso straordinario può essere proposto in
via concorrente e non già alternativa al ricorso giurisdizionale, ferma restando la possibilità per il
giudice ordinario di disapplicare l’eventuale decisione del ricorso amministrativo, e ferma restando
l’improcedibilità del ricorso stesso ove previamente si formi il giudicato in sede civile31.
Così, ad esempio, nel presupposto che si debbano ricomprendere nel concetto di "atti amministrativi
definitivi" anche gli atti oggettivamente provenienti da una p.A., in quanto comunque finalizzati
alla realizzazione degli obiettivi individuati dal legislatore, ancorché adottati in regime privatistico,
si afferma che, pur a seguito della privatizzazione del pubblico impiego, sia ammissibile il ricorso
straordinario per l’impugnazione delle sanzioni disciplinari, o nei confronti dei contratti collettivi
aventi natura gestionale di rapporti e situazioni concrete, al pari degli atti di gestione unilaterali e
non concordati32, così come viene ammesso in materia di conferimento di incarichi dirigenziali,
con la motivazione che il ricorso straordinario va considerato esperibile tutte le volte in cui l’atto
della p.A., indipendentemente dal suo regime giuridico formale, risulti direttamente ed
immediatamente finalizzato alla cura di un interesse pubblico specifico33.
In sostanza, in materia di rapporti di lavoro con le pubbliche Amministrazioni il ricorso
straordinario viene considerato ammissibile in base allo stesso criterio con cui, già in precedenza, si
riteneva che potesse avere ad oggetto anche l’accertamento della sussistenza in capo al ricorrente di
un diritto soggettivo, ovvero che potesse vertere, oltre che sull’impugnazione di un provvedimento,
31 Cfr. Cons. St., Ad. Gen., 10 giugno 1999 n. 9, cit. Cfr. anche, in senso analogo, e con espresso richiamo
della sentenza citata del 1999, Cass. Civ., sez. trib., 20 agosto 2004 n. 16471, in Cons. St., 2004, II,
2491.
32 Cfr. Cons. St., sez. III, 18 marzo 2003 n. 3298, in Foro amm. CdS, 2003, 1410, nonché Id., sez. II, 21
maggio 2003 n. 206, in Giust. civ., 2004, I, 1850.
33 Così Cons. St., Comm. Speciale del pubblico impiego, parere 5 febbraio 2001 n. 471/2001, in Giust. civ.,
2002, I, 2025. Nella stessa materia, Cons. St., sez. I, parere 7 luglio 2004 n. 2798/2003, in LexItalia,
www.lexitalia.it/p/cds/cds1_2004-07-07.htm, ha ribadito che il ricorso straordinario può rivolgersi contro
qualunque atto, anche non provvedimentale, purchè proveniente dalla p.A. (nel caso di specie, tuttavia, il
Consiglio ha ritenuto debba essere dichiarato inammissibile un ricorso straordinario nel caso in cui la
controversia proposta dal pubblico dipendente sia devoluta alla cognizione di un apposito collegio
arbitrale, cioè di un giudice speciale che non è organo della P.A., trattandosi di un collegio previsto dalla
contrattazione nazionale la cui composizione è su nomina e designazione delle parti e sia previsto uno
specifico mezzo impugnatorio di sola ed esclusiva competenza dell'
A.G.O. il cui procedimento è retto
dall'
art. 412 quater c.p.c. e soggetto ad un termine di 30 giorni dalla comunicazione).
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anche su un rapporto obbligatorio con una Amministrazione. Tutti casi, questi, in cui, come già si
afferma nell’ambito del processo amministrativo, la presentazione del ricorso non può essere
soggetta al termine decadenziale34, e il sindacato sull’atto gestionale avrà come parametri gli stessi
utilizzati per gli altri datori di lavoro privati.
Ed infatti, come si è già precisato, gli atti del datore di lavoro anche pubblico hanno ormai natura
privatistica, in quanto atti gestionali, a fronte dei quali l’Amministrazione non ha che diritti
soggettivi del lavoratore dipendente, i quali possono quindi essere fatti valere anche in sede di
ricorso straordinario, così come si è ritenuto in passato in relazione ad altro tipo di diritti soggettivi.
E se l’applicazione del termine di prescrizione è sempre avvenuta anche nel processo
amministrativo, ad esempio a fronte dei c.d. atti paritetici, a maggior ragione varrà in sede di ricorso
straordinario proposto avverso (eventuali) atti gestionali, che hanno ormai tutti natura paritetica.
Va precisato che ove si tratti invece di impugnare un atto organizzativo generale, o una graduatoria
di concorso, il ricorso straordinario andrà sempre proposto entro il termine decadenziale di 120
giorni, e sempre in alternativa al ricorso giurisdizionale amministrativo, e il sindacato su tale atto
avverrà utilizzando come parametro i classici vizi di legittimità. In entrambi i casi, e cioè sia se si
tratti di atto gestionale che di atto pubblicistico, troverà applicazione la previsione dell’art. 3,
comma 4, della l. 21 luglio 2000 n. 205, secondo cui “nell'ambito del ricorso straordinario…può
essere concessa, a richiesta del ricorrente, ove siano allegati danni gravi e irreparabili derivanti
dall'esecuzione dell'atto, la sospensione dell'atto medesimo”, che viene “disposta con atto motivato
del Ministero competente…, su conforme parere del Consiglio di Stato”.
Poiché la regola dell’alternatività non può che valere solo nei rapporti con il ricorso al T.A.R.
(perché nella descritta disciplina del ricorso straordinario l’unica alternativa è appunto il ricorso
giurisdizionale amministrativo, e perché è prevista per evitare la doppia pronuncia del Consiglio di
Stato), teoricamente è quindi possibile che avverso un medesimo atto, ad esempio di revoca di
incarico dirigenziale, l’interessato proponga, contestualmente, due ricorsi, uno, ex art. 700 c.p.c.,
dinanzi al giudice del lavoro, e l’altro straordinario, dinanzi al Presidente della Repubblica, con
entrambi chiedendo la sospensione dell’esecuzione dell’atto.
È pertanto evidente che tra ricorso straordinario e ricorso giurisdizionale, al giudice ordinario o
amministrativo, vi sono delle sostanziali differenze, anche dal punto di vista degli strumenti di
tutela.
34 Cfr., ex multis, Cons. St., sez. II, 20 ottobre 2004 n. 3369/2003, in Cons. St., 2005, I, 161.
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In generale, qualora il dipendente proponga avverso un atto gestionale ricorso straordinario, con o
senza richiesta di misura cautelare, è da ritenere che possa trovare applicazione la previsione, di cui
all’art. 10 del D.P.R. n. 1199/1971, secondo cui entro il termine di sessanta giorni dalla
notificazione del ricorso i controinteressati possono richiedere, con atto di opposizione notificato al
ricorrente e all’organo che ha emanato l’atto impugnato, che il ricorso sia deciso in sede
giurisdizionale. Anche in tal caso, il ricorrente, qualora intenda insistere nel ricorso, dovrà
depositare, nel termine di sessanta giorni dal ricevimento dell’atto di opposizione, l’atto di
costituzione in giudizio presso la segreteria del giudice amministrativo competente, dandone avviso
mediante notificazione all’organo che ha emanato l’atto impugnato ed ai controinteressati,
dopodichè il giudizio dovrebbe proseguire in sede giurisdizionale.
Ma in materia di atti gestionali privatistici il giudice amministrativo non ha ormai alcuna
giurisdizione, salvo che, come si vedrà in seguito, in sede di ricorso per ottemperanza, per cui, una
volta adìto a seguito dell’opposizione dei controinteressati, non potrà che dichiarare il proprio
difetto di giurisdizione.
Oltretutto, il citato art. 10, secondo cui “il collegio giudicante, qualora riconosca che il ricorso è
inammissibile in sede giurisdizionale, ma può essere deciso in sede straordinaria, dispone la
rimessione degli atti al Ministero competente per l'istruzione dell'affare”, e che è riferito dalla
giurisprudenza a quei casi in cui l’inammissibilità del ricorso giurisdizionale derivi dall’irritualità
dell’atto di opposizione (ad es. per tardività, o per difetto di elementi essenziali o di notifica o di
giurisdizione del giudice amministrativo), con esclusione di ogni altra causa, come quelle relative al
ricorso straordinario o ai vizi dell’atto di riassunzione35, sembra applicabile all’ipotesi esaminata,
con il conseguente ritorno della questione in sede amministrativa36.
Infatti, la disposizione citata non tipizza in alcun modo i casi di inammissibilità del ricorso in sede
giurisdizionale, a seguito della quale il giudice amministrativo “dispone” la rimessione degli atti al
Ministero competente, utilizzando, al contrario, una formulazione del tutto generica, che si presta
pertanto a ricomprendere anche il caso in cui il ricorso presentato dinanzi al giudice amministrativo,
a seguito di opposizione proposta dal controinteressato in sede straordinaria, debba essere dichiarato
inammissibile per difetto di giurisdizione.
35 Cfr., ex multis, Cons. St., sez. IV, 19 dicembre 2003 n. 8354, in Foro amm. CdS, 2003, 3650.
36 Ed infatti, cfr. T.A.R. Sicilia, Catania, sez. IV, 16 aprile 2007 n. 623, nonché Id., sez. IV, 13 ottobre 2007
n. 1646, proprio in due casi perfettamente identici a quello prospettato.
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Si potrebbe pensare che, a seguito di tale rimessione, il controinteressato venga privato del proprio
diritto di far decidere la questione da un giudice, invece che in sede amministrativa.
Infatti, il ricorrente, che fin dall’inizio avrebbe teoricamente potuto rivolgersi al giudice del lavoro,
e che addirittura, se volesse abbandonare la sede straordinaria, potrebbe scegliere di non costituirsi
dinanzi al TAR, potrebbe poi decidere di continuare a coltivare il ricorso straordinario, poiché
continua a non essere tenuto ad avviare una vera e propria azione giudiziaria.
Ma poichè si discute di diritti soggettivi, in questo caso il controinteressato potrebbe sempre adìre
egli stesso il giudice del lavoro, esperendo una azione di accertamento, al fine di sentire dichiarare
la legittimità del comportamento dell’Amministrazione.
Il punto è che anche il controinteressato potrebbe essere favorevole a che la questione venga trattata
in sede straordinaria, ma tale trasposizione, sebbene frutto di un adempimento comunque
obbligatorio per il ricorrente, si rivela perfettamente inutile, e legato solo ad una mancata
integrazione, da parte del legislatore, della normativa in materia di ricorso straordinario, che è un
rimedio originariamente pensato come alternativo solo al giudizio amministrativo.
È quindi evidente la necessità di un intervento legislativo che elimini tale inconveniente, ad
esempio prevedendo in questa materia l’impossibilità della trasposizione dinanzi al TAR e il
relativo onere per il ricorrente di trasporre dinanzi al giudice del lavoro.
Dauno F.G. Trebastoni
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