Hegel, La famiglia La famiglia è il primo momento dell’eticità, cioè della condivisione oggettiva di valori morali. ” l’eticità nel suo momento “immediato” e “naturale”; è la prima forma della negazione dell’individuo in quanto tale: ciò che era “due” diventa oggettivamente “uno”; è la sintesi che trasforma - senza perderli - l’uomo e la donna in un legame indiviso e indivisibile (la sintesi hegeliana non è un processo reversibile), in “un’unica persona”. G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, parr. 518-522 Lo spirito etico, nella sua immediatezza, contiene il momento naturale, che cioè l’individuo ha la sua esistenza sostanziale nella sua universalità naturale, nel genere. Questa è la relazione dei sessi, ma elevata a determinazione spirituale; è l’accordo dell’amore e la disposizione d’animo della fiducia; lo spirito, come famiglia, è spirito senziente. 1) La differenza naturale dei sessi appare altresí come una differenza della determinazione intellettuale ed etica. Queste personalità si congiungono, secondo la loro individualità esclusiva, in una sola persona; e l’intimità soggettiva, determinata come unità sostanziale, fa di questa riunione una relazione etica: il matrimonio. L’intimità sostanziale fa del matrimonio un legame indiviso delle persone e quindi matrimonio monogamico. L’unione corporale è conseguenza del legame eticamente annodato. La conseguenza ulteriore è la comunanza degli interessi personali e particolari. 2) La proprietà della famiglia, come di una unica persona, mediante la comunione nella quale stanno rispetto alla proprietà i diversi individui che compongono la famiglia, acquista un interesse etico; e cosí anche l’industria, il lavoro e la previdenza. L’eticità, collegata con la generazione naturale dei figli - e che era stata posta come primaria nello stringere il matrimonio - si realizza nella seconda nascita dei figli, cioè nella loro nascita spirituale: l’educazione di essi a persone autonome. 3) Mediante codesta autonomia, i figli escono dalla vita concreta della famiglia, cui originariamente appartengono: diventano esseri per sé, destinati per altro a fondare una nuova famiglia reale. Il matrimonio si scioglie essenzialmente in forza del momento naturale, che è la morte dei coniugi; ma anche l’intimità, in quanto è mera sostanzialità di sentimento, è sottoposta al caso e alla transitorietà. A cagione di siffatta accidentalità, i membri della famiglia assumono tra loro la condizione di persone; e in tal modo soltanto entra in questo legame ciò che in sé gli è estraneo: le determinazioni giuridiche. (G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari, 1965, pagg. 463-464) Hegel, La storia è manifestazione di Dio Per Hegel quella che la tradizione religiosa e il senso comune hanno indicato come Provvidenza divina è in realtà la Ragione che governa il mondo. Conoscere Dio è quindi possibile, ed è compito della filosofia. Il cristianesimo ha rivelato che Dio si manifesta nella storia; la filosofia ha il dovere di comprendere e spiegare in termini razionali ciò che la religione ha manifestato al sentimento e all'intuizione. Hegel osserva inoltre che la dottrina della Provvidenza concorda con l'esigenza razionale di negare l'azione del caso e la presenza di fini limitati nella storia. Il cristianesimo si pone “piú in alto delle altre religioni” perché offre una rappresentazione trinitaria della realtà: la filosofia, come attività speculativa, trasformerà quella rappresentazione in concetto. G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia Ma, parlando dell'esigenza di conoscere il piano della divina provvidenza, io ho insieme alluso a un problema che ai nostri tempi ha importanza primaria, e cioè a quello della possibilità di conoscere Iddio: o meglio, giacché ha cessato di esser un problema, alla tesi dell'impossibilità di conoscerlo, che è diventata pregiudizio e che contrasta con ciò che la Sacra Scrittura comanda come dovere supremo, quando ordina non solo di amare Iddio, ma anche di conoscerlo. Tesi che nega ciò che ivi appunto vien detto, e cioè che è proprio lo spirito che guida alla verità, che conosce tutte le cose e penetra anche le profondità del divino. La fede ingenua può rinunciare a un esame piú particolare, e arrestarsi all'idea generica di un governo divino del mondo. Chi fa cosí non merita biasimo, finché la sua fede non divenga polemica. Ma ci si può anche attenere non ingenuamente a questa idea, e tale principio generale può, proprio per la sua generalità, avere anche uno speciale significato negativo, nel senso che l'essere divino venga tenuto a distanza e confinato al di là del mondo e del sapere dell'uomo. In tal modo ci si riserva, d'altro canto, la libertà di allontanare l'esigenza di conoscere ciò che sia vero e razionale, e si acquista la comoda facoltà di dare libero campo alle proprie fantasie. In questo senso, quella rappresentazione di Dio diventa una vuota chiacchiera. Se Dio vien posto al di là della nostra coscienza razionale, noi siamo dispensati tanto dall'occuparci della sua natura quanto dal trovare una ragione nella storia del mondo; campo libero hanno allora le ipotesi. La pia umiltà sa bene ciò che acquista con le sue rinunce. Avrei potuto tralasciar l'avvertenza che il nostro principio, secondo cui la ragione governa e ha governato il mondo, viene espresso in forma religiosa nell'idea del dominio della provvidenza, per evitare l'accenno alla questione concernente la possibilità di conoscere Dio. Tuttavia non ho voluto tralasciarla, sia per far notare le connessioni ulteriori di tali argomenti, sia, anche, per evitare il sospetto che la filosofia esiti o debba esitare di fronte alla menzione delle verità religiose e perciò le scansi, e proprio per non avere, rispetto ad esse, la coscienza tranquilla. Si è giunti piuttosto, in tempi recenti, al punto che, contro certa specie di teologia, è la filosofia che deve prendersi cura della materia religiosa. Si può, come si è detto, sentir spesso tacciare di presunzione il desiderio di conoscere il piano della provvidenza. In ciò è da vedere il portato dell'idea, ormai quasi universalmente passata in assioma, che non si possa conoscere Iddio. E se è la teologia stessa che è giunta a disperare cosí, è necessario rifugiarsi proprio nella filosofia, quando si voglia conoscere Iddio. Certo, viene imputato alla superbia della ragione il voler sapere qualcosa in proposito. Ma piuttosto si deve dire che la vera umiltà consiste appunto nel riconoscere Iddio in tutto, nel tributargli onore dappertutto, e principalmente nel teatro della storia universale. Una tradizione che ci si tira dietro è quella che la saggezza di Dio vada riconosciuta nella natura. Cosí fu di moda, un tempo, l'ammirare la sapienza divina in animali e in piante. Si mostra di conoscere Iddio facendo meraviglie di destini umani o di prodotti della natura. Ora, anche concesso che la provvidenza si manifesti in tali oggetti e materie, perché non si manifesterà anche nella storia del mondo? Questa materia parrebbe forse troppo grande? Vero è che, nel fatto, s'immagina di solito la provvidenza come agente solo nel piccolo, e la si pensa come un uomo ricco, che distribuisce elemosine agli uomini e provvede per essi. Se però si crede che la materia della storia universale sia troppo vasta per la provvidenza, si erra, perché la sapienza divina è una e medesima, nel grande e nel piccolo. Nella pianta e nell'insetto essa è tale quale nei destini d'interi popoli e imperi, e non dobbiamo ritenere Iddio troppo debole per adoperare la sua sapienza in cose grandi. Quando si pensa che la sapienza divina non agisca dappertutto, la sfiduciata umiltà di tale considerazione dovrebbe concernere la materia dell'azione, non la sapienza agente. La natura d'altronde, a paragone della storia, è un campo d'azione subordinato. La natura è la sfera in cui l'idea divina si trova nell'elemento dell'aconcettualità; nello spirituale essa è invece nel suo proprio terreno, e ivi appunto dev'essere conoscibile. Armati del concetto della ragione, noi non dobbiamo esitare di fronte a nessuna materia [...]. Nella religione cristiana Dio si è rivelato, cioè ha concesso agli uomini di conoscere la sua natura, in modo da non esser piú qualcosa di chiuso, di segreto. Questa possibilità di conoscere Iddio importa per noi anche il dovere di farlo, e lo sviluppo dello spirito pensante, che ha avuto origine da questa base, dalla rivelazione dell'essere divino, deve riuscire in ultimo a concepire anche con il pensiero ciò che inizialmente si è presentato allo spirito nel sentimento e nell'intuizione. Se il tempo sia maturo per tale conoscenza, è cosa che deve dipendere dalla condizione che ciò che è scopo finale del mondo sia entrato finalmente nella realtà in modo universalmente valido e consapevole. Ora, l'eccellenza della religione cristiana consiste nel fatto che con essa è giunta questa età: fatto che, nella storia del mondo, fa assolutamente epoca, cioè segna il piú importante punto di svolta. é divenuto manifesto quel che sia la natura di Dio [...]. Nel cristianesimo è dottrina fondamentale che la provvidenza abbia governato e governi il mondo, che quel che in esso avviene abbia il suo posto determinato nel regime divino e gli sia conforme. Questa dottrina si oppone all'idea del caso e dei fini limitati, come per esempio quello della conservazione del popolo ebreo. é lo scopo affatto universale e finale, esiste in sé e per sé. Nella religione non si procede oltre questa idea generale: essa infatti si arresta al piano della generalità. Ma il punto di partenza da cui bisogna muovere per giungere alla filosofia e alla filosofia della storia è appunto questa fede generale, che la storia è un prodotto della ragione eterna, e che è stata questa a determinare le sue grandi rivoluzioni. Si deve dire quindi che, anche in senso assoluto, è giunto il tempo in cui questa convinzione, questa certezza, potrà non rimanere soltanto nello stadio dell'intuizione, ma esser pensata, sviluppata, conosciuta, in una determinata scienza [...]. Nel cristianesimo, invece, Dio è rivelato come spirito, e infatti esso è in primo luogo Padre, Potenza, un universale astratto, che è ancora velato; in secondo luogo è oggetto a se stesso, un Altro da se stesso, qualcosa che si sdoppia, il Figlio. Questo altro da se stesso è però, con eguale immediatezza, lui stesso; egli vi sa se stesso e vi si contempla, e appunto questo sapersi e contemplarsi è, in terzo luogo, lo Spirito stesso. Cioè, la totalità è lo spirito, non l'uno né l'altro momento per sé solo. Dio, espresso nel modo del sentimento, è l'eterno amore, questo aver l'altro come suo proprio. È per questa tri-unità che la religione cristiana sta piú in alto delle altre religioni. Essa vi costituisce l'elemento speculativo, ed è sua mercé che la filosofia trova anche in essa l'idea della ragione [...]. Ciò che altrimenti ha il nome di realtà vien considerato dalla filosofia come qualcosa d'inconsistente, che può avere un'apparenza, ma che non è reale in sé e per sé. Questa nozione serve, per cosí dire, di conforto contro l'idea dell'assoluta infelicità e stoltezza di quanto è accaduto. Il conforto però non è che il compenso per un male che non avrebbe dovuto accadere, ed ha il suo luogo nella realtà finita. La filosofia non è quindi un conforto: essa è di piú, essa riconcilia il reale, che sembra ingiusto, con il razionale, lo trasfigura in esso, fa vedere come esso abbia il suo fondamento proprio nell'idea, e come debba perciò soddisfare la ragione. Il divino è infatti nella ragione. Il contenuto che sta a fondamento della ragione è l'idea divina, è essenzialmente il piano di Dio. Concepita come storia del mondo, pari all'idea non è la ragione nella volontà del soggetto, ma solo l'attività di Dio. Ma, nella rappresentazione, la ragione è il percepire l'idea; anche etimologicamente, è il percepire ciò che è espresso (L-gos), cioè il vero. La verità del vero, questo è il mondo creato. Dio parla; egli esprime solo se stesso, ed è il potere di esprimersi, di rendersi percepibile. Ed è la verità di Dio, la sua immagine, che viene percepita nella ragione. La filosofia tende quindi ad affermare che ciò che è vuoto non è un ideale, che tale è solo ciò che è reale: essa mira a che l'idea si renda percepibile. (Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1971, vol. XVIII, pagg. 599-600, 602-603, 610, 626) Hegel, Lo Stato nella storia Lo Stato è l’unità della volontà soggettiva e di quella universale, è la totalità etica e, in quanto oggetto della volontà, non potrà mai essere considerato un mezzo, bensì un fine della razionalità umana che vuole la libertà. Lo Stato è la sintesi somma di un popolo libero: il carattere universale dello Stato è pur rispettando tutte le determinazioni particolari è trasforma una molteplicità di individui in “popolo”. Il popolo è un individuo spirituale e ha un suo proprio spirito. G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, II, 3 Ma la volontà soggettiva ha pure, come si è mostrato, una vita sostanziale, una realtà nell’àmbito della quale essa si muove nell’essenziale, ed ha questo stesso come scopo della sua esistenza. Ora, questo essenziale, l’unità della volontà soggettiva con quella universale, è la totalità etica e, nella sua forma concreta, lo Stato. Quest’ultimo è la realtà in cui l’individuo ha e gode la sua libertà, in quanto però esso individuo è scienza, fede e volontà dell’universale. Cosí lo Stato è il centro degli altri aspetti concreti della vita, cioè del diritto, dell’arte, dei costumi, delle comodità. Nello stato la libertà è realizzata oggettivamente e positivamente. Ciò però non è da intendere nel senso che la volontà soggettiva del singolo si attui e soddisfi mercé la volontà universale, e che quindi quest’ultima sia per essa un mezzo. Lo stato non è neppure una convivenza degli uomini, in cui debba esser limitata la libertà di ogni singolo. La libertà è concepita solo negativamente, quando la s’immagina come se il soggetto limitasse rispetto agli altri la sua libertà, in modo che questa limitazione collettiva, il vicendevole impacciarsi di tutti, lasciasse a ciascuno il piccolo posto in cui potersi muovere. Sono piuttosto il diritto, la morale, lo Stato, e solo essi, la positiva realtà e soddisfazione della libertà. L’arbitrio del singolo non è, infatti, libertà. La libertà che vien limitata è l’arbitrio, concernente il momento particolare dei bisogni. Solo nello Stato l’uomo ha esistenza razionale. Lo Stato non esiste per i cittadini: si potrebbe dire che esso è il fine, e quelli sono i suoi strumenti. Peraltro tale rapporto generale di fine a mezzo non è, in questo caso, rispondente. Lo Stato non è infatti una realtà astratta, che si contrapponga ai cittadini: bensí essi sono momenti come nella vita organica, in cui nessun membro è fine e nessuno è mezzo. L’elemento divino dello Stato è l’Idea, com’è presente sulla Terra [...]. Nella storia del mondo non si può trattare che di popoli i quali costituiscano uno Stato [...] L’Idea universale appare, si manifesta, nello Stato [...]. Noi concepiamo dunque un popolo come un individuo spirituale, e in esso mettiamo anzitutto in rilievo non il lato esteriore, ma ciò che è anche stato chiamato lo spirito del popolo, cioè la sua autocoscienza circa la propria verità e il proprio essere, circa ciò che, in generale, ha per esso valore di verità: le forze spirituali, che vivono in un popolo e lo governano. L’universale, che si manifesta e viene a coscienza nello Stato, la forma sotto cui vien ridotto tutto ciò che è, è ciò che costituisce in generale la cultura di una nazione [...]. Lo Stato è con ciò l’oggetto piú specificamente determinato della universale storia del mondo, quello in cui la libertà acquista la sua oggettività e vive nel godimento di essa. Giacché la legge è l’oggettività dello spirito e la volontà nella sua verità; e solo la volontà che ubbidisce alla legge è libera: ubbidisce infatti a sé stessa, è presso sé stessa, e dunque è libera. In quanto lo Stato, la patria, costituisce una comunità di esistenza, in quanto la volontà soggettiva degli uomini si sottomette alle leggi, il contrasto fra libertà e necessità vien meno. Ciò che è razionale è necessario in quanto è ciò che è sostanziale, e noi siamo liberi riconoscendolo come legge e seguendolo come la sostanza della nostra propria natura: ed ecco che volontà oggettiva e volontà soggettiva sono conciliate, e formano un unico complesso senza turbamento. (G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, La Nuova Italia, Firenze, 1961, vol. I, pagg. 104-110)