Giambattista Vico (1668 – 1744) V. compie una precisa critica agli studi del suo tempo sostenendo che il nuovo metodo scientifico emerso dal XVII secolo in poi fosse dai più ritenuto ormai l’unico metodo giusto di ricerca, non solo in certi ambiti di studio ed indagine, ma in tutti i settori dello scibile. Invece per V. molti settori della cultura (storia, poesia, retorica, ecc.) non avevano nulla a che fare con le astrazioni matematiche e geometriche, per cui andava dato il giusto valore anche alle cosiddette “scienze umane” (psicologia, sociologia, letteratura, politica ecc.), discipline che, pur utilizzando categorie, procedure, criteri, metodi frequentemente diversi da quelli utilizzati nelle scienze della natura, erano senz’altro dotate di una loro validità e scientificità. Avversando con decisione il razionalismo cartesiano che pretendeva di poter spiegare tutto con la ragione, per V. si ha vera scienza solo quando si è l’artefice dell’oggetto che si vuol conoscere (il vero corrisponde al fatto), quindi la natura può essere conosciuta compiutamente soltanto da Dio che ne è l’unico creatore, non dall’uomo che vi vive dentro, ma non la produce. Vi sono quindi verità irrazionali cioè inconoscibili da parte dell’ uomo. Egli invece può conoscere del tutto soltanto la storia perché è interamente un suo prodotto. Questa teoria V. la sviluppa nel suo libro più importante intitolato “La scienza nuova”, che già dal titolo vuole delinearsi come un’opera scientifica. V. vuole infatti gettare le basi di una nuova disciplina o, se si preferisce, di una nuova indagine cognitiva sul mondo umano (società, istituzioni, ecc.) e il suo divenire, ovvero la storia. Inoltre V. concepisce la sua opera come uno strumento in grado di raggiungere traguardi non solo gnoseologici: infatti la conoscenza s’intreccia per lui con un impegno pratico, in quanto non bisogna solo sapere per sapere, ma bisogna sapere per fare, sapere per trasformare e migliorare l’esistenza e la società. Ciò che in concreto V. si propone di realizzare è una grandiosa ricognizione storica alla ricerca della possibile esistenza di denominatori comuni a tutte le società per cogliere i fondamenti più generali, cioè le leggi, dell’essere e dell’agire dell’uomo, per offrirgli un sapere di evidente rilievo, non solo teorico, ma anche pratico. Il metodo su cui si deve basare questa “scienza nuova” si distingue per V. in due parti: la filologia e la filosofia. La prima, che studia le origini della lingua e le usanze umane, deve fornire la conoscenza del certo tramite la raccolta dei documenti, dei fatti, delle leggi, e deve analizzare i costumi e ricostruire in maniera rigorosa le vicende del passato. La seconda deve studiare il complesso dei nessi che legano i fatti in maniera causale e le leggi che regolano il rappresentarsi costante dei fatti, cioè deve accertare il vero. Per V. la storia è un tragitto che l’uomo è chiamato a compiere partendo da uno stadio primordiale barbaro fino a giungere un giorno a un punto finale di estrema civiltà, che egli identifica in una repubblica come quella pensata da Platone. V. chiama questa la storia ideale eterna, e la pensa come una storia che sta al di sopra di tutte le storie nazionali e locali e che le guida verso una meta finale a cui tutte tendono. Essa non coincide, cioè, con la storia reale, ma ne orienta lo scorrimento. La storia ideale è garantita nel suo esito positivo dalla Provvidenza divina, che comunque non condiziona in maniera deterministica il corso storico, perché comunque l’uomo, col suo libero arbitrio, resta protagonista e creatore del suo destino. Per V. la Provvidenza divina è un’entità metafisica che fornisce linearità sempre benigna all’evoluzione storica senza però rendere la sua direzione unica ed obbligatoria. Per V. nello sviluppo storico dell’umanità vi sono tre tappe corrispondenti all’infanzia, alla giovinezza e alla maturità di ogni uomo. Egli chiama queste tre fasi l’età degli dèi, l’età degli eroi, l’età degli uomini. La prima età è quella dei “bestioni”, uomini primitivi tutto ferocia e stupore davanti alle forze della natura, dotati di grande forza fisica e immersi nel senso, ancora privi di un’autentica capacità riflessiva. In quest’epoca tutto viene attribuito all’azione delle divinità a cui vengono fatti sacrifici per placarne l’ira. Nasce la religione, che porta gradualmente i bestioni a un minimo di civilizzazione in quanto si sviluppa la pratica del matrimonio e della sepoltura dei morti. Da questa prima età si sviluppa gradualmente La seconda età, che inizia con l’epoca di Omero, corrisponde a un ulteriore incivilimento degli uomini che ora formano comunità rette da nobili. E’ l’età del diritto eroico, fondato sulla forza e sull’autorità indiscutibile di aristocratici e guerrieri. In questa età gli uomini si fanno guidare, oltre che dai sensi, dalla fantasia: questo porta a raffigurare simbolicamente la realtà e a interpretarla con i miti e la poesia, che V. valorizza considerando queste due forme espressive come antiche forme di conoscenza. Nella terza età, infine, vi è il primato della ragione: filosofia, morale, scienza divengono predominanti (come nella polis greca che V. prende come esempio, insieme alla filosofia di Platone e Aristotele). E’ questa l’età in cui gli uomini pervengono alla coscienza critica e a una saggezza solo abbozzata nelle età precedenti. V. ritiene che tutti tre i momenti dell’evoluzione storica siano necessari e possono ripetersi nel tempo dando vita ai corsi e ricorsi storici, anche se si ripropongono nella forma e non nella sostanza in quanto non ritornano i fatti del passato così come sono già accaduti, ma solo il loro modello (per es: Omero, espressione genuina dell’età eroica dei greci, trova il suo parallelo in Dante, espressione di un’altra età eroica che si sviluppa dopo il Medioevo, che V. reputa un periodo di regresso). Egli poi concepisce la storia come una spirale ciclica, in cui ogni ciclo è migliore di quello precedente grazie alla garanzia positiva offerta dalla Provvidenza che controlla il divenire storico.