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GENNAIO 29, 2017 BY IL BARATTOLO DELLE IDEE LEAVE A COMMENT
Hegel: “Patruni e sutta”, la dialettica
Signoria servitù
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Hegel: dialettica di Signoria e
servitù
La dialettica di signoria e servitù di Hegel costituisce la più famosa
delle figure dialettiche della Fenomenologia dello Spirito. Ciò è
dovuto alla sua potenza intrinseca e al seguito che ne ebbe da Karl
Marx in poi. L’espressione Signoria rimanda alla nota espressione
feudale. Nel porci questa immagine il filosofo idealista sta
pensando al medioevo. L’antico tempo nel quale i “servi” si
rifugiavano presso il signore regalando in cambio i propri servigi. Il
servo dunque è tale per scelta e non è perciò da confondere con lo
schiavo. Non è costretto alle catene, ma le preferisce piuttosto che
mettere a repentaglio la propria vita. Ciò che ci protegge ci ingabbia
ad un tempo: questa la prima lezione di Hegel. Il signore per canto
suo è il guerriero che non teme la morte, che afferma sé stesso senza
timore.
CLICCA QUI PER UNA UN
INTRODUZIONE
ALLA FENOMENOLOGIA DELLO
SPIRITO DI HEGEL
Le figure concepite da Hegel non sono perciò personificazioni,
ma metafore, icone che indicano un passaggio interiore lungo il
cammino della verità.
La
coscienza si era già definita, fallendo,
come coscienza sensibile, percezione e intelletto. Compatibilmente con la
natura del movimento dialettico, toglie e conserva le precedenti figure. Nel
rapporto con la cosa comprende perciò di essere lei l’essenziale. La certezza
di sé è dunque la premessa di ogni conoscenza. Questa è la nuova verità che
pone adesso la coscienza. Lei, vedremo, desidera, si angoscia, ha paura,
soffre, serve e comanda.E’ perciò una coscienza “viva”. E’ una figura che va
riempiendosi di contenuti.
La coscienza si comporta un po’ come l’uomo di latta del celebre
romanzo il Mago di OZ si “riempie” di umanità nello stesso
percorso di ricerca di quella stessa umanità. Essa, che all’inizio
di percepisce nella sua immediatezza e astrazione, si va via via
riempendo di contenuti. Va acquisendo tridimenzionalità e
spessore.
“Adesso […] la certezza ha sé stessa per oggetto e la coscienza
sa di essere essa stessa il vero [PG 261]”.
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A proposito, visto che sei arrivato sin qua non è che vuoi mettere un bel
mi piace e condividere il post? 😉
In quanto autocoscienza essa ha dunque un duplice oggetto:
1. l’oggetto immediato della percezione, che stavolta è inteso come un che
di negativo;
2. sé stessa, posta come la vera essenza ed inizialmente contrapposta
all’oggetto che ha di fronte come ad un che di totalmente altro.
Secondo Hegel la coscienza non ha quindi tolto l’opposizione con l’oggetto.
La sua attività, per questa ragione, si connoterà come il tentativo di rimuovere
la differenza tra il sé e la cosa. La verità, lo ricordiamo, è l’identità di pensiero
ed essere:
“L’autocoscienza è innanzitutto desiderio [PG 265]».
Come opera questa rimozione?
impossessandosene e consumandola!
Dominando
la
cosa,
Ecco che la prima figura dell’autocoscienza che ci presenta Hegel è la
Begirde. E’ la concupiscenza o “coscienza che desidera”. Essa nasce
grosso modo come uno “stomaco” che soltanto desidera “digerire” il
suo oggetto, farlo proprio, dileguralo.
Volli e sempre volli,
fortissimamente volli diceva
Vittorio Alfieri.
L’affermazione indica proprio lo stato della coscienza che desidera, ma che in
questo suo desiderare non trova mai un appagamento definitivo. La
concupiscenza è irrequieta, resa instabile dal su stesso desiderio. Nel
costatare, tuttavia, che ogni desiderio prepara solo ad un ‘altro desiderio ella
sperimenta, in luogo della felicità che si aspettava, una profonda inquietudine:
«Mediante la propria relazione negativa, dunque, l’autocoscienza
non può rimuovere l’oggetto, e piuttosto lo produce di nuovo, come
pure si riproduce il desiderio [PG271]».
Il desiderio doveva dunque provare l’autonomia
dell’autocoscienza, ma si dimostra essere l’assoluta dipendenza
dalla cosa: «l’essenza del desiderio è un altro dalla coscienza
[PG 271]».
L’appagamento del desiderio, così pensava la coscienza, avrebbe dovuto
condurla alla felicità. Cosa c’è di meglio che poter soddisfare ogni desiderio.
Cosa c’è di meglio che volere una cosa e immediatamente impossessarsene?
L’appagamento immediato dei propri istinti, trova piuttosto l’insoddisfazione
perenne. Un’angoscia senza nome, la frustrazione del continuo dilegure.
La coscienza non comprende infatti che il problema è il suo tentativo
di appagare immediatamente il desiderio.
Sperimentata la contraddizione ella non rinuncia quindi immediatamente al suo
fare. Non rinuncia alla concupiscenza e al tentativo di dominio sulla cosa. Ella
non ritiene infatti che sia la sua intima natura fugace il problema, quanto
piuttosto la natura delle cose che sin’ora ha incontrato. Ritiene allora di dover
individuare un oggetto che possa essere concupito senza con ciò dileguare. In
questo modo, pensa, che non avendo mai fine il suo consumare non avrà mai
fine il suo appagamento. Deve allora trovare un essente che possa da sé
sottomettersi al suo volere. Un ente che possa opera da sé la negazione di sé,
ovvero auto-negarsi:
“In virtù dell’autonomia dell’oggetto, allora, l’autocoscienza può
ottenere l’appagamento solo quando l’oggetto stesso compie in
sé questa negazione di sé stesso perché esso é, in sé, il
negativo e ciò che deve essere per altro [PG 271]”.
L’unico oggetto che può negarsi da sé, sottomettersi per sua stessa
scelta all’autocoscienza è un’altra autocoscienza.
Il percorso della coscienza è stato sino a questo momento una traghettata in
solitario. Questa è la prima volta nella Fenomenologia che compare un’altra
autocoscienza. Entrambe sono inconsapevoli di esserlo. “Sentono” solo il
desiderio. Ciascuna desidera stabilire, dunque, il proprio dominio sull’altra.
Ciascuna necessita di stabilire la propria indipendenza e superiorità.
Per noi che guardiamo dall’esterno si tratta una lotta per
il riconoscimento.
Ciascuna autocoscienza per essere tale ha bisogno di essere riconosciuta. Il
riconoscimento può però avvenire soltanto nella reciprocità dell’atto. Si può
essere riconosciuti soltanto se si riconosce a propria volta. L’altra
autocoscienza funge infatti da “specchio”: “il fare dell’una è il fare dell’altra” dirà
lo stesso Hegel. Ciò vuole dire che ciò che lei vede nell’altra è il suo stesso
essere. Dovrebbe quindi riconoscergli lo status di essere autonomo, per poter
riconoscere a se stessa la stessa qualità.
E per l’autoscienza?
Ella invece inizialmente fa l’esatto opposto. Crede che la sua propria autonomia
passi da un assoggettamento dell’altra.
Quante volte gli uomini si sono fatti la guerra credendo che accaparrarsi un
vantaggio sull’altro fosse un bene in sé? Quanto volte nella vita ci si arrampica
sull’altro per non affondare? Si sfrutta, umilia e uccide per un proprio interesse?
Per Hegel questo è solo l’atteggiamento primordiale dell’autocoscienza. E’ lo
stadio più infimo e irreale della soggettività. La mia felicità dipende piuttosto
dalla felicità dell’altro, ma questo l’autocoscienza ancora non lo sa.
Dal suo punto di vista piuttosto si tratta di dominare l’altra autocoscienza. E
siccome anche l’altra cercherà di fare lo stesso, il primo incontro è una lotta: la
lotta per la vita e per la morte. Ciascuna delle due coscienze, in forza della
sua convinzione, tratta l’altro come un mezzo e non come un fine. Ciascuna
tratta l’altra come una cosa.
L’autocoscienza dovrà dunque dare prova della sua propria
autonomia. Dovrà mostrare l’indifferenza assoluta rispetto al più
importante degli oggetti: la vita. Dovrà in altri termini mostrare di
non temere la morte.
“Il rapporto tra le due autocoscienza, dunque, si determina come un dar
prova di sé, a sé stesso e all’altro, mediante la lotta per la vita e la morte
[PG 281]”.
LOTTA PER LA VITA E PER LA MORTE
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Se non lo hai ancora fatto, non credi sia arrivato il momento? 😛
Quanto sai di te stesso se non ti sei mai
battuto?
(Dal film Fight club)
L’una deve essere solo riconosciuta (coscienza dominante)
l’altra solo riconoscere (coscienza dominata). Il riconoscimento
che avviene nella lotta non è quindi reciproco ma unilaterale.
Appare evidente però che né la propria né l’altrui morte potrebbero condurre
la coscienza al dominio di alcunché. Nello scontro entrambe mostrano dunque
di non fare troppo sul serio, proprio perché lo scontro non può concludersi né
con la propria né con l’altrui morte.
L’una ciononostante sfida la morte, l’altra invece
comprende «che la vita è tanto essenziale quanto
l’autocoscienza pura [PG 283]».
La prima risulterà coscienza “pura” perché avrà dato prova della sua
autonomia. L’altra non avendo saputo rinunciare al godimento, mostrerà la
sua dipendenza dalla cosa. La prima esprime la Signoria (il positivo), la
seconda la servitù (il negativo). Il rapporto tra servo e signore non è però
diretto, ma mediato dalla cosa (“l’essere autonomo”). E’ proprio in questa
mediazione che risiede l’unilateralità della relazione:
Il signore non temendo la morte
stabilisce la propria indipendenza
rispetto alla cosa. Anche la cosa
risulta però indipendente rispetto
al servo.
E’ il servo infatti che non si è liberato della dipende dalla cosa. Non gli riesce
perciò di assoggettarla e lascia che a farlo sia il signore per lui. Egli in altre
parole si lascia assoggettare dal signore, perché sa che così sarà il signore,
per mezzo suo, ad ottenere il dominio sulla cosa. Al signore, per converso,
adesso riesce di fare ciò che prima non gli riusciva. Gode dell’oggetto
lasciando al servo il momento della negatività del rapportarsi ad esso.
Il servo produce, il signore consuma.
Il lato dell’autonomia della cosa non è stato dissolto, ma al contrario lasciato
al lavoro del servo. Questo dal canto suo non riconoscendosi alcuna
autonomia guarda al signore per ricercare in lui la sua stessa essenza:
“Ciò che fa il servo, infatti, è proprio il fare del signore. Il signore
è soltanto l’essere-per-sé, l’essenza, la pura potenza negativa
agli occhi della quale la cosa non è nulla, e il suo è dunque un
fare puro ed essenziale all’interno di questo, rapporto; il fare del
servo, invece non è puro, ma è inessenziale [PG 285]”.
Il servizio del servo è dunque un momento che si interpone tra il desiderio e il
consumo. Momento che impedisce al signore di rapportarsi direttamente tanto
alla cosa quando al servo. Lui media la cosa con il fare del servo e il servo
con la cosa.
ATTENZIONE STIAMO PER
CONCLUDERE
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Ok, ora devi proprio farlo, un bel “like” e ti sentirai una persona
migliore 😛
CHI E’ VERAMENTE IL SERVO PER
HEGEL?
Sorte le due figure matura con esse via
via anche la contraddizione. Ciò di cui non si avvedono entrambi, infatti, è che
l’autonomia del primo dipende dal lavoro del secondo:
“Proprio quando il Signore si realizza compiutamente come
signore, egli vede dinanzi a sé tutt’altro che una coscienza
autonoma, ma piuttosto una coscienza non-autonoma [PG
287]”.
La coscienza servile, ci mostra Hegel, si rivela allora il vero motore della
relazione. La figura che permette alla coscienza di fare il suo “salto evolutivo”.
Sospinta dalla paura della morte, questa, infatti, impara a trattenere il
desiderio. Il problema della Begirde non era infatti la cosa, ma la sua “fame”
insaziabile. Era appunto la sua incapacità di disciplinare il desiderio. Sospinto
dallo sguardo severo del signore, il servo trema in tutte le sue membra.
Impara a trasformare l’oggetto mediante il lavoro, mentre lascia che a
consumarlo sia il signore. Egli impara allora che si può godere del frutto delle
proprie fatiche.
“in sé stessa la verità della pura negatività e dell’essere
per sé, in quanto ha fatto in sé esperienza di questa
essenza [PG 287]».
Umkehrung: Il colpo di scenza
Nella lotta per la vita e per la morte il signore ha dimostrato di non temere la
vita. Il servo sì. Ha visto l’assoluto e di fronte ad esso ha tremato
In questa angoscia, la coscienza è stata intimamente dissolta, ha
tremato fin nel suo più remoto recesso, e tutto quanto c’era in essa
di fisso è stato scosso. Questo puro movimento universale, questo
assoluto divenire-fluida di ogni sussistenza, però, è appunto
l’essenza semplice dell’autocoscienza, la negatività assoluta, il puro
essere-per-sé: ecco perché la coscienza servile ha tutto ciò in sé
stessa [PG 287].
L’angoscia è infatti il sentimento che la coscienza prova posta di fronte
all’assoluto inteso come l’assolutamente altro, ovvero inteso come il nulla, che
la morte rappresenta:
“La paura del signore costituisce l’inizio della saggezza […] la
coscienza giunge a se stessa mediante il lavoro [PG 289]».
Mediante il lavoro la coscienza si riconosce in una forma che non dilegua.
Scrive Hegel:
“In tal modo, dunque, la coscienza che lavora giunge a intuire
l’essere autonomo come se stessa [PG 289]”.
Il servo attraverso il lavoro si libera dalla dipendenza dalla cosa. Afferma la sua
piena libertà, tanto rispetto alla cosa, quanto rispetto all’altra autocoscienza.
Assistiamo dunque all’Umkehrung, ribaltamento dialettico, che potremmo
tradurre con “colpo di scena“. Ciò che pensavamo essere il Signore è in realtà
servo, ciò che credevamo essere la coscienza servile è piuttosto l’essere
superiore che continua la marcia della Fenomenologia.
La sua è però una libertà di pensiero:
“Nel pensiero Io sono libero perché non sono in un altro, ma
rimango puramente e semplicemente presso me stesso [PG
295]”.
Diviene così coscienza stoica. Non ha dunque inteso quale fosse il suo vero
errore, il mancato riconoscimento di sé e dell’altro. Rifugge piuttosto dalla
relazione dialettica nell’unità intaccabile del pensiero e nell’assenza di
“turbamento” che esso produce.
Visto la fatica che mi c’è voluta un bel mi piace adesso me lo
merito anche no? � Commentate e condividete sulla vostra
pagina facebook se l’articolo v’è piaciuto!
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DOMANDE:
Perché la dialettica Signoria servitù di Hegel non si
conclude con un semplice inversione di ruoli tra
Servo e Signore?
Perché altrimenti sarebbe finita la storia della Fenomenologia. Se
l’autocoscienza avesse chiaro che la verità consiste nel riconoscere l’altra
come autocoscienza e ottenere ad un tempo da lei il riconoscimento, avrebbe
infatti ottenuto l’identità di soggetto e oggetto. Ella purtroppo non da di avere
di fronte a sé un’autocoscienza e non si riconosce neppure come tale. Le
desidera e riconosce la verità soltanto nell’appagamento del suo desiderio.
Nella dialettica appena vista il servo è servo della cosa e si libera rifugiandosi
nella libertà del pensiero. La mediazione della cosa impedisce la reciprocità
del riconoscimento.
Il servo si emancipa solo attraverso il lavoro?
No signori miei! Quello è Marx che è pure un grandissimo interprete della
Fenomenologia, ma ha le sue idee. Il lavoro è solo una delle componenti del
fare del servo, l’altra è l’angoscia, la paura della morte. Il lavoro esprime il
rapporto con l’oggetto, l’angoscia esprime il primo rapporto con l’Assoluto.
La lotta è metaforicamente il primo passo verso
l’emancipazione?
Assolutamente sì! A patto che vi ricordiate che chi non teme la morte o è un
folle o è uno sciocco. Chi non ha paura del cambiamento, chi non trema di
fronte agli abissi del sé, non scoprirà mai se stesso.
Se avete altre domande non esitate a porle in calce, sarò lieto di rispondermi.
La filosofia è innanzitutto dialogo e tramite la domanda e la risposta viene
tutto più semplice. Vi ho messo giù apposta la possibilità di commentare
tramite facebook direttamente dal sito, non abbiate timore ad intervenire. Non
vorrete mica lasciare lo spazio di sotto vuoto vero? �
A aggiungetemi anche su twitter se passate
di là!
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Abbreviazioni:
PG: Fenomelogia dello Spirito, George Friedrich Willhelm Hegel, tr. it. a cura
di V. Cicero, Bompiani, 2000.
Se hai dubbi o necessiti di chiarimenti, puoi commentare
l’articolo, sarò lieto di risponderti! Non dimenticare che puoi
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CONTRADDIZIONE, COSCIENZA, COSCIENZA STOICA, DESIDERIO, DIALETTICA SERVO PADRONE,
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