Dalla FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO di G.W.F. Hegel. PREFAZIONE Hegel spiega il significato dell’opera. Nel secondo brano paragona il cammino della coscienza individuale per avvicinarsi al sapere assoluto, al percorso dell’intera cultura, ossia al cammino dello spirito stesso attraverso la storia dell’umanità. Il singolo però è facilitato … “Secondo il mio modo di vedere […] tutto dipende dall’intendere e dall’esprimere il vero non come sostanza, ma altrettanto decisamente come soggetto. […] La sostanza viva è bensì l’essere il quale è in verità Soggetto, […] è l’essere che in verità è effettuale, ma soltanto in quanto la sostanza è il movimento del porre se stesso, o in quanto essa è la mediazione del divenire-altro-da-sé con se stesso. […] Il vero è il divenire di se stesso, il circolo che presuppone e ha all’inizio la propria fine come proprio fine, e che solo mediante l’attuazione e la propria fine è effettuale. La vita di Dio e il conoscere divino potranno bene venire espressi come un gioco dell’amore con se stesso; questa idea degrada fino all’edificazione e addirittura all’insipidezza quando mancano la serietà, il dolore, la pazienza e il travaglio del negativo.” G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, Vol. I, trad. it. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1976, pp. 13-14. “L'individuo percorre questo suo passato, la cui Sostanza è quello spirito che sta piú su, proprio come colui che è sul punto di avventurarsi in una scienza superiore percorre le cognizioni preparatorie, già in lui da lungo tempo implicite, per rendersi presente il loro contenuto; e le rievoca senza che quivi indugi il suo interesse. Il singolo deve ripercorrere i gradi di formazione dello spirito universale, anche secondo il contenuto, ma come figure dallo spirito già deposte, come gradi di una via già tracciata e spianata. Similmente noi, osservando come nel campo conoscitivo ciò che in precedenti età teneva all'erta lo spirito degli adulti è ora abbassato a cognizioni, esercitazioni e perfino giochi da ragazzi, riconosceremo nel progresso pedagogico, quasi in proiezione, la storia della civiltà. Tale esistenza passata è proprietà acquisita allo spirito universale; spirito che costituisce la sostanza dell'individuo e, apparendogli esteriormente, costituisce la sua natura inorganica. Mettendoci per questo riguardo dall'angolo visuale dell'individuo, la cultura consiste nella conquista di ciò ch'egli trova davanti a sé, consiste nel consumare la sua natura inorganica e nell'appropriarsela. Ma ciò può venire considerato anche dalla parte dello spirito universale, in quanto esso è sostanza; in tal caso questa si dà la propria autocoscienza e produce in se stessa il proprio divenire e la propria riflessione.” Ivi, pp. 22-23. II SEZIONE: AUTOCOSCIENZA. Dalla lotta tra le due autocoscienze per il riconoscimento emerge un vincitore, colui che non ha temuto la morte pur di affermare la propria libertà. Egli sarà il signore, mentre colui che ha tremato per la propria vita e ha ceduto rinunciando alla libertà, diviene servo. Attraverso il lavoro il servo guadagna però un’indipendenza che manca al signore. “Il signore è la coscienza che è per sé... la quale è mediata con sé da un'altra coscienza, cioè da una coscienza tale, alla cui essenza appartiene di essere sintetizzata con un essere indipendente o con la cosalità in genere. Il Signore si rapporta a questi due momenti: a una cosa come tale, all'oggetto, cioè, dell'appetito; e alla coscienza cui l'essenziale è la cosalità [... ] Il signore si rapporta al servo in guisa mediata attraverso l'essere indipendente, ché proprio a questo è legato il servo; questa è la sua catena, dalla quale egli non poteva astrarre nella lotta; e perciò si mostrò dipendente, avendo egli la sua indipendenza nella cosalità. Ma il signore è la potenza che sovrasta a questo essere; [... ] Siccome il signore è la potenza che domina l'essere, mentre questo essere è la potenza che pesa sull'altro individuo, cosí, in questa disposizione sillogistica, il signore ha sotto di sé questo altro individuo. Parimente il signore si rapporta alla cosa in guisa mediata attraverso il servo: anche il servo, in quanto autocoscienza … si riferisce negativamente alla cosa e la toglie; ma per lui la cosa è in pari tempo indipendente; e perciò col suo negarla non potrà mai distruggerla completamente; ossia il servo col suo lavoro non fa che trasformarla. Invece, per tale mediazione, il rapporto immediato diviene al signore la pura negazione della cosa stessa: ossia il godimento. Ciò che non riuscì all’appetito (desiderio), riesce a quest’atto del godere: esaurire la cosa e acquetarsi nel godimento. […] il lato dell’indipendenza della cosa egli lo abbandona al servo che la elabora.” Ivi, pp. 159-160. Ma il signore si rivela “servo del servo” anche per un altro motivo: egli mantiene la propria identità di signore attraverso il riconoscimento del servo. Si riconosce in lui, si rispecchia in lui. Il servo, invece, conosce l’autocoscienza che egli stesso è nel signore, cioè nella forma piena e libera, anche se inizialmente tale forma la vede fuori di sé. “La verità della coscienza indipendente è, di conseguenza, la coscienza servile. Questa da prima appare bensí fuori di sé e non come la verità dell'autocoscienza. Ma... la servitù nel proprio compimento diventerà piuttosto il contrario di ciò che essa è immediatamente, essa andrà in se stessa come coscienza riconcentrata in sé, e si volgerà nell'indipendenza vera.” Ivi, p. 161. Il lavoro ha dunque un valore formativo, ed è decisivo nella dialettica che porta la figura al suo rovesciamento. Tuttavia il servo diviene consapevole di sé anche attraverso un’altra esperienza fondamentale: la paura della morte. “Tale coscienza non è stata in ansia per questa o quella cosa […] bensì per l’intera sua essenza; essa infatti ha sentito paura della morte, signora assoluta. È stata così intimamente dissolta, ha tremato nel profondo di sé, e ciò che in essa vi era di fisso ha vacillato. Ma tale puro e universale movimento, tale assoluto fluidificarsi di ogni momento sussistente, è l’essenza... dell’autocoscienza, è l’assoluta negatività.” Ivi, pp. 161-162. In conclusione, la paura deve essere integrata dal servizio e dal lavoro: senza il lavoro, la paura resterebbe “interiore e muta” (p. 163). “Il lavoro … è appetito tenuto a freno, è un dileguare trattenuto: ovvero: il lavoro forma. Il rapporto negativo verso l’oggetto diventa forma dell’oggetto stesso, diventa qualcosa che permane […] così, quindi, la coscienza che lavora giunge all’intuizione dell’essere indipendente come di se stessa.” Ivi, p. 162.