Ritrovare la politica Comuni d’Europa: come saldare cittadinanza locale e federazione europea? Camilla Buzzacchi - Filippo Pizzolato La Costituzione fonda la democrazia sul "lavoro" e impegna la Repubblica a "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese". L’ideale tracciato è quello di una democrazia spessa, radicata nella profondità dei rapporti sociali ed economici, laddove si può e si deve rendere possibile la partecipazione, e cioè l’apporto creativo, di ogni singola persona, portatrice di irriducibile unicità, cui si accompagna una vocazione sociale da riconoscere e valorizzare ("Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società"). Si progetta una democrazia non ristretta alla sfera istituzionale del potere pubblico, ma che si irradia su tutta la società, entro cui la partecipazione (compendiata dal riferimento al lavoro) feriale dei cittadini offre loro una possibilità concreta di contribuire a organizzare la convivenza. La democrazia non attiene solo e principalmente alla sua dimensione più visibile, quella del potere intessuta di elezioni, partiti e istituzioni -, ma anzi tutto si misura sulla capacità del corpo sociale di costruire uno stile cooperativo di coesistenza. Per questa via, ogni cittadino è coinvolto, perché il modo in cui lavoriamo e ci relazioniamo contribuisce a disegnare la vita in comune e a innalzarne o svilirne - la qualità. E tuttavia, la società e il mercato, perché siano resi luoghi davvero promozionali della libertà e della partecipazione delle persone, devono essere mantenuti sgombri dall'incombenza e dalla cristallizzazione di posizioni di potere privato che riducono la libertà a privilegio di pochi e a soggezione di molti. Questo è appunto il compito specifico delle istituzioni politiche: rimuovere dai rapporti sociali le cause di sopraffazione e costruire un ambiente abilitante le capacità di ognuno e, in particolare, del più debole. Se questa è la concezione costituzionale della democrazia, si capisce bene come il movimento riformatore in atto, di semplificazione del quadro istituzionale e di affidamento nella decisione del leader, rappresenti un passo in direzione opposta. Le riforme intraprese vanno nella direzione opposta di una democrazia di tipo “schumpeteriano”, che si traduce nella selezione elettiva dell’élite governante. In questo modello, sfera pubblica e sfera privata appaiono separate e le elezioni costituiscono l’unico e sporadico elemento di collegamento. Nell’identificare la democrazia con il solo momento elettorale di investitura della classe politica, si sottovaluta il potenziale autenticamente democratico di tutte le libertà costituzionali e si escludono stranieri e minori dal circuito della cittadinanza. E tuttavia, il decisionismo esibito appare impotente, perché combatte avversari ben più attrezzati. In questo quadro critico, due sono i luoghi istituzionali della politica che potrebbero assumere un ruolo di particolare significato. Uno è il Comune, perché può, e nella misura in cui sa mettere in campo e attivare la capacità e la generosità dei cittadini. Al Comune cioè è richiesto questo sforzo, necessario, di apertura alla comunità di riferimento, in un'operazione preziosa di incubazione e valorizzazione della capacità delle formazioni sociali, nelle diverse espressioni, di prendersi cura della città e, in essa, soprattutto dei più fragili. E tuttavia il quadro è complesso. La legislazione in tema di autonomie locali ha spesso, soprattutto negli ultimi anni, incoraggiato i Comuni a deviare da questo orizzonte partecipativo. Proprio nei Comuni, infatti, laddove si sarebbero potute sperimentare modalità di coinvolgimento continuativo dei cittadini e delle formazioni sociali, la legge ha paradossalmente testato modalità (l'elezione diretta dei Sindaci, cui sono affidate le sorti dello stesso Consiglio comunale) particolarmente verticalizzate di investitura della classe politica che rischiano di congelare ogni anelito di confronto e partecipazione. È dunque rimessa alla saggezza dei Sindaci, oggi, la scelta di non compiacersi di una legittimazione diretta, per ricavarne il fondamento della pretesa di un decisionismo solitario e incontestato, bensì di diventare il punto di riferimento di un vasto processo di apertura delle istituzioni cittadini all'apporto attivo delle comunità. L'altro livello politico fondamentale, quello che può, per la sua scala dimensionale, rimuovere gli ostacoli soprattutto economici alla possibilità della partecipazione, è l'Unione Europea. Nell'Europa federale sono racchiuse la possibilità e la speranza della politica intesa come progetto democratico di convivenza, ispirato da un'idea di libertà effettiva per tutti e di uguaglianza. Questa possibilità è stata ben espressa da Papa Francesco, nel recente discorso al Parlamento europeo a Strasburgo, che ha rimesso al centro dell'Europa la questione umanistica della tutela della dignità umana. Al Parlamento europeo, in particolare, Francesco ha significativamente consegnato la missione di prendersi cura "della fragilità dei popoli e delle persone". Lo strumento che gli Stati europei avevano apprestato per proteggere le fragilità è lo Stato sociale, la cui difesa diventa ora una priorità che passa per una più diretta responsabilità dell'Unione Europea nelle politiche sociali. Questa missione umanistica, ormai compromessa per il livello nazionale, è infatti, seppur ardua, ancora possibile per un'Europa unita, perché quest'ultima ha la dimensione appropriata per regolare e vigilare processi economici resisi irresponsabili e volatili e per condizionare le scelte che si compiono (o, viceversa, si subiscono) nella sfera internazionale. Un governo della finanza e delle trasformazioni ambientali, impossibile per gli Stati, è ancora pensabile per una sfera politica europea. Non però un'Europa qualsiasi. Essa somiglia oggi troppo a un condominio rissoso tra Stati, in cui alcuni fanno la parte dei maggiorenti che redarguiscono gli altri, morosi e indisciplinati. Perché non contraddica i principi che è chiamata a custodire, l'Europa stessa deve essere un luogo in cui la democrazia è testimoniata credibilmente, dove prevalga uno spirito comunitario di solidarietà sugli egoismi nazionali. Perché questo obiettivo sia raggiungibile, è essenziale che i cittadini istituiscano, sorretti in ciò dalle agenzie informative ed educative, un canale diretto di dialogo e confronto con le istituzioni che, a livello europeo, incarnano le ragioni dell'unità: il Parlamento europeo e la Commissione. Rispetto al passato, la democraticità delle istituzioni europee è cresciuta notevolmente, a seguito dell'elezione diretta del Parlamento europeo, del potenziamento del suo peso nel procedimento legislativo, nonché della previsione di un rapporto di fiducia tra il Parlamento stesso e la Commissione. Per progredire nella direzione federale, occorre rimuovere il vincolo dell'unanimità, che, con un'Europa a 28 Stati, paralizza la capacità di governo dell'Unione e attribuisce a ogni singolo Stato un assurdo potere di veto. Si deve pertanto estendere l'uso del principio maggioritario entro gli organi europei rappresentativi dei Governi nazionali e, al contempo, generalizzare il potere di co-decisione del Parlamento europeo. È contenuta nella costruzione dell’Europa federale, che rischia però di morire in bozzolo, la possibilità concreta di far fronte alle grandi emergenze sociali (speculazione finanziaria, disordine politico internazionale, cambiamento climatico, migrazioni, lavoro …) con politiche efficaci di governo delle trasformazioni che ridiano al futuro un orizzonte di libertà. L’Europa dei Governi pare però pregiudicare questo passaggio. Potranno mai rassegnarsi a divenire motori della federazione soggetti che sono espressione del più potente fattore di unificazione finora conosciuto, quello nazionale? Come ha osservato V. Onida, “non è realistico pensare che un processo di sviluppo in senso federalistico possa crescere, almeno al di là di certi limiti, sul solo presupposto di una coesione più vasta (…) fra unità elementari, cioè Stati membri identificati con gli attuali Stati nazionali (…) Quelli che dovrebbero diventare i membri della federazione non sono infatti organismi territoriali di deboli tradizioni, ma espressione del più potente fattore di unificazione che ha finora operato in Europa, quello nazionale; sono Stati dotati di grandi tradizioni, di potenti apparati e di forte senso di identità”. Proprio Governi a leadership personalizzata e concentrata stanno danneggiando e sfibrando l’Unione Europea. Come ha acutamente sottolineato l’economista Th. Piketty, “non è possibile organizzare una democrazia parlamentare stabile, pubblica e dialetticamente credibile con un unico rappresentante per paese. Una tale istanza non può non condurre a uno scontro tra gli egoismi nazionali e quindi all’impotenza collettiva”. Processi decisionali che si consumano in arene sovranazionali (europee), i cui attori protagonisti sono i “capi” di Governo, investiti (o auto-investiti) di una missione di salvaguardia di un interesse nazionale autisticamente costruito, non permettono la scomposizione degli interessi stessi e la loro riaggregazione in vista di una sintesi che abbia un respiro autenticamente solidale e, appunto, comunitario. E se, per realizzarsi, le due dimensioni, locale ed europea, della cittadinanza dovessero saldarsi e allearsi? Si può costruire una cittadinanza europea a partire dalle comunità locali? Se il percorso pare arduo, ancora più difficile è la costruzione della cittadinanza europea senza questo radicamento territoriale, perché, come ha scritto M. Viroli, “l’apprendistato della cittadinanza avviene sempre, quando avviene, in contesti locali, particolari, culturalmente densi e significativi. Una volta imparata nei contesti locali, la cittadinanza può essere trasportata facilmente nel contesto europeo senza bisogno di aggiungere astratti principi universalistici”. Una lunga storia, poco conosciuta, in questa direzione è stata fatta. Sul piano istituzionale vi si riconnettono i “gemellaggi” che, al di là dell’aspetto ludico, erano pensati come cucitura di nodi in vista della tessitura dell’Europa; nonché, in tempi successivi, la costruzione di un “Comitato delle Regioni”. Sul piano ideale, si riallacciano a questa intuizione le declinazioni del federalismo integrale di autori come D. De Rougemont e A. Marc. Se si vuole unire l’Europa, anche per De Rougemont, “il faut partir d’autre chose que de ses facteurs de division” (gli Stati), e “se fonder sur ce qui est destiné à devenir demain la vraie réalité de notre société” (la “Région”). Da entrambi l’obiettivo è puntato sull’Europa delle Regioni, intendendo però queste ultime alla stregua di “grappes de Communes”. Ritrovare la politica Comuni d’Europa: come saldare cittadinanza locale e federazione europea? Parole chiave: convivenza, partecipazione. La Costituzione fonda la democrazia sul "lavoro" e impegna la Repubblica a "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese". L’ideale tracciato è quello di una democrazia spessa, radicata nella profondità dei rapporti sociali ed economici, laddove si può e si deve rendere possibile la partecipazione, e cioè l’apporto creativo, di ogni singola persona, portatrice di irriducibile unicità, cui si accompagna una vocazione sociale da riconoscere e valorizzare ("Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società"). Si progetta una democrazia non ristretta alla sfera istituzionale del potere pubblico, ma che si irradia su tutta la società, entro cui la partecipazione (compendiata dal riferimento al lavoro) feriale dei cittadini offre loro una possibilità concreta di contribuire a organizzare la convivenza. La democrazia non attiene solo e principalmente alla sua dimensione più visibile, quella del potere intessuta di elezioni, partiti e istituzioni -, ma anzi tutto si misura sulla capacità del corpo sociale di costruire uno stile cooperativo di coesistenza. Per questa via, ogni cittadino è coinvolto, perché il modo in cui lavoriamo e ci relazioniamo contribuisce a disegnare la vita in comune e a innalzarne o svilirne - la qualità. Nell’identificare la democrazia con il solo momento elettorale di investitura della classe politica, si sottovaluta il potenziale autenticamente democratico di tutte le libertà costituzionali e si escludono stranieri e minori dal circuito della cittadinanza. In questo quadro, due sono i luoghi istituzionali della politica su cui innestare questa idea di cittadinanza. Uno è il Comune, ente esponenziale della comunità territoriale, perché può, e nella misura in cui sa, mettere in campo e attivare la capacità e la partecipazione dei cittadini. Al Comune è richiesto questo sforzo di apertura alla comunità di riferimento, in un’operazione preziosa di incubazione e valorizzazione della capacità delle formazioni sociali, nelle diverse espressioni, di prendersi cura della città. Non è scontato che questo avvenga. Proprio nei Comuni, la legge ha infatti paradossalmente testato modalità (l'elezione diretta dei Sindaci, cui sono affidate le sorti del Consiglio comunale) particolarmente verticalizzate di investitura della classe politica che rischiano di congelare ogni anelito di confronto e partecipazione. L’altro livello politico fondamentale, quello che può, per la sua scala dimensionale, rimuovere gli ostacoli soprattutto economici alla possibilità della partecipazione, è l’Unione Europea. È contenuta nella costruzione dell’Europa federale, che rischia di morire in bozzolo, la possibilità concreta di far fronte alle grandi emergenze sociali (speculazione finanziaria, disordine politico internazionale, cambiamento climatico, migrazioni, lavoro …) con politiche efficaci di governo delle trasformazioni che ridiano al futuro un orizzonte di libertà. L’Europa dei Governi pare però pregiudicare questo passaggio. Potranno mai rassegnarsi a divenire motori della federazione soggetti che sono espressione del più potente fattore di unificazione finora conosciuto, quello nazionale? E se, per realizzarsi, le due dimensioni, locale ed europea, della cittadinanza dovessero saldarsi e allearsi? Si può costruire una cittadinanza europea a partire dalle comunità locali? Una lunga storia, poco conosciuta, in questa direzione è stata fatta. Come proseguirla e darle rinnovato slancio?