MODULO 6 Il fenomeno sociale dell`esclusione e

MODULO 6
Il fenomeno sociale dell’esclusione e della povertà.
6.1 Marginalità e nuove povertà
Bisogno è mancanza, carenza di qualche cosa, di un bene, di un oggetto. Un equilibrio
compromesso da una carenza. Esistono bisogni primari o naturali della sopravvivenza
(nutrirsi vestirsi, abitare); secondari o della sicurezza personale e sociale; superiori o di
autorealizzazione. (Maslow)
Il bisogno può essere considerato come un dato oggettivo, non influenzato da scelte
culturali o sociali, oppure come dato soggettivo, conseguenza di una vicenda
esistenziale che, per problemi o difficoltà personali o per mancanza di opportunità,
l’individuo non è in grado di gestire da solo.
Tra i bisogni primari c’è la povertà. Povertà significa mancanza di reddito e
impossibilità di soddisfare bisogni quali il nutrirsi, il vestirsi, fruire di una abitazione.
E’ definita povertà assoluta quando si sfiora il livello minimo di sussistenza accettabile,
al di sotto del quale sono compromesse le capacità di sopravvivere.
E’ definita povertà relativa quando, in una data società, le risorse di un individuo sono
decisamente al di sotto di quelle di cui dispone l’individuo o la famiglia media.
La povertà assoluta è un fenomeno inscritto nel sottosviluppo; nell’occidente
industrializzato e tecnologico sembra incidere la povertà relativa, anche se ormai
sempre più spesso entrambe sono compresenti.
E’ povera una famiglia di due persone il cui reddito è uguale o inferiore al reddito
medio pro-capite del paese in esame. In Italia, dove le informazioni sul reddito non
sono molto attendibili, si applica la stessa definizione alle spese per i consumi.
Una famiglia di due persone sarà considerata povera quando la sua spesa in consumi è
uguale o inferiore alla spesa media pro-capite in consumi. 1
Per le famiglie di tre persone o più persone la povertà viene misurata applicando dei
coefficienti della scala di equivalenza, che tengono conto delle caratteristiche del nucleo
familiare.
La povertà è un fenomeno instabile, strettamente legato alle condizioni economiche
della società in esame e agli standard di vita in essa considerati. Lo standard di vita
viene misurato attraverso il volume di beni e servizi consumati dagli abitanti. In questo
calcolo tuttavia entrano solo quei beni e quei servizi regolarmente scambiati sul
mercato. Ne risulta che importanti aspetti della qualità della vita non vengono presi in
considerazione. La misura del consumo non è altro che una misura dei beni e dei servizi
forniti dalle imprese ad individui privati e soggetti al pagamento. Vengono così omessi i
servizi resi dalla pubblica amministrazione allargata, i servizi gratuiti come quelli
prestati dalle madri ai figli, i costi esterni inflitti dalle trasformazioni dell’economia,
come il progressivo aumento del costo del petrolio.
Nel 2003 le famiglie povere in Italia sono 2.360.000 pari al 10,6% delle famiglie
italiane, un totale di 6.785.000 individui, ossia l’11,8% della popolazione. Nel 2004 le
famiglie povere sono 2.674.000 pari all’11,7% delle famiglie per un totale di 6.786.000
1
Euro 869,50: spesa media per consumi pro capite Istat 2003. Per gli immigrati la misura scende del
40%
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individui, il 13,2% della popolazione.2 Naturalmente sono più povere le famiglie con
più componenti, quelle con un solo componente e, quando a capo della famiglia c’è una
donna, l’incidenza della povertà risulta più forte. Inoltre si può rilevare come la linea di
povertà relativa si sposti di anno in anno a causa delle variazioni dei prezzi al consumo
e dei comportamenti di consumo.
Nel 2003 le famiglie povere sono il 10,6% delle famiglie, così distribuite sul territorio
nazionale:
21,3% nel mezzogiorno
5,7% al Centro
5,3% al nord
Nell’ambito della definizione di povertà relativa si assiste al fenomeno di come, spesso,
le persone siano più povere non tanto per la diminuizione del reddito, quanto per
l’accrescersi della diseguaglianza. La povertà dunque è “una forma di diseguaglianza
portata oltre un certo limite”.
Una volta definita la povertà come una forma di diseguaglianza grave, per coglierne la
insostenibilità, occorre che sia accompagnata:
• da uno stato di esclusione sociale, una incapacità -soggettiva o oggettiva- di
muoversi come cittadino e di fruire delle risorse che sono comunque disponibili
nella la società o nel sistema di welfare.
• Da una condizione personale che conduce al progressivo deterioramento delle
motivazioni, al diradarsi delle capacità relazionali e di adattamento, al crollo
delle speranze.
Ci sono altre situazioni di diseguaglianza, i deboli e i malati ad esempio, che però
restano in grado di mantenere relazioni o livelli di reddito accettabili. O ancora i
marginali che, pur vivendo ai confine della società mantengono con essa un rapporto,
sia pure di rifiuto o di contestazione violenta.
Sul piano operativo, sarebbe perciò meglio distinguere tra deprivazione economica
(povertà relativa) ed esclusione sociale, quando quest’ultima può essere provocata da
altri tipi di disagio differenti dalla sola diseguaglianza in termini di reddito.
Per alcuni disagiati il sistema di welfare può contribuire a contemperare la soggettiva
situazione di disagio (es. i portatori di handicap che nel passato formavano le folle di
elemosinanti alle porte delle chiese o dei mercati, mentre oggi beneficiano di trattamenti
pensionistici, interventi di inserimento sociale e prestazioni sanitarie), si incontrano
altre forme di esclusione o per circostanze sociali o per barriere istituzionali.
L’esclusione per circostanze sociali o soggettive può essere originata dalla mancanza di
abilità o delle capacità di fruire delle risorse e dei servizi disponibili. E’ il caso dei
portatori di handicap soggetti all’isolamento, degli immigrati che non possiedono le
conoscenze linguistiche, dei senza tetto che faticano a mantenere un lavoro o ad avere
rapporti stabili con i servizi di cui avrebbero bisogno, degli adolescenti che
abbandonano la scuola e non acquisiscono così quelle conoscenze necessarie a
muoversi come cittadini nella comunità. E’ anche il caso di molte donne con figli
piccoli o donne di mezza età che, avendo investito nella famiglia e non nella formazione
professionale, una volta rimaste sole trovano difficoltà ad entrare nel mercato del
lavoro.
2
Da Famiglie e società, statistiche in breve, ISTAT
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Perché nella realtà si possono incontrare sempre nuove forme di povertà e nuovi rischi
di impoverimento. Oggi ad esempio, un qualsiasi evento appena fuori la norma può far
precipitare nella povertà un nucleo familiare di 4 persone in cui il solo capofamiglia
lavori e percepisca un reddito intorno ai 1500 euro -in genere impiegati o insegnantivisto che la linea di povertà di una famiglia è pari al consumo medio pro-capite (700
euro mensili).3
L’esclusione dovuta a barriere istituzionali riguarda invece i giovani a basso reddito che
non hanno i requisiti per accedere alle case popolari; i tossicodipendenti o i sieropositivi
che sono esclusi dal lavoro, degli immigrati che non riescono ad ottenere il permesso di
soggiorno. Gli anziani non autosufficienti che per poter avere accesso al sostegno
pubblico devono dare fondo a tutti i propri averi. E’ in generale il caso di tutti quei
meccanismi che stabilendo soglie di accesso formali o informali, di reddito, di
autonomia residua, di situazione familiare ecc., rendono di fatto molto difficile o
impossibile a singoli o a gruppi di cittadini di accedere a beni o servizi costringendo
spesso ad un progressivo degrado della situazione. La forma estrema di esclusione è lo
stigma di “non avente diritto”, la privazione dell’essere.
La dove la povertà non cresce, cambia bersaglio: l’insidia si concentra sulle giovani
generazioni, sui nuclei familiari con bambini, soprattutto se monoparentali, sui nuclei
con tre o più figli non occupati, sui giovani adulti al margine del mercato del lavoro,
sugli anziani ultra sessantacinquenni.
Dati recenti rilevano un incremento del 3% (1997-2001), delle povertà estreme, specie
tra le persone senza fissa dimora, di cui il 23,3% sono giovani donne. In Italia si
aggiunge l’aggravante territoriale: i due terzi della famiglie in povertà relativa si trovano
nel mezzogiorno ove si trovano anche le famiglie più numerose.
In Francia, ad esempio, dove il fenomeno delle famiglie monoparentali è stato più
indagato risulta che il tasso di disoccupazione delle madri sole è del 17%, contro un
tasso medio del 13% delle altre donne.
Sono disoccupate, tra le madri sole, soprattutto le nubili 21%, rispetto le divorziate
16%, che sono più vecchie e istruite. Il 44% ha contratto di lavoro part time, mentre le
madri con partner fisso usano di questa possibilità solo per il 17%.
Il 19% delle famiglie monoparentali si colloca al di sotto della soglia di povertà. Alla
fragilità economica poi si accompagna quella sociale: il 34% delle famiglie
monoparentali non riceve amici, il 21% parenti, contro rispettivamente il 17% e 18%
delle coppie con bambini. Le madri sole hanno meno tempo per gli svaghi, vacanze più
brevi e dedicano meno tempo ai figli.
Nel 2003 i dati Eurostat sono ancora più allarmanti, dicono che 11 milioni di italiani
rischierebbero la povertà senza i trasferimenti garantiti dallo Stato Sociale, che stanno
assottigliandosi per ragioni al tempo stesso ideologiche e materiali. Tra le prime va
annoverata in Italia e in Europa l’offensiva neoliberale: i cosiddetti neo.-con il cui
nucleo costitutivo di pensiero è rappresentato dall’ idea che ciascuno deve fronte con
le proprie sole forze alle vicende della vita e tanto peggio per chi soccombe. In questa
prospettiva lo Stato sociale viene presentato come un costoso aiuto prestato a individui
che di fatto non lo meritano. Nel secondo caso, i fattori materiali sono rappresentati
dall’aumento dei costi di produzione e riproduzione biologica, sociale e culturale
dell’essere umano al livello di civiltà e di attese raggiunte -studi universitari, durata e
qualità della vita, tecnologie sanitarie, consumi culturali-.
3
Istat, Indagine campionaria sui consumi, 2004
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Un italiano su due se non avesse la pensione, il servizio sanitario nazionale, se non
potesse contare sulla cassa integrazione, non riuscirebbe a mantenere un livello di vita
appena dignitoso, senza rischiare l’indigenza.
Purtroppo il sistema di welfare nel nostro paese è ancora sbilanciato sulle pensioni e
dedica poca attenzione alla disoccupazione e alla famiglia. In Europa ad esempio la
spesa per le famiglie è pari all’8% della spesa sociale, mentre da noi non arriva al 4%.
Di qui l’esigenza di associare al concetto di crescita economica quello di sviluppo
sociale. La crescita economica non è solo influenzata dagli investimenti in capitale
umano quali lo stato di salute e l’ istruzione, ma anche da investimenti sociali, in primo
luogo la protezione dalla disoccupazione. Ciò è dimostrato dal fatto che in Italia, dove
spesa sociale a favore della fascia di età 18-64 anni -epurata da sanità e pensioni- è
inferiore al 5% del PIL, si registra un tasso di povertà del 12%. Mentre in Danimarca
dove raggiunge il 12% del PIL, il tasso di povertà è del 4%.
Anche categorie socio-culturali come quelle della funzionalità e della utilità
concorrono a creare esclusione. Non si invecchia soltanto per degenerazione biologica
ma anche e soprattutto per ragioni culturali, per l’idea che la cultura occidentale si è
fatta della vecchiaia come di un tempo inutile: di qui la connessione tra la vecchiaia e l’
inutilità. Così che la centralità che riveste il lavoro diviene, a volte, causa di una lotta
di classe imprevista tra i vecchi che non vogliono lasciare e giovani che non sanno
come cominciare, costruendo asimmetrie di potere.
Sono cascami del fordismo, di un’epoca e di una cultura in cui trovava solo spazio
l’adorazione dell’uomo faber, il culto del lavoro e della organizzazione. Il taylorismo,
la catena di montaggio, l’organizzazione scientifica del lavoro hanno creato l’illusione
di spezzare i vincoli dello stato di natura, introducendo una razionalità assoluta
modellata sulle esigenze della produzione e sul predominio della sfera economica su
qualsiasi altro settore dell’attività umana. Le contraddizioni che caratterizzano il ‘900
sono non solo il fordismo della ferrea disciplina della fabbrica e della catena di
montaggio, ma l’intero sistema che intorno alla produzione si è costituito, a partire dalla
accelerazione dei consumi e dalla assoluta mancanza di limiti alla fabbricabilità del
mondo, sino alla illusione di un mercato infinitamente espandibile e di una disponibilità
assoluta di materie prime, insieme ai mezzi tecnici messi a disposizione dall’umanità.
Così inteso il fordismo ha impresso il proprio segno su tutto il XX secolo. Non ha solo
ridisegnato l’impresa, ma ha riplasmato tutte le figure sociali comprese quelle del
lavoro, ha generato una nuova antropologia, un tipo umano diverso, apparentemente
più potente di ogni precedente, in realtà dipendente dai mezzi produttivi che credeva di
usare e che invece lo usavano. Il fordismo ha scatenato i deliri dell’uomo faber, una
umanità dominata dalla febbre del fare. La rivoluzione tecnologica in corso sta
spezzando l’involucro fordista, segnando il passaggio a un modello meno centralizzato
più frammentato, molecolare, reticolare.4 Nel quale però l’esclusione, cambia bersaglio,
ma continua ad esistere.
Sempre regole culturali stabiliscono che è preferibile che le donne si dedichino agli
affetti e alle cure domestiche, mentre uno degli indicatori di sviluppo è l’occupazione
femminile che dovrebbe arrivare al 60% della popolazione attiva. In Europa la media è
del 55%, invece Italia è del 42,7. Uno scarto significativo, come significativo nel
corso delle carriere lavorative il progressivo restringimento dell’accesso ai vertici della
4
Marco Revelli, “Oltre il novecento. La politica, le ideologie, le insidie del lavoro”, Einaudi, Torino
2001
97
piramide organizzativa. Il tetto di cristallo è un fenomeno assolutamente attuale,
nonostante il sorpasso tra diplomate e diplomati, laureate e laureati (si laurea 38,6%
delle iscritte contro il 32,8% dei maschi).
E ancora regole culturali, senso comune, sembrano suggerire che l’immigrato perfetto
(o meglio il migrante) sia quello invisibile. Si tratta di una dissonanza cognitiva, ossia
di quel disturbo della personalità che vede la compresenza fastidiosa, nello stesso
individuo, di due convinzioni oppose e del tutto inconciliabili. Disturbo che sembra
risiedere ormai stabilmente nella nostra società, soprattutto nelle regioni del nord est.
Qui gli imprenditori, che hanno avuto certamente il merito di creare una società
affluente con l’aiuto anche di una mano d’opera di colore pronta a fare lavori poco
gradevoli, non solo la apprezzano ma la richiedono. Però quando questi immigrati
così importanti in fabbrica, diventano “persone” e camminano per strada,
infastidiscono. Imprenditori e quanti in quella società vivono e prosperano di un
benessere, costruito anche grazie ai coloured, preferirebbero non incontrare, non
vedere.
Nella situazione della esclusione culturale o soggettiva il termine migrante è da
preferirsi al termine immigrato perchè sottintende una situazione di transizione
durante la quale il paese di origine è diventato parte del passato, mentre la terra di
accoglienza non è stata ancora metabolizzata come reale luogo di investimento psichico
e affettivo. I migranti sono da intendersi come coloro che già partiti non sono ancora -o
mai- arrivati.
I migranti sono spesso in preda ad una confusione identitaria concomitante con
l’incapacità di trovare il giusto posto in una società che li rifiuta, e devono rassegnarsi
ad una ipotetica prospettiva di ritorno alquanto incerta, in realtà irrealizzabile.
Soprattutto devono
sviluppare dei meccanismi di adattamento ad una società
inquietata dalla loro presenza, che non ha saputo offrire un quadro di accoglienza nei
tempi e nei modi attesi. Il più diffuso è il ripiegamento nell’identità originaria, tanto
più esibita quanto più additata dagli altri come marchio di una identità svalutata e
disprezzata. Il migrante, proprio per l’assenza di un luogo in cui esistere, non
riuscendo a liberarsi dall’angoscia di sentirsi errante, ripiega sui segni esteriori della
sua identità come ad es. il burka o il rispetto esasperato dei precetti religiosi.
Riguardo il tema dell’immigrazione occorre pensare anche a soluzioni politiche: negli
ultimi 5 anni gli immigrati sono raddoppiati portando il nostro paese oggi a una
incidenza sulla popolazione vicina alla media europea ( 5%), ancora lontana dal 9% di
Austria o Germania. Il mutamento nella composizione della popolazione italiana è però
evidente se usiamo come chiave di lettura lo scorrere del tempo. Nel 1970 gli
immigrati erano solo 140.000, con i processi di globalizzazione a partire dal 1980
abbiamo visto circolare non solo merci ma persone: 2.800.000 stranieri, secondo la
stima Charitas del 2005.
Una immigrazione il cui dato caratteristico è quello della multietnicità, con
localizzazioni del 63,5 al nord, del 24% al centro, del 12,5% nel mezzogiorno. Roma,
Milano; Torino Brescia….le città con maggiore incidenza.
La multietnicità comporta la convivenza di più religioni: 49% cristiano, 33%
mussulmano, in aumento. Come si evince dai dati relativi alle comunità più numerose
nel 2005, assieme allo scarto di incremento calcolato sulle presenze del 2001:
98
Albania
Marocco
Romania
Cina
Ucraina
Filippine
Tunisia
Senegal
316.659
294.945
248.849
111.712
93.441
82.625
78.230
31.174
+ 83%
+63,8
+232,3
+138,3
+980,6
+53,0
+64,2
+73,0
Persone che in Italia costruiscono le loro biografie, che qui intendono restare, come
dicono i numeri dei ricongiungimenti familiari o la presenza nelle prime classi
elementari di bambini stranieri. Percorsi segnati anche da una rapida mobilità verticale,
visto il crescente numero di imprenditori. 5 Gli stranieri, sono meno avversi al rischio
non solo perché hanno meno da perdere, ma perché hanno tanto di più da guadagnare.
Gli stranieri sono soprattutto risparmiatori e consumatori: la spesa media mensile in
consumi di una famiglia di 2,81 componenti è di 1005,00 euro (mentre la spesa media
mensile di una famiglia italiana di 2,59 persone è di 2400,00 euro).
I consumi degli stranieri sono destinati per il 96% al cibo, il 68% all’affitto o mutuo,
40% per libri, 37% all’istruzione dei figli.
Il risparmio medio mensile è di 174,00 euro di cui 118,00 euro inviati alle famiglie in
patria. (indagine Eurisko, in La Repubblica 11/3/07)
Per questo le banche hanno capito chi sarà la clientela del futuro.
Ma né occupazione stabile (54% con contratto stabile), nè mobilità verticale può
mettere la sordina alla spaesante sensazione della “doppia assenza”, quella sofferenza
interiore che fa sentire a lungo gli emigranti né più parte della società di origine, nè
ancora parte di quella in cui vivono. Il cui lento superamento avviene tramite il
rapportarsi non solo con la comunità di origine, ma con le istituzioni locali per evitare
che la società diventi un reticolo di “comunità non comunicanti”.
Nel nostro paese per lungo tempo l’immigrazione è stata percepita come fenomeno
transitorio, adesso la rimozione sociale ha preso altre vie, come quella delle esigenze
del mercato di lavoro. In tal modo non si è pensato a come integrare gli stranieri, ci si è
affidati allo spontaneismo sociale, sfuggendo alle gabbie dei modelli assimilazionista e
integrazionalista, che peraltro non hanno avuto grande successo.
Il problema però rimane aperto e forse una soluzione potrebbe essere quella della
“cittadinanza amministrativa”. Chi paga le imposte e risiede da anni nelle nostre città
deve poter votare per il governo locale. Tanto più le comunità straniere si sentiranno
parte di un tessuto istituzionale condiviso, tanto più i fenomeni di estraneità o
addirittura di mancata lealtà politica, saranno ridimensionati. Nell’Italia del XXI secolo
la politica dell’inclusione si nutre anche di queste forme di partecipazione.
5
Per quanto riguarda la provincia di Biella interessanti i dati raccolti in “Il risparmio invisibile”
(2005),una ricerca della Fondazione Cassa di Risparmio di Biella affidata a E.M. Napoletano,
A.Quarenga, A.Cavalleri.
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