saggio breve numero 5 seembre 2015 Claudio Calvaresi, Carolina

numero 5
se(embre 2015
saggio breve
Claudio Calvaresi, Carolina Pacchi,
Davide Zanoni
Innovazione dal basso e imprese
di comunità
Illustrazione: Simon Bolsinger, The world (2014)
Licenza Creative Commons
A*ribuzione - Non commerciale
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saggio breve
Claudio Calvaresi (Avanzi. Sostenibilità Per Azioni)
Carolina Pacchi (DAStU. Dipartimento di Archite!ura e Studi Urbani, Politecnico di
Milano / Avanzi. Sostenibilità Per Azioni)
Davide Zanoni (Avanzi. Sostenibilità Per Azioni)
Innovazione dal basso e imprese di comunità
Abstract
In questo articolo si riflette sull’ipotesi che uno degli esiti possibili delle esperienze e delle
pratiche di auto-organizzazione e innovazione dal basso delle comunità locali – in particolare
(ma non solo) nelle aree urbane – possa essere l’impresa di comunità, ancora poco diffusa
in Italia, ma presente in altri contesti (es. Regno Unito). Un punto cruciale del dibattito è
la possibilità di garantire alle innovazioni nascenti una forma di infrastrutturazione che
permetta continuità temporale e quindi possibilità di sviluppo ed evoluzione, anche in termini
di impatto. Nella prima parte del saggio verranno discusse le categorie di innovazione dal
basso a livello urbano e di impresa di comunità, senza alcun intento strettamente definitorio,
quanto più con l’intenzione di proporre alcuni ambiti di sperimentazione per comprendere
eventuali incroci tra le due categorie; nella seconda parte verrà illustrata un’esperienza
concreta di ricerca sul campo, che ha raccolto e riletto un centinaio di innovazioni dal basso
nell’area milanese, per provare a esemplificare alcune questioni interpretative e di scenario.
Infine, si cercherà di tracciare alcune implicazioni per le politiche urbane della prospettiva
delle imprese di comunità.
Keywords: imprese di comunità, innovazione dal basso, comunità locali, rigenerazione urbana
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Saggio breve/ Innovazione dal basso e imprese
di comunità
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Innovazione dal basso e contesti urbani
È da tempo riconosciuto che, a fronte del
progressivo ritrarsi del welfare state, e in
particolare del welfare locale (socio-sanitario,
assistenza, housing, educazione e istruzione, ma
anche creazione e manutenzione di spazi pubblici,
verde, ecc.), in molte città europee si assiste alla
ripresa di un attivismo civico e dal basso che, se
per alcuni versi richiama esempi di solidarietà
e mutualismo del XIX secolo, per altri si declina
e viene facilitato dalla diffusione capillare delle
nuove tecnologie. Questo attivismo, di segno certo
differente dalle mobilitazioni urbane che hanno
contraddistinto la seconda metà del XX secolo, ma
anche dalle forme più tradizionali di produzione
privata di beni pubblici (ad esempio da parte di
organizzazioni di volontariato), si struttura in
modalità molto diverse tra loro, tra le quali nuove
forme di impresa.
Alcuni osservatori (Moulaert et al., 2007) mettono
in relazione l’emergere dell’innovazione dal basso
nei contesti urbani con la necessità di tornare
a pensare politiche locali rivolte non solo alla
competitività su scala globale, ma anche a forme
di coesione sociale ed inclusione a livello locale;
queste ultime, a lungo elemento strutturante
delle politiche locali nelle città europee, sono
oggi meno praticate. Oltre che con condizioni
strutturali legate all’arretramento dei sistemi di
welfare, queste rinnovate forme di attivismo sono
state inoltre messe in relazione con le progressive
trasformazioni dei modelli di governance locale,
in atto da tempo, seppure con modalità e tempi
diversi, in molte città europee (Le Galès, 2002;
Denters, Rose, 2005). Si è creata una più stretta
relazione tra amministrazione pubblica e altri
attori privati e del terzo settore, tra cui anche
i cittadini, per la definizione e l’attuazione di
politiche urbane: questo processo avviene a
fronte della frammentazione dei riferimenti politici
e nell’assenza della tradizionale modalità di
trattamento delle istanze sociali che era un tempo
appannaggio dei partiti politici, e in particolare
in Italia dei grandi partiti di massa (Della Porta,
Andretta, 2001; Della Porta, 2004).
Diviene poi molto rilevante in queste pratiche e
sperimentazioni anche la dimensione culturale,
con l’emergere in parallelo di una necessità
di differenziazione, e di costruzione di nuove
identità comuni (Melucci, 1996), capaci di ricreare
orizzonti di senso all’interno di società sempre più
frammentate.
A partire da questo scenario si delinea un campo
aperto a molteplici pratiche, alcune già strutturate,
altre in una fase ancora nascente, per le quali il
contesto urbano sembra essere privilegiato: in
esso, infatti, si concentrano da un lato numerosi
problemi, esigenze e bisogni non soddisfatti,
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dall’altro le risorse che possono essere
mobilitate per affrontarli, in particolare facendo
leva su elementi quali densità, prossimità,
diversità.
Imprese di comunità, luoghi e caratteri
L’idea di impresa di comunità rimanda a iniziative
dal basso, che vedono la compartecipazione
di più soggetti, a volte utenti, in generale
finanziatori, che svolgono funzioni di disegno e
mantenimento di un’infrastruttura organizzativa
in grado di durare nel tempo, la quale mette
la comunità al centro della propria mission
e del proprio modello di business, secondo
però un’accezione costruttivista. Sono infatti
intraprese collettive che aggregano persone
attorno ad un obiettivo riconosciuto come
mobilitante per tutti. Definiscono comunità
inclusive: sono agite da gruppi di persone con
sistemi di preferenze analoghi, mossi da interessi
congiunti, che si riconoscono in obiettivi comuni.
Sono rappresentative quindi di comunità di
interessi, di pratiche, di progetto, fondate sulla
community ownership, legata a prospettive di
sviluppo e rigenerazione di asset in qualche
modo riferibili ad un territorio (Tricarico, 2014).
Potremmo dire che sono imprese place-based,
per le quali il capitale sociale rappresenta spesso
prerequisito di esistenza, che con la loro azione
contribuiscono a rigenerare ed incrementare.
Il dibattito sulle imprese di comunità nel nostro
Paese ha guardato in particolar modo alla
dimensione cooperativa – perché è questa la
forma che più spesso esse assumono – e ai
contesti non urbani, in particolare le aree interne
– perché questi sono i luoghi delle prime
sperimentazioni (Mori, 2014). Sono imprese dai
caratteri inusitati, sono “ibridi organizzativi”
(Venturi, Zandonai, 2014), nei quali convivono
obiettivi, strutture, competenze e forme di
relazione che fanno riferimento ad organizzazioni
molto diverse e che costringono a ripensare
separazioni tradizionali, quale quella tra profit e
nonprofit.
La nostra tesi è che le imprese di comunità
possono essere potenti fattori di innovazione
delle politiche urbane. Il loro operato produce
naturalmente trasformazione urbana: nel senso
che la loro azione, definendosi in un campo che
coincide con un contesto territoriale e non con
un servizio da erogare, assume la dimensione
locale come posta in gioco rilevante. Esse sono
strumenti per lo sviluppo sostenibile delle città.
Un aspetto di rilievo è il tentativo di identificare
alcune possibili accezioni del concetto di
“comunità” che viene mobilitata: non si tratta
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di comunità
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infatti di comunità basate sulla condivisione di
caratteristiche intrinseche, quali l’appartenenza ad
un territorio circoscritto, ma di comunità di scopo,
di progetto, di pratiche (Wenger, 1998; Hoadley,
2012). In particolare, per quanto riguarda
quest’ultime, il principale collante della rete di
soggetti coinvolti – che infatti ritroviamo nelle
imprese di comunità – è la dimensione
dell’apprendimento mutuo continuo e la
dimensione della produzione di conoscenze
condivise. Un altro tratto caratteristico è l’elevato
grado di identificazione tra partecipanti e
comunità, da leggere non in senso statico, quanto
nella prospettiva dinamica di costruzione di
identità condivise (Melucci, 1996).
Segnali di futuro: tra innovazione dal basso e
possibili percorsi di impresa
All’inizio del 2015 una mostra-dibattito organizzata
presso la Triennale di Milano ha provato a riflettere
sull’innovazione dal basso nell’area milanese e sul
suo potenziale trasformativo rispetto a diverse
arene di policy. Questa iniziativa ha raccolto un
centinaio di esperienze, “segnali di futuro” nella
produzione dei servizi collettivi, nelle forme del
lavoro, nei modi di abitare, nella creazione di
coesione sociale, nelle strategie quotidiane di cura
del benessere individuale e collettivo, nelle
pratiche culturali e della mobilità1.
Roberto Chiappella vive nel condominio di Via
Rembrandt 12 a Milano, da circa 40 anni. È un
bibliofilo. Gli piace l’idea di rendere questa sua
passione privata un progetto che possa essere a
vantaggio di altri. Da quando è in pensione, si
impegna per realizzarlo: propone all’assemblea di
condominio di trasformare l’ex portineria in
biblioteca. Aiutato anche da altri, che scopre
essere pure loro appassionati di libri, finisce per
raccogliere oltre 5 mila volumi. L’ex spazio del
custode diviene luogo di incontro per i condomini
e poi si apre alla città. Oggi funziona come una
normale biblioteca civica, aperta tre giorni alla
settimana. I promotori non hanno mai voluto
strutturarsi in qualcosa di formale
(un’associazione, ad esempio). Si stanno
chiedendo se proseguire così o meno.
Elena Donaggio è una ricercatrice nel campo delle
politiche urbane: pensa sia interessante usare gli
spazi aperti della città per promuovere le pratiche
sportive. Andrea Zorzi è uno sportivo, campione
olimpionico di pallavolo: crede che per portare più
gente a praticare sport, cosa che gli sta molto a
cuore, non ci sia bisogno di impianti dedicati.
Propongono al Comune di Milano un progetto dal
titolo “MI Muovo, la palestra sotto casa che non sai
di avere!”. Nell’estate del 2013, per alcune
settimane, una piazza ed un parco della città
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ospitano un calendario di attività sportive aperte
a chiunque. È una idea scalabile: gestire spazi
pubblici con queste finalità può diventare
impresa e lavoro.
Due anni fa un gruppo di ricercatori e studenti
del Dipartimento di Architettura e Studi Urbani
del Politecnico di Milano, coordinati da
Francesca Cognetti, organizza il workshop
“Mapping San Siro”, che ha l’obiettivo di costruire
nuove rappresentazioni del quartiere di edilizia
pubblica di San Siro a Milano. Al termine del
workshop si decide di continuare il lavoro di
indagine, aprendo uno spazio nel quartiere.
Nasce “30MetriQuadri”, un locale excommerciale, divenuto un luogo di presidio:
aperto due giorni a settimana, accoglie incontri,
seminari e iniziative per il quartiere. Il gruppo
promotore si sta interrogando su come
proseguire questa esperienza.
“Ènostra” è una cooperativa che fornisce ai
propri soci energia da fonti rinnovabili. Intende
sostenere la transizione verso un sistema
carbon free e il disinvestimento dalle fonti
esauribili. La selezione degli impianti avviene
sulla base di criteri di compatibilità ambientale e
responsabilità sociale dell’impresa produttrice.
L’idea è che l’energia vada consumata in modo
riflessivo, come il cibo, e che ciò può
influenzarne positivamente la produzione.
1 L’iniziativa, organizzata da
Avanzi e Triennale di Milano,
aveva per titolo “Segnali di
futuro”. Si è svolta in Triennale
a Milano dal 5 al 7 marzo 2015.
Sul sito www.segnalidifuturo.org
si possono trovare le pratiche
segnalate ed i materiali prodotti.
2 “I view locality as primarily
relational and contextual rather
than as scalar or spatial. I see it
as a complex phenomenological
quality, constituted by a series
of links between the sense
of social immediacy, the
technologies of interactivity
and the relativity of contexts”
(Appadurai, 1996 - p. 178).
3 Ciò è vero anche laddove le
radici dell’heimat potrebbero
sembrare più forti, come nelle
aree interne. Sulla comunità che
si fa impresa, si veda Carrosio
(Carrosio, 2015).
Sono segnali di futuro: in alcuni casi hanno dato
luogo a risultati importanti, in generale
potrebbero evolvere in qualcosa. Il percorso di
evoluzione non è sempre segnato, l’approdo è
incerto e il percorso può avere cambiamenti di
direzione: i risultati raggiunti sollecitano a dare
nuovi orizzonti di senso alla propria azione
perché accontentarsi della routine bloccherebbe
l’innovazione. Non sono prodotti finiti, sono
“opere aperte”: dipendono da attori non pigri, che
mettono a fianco l’un l’altro, creativamente, pezzi
(problemi, risorse, opportunità, altri attori) che
insieme, secondo logiche consuete, non
dovrebbero stare.
Quali comunità producono queste pratiche?
Sono comunità territoriali, a diverse scale: di
condominio, di strada, di quartiere, e oltre.
Costruiscono locali diversi, nel senso che la loro
locality coincide con lo spazio definito dalla loro
azione e dalle reti di relazioni che intrattengono
con altri attori2. Avendo un rapporto con il locale
di natura progettuale, il tratto identitario risulta
spesso debole; sono sempre piuttosto comunità
di progetto, di interessi, di pratiche3. In quanto
comunità, interpretano la produzione e
l’erogazione di servizi di welfare secondo una
prospettiva niente affatto universalistica (infatti
spesso danno luogo a beni di club, come
l’housing sociale). Consumano, ma anche
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di comunità
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riproducono, capitale sociale. Nascono dove
esistono diffuse capabilities, che contribuiscono a
consolidare ed estendere: frequentando diversi
campi di policy, costringono altri attori a
sconfinare e dunque a sviluppare nuove abilità.
Costruiscono e mobilitano risorse comuni e
possono dunque essere legittimamente ascritte
alla lista dei produttori di beni comuni, anche se
non possono essere confuse con sentimenti di
nostalgia per un pubblico statuale (che pure
pervadono molto del dibattito dei
“benecomunisti”). Si trovano anzi a loro agio
dentro prospettive di natura liberale: sono più
facilmente associabili ad esempi della big society
promossa dal governo Cameron, che a
manifestazioni della “azione popolare” professata
da Settis.
Nessuna delle pratiche cui abbiamo accennato è
al momento una impresa di comunità, anche se
alcune ne possiedono i caratteri. Pensiamo che
riflettere sui loro possibili percorsi di evoluzione,
avendo in mente la forma dell’impresa di
comunità, possa aiutare nel disegno del loro
sviluppo e consolidamento. Più in generale, i
segnali di futuro appartengono a campi diversi.
Alcuni sono orientati a permettere di vivere meglio
insieme, a sviluppare strategie di condivisione,
forme di combinazione di diversi servizi, modalità
poliedriche di uso, appropriazione e
trasformazione degli spazi della vita quotidiana;
altri servono a pensare, inventare, produrre e
condividere conoscenza e cultura. Alcuni sono
centrati su nuovi modi di scambiare e produrre
valore, attraverso il superamento delle barriere tra
proprietà ed uso, tra affitto e prestito, tra
accessibilità ed esclusione; altri invece mettono in
atto modi nuovi di spostarsi, di produrre energia, di
impattare meno sull’ambiente, trasformando
comportamenti quotidiani in atteggiamenti di
responsabilità sociale. Altri ancora, dalla nuova
agricoltura alla diffusione dell’artigianato 2.0,
rivisitano le forme della produzione e del lavoro;
per queste pratiche fare è un modo di stare nel
mondo: orientamento pratico, tensione
progettuale, conversazione riflessiva con gli
oggetti del proprio fare e con la propria comunità
di riferimento.
I segnali di futuro permettono di mettere a fuoco
alcuni nessi tra innovazione dal basso,
generazione di valore condiviso e processi di
impresa in campo urbano, che vorremmo
discutere a partire da sei prospettive di relazione.
Il primo nesso è quello tra crisi, innovazione
urbana e impresa. La crisi economica ha
accelerato i processi innovativi. Giovani e meno
giovani inventano e re-inventano (sono costretti a
farlo) la propria occupabilità: riformulano
problemi, trovano soluzioni innovative. Le piccole
economie che ne nascono spesso sono di
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sussistenza e di autoimpiego, ma potrebbero
evolvere verso forme più evolute. Ne consegue
che il fare impresa è relativamente più facile che
in passato, perché il costo opportunità è più
basso: le opportunità altre sono meno possibili,
così come i redditi elevati. Diventa impresa ciò
che, fino a non molto tempo fa, non sarebbe
stato concepito come terreno dell’intraprendere.
Il civismo si fa lavoro e, sempre più spesso,
impresa, sia nel senso che le forme associative in
molti casi diventano punti di partenza per fare
impresa (in forma cooperativa o come srl, in
alcuni casi impresa sociale), ma anche che temi
civici (come la condivisione o lo stare bene
insieme) diventano occasioni di impresa.
Producono commons per la società: regole,
standard, dispositivi. Facendosi veicoli di
innovazione urbana, danno luogo a nuove
modalità di trattamento di domande sociali,
producono nuove relazioni nella comunità.
Generano “energia sociale” (Hirschman, 1984). Si
comportano come “istituzioni intelligenti”, che
generano nuove capabilities e ne facilitano la
diffusione (Donolo, 1997).
Il secondo nesso è tra processi di progettazione
e processi di implementazione nell’innovazione
urbana. Le pratiche osservate imparano e
innovano facendo e interagendo. L’interazione
con clienti, utenti, partner è centrale nelle
pratiche, in quanto è fattore abilitante, di
coesione interna, di conoscenza del mercato, di
sopravvivenza e condizione per la replicabilità e
la scalabilità. Sono forme di progettazione
integrata, secondo diverse accezioni: perché nel
corso del loro sviluppo si allargano e
riconnettono più sistemi di azione; perché sono
l’esito dell’azione di attori che al principio si
pensavano soltanto come progettisti di una
policy, ma che scoprono, nel corso del processo,
di voler sperimentare nuovi ruoli e si muovono
verso l’attivazione in prima persona, integrando
così più fasi diverse del ciclo di policy (dal
disegno alla gestione); perché, per trattare un
problema locale, devono riuscire a mobilitare
risorse e attori non locali, ridefinendo e
integrando il campo di azione (Barca, 2011).
Incorporano dimensioni di design e making. E si
rifiutano di distinguerle: la prima si completa con
la seconda e il “fare” dà la misura della rilevanza
del progetto. Sanno che l’incontro con la
realizzazione interroga la progettazione, è
strategia di indagine che apre ad una
conversione riflessiva con l’oggetto del proprio
esercizio di design (Schön, 1987). Ma soprattutto
– per questo sono rilevanti – trattano queste due
dimensioni in modo originale: design non è
planning e making non è solo fare irriflessivo.
Design è piuttosto attività anticipatoria, che si
colloca “always one step ahead of the material”
cui è riferita (Sennett, 2008 - p. 175). D’altro canto,
il fare interroga il pensiero progettuale in modo
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di comunità
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inconsueto: “if the mind wants to be involved in
the process of making, it must be not only open
but forward-looking, in the direction of as-yetunknown creation” (Spuybroek, 2011 - p. 160).
Il terzo nesso riguarda la relazione tra fare impresa
e politiche pubbliche. Va riconosciuto che oggi
sono ormai largamente cadute le barriere
ideologiche sull’impresa, per cui il valore creato
può avere utilità sociale ed essere condiviso a
beneficio di tutti i portatori di interesse. Anche le
imprese con finalità di lucro si rivolgono alla
comunità come attore rilevante del processo
produttivo, nella dinamiche di open innovation e di
co-progettazione di beni e servizi più vicini ai
bisogni dei cittadini. La funzione di produzione non
considera più solo l’utilità del consumatore ma
l’utilità sociale, intesa come beneficio collettivo
per una determinata comunità, che l’attività di
impresa è in grado di generare.
Le imprese che hanno questa etica possono
trattare problemi pubblici, non solo le istituzioni.
D’altro canto, gruppi e individui paiono sempre più
interessati alle policy, prima lo erano alla politics.
Gli attori dell’innovazione sono più imprenditori
che lavoratori. Indipendentemente dalle
infrastrutture giuridiche e dalla definizione dei
contratti (anche nel caso del volontariato), i
protagonisti delle pratiche imprendono, assumono
dei rischi, rinunciano momentaneamente al
reddito, validano continuamente prodotti e servizi
e li adattano ai bisogni. E infatti le forme giuridiche
adottate sono le più varie, e cambiano nel tempo;
gruppi informali, associazioni, imprese cooperative
e imprese a responsabilità limitata, consorzi e reti
d’impresa sono i vestiti formali delle pratiche.
Su un piano più generale, alcuni segnali di futuro
producono servizi oltre la sfera del pubblico,
spesso in competizione con le istituzioni, alieni da
logiche tipiche della erogazione di servizi pubblici
in regime di accreditamento. Ciò non esclude la
collaborazione con il settore pubblico;
abbandonando l’approccio della sussidiarietà, il
fare impresa (di comunità) sollecita la
riqualificazione della sfera pubblica, secondo la
logica della distinzione e dei processi abilitanti.
Nel fare impresa la dimensione pubblica assume
una rilevanza identitaria e strategica. I segnali di
futuro indicano che l’obiettivo dell’imprendere non
è solo profitto o il reddito ma che, al contrario, va
affermandosi un modello in cui la dimensione di
utilità pubblica (produzione di beni pubblici,
esternalità positive, ecc.) sta diventando
prevalente.
In altri paesi, questo tipo di processi è
riconosciuto da tempo e sostenuto. Un confronto
serio con quanto avvenuto nel Regno Unito, nel
lungo ciclo che pigramente definiamo “neoliberista” (intrapreso da Thatcher, proseguito in
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qualche modo con Blair e giunto a Cameron),
metterebbe in evidenza connessioni interessanti
fra orientamenti di politics e attivazione della
società nelle policies. Da un lato, occorre notare
che la politica di deregolamentazione dei governi
conservatori inglesi a partire dalla fine degli anni
Settanta, riducendo l’ampiezza dell’intervento
statale e la capacità di penetrazione nella
società, ha permesso l’emergere di approcci
innovativi alla produzione di beni pubblici.
Dall’altro, va detto che la strategia della Big
Society di Cameron, perseguendo un approccio
da “stato minimo” e trasferendo sempre maggiori
spazi di autonomia alle organizzazioni della
società civile, colloca l’azione delle community
enterprises nel quadro più generale della riforma
del sistema dei poteri pubblici. Alle comunità
locali, il Localism Act del 2011 affida infatti diversi
diritti, tra i quali quello di gestire servizi
attualmente erogati dall’ente locale (right to
challenge); di acquisire un asset (pubblico o
privato, inserito in specifiche liste di assets of
community value), attraverso la partecipazione
ad una gara (right to bid); di proporre sviluppi
immobiliari (community-led developments),
redigendo un neighbourhood plan (right to
build)4.
4 Nell’ambito della prospettiva
“From the Big State to the Big
Society”, il Governo ha proposto
il Localism Act, una riforma
che agisce sia sul terreno del
decentramento amministrativo
che su quello delle politiche
urbane (Cossa, 2014).
5 Così avviene in alcuni casi di
comunity enterprises indagati
da Sara Le Xuan e Luca Tricarico
(Le Xuan, Tricarico, 2014).
Il quarto nesso riguarda l’innovazione urbana e il
conflitto. Molte innovazioni scaturiscono, anche
indirettamente, dal conflitto e dalla messa in
discussione del modello economico e sociale
dominante. In alcuni casi, come
contrapposizione a progetti sgraditi, gruppi e
associazioni non confinano se stessi alle sole
strategie di tipo Nimby, ma piegano il conflitto
alla produzione di controprogetti, si mobilitano
attivamente per dare corso a differenti proposte,
trovando in questi la palestra per affinare
capacità e crescere nell’organizzazione5. Dal
conflitto nasce l’auto-organizzazione, la
condivisione, il fare con meno, che leggiamo in
molte pratiche, apparentemente lontane dai
luoghi e dagli attori del conflitto. In altri casi,
alcune tra le innovazioni interessanti si
configurano come un sabotaggio delle prassi
consolidate, infrazione di regole scritte e non
scritte. Ciò avviene quando una molteplicità di
gruppi e iniziative dal basso forniscono di fatto
beni e servizi lasciati scoperti da altri operatori,
pubblici o di mercato, ma lo fa al di fuori di un
perimetro formale, a volte addirittura in modo
illegale. La formalizzazione e
l’istituzionalizzazione di queste pratiche allora
non hanno solo a che vedere con la forma
giuridica in senso stretto (impresa, cooperativa,
associazione, …), quanto con il senso che queste
sperimentazioni assumono, e con la possibilità
di consolidarle, irrobustirle, eventualmente
diffonderle, piuttosto che irrigidirle con requisiti
formali.
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di comunità
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Il quinto nesso è tra fare impresa e fare in
condivisione. Le due cose vanno insieme.
Le ragioni sono legate alla disponibilità di
risorse, alla ricerca di legami, alla condivisione
delle responsabilità, all’accesso a clienti. La
condivisione è interpretata spesso come bene
di club. L’interazione analogica e quella digitale
si mischiano e diventano strumenti per abilitare
collaborazioni e condivisioni. Le pratiche di
questa natura si presentano come un “pubblico
minore”, che si costituisce per l’occasione, su
base volontaristica, per reciproca utilità e con
legami solidaristici (Bianchetti, 2014). Sono
“spazi della condivisione”, dove si danno azioni
orientate (intenzionalmente o meno) a ispessire
il legame sociale. Si collocano a metà tra la pura
appropriazione individualistica e l’ossessione
comunitaria. Sono lontane dal comunitarismo
regressivo delle gated communities, mentre
sembrano reinterpretare in chiave progettuale
le prospettive insorgenti del comunitarismo
bottom-up.
Un ultimo nesso è tra innovazione e processi di
partecipazione. Le pratiche di cui parliamo sono
una forma emergente di presa in carico di problemi
pubblici da parte della società. Sono agiti da attori
che – lo avevo colto Paolo Fareri circa quindici anni
fa – ”implementano politiche pubbliche “di fatto”,
che si affiancano, si contrappongono o spesso si
sostituiscono a quelle istituzionali” (Fareri, 2009).
Sono forme di produzione del pubblico, secondo
regimi che non sono di supplenza né nei confronti
del pubblico, né del privato. Sarebbe riduttivo
leggerli come risposte a market failures o state
failures. E neppure pare pertinente richiamare la
nozione di sussidiarietà, che ”raramente ricopre
la cooperazione tra pari” (Pichierri, 2014 – p. 209).
Sono – sempre seguendo Pichierri – ordinamenti
produttivi di “beni pubblici locali”6. Sono molto
lontani dalle esperienze di community involvement
degli anni Settanta, che erano manifestazioni di
un conflitto urbano organizzato attorno ad issues
definite dai grandi organizzatori della domanda
sociale. Ma non sono neppure l’esito di pratiche
partecipative codificate secondo percorsi di
“partecipazione progettata”, come nei numerosi
esercizi di democrazia deliberativa che affollano
l’arena pubblica. Hanno superato il problema di
avanzare domande alla sfera politica. Non hanno
bisogno di chiedere, perché semplicemente fanno,
rendendo così vetusta la partecipazione come
maieutica delle volizioni degli attori, che continua
a costituire l’orizzonte teorico-metodologico
della partecipazione assistita (Romano, 2012).
Sono l’espressione di attori che, non volendo più
ingaggiare un confronto con la politics o avendo
smesso di esserne fonte di legittimazione, hanno
iniziato a occuparsi di policies.
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Contesti urbani tra sperimentazione e
consolidamento delle innovazioni dal basso
Oggi le città manifestano domande di intervento
che sollecitano nuove forme di impresa. La prima
fa riferimento all’housing. Le difficoltà crescenti
nella produzione e nella gestione di abitazioni
sociali ha reso evidenti i limiti dell’offerta
pubblica. La necessità di reperire “gestori
sociali”, in grado di condurre in modi più efficienti
gli alloggi di edilizia residenziale pubblica, ma
soprattutto di associare funzioni di property e
facility management a quelle di promozione
della coesione sociale, apre un campo di azione
molto ampio per soggetti come le imprese
di comunità. Si pensi infatti alla possibilità di
affidare loro la gestione di parti del patrimonio
Erp di proprietà delle aziende ex Iacp, degli
stessi Comuni o di altri enti pubblici, sulla base
di progetti costruiti per ambiti territoriali, che
associno la gestione immobiliare alla provvista
di servizi complementari alla residenza e alla
attuazione di iniziative di inclusione. Un altro
esempio è l’ipotesi di procedere con interventi
di alienazione di alloggi Erp, non a favore del
singolo occupante, ma di gruppi di abitanti
costituiti in cooperative. Ciò permetterebbe di
irrobustire il profilo di questi soggetti attraverso
strategie di patrimonializzazione.
6 Una straordinaria ricerca
sulla produzione di beni pubblici
locali nell’Appennino emilianoromagnolo è quella curata dal
Nuval / Regione Emilia Romagna
(Nuval, 2009).
7 Il primo local impact fund
in Gran Bretagna è quello di
Liverpool City Region (http://
www.sibgroup.org.uk/lif/pilot/)
La seconda dimensione insiste sugli aspetti
gestionali, ma estende le possibilità di interventi
dal campo dell’housing a quello più generale
del patrimonio immobiliare pubblico. Gli
esempi non mancano: a Milano vi sono alcune
esperienze di frontiera su questo fronte. Il
Comune sta infatti sperimentando modalità
di assegnazione di immobili di proprietà che
versano in condizioni di abbandono o comunque
di degrado ad associazioni e gruppi, a fronte di
progetti con finalità sociali e culturali. Tuttavia
il tema si può ampliare anche alla gestione di
beni pubblici, quali aree verdi o impianti sportivi,
dove sollecitare la presa in carico di questi beni
da parte di gruppi di abitanti, che potranno poi
consolidarsi in imprese di comunità. Esperienze
di questa natura sono ormai diffuse in molte città
d’Europa e la stessa Commissione le presenta
come esempi di buone pratiche per avvicinare i
traguardi delle Cities of Tomorrow (EC, 2011).
Un’ultima dimensione importante è quella delle
community enterprises come esempi dei nuovi
makers urbani. C’è una cospicua letteratura e
diverse esperienze che indicano nella crescita
di filiere urbane innovative, che connettono
produzione e servizi, e mostrano spiccata
propensione alla sperimentazione nei modelli
organizzativi, un potente fattore di sviluppo. Si
pensi, ad esempio, al capitolo dell’economia
della condivisione o della collaborazione, la
cui espansione risponde certo ad esigenze
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di comunità
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maturate in una congiuntura economica di crisi,
ma che contiene anche indizi rilevanti, in termini di
ridefinizione dei modelli di crescita, dell’emergere
di nuovi attori dello sviluppo e di nuove forme di
collaborazione. È evidente come si tratti di un
ambito potenzialmente ricco per la nascita e
il consolidamento di imprese di comunità, con
significativi radicamenti locali, sia in ambito urbano
che nelle aree interne.
cambiamento locale. Prime riflessioni in questo
senso stanno emergendo a Milano da parte della
rete dei Laboratori Urbani ormai presenti in vari
quartieri, relative all’integrazione tra politiche
di rigenerazione, housing e inclusione sociale.
Inoltre è possibile pensare, sempre nel contesto
milanese, alle iniziative di coesione sociale
promosse da Fondazione Cariplo o anche ai casi
di progetti al confine tra rigenerazione urbana e
promozione delle culture locali (come “Dencity”
al Giambellino).
Conclusioni: innovazione territoriale dal basso
verso l’impresa di comunità
Che ruolo svolge il soggetto pubblico in tutto
ciò? Noi pensiamo debba soprattutto costruire
condizioni per la diffusione dell’innovazione
e la capacitazione degli attori; orientare le
risorse finanziarie sui processi abilitanti
distogliendole dalle opere; irrobustire il profilo
progettuale e di capacità di management della
società, anche pensando a favorire occasioni di
patrimonializzazione per le comunità, chiamate
non più solo alle sfide della progettazione e della
gestione, ma anche a quella dell’acquisizione di
asset pubblici. Come chiarisce un documento
di linee guida in questo campo, elaborato dal
Ministero del Tesoro inglese: “the public sector
holds financial, corporate and physical assets
in the pursuit of policy objectives and not
for its own sake or for the creation of profit”
(Lowe, 2008 – p. 4). Su questo stesso filone di
ragionamento, si pone il capitolo dei fondi per
il community development: potrebbe essere il
tempo di sperimentare anche nel nostro paese
impact funds per sostenere lo sviluppo di
economie locali7.
A partire da questi ultimi punti sugli ambiti
d’azione privilegiati e dalle questioni poste all’inizio
dell’articolo, è possibile proporre alcune riflessioni
conclusive: i contesti urbani contemporanei,
contraddistinti da emergere di bisogni non trattati,
e allo stesso da forme, seppure embrionali, di
attivismo dal basso, possono essere visti come
sistemi integrati di azione plurimi dove esercitare
l’intervento delle imprese di comunità.
Le esperienze citate, insieme a moltissime altre nel
nostro Paese, indicano un movimento importante
verso il trattamento di problemi collettivi o verso
la valorizzazione di opportunità di intervento in
ambito pubblico, per i quali la società si mobilita e
tende a fare da sé, o in un rapporto con il settore
pubblico che vuole essere di confronto; non
sussidiario ma di co-progettazione; non da rent
seeker ma di natura agonistica.
In alcuni casi, le istituzioni hanno favorito e
accompagnato l’emergere di questo fenomeno.
Un esempio noto è quello dell’iniziativa Bollenti
Spiriti di Regione Puglia. Vanno segnalati inoltre
i numerosi bandi, gare, call per idee progettuali,
contest che amministrazioni locali – a volte in
partenariato con fondazioni, organizzazioni,
imprese – hanno lanciato in questi anni per, ad
esempio, proporre nuovi programmi funzionali per
immobili, impianti o aree dismesse. In alcuni casi,
non hanno solo sollecitato un coinvolgimento
sul piano progettuale, ma hanno anche richiesto
impegno in termini di gestione. Da questo punto
di vista, l’esperienza dei Laboratori Urbani della
Regione Puglia – immobili dismessi di proprietà
dei comuni, la cui gestione è affidata, via bando,
ad imprese e associazioni di giovani – è un caso
di riferimento. Ma basta anche gettare lo sguardo
fuori dall’Italia e la casistica diventa molto amplia
(Karvonen, Van Heur, 2014).
In molti contesti, si diffondono iniziative
caratterizzate dalla cura dei meccanismi di
integrazione tra protagonismo sociale e resto della
comunità. Si tratta di strutture, regolazioni, policy
tools, che cercano di disegnare e accompagnare
mobilitazione degli attori e prospettive di
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Riconoscere e ingaggiare nuovi attori
In conclusione, i terreni su cui esercitare
l’innovazione sono numerosi. A puro titolo di
esempio:
– co-produzione dei servizi: utenti come erogatori
del servizio nei quartieri difficili delle città;
– riciclo di spazi e immobili in disuso, in via di
dismissione, solo parzialmente occupati, attivi
solo poche ore al giorno;
– gestione dell’housing e coesione sociale,
con la diffusione di gestori sociali, capaci
di associare alle funzioni tradizionali di
property e facility management, progetti di
coesione e rigenerazione, potendo disporre di
spazi per erogare servizi urbani e beni immobili
da valorizzare;
– servizi per la mobilità alternativa nelle aree a
domanda debole;
– servizi ambientali ed energie rinnovabili:
filiera bosco-legno-energia, contrasto ai
rischi ambientali e cura del paesaggio;
– sostegno alla nascita e al consolidamento
di imprese di comunità in campo culturale,
creativo, sociale, educativo;
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di comunità
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– promozione di laboratori urbani come presìdi
per avvicinare domanda e offerta locale di
servizi alla persona e alla comunità;
– abitabilità urbana, con interventi per la
qualificazione delle attrezzature e per
l’intensificazione dell’uso dello spazio
collettivo delle città;
– active living;
– agricoltura urbana e periurbana-filiera corta.
Sono altrettanti ambiti di sperimentazione di una
possibile agenda urbana nazionale, che identifica
campi per l’esercizio di progettazioni creative,
grazie alle quali riconoscere e ingaggiare nuovi
attori: attori del campo sociale che sperimentano
incursioni nella rigenerazione di quartiere difficili;
imprese che mettono a profitto il civismo e la
condivisione; gruppi locali e giovani creativi che
si ridefiniscono makers; cooperative sociali che
si avventurano su nuovi modelli di business.
Quelle che abbiamo citato sono fenomeni che
già avvengono: si tratterebbe di riconoscerli e, se
ritenuti interessanti, provare a dar loro gambe.
Identificare attori innovativi e aiutarli a produrre
lavoro e impresa.
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