Materiale didattico

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ALLEGATO IV- II PARTE
MAPPE CONCETTUALI:
Sul VOLUME di G. U. CAVALLERA, Andrea Angiulli e la fondazione
della Pedagogia scientifica1:
A Bologna l’incarico di Pedagogia, dal 1868 sino alla venuta di Angiulli,
era stato ricoperto da Pietro Siciliani (1835-1885), ordinario dal 1867 di
Filosofia teoretica, che lo avrebbe ripreso all’indomani del trasferimento di
Angiulli.
Siciliani, pugliese di Galatina (Lecce), pubblicato due scritti significativi,
Della pedagogia positiva e della scienza dell’educazione in Italia e Rinnovamento della
filosofia positiva in Italia. Le altre sue opere importanti sarebbero apparse a partire
dal 1876 (La critica zoologica del XIX secolo, 1876; Socialismo, darwinismo e sociologia
moderna, 1879; La scienza dell’educazione, 1879 ecc. ).
Anche Siciliani, come Angiulli, cercava una strada sua propria all’interno
del positivismo europeo. In Sul rinnovamento della filosofia positiva in Italia,
dedicato a Terenzio Mamiani della Rovere, Siciliani tentava di individuare, tra
hegeliani e positivisti, una terza via attraverso il recupero dell’insegnamento di
Vico che, a suo dire, aveva colto meglio di ogni altro il problema del metodo
(la coincidenza tra vero e certo, tra filosofia e filologia, ossia il corretto modo
d’intendere il processo storico) in filosofia, superando l’astrattezza degli
idealisti.
In realtà, l’opera costituiva una lunga analisi critica delle dottrine antiche e
contemporanee e un programma aperto di lavoro, come Siciliani scrisse
nell’ultimo capitolo, precisando che la parte propositiva sarebbe apparsa in un
successivo libro di sociologia.
Il fatto che sia Angiulli sia Siciliani volessero, pur nei consistenti contatti
con la cultura positivista europea, individuare una loro strada all’interno di un
pensiero di portata internazionale può essere spiegato non solo con la
comprensibile volontà di esprimere la propria soggettività speculativa
all’interno di un movimento estremamente complesso, ma anche con
l’esigenza, propria di pensatori operanti dopo l’Unità nazionale, di ritrovare una
identità nazionale che il positivismo di per sé non riconosceva, in quanto
portato a sottolineare, piuttosto, il primato di altre filosofie d’oltralpe. In
questo senso è significativo che ambedue i pensatori si rivolgessero all’ultimo
dei grandi filosofi italiani settecenteschi, Giambattista Vico, autore del De
antiquissima italorum sapientia.
Ambedue i pensatori si rivolgevano alla pedagogia, la sola o la principale,
tra le discipline filosofiche, capace di contribuire fattivamente allo sviluppo
nazionale, ad incidere sulla vita civile della Nazione da poco rinata.
Certo è che Siciliani avvertiva come un peso la presenza di Angiulli a
Bologna e probabilmente sentì il trasferimento del collega come una
liberazione. L’ostilità era reciproca. Nel 1882, sulla rivista di Angiulli apparve,
nella rubrica “Cenni bibliografici”, anonima ma sicuramente di Angiulli, la
recensione al saggio di Siciliani Della pedagogia scientifica in Italia, nel quale il
pensatore salentino rivendicava a sé la nascita della pedagogia scientifica,
sprezzando ogni altro. Non a caso non si cercò mai tra i due una mediazione e
la rottura divenne presto definitiva. Si trattava ormai di rivendicare il primato
di caposcuola della pedagogia positiva in Italia. In una nota della II edizione de
1
Sono state riportate in questo allegato, come anche in quello relativo alla I parte, le pagine
più significative della monografia di G. U. Cavallera. È sempre consigliata la lettura
integrale del testo.
La pedagogia, lo Stato e la famiglia la punta polemica di Angiulli contro Siciliani
era netta.
Siciliani sarebbe morto il 28 dicembre 1885, Angiulli il gennaio 1890. Al
di là di quella che era la polemica cruda tra due ex colleghi bolognesi, lo
scontro tra i due pugliesi rivelava la volontà dell’affermazione della propria
egemonia culturale in pedagogia. Il correre del tempo avrebbe imposto altri
sviluppi al positivismo italiano. Altri nomi, da Roberto Ardigò a Cesare
Lombroso, avrebbero tenuto cattedra fra fine Ottocento e i primi del
Novecento, ma indubbiamente ai due pedagogisti meridionali, così
umanamente contrapposti va il merito di aver individuato nella pedagogia la
disciplina più adatta a quel miglioramento sociale che la generazione del
Risorgimento aveva fortemente auspicato.
L’opera pedagogica più importante di Angiulli è La pedagogia, lo Stato e la
famiglia, pubblicata la prima volta nel 1876, l’anno in cui Angiulli si trasferì
all’Università di Napoli. L’importanza del volume è data dal fatto che si trattava
probabilmente la prima sistemazione organica della concezione dello Stato e
della società ipotizzata, attraverso il ruolo dell’educazione, da un positivista
italiano.
Angiulli, infatti, riconosceva da subito come la questione politica,
quella economica, quella morale, quella intellettuale e quella religiosa
costituivano un tutt’uno e come questo tutt’uno evolveva all’interno del corso
del processo storico. Se Comte restringeva il dinamismo storico al principio
intellettivo e trascurava «il fattore degli impulsi naturali e delle emozioni»,
Angiulli, invece, recuperava in pieno il tema delle emozioni, rendendo il suo
positivismo per nulla meccanicistico e deterministico. Era nella lettura generale
del processo storico che si potevano cogliere, pertanto, le leggi cosmiche e
intendere come esse potessero essere applicate ai bisogni dei singoli e della
collettività. Anche in questo caso era evidente in Angiulli l’eredità idealista o, se
vogliamo, vichiana.
Angiulli esprimeva in maniera significativa lo spirito dei tempi, di quella
parte culturale che riteneva la Chiesa un pericoloso retaggio del passato da
mettere parte e che corrispondeva, particolarmente in Italia, al forte conflitto
con la Santa Sede. Il laicismo di Angiulli era dunque senza compromessi ed egli
non esitava a lamentarsi della situazione italiana ove elementi cattolici
convivevano, nella cultura, nella politica, nel quotidiano, con elementi laici. Ciò
rendeva difficile una reale e rapida soluzione. La questione sociale, che era il
punto cruciale non si restringeva all’antagonismo delle condizioni economiche,
ma abbracciava l’antagonismo delle condizioni intellettuali, morali, religiose,
politiche. Ciò significava che occorreva riformare alla base l’incerto organismo
sociale, per il tramite del processo educativo: la chiave di volta per la rinascita
sociale (per dirla alla Littrè).
Il compito dell’educazione era eminentemente socio-politico,
concezione, questa, che egli sicuramente ricavava dalla tradizione francese
(andando a ritroso, da Comte a Rousseau), ma che in lui era fortemente legata
alla questione italiana.
Per Angiulli, «il segreto del problema educativo consiste nel cogliere in
mezzo al progresso della storia i principii che costituiscono l’evoluzione della
cultura, e applicarli nella vita di un popolo per l’attuazione dei più alti
svolgimenti». Si trattava, allora, di preparare le future generazioni alla cultura
scientifica.
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Naturalmente Angiulli sapeva molto bene che anche all’interno del
mondo pedagogico regnavano gli stessi contrasti e le stesse contraddizioni che
aveva registrato nella realtà sociale. Egli, sempre riprendendo la distinzione
comtiana, constatava che dalle scuole italiane uscivano tre parti politiche. «La
prima, che corrisponde alla fase teologica dell’educazione mentale della razza,
curva l’intelletto sotto il potere di una rivelazione immutabile, e nega la libertà
ed il progresso, e santifica la reazione. La seconda che corrisponde alla fase
dell’educazione letteraria e metafisica, emancipa il pensiero di fronte al domma,
proclama i diritti dell’uomo e della coscienza ed è rivoluzionaria, è “l’ a p r i o r
i s m o “ della teoria e della pratica, e riesce in una molteplicità di linee
divergenti fino ad annullare quei principii del diritto e della libertà, in cui nome
tende combattere. La terza, che corrisponde alla fase dell’educazione
scientifica, sostituendo alle entità del volere divino e della pura ragione, le leggi
dello sviluppo necessario dei fatti naturali e storici, contrappone ai moti della
rivoluzione e della reazione le vie che trasformano in maniera graduale e
successiva il corso degli avvenimenti». Su questa base, di indubbia
impostazione comtiana, Angiulli intendeva edificare la pedagogia scientifica.
Angiulli giudicava che la politica clericale osteggiasse i progressi della
scienza e per l’affermazione del dogma, mentre il liberalismo “astratto” voleva
«l’assoluta libertà negli ordini della scuola come negli altri ordini sociali». La
politica scientifica avrebbe dovuto mediare i due estremi. In verità, Angiulli
temeva una politica, e quindi una educazione, sia reazionaria sia che favorisse il
libero mercato e si traducesse in tal modo nel successo di una ristretta
oligarchia. Per quanto egli non fosse un socialista, vivevano in lui le esigenze di
un generale riscatto civile, per cui si potrebbe definire il suo un liberalismo
sociale, rivolto a favorire, pur nelle distinzioni dei compiti, un complessivo
miglioramento della qualità della vita.
Angiulli, che accettava come capisaldi del positivismo la sociologia di
Comte e l’evoluzionismo di Spencer, continuava aggiungendo che la teoria
della scienza educativa doveva realizzarsi in uno Stato libero.
Stato libero significava, per il pedagogista pugliese, libero da ingerenze
esterne e capace di essere un completo organismo. Ciò implicava la necessità
che lo Stato avesse la completa gestione dell’educazione della nazione. La
rivendicazione forte dello Stato educatore rientrava nella logica di opporsi sia
alle scuole religiose diffuse nella penisola, sia al diffuso analfabetismo ancora
consistente, a qualche anno dell’Unità d’Italia e dalla obbligatorietà della scuola
elementare voluta dalla Legge Casati, sia dai tentativi di stampo anglosassone di
favorire la scuola privata. Il liberismo appariva come un nemico pericoloso
almeno quanto il clericalismo.
Insisteva sull’avocazione di tutto l’insegnamento allo Stato e
condannava la diffusione dell’ignoranza sollecitando la responsabilità dei
rappresentanti della cultura. Riconosceva che le famiglie potessero provvedere
liberamente alla scelta delle scuole, purché fosse assicurato l’obbligo, e
aggiungeva ancora che era auspicabile che si vigilasse sull’istruzione avuta.
Istituire scuole non era però ancora sufficiente; occorreva determinare il
contenuto, la natura e il grado dell’istruzione. Particolarmente i contenuti
dovevano essere ben delineati nelle elementari, mentre man mano che si
andava avanti nei gradi scolastici si poteva svolgere l’insegnamento con
maggiore libertà, né questo avrebbe potuto essere diversamente nelle università
che dovevano godere di libera ricerca.
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Cosa, pertanto, occorreva insegnare nelle scuole elementari? Il leggere, lo
scrivere, il far di conto erano cose tanto ovvie, considerava Angiulli, che non
significavano più nulla se non veniva assicurato un saldo criterio interpretativo
di ciò che si leggeva e si scriveva. Il punto fondamentale non era assicurare gli
strumenti, ma il senso del loro utilizzo. «La meta dell’istruzione è di fare entrare
tutte le classi della società nelle correnti dell’incivilimento, di rendere tutti i
cittadini fattori del progresso nazionale, di fornire tutti gli individui dei mezzi
più indispensabili a preservare e migliorare la propria esistenza nel seno della
natura, della famiglia e della società». Tali mezzi erano offerti, naturalmente,
dalle conoscenze fisiche, biologiche, morali e storiche.
La sua impostazione della scuola di Stato era espressione di una precisa
concezione della vita che si traduceva nella richiesta di una scuola
essenzialmente laica, che rifiutasse nelle elementari la presenza di ogni
catechismo. Ciò che premeva ad Angiulli era la fine della presenza
dell’istruzione religiosa. «La scuola deve essere civile, laica, il catechismo non le
appartiene». Il laicismo di Angiulli giungeva alle punte estreme, anche perché in
quegli anni si lasciava libertà ai Comuni di impartire nelle scuole il catechismo.
Solo con i programmi Coppino del 1877 venne meno l’insegnamento della
religione nella scuola elementare, aprendo non pochi problemi. Il fatto è che
Angiulli, proprio di fronte alla questione dell’insegnamento religioso, riteneva
che non contasse il parere della maggioranza numerica degli italiani, dei
genitori, quanto la volontà dei pochi uomini di scienza che avevano il diritto e
il dovere di ben indirizzare la scuola. Sotto questo aspetto l’impostazione
scolastica di Angiulli era fortemente totalitaria nel senso del primato
dell’aristocrazia della cultura positivista. Angiulli non era di per sé contrario alla
religione, quanto alla ortodossia cattolica del tempo, esplicitamente avversa,
per le sue ragioni, sia ad uno Stato che considerava invasore e usurpatore sia ad
uno scientismo di cui vedeva l’esito ateistico.
L’anticlericale Angiulli si dimostrava favorevole alla religione. «Poiché la
scienza demolisce l’ortodossia, si è conchiuso ch’ella demolisca
necessariamente la religione. Invece le ortodossie si dissolvono, e la religione
rimane».
Quella di Angiulli era una religiosità scientistica, non priva di echi della
religione dell’umanità di matrice comtiana.
Il pedagogista pugliese portava il ragionamento alle seguenti conclusioni:
poiché le religioni cambiavano nel tempo, le ragioni delle trasformazioni subite
dalle religioni nascevano dal mutamento della coscienza popolare e la scienza,
la cultura era ciò che faceva avanzare la coscienza sociale sino a mettere in crisi
le forme dogmatiche delle religioni. Per Angiulli l’unica religione possibile era
quella che riconosceva le leggi naturali.
Quello di Angiulli, che pure citava il monismo spiritualista di Eduard von
Hartmann (1846-1966) e il naturalismo cosmico di David Strauss (1808-1874),
era un naturalismo radicale diffidente di ogni mediazione, per quanto poi
affermasse di non voler costituire altra ortodossia.
Angiulli non aveva perplessità: «Nelle scuole pubbliche la religione non deve
apparire, che sotto la forma storica; deve essere insegnata solamente come
esposizione oggettiva e scientifica dei diversi sistemi religiosi in vigore tra gli
uomini. Chiunque dopo una tale educazione, sentirà ancora il bisogno della
norma di una determinata credenza, avrà il diritto di congiungersi a quella setta
religiosa che gli piacerà, ma non avrà il diritto di pretendere che la comunità
civile faccia le spese di questo suo gusto particolare».
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La sicurezza interpretativa spingeva Angiulli a sostenere che esisteva e
doveva esistere una morale scientifica che mettesse da parte quella religiosa e
che dipendesse dai fatti reali e dai rapporti sociali, come ne derivava una nuova
forma d’arte più attenta alle leggi della natura.
Angiulli si rivelava un pensatore moderato che vedeva come un
obiettivo a cui tendere in politica la partecipazione di tutti. Tra l’altro, riteneva
che «L’eguaglianza morale e politica è impossibile senza l’eguaglianza
intellettiva».
Dopo avere indugiato sull’esporre il suo punto di vista sulla religione e
sulla lotta di classe, l’intellettuale si mostrava operativo nel campo che gli era
proprio e sul quale puntava ogni speranza di progresso: l’educazione.
Obiettivo della scolarizzazione doveva essere l’integrazione sociale.
Occorreva «mettere l’uomo in istato di regolare la propria condotta e come
individuo e nella sfera della famiglia e nella sfera della vita cittadina, cioè in
istato di provvedere alle condizioni materiali dell’esistenza, accrescendo la
somma delle utilità economiche, e di provvedere alle condizioni morali
dell’esistenza civile, concorrendo all’aumento della civiltà». Le discipline che
proponeva erano quelle scientifiche che sarebbero state comuni in altri
positivisti del tempo: nozioni fondamentali di matematica, sistema cosmico,
leggi meccaniche, fisiche e chimiche, biologia, sociologia, cultura estetica e
letteraria. Bisogna rilevare che Angiulli, non si limitandosi ad un semplice
elenco, ne spiega l’utilità.
Considerato che tali indicazioni potevano sembrare troppo ampie
proponeva, con una certa discrezione, che il tempo della frequenza scolastica
fosse esteso dai 7 ai 13 anni e più, e che negli asili o giardini d’infanzia «si sia
già appreso a leggere, a scrivere e ad avere tutte quelle nozioni elementari
intorno agli oggetti, alle figure geometriche, ai numeri, che riescono una
acconcia preparazione alla scuola».
Ci si trovava di fronte ad un vero progetto di riforma della scuola:
innanzitutto una scuola dell’infanzia – Angiulli non indugiava a distinguere se
asili o giardini d’infanzia, allora non sempre ben contrapposti nella pratica in
Italia - che fosse preparatoria a quella dell’obbligo e alla fin fine, dell’obbligo
anch’essa. La scuola dell’obbligo dovrebbe essere estesa ai 13 anni. Dopo le
elementari dovrebbero essere istituite delle scuole di complemento, quella che
oggi diremmo una scuola professionale. Angiulli annotava che queste scuole in
qualche misura già esistevano, ma non nei piccoli Comuni. L’importante era
che si andasse a scuola e che si diffondesse il sapere.
Angiulli non credeva l’educazione scientifica contraria o inadatta allo
sviluppo mentale della prima età. «Il vero è che lo sviluppo mentale
dell’individuo debba cominciare, come quello della razza, dalle rappresentazioni
concrete e sensibili, più vicine al dominio dell’immaginazione. Ma
l’interpretazione di questi fatti sensibili deve essere scientifica, in luogo di
essere mitica o ontologica, perché la prima può esser vera, e la seconda è
oramai falsa». Inoltre l’acquisizione della nozione scientifica, che si basava
sull’esperienza concreta, era più facile di quella teologica, chiaramente astratta.
Anche qui, dovevano essere impartite le nozioni scientifiche più certe ed
elementari. Il tema della razza era un aspetto che la cultura positivista aveva
largamente presente e che ricavava sia dall’accentuazione dei temi
dell’ereditarietà e della filogenesi, sia dallo studio delle lingue delle tradizioni
orientali, sì da condurre da un lato alle tipizzazioni locali, sia da un punto di
vista culturale sia da un punto di vista biologico, e dall’altro all’origine unitaria
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della diffusione della razza indoeuropea. Elementi che si sarebbero tradotti in
altrettanti percorsi, utilizzati sia dagli studiosi di eugenetica in funzione di un
rafforzamento della fisiologia umana sia dai pedagogisti per consentire di avere
meglio presente i punti di partenza degli alunni nel mero processo educativo.
Vero è che in quegli anni lo studio della “razza” non generava necessariamente
il fenomeno del razzismo nei suoi aspetti estremi di intolleranza, quanto la
volontà di comprensione delle diverse realtà, col conseguente bisogno di
agevolare la diffusione culturale. Era chiaro che questo avrebbe generato la
considerazione che le razze meno evolute corrispondevano ad una età meno
evoluta del singolo individuo, con l’identificazione, compiuta da Cesare
Lombroso, del criminale come di un individuo dallo scarso o nullo sviluppo e,
quindi, generalizzando il discorso, l’identificazione delle potenzialità criminali
insite negli individui ignoranti o fisiologicamente e ereditariamente scarsamente
sviluppati.
Ritornando ad Angiulli, egli insisteva, citando studi del fisico M. Faraday
(1791-1867), del naturalista J. Tyndall (1820-1893), del filosofo H. Spencer,
dell’alienista H. Maudsley (1835-1905), sul fatto che l’educazione scientifica
potesse giovare allo sviluppo della memoria, del giudizio, del rispetto morale.
Chi praticava la scienza imparava ad essere umile, paziente, veritiero. Pertanto,
«la rigenerazione mentale degli individui, da cui dipende in ultimo la
rigenerazione della totalità sociale, è dunque affidata all’azione della scienza».
Ma se la scienza aveva queste capacità, occorreva che intervenisse lo
Stato e fornisse un numero sufficiente di insegnanti capaci. Qui Angiulli
toccava un altro tema di attualità: la scarsa preparazione degli insegnanti, oltre
che la cronica carenza di organico. Angiulli tornava ad insistere affinché lo
Stato si curasse maggiormente delle scuole elementari da cui dipendevano le
sorti delle altre scuole delle giovani generazioni. Bisognava poi riqualificare la
professione dell’insegnante e conseguentemente la sua retribuzione.
Rispettando l’etica borghese del tempo, Angiulli affermava che prima
della scuola e indipendentemente dallo Stato per l’intimità, c’era la famiglia.
Riconosceva che nel suo spazio privato una famiglia poteva essere anche
confessionale ed educare ad una confessione religiosa e che poteva esservi, nel
rispetto della legge, anche una scuola privata. Considerato che se la scuola
coinvolgeva soprattutto l’istruzione e la famiglia tutta l’educazione e nella
famiglia era il “sostrato” di tutta l’educazione, ci doveva essere un filo rosso
che collegasse famiglia - scuola – società. Angiulli metteva da parte la
tolleranza liberale. Occorreva laicizzare la famiglia.
Ciò spingeva Angiulli ad indugiare sulla natura del rapporto familiare e in
particolar modo sul compito della donna, e precisava che per i primi anni di
vita del figlio il ruolo educativo della madre era fondamentale. Riteneva, a suo
modo di vedere, che la maggior parte del carattere di un uomo si formava nei
primi anni di vita e reputava, quindi, che la madre avesse un compito
delicatissimo, insostituibile, condannando, con la consueta punta anticlericale,
ogni forma di allontanamento del piccolo dalla famiglia. Di qui la critica
all’educazione tenuta nei collegi, che Angiulli, sulla lezione di Ernest Renan
(1832-1892), noto scrittore positivista francese, giudicava introdotta dai gesuiti.
Ciò che il pedagogista rimproverava all’educazione collegiale, prescindendo
dall’astio contro i religiosi, era la disumanizzazione che, a suo modo di vedere,
avveniva in tali istituzioni. Sostanzialmente Angiulli rivendicava, e qui si
possono individuare i lati positivi del suo argomentare, l’importanza della
personalizzazione nella relazione educativa, che non poteva esistere nei collegi
dove necessariamente imperava una sorta di omologazione. Non a caso egli
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prendeva in considerazione la famiglia borghese, cioè la famiglia in cui la
donna-madre non lavorava e poteva, pertanto, dedicarsi pienamente alla cura
dei figli. Il recupero educativo della spazio domestico era possibile proprio per
la configurazione della famiglia, per la divisione dei ruoli che conferiva alla
madre quello della prima impostazione educativa, che Angiulli, giustamente,
giudicava decisiva per la formazione del carattere del figlio.
D’altra parte, corrispondeva perfettamente all’immaginario borghese del
tempo la distinzione dei ruoli tra uomo e donna, anche da un punto di vista
educativo. Al padre, nello specifico, spettava di avviare il giovane all’ingresso
sociale. Né educativamente meno importante era, per Angiulli, la relazione con
i fratelli, attraverso i quali si apprendeva ad amare il prossimo, facendo propri i
princìpi di rispetto reciproco, di obbedienza, di ordine; reprimendo l’egoismo e
favorendo lo sviluppo dell’affetto disinteressato. Occorreva, a suo modo di
intendere, che la donna avesse piena consapevolezza del suo compito
fondamentale e, quindi, che la stessa avesse un’istruzione, anche perché, per
essere educato, all’individuo non bastava l’istinto, ma bisognava larghezza e
profondità di vedute. Il modello di donna che Angiulli aveva di fonte era quello
della media borghesia, della donna madre fedele, chiusa all’interno delle mura
domestiche, ma non per questo limitata intellettualmente.
Del resto, continuava Angiulli, era stato fatto ben poco per educare le
donne, per garantire una loro reale scolarizzazione. Di qui precisi indirizzi che
si collegavano perfettamente a tutta la precedente impostazione scolastica
positivista. «L’istruzione primaria femminile deve essere obbligatoria, laica,
identica a quella degli uomini. Ma vediamo più partitamente, come la necessità
di un contenuto scientifico nell’istruzione della donna si connetta con gli uffici
che ella ha da compiere di sposa, di madre, di educatrice».
Così la donna doveva anch’essa apprendere le leggi principali che
regolavano il sistema cosmico, aver conoscenza della chimica, della biologia,
dell’igiene (sì che potesse davvero allevare con sicurezza i propri figli),
possedere nozioni delle leggi generali della psicologia, doveva conoscere la
pedagogia, la storia e la vita sociale. In altri termini, si trattava di una istruzione
prevalentemente orientata non tanto alla conoscenza in sé, ma soprattutto ad
una conoscenza che si traducesse in capacità operative nell’ambito della
famiglia.
Nella parte finale del volume Angiulli contestava con vivacità la tesi di
Spencer che il progresso intellettuale non determinava necessariamente quello
morale. Spencer sosteneva infatti che sentimenti, tendenze ereditarie e così via,
e non l’astratta ragione, producessero le azioni umane. Angiulli, da parte sua,
comprendeva che tale tesi minava tutto il suo programma riformatore ispirato
ad una forte educazione intellettuale, diminuendo notevolmente il valore
dell’istruzione, quindi della scuola e in genere della pedagogia.
Angiulli era convinto tra l’altro di una razionalità della storia che invece il
casualismo di Spencer avrebbe messo in dubbio. Anche questo spiegava perché
egli insistesse nel sostenere che l’educazione morale non era concepibile senza
quella intellettuale. Un organismo sociale non si poteva formarsi
indipendentemente da un consapevole progetto.
Il problema era allora quello di far coincidere il processo evolutivo
cosmico con il miglioramento sociale entro cui doveva avere un ruolo
predominante il processo formativo permeato dall’etica.
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Dopo la pubblicazione de La pedagogia, lo Stato e la famiglia Angiulli non stampò
per lungo tempo alcun volume. La sua attività pubblicistica si limitò per lo più
a varie recensioni apparse su “Rivista di Filosofia scientifica”, diretta da Enrico
Morselli, con condirettori R. Ardigò, G. Boccardo, G. Canestrini, G. Sergi,
periodico che voleva essere l’organo della scuola evoluzionistica in Italia. Ma
Angiulli soprattutto curò la rivista “La Rassegna Critica di opere filosofiche,
scientifiche e letterarie”, pubblicata, dal 1881 alla sua morte, in fascicoli
bimestrali e stampata a Napoli da Giannini.
“La Rassegna Critica” era organizzata con recensioni di volumi raccolti in
sezioni (“Antropologia”, “Storia”, “Scienze Giuridiche”, “Letteratura”,
“Pedagogia” ecc.), a cui seguiva la rubrica “Cenni bibliografici” con brevi
schede quasi tutte non firmate e probabilmente per mano di Angiulli, quindi le
rubriche “Rassegna dei periodici” e “Notizie”.
Alla rivista collaborarono studiosi di diverse discipline come B. Perez, C.
Lombroso, G. Sergi, M. Kerbaker, A. Codacci Pisanelli, E. Ferri, M. Scherillo.
Era prevalente l’orientamento positivista, ma certamente la varietà dei
collaboratori non consentiva che si potesse parlare di una precisa scuola legata
ad Angiulli. Era, intenzionalmente, una rivista di varia umanità, e di servizio, in
quanto offriva numerose informazioni a studiosi e a insegnanti, aggiornando
sulla produzione scientifica e didattica del tempo, ma non si organizzava
intorno ad un nucleo scientifico originale, in modo che potesse caratterizzarsi
nel panorama scientifico del tempo.
La “Rassegna critica” non era certamente l’unica rivista pedagogica e
scolastica del secondo Ottocento. Tra le altre, ricordiamo: “L’Educatore
Italiano” (1861-1885) diretto da Ignazio Cantù; “L’Educazione Nazionale”
(1889-1891), diretta da P. Garue; la “Rivista Pedagogica e di Scienze affini”
(1881), diretta da I. Bencivenni. La rivista di Angiulli si distingueva, rispetto alle
altre del suo tempo, per la connotazione meno settoriale e più aperta ai
molteplici campi delle scienze positivistiche.
Il fatto che la rivista si presentasse come una rassegna di “opere
filosofiche, scientifiche e letterarie” testimoniava, oltre ai prevalenti interessi
filosofici del direttore, un chiaro impegno volto all’approfondimento di
problemi teoretici. Quest’orientamento risulta chiaro dall’analisi dell’ultimo
volume che Angiulli pubblicava nel 1888, La filosofia e la scuola, salutato da
alcuni, non senza enfasi, come «lo scritto più completo del Positivismo
italiano».
In verità, come Angiulli scriveva nella premessa, l’opera raccoglieva gli
appunti di una serie di conferenze tenute, «in due anni successivi, nell’università
di Napoli, sul concetto della filosofia positiva o scientifica, e su la sua
importanza morale ed educativa». In altri termini, il problema etico e quello
educativo scaturivano intrinsecamente dall’impostazione speculativa che nel
testo assumeva un ruolo primario.
Angiulli delineava la nuova funzione della filosofia non nel risolvere i
massimi problemi, ma nel suo ruolo di guida, di espressione della Stimmung.
Proprio perché recuperava il volto totalitario della filosofia, cioè di una filosofia
scientia scientiarum, il pensatore non poteva semplicemente ridurla a mera
raccoglitrice e sistematrice dei dati delle singole scienze né a espressione di una
semplice temperie dei tempi. Compito della filosofia era di cogliere la legge
esplicatrice delle connessioni dei fenomeni in un tutto unico. La filosofia
doveva esprimere la concezione scientifica del mondo. Tesi, questa, che
riassumeva lo spirito di fondo del pensiero di Angiulli e che era comune a tutta
la cultura positivista, secondo la quale la filosofia non avrebbe che utilizzato gli
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apporti delle singole scienze per bandire ogni forma di trascendenza e
rifondato la logica, la cosmologia e l’etica.
Con tale prospettiva Angiulli non solo poneva, nella tradizione già aperta
da Comte, la filosofia come una sorta di religione laica, ma al tempo stesso
veniva a informare sia la questione sociale sia lo stesso ruolo dell’educazione.
Tra l’altro, con Angiulli si sottolineava il grande ruolo formativo attribuito alle
Università, non solo intese, come centri di ricerca, ma anche di promozione
sociale. Quest’ultimo aspetto avrebbe segnato una svolta interessante in quanto
l’Università avrebbe dovuto essere esplicitamente un centro di ricerca inserito
nel contesto sociale e volto a migliorarlo. Purtroppo l’auspicio di Angiulli non
fu realizzato2.
Per Angiulli il problema sull’origine del mondo fu inizialmente risolto
dall’umanità in modo mitico, attribuendo l’origine ad una creazione o
emanazione divina. Lo sviluppo della filosofia aveva invece gradualmente
ricondotto «l’origine delle cose all’esplicamento di un processo naturale». Il
pensatore ricostruiva, poi, rapidamente lo sviluppo del pensiero greco per
passare a quello rinascimentale. Altri autori brevemente illustrati erano Spinoza,
Leibniz, Kant e Hegel, quindi il discorso si concentrava su Comte, con
riferimenti alle posizioni del marchese di Laplace3 sulla formazione del sistema
solare, di Charles Lyell4 che sosteneva che le formazioni terrestri fossero il
risultato di forze naturali, di Darwin e di altri studiosi. Tutti gli studi precedenti
portavano, secondo Angiulli a far sì che la scienza moderna avesse da
affrontare il problema dell’evoluzione cosmica. Richiamando il contributo
scientifico di S. De Dominicis, escludeva dall’evoluzione cosmica ogni forza
trascendente, e, pertanto, intendeva il reale come un processo in cui tutta la
realtà si ricostituiva rinnovandosi incessantemente. In tale processo il momento
della dissoluzione dell’esistente segnava l’inizio di una nuova evoluzione,
aspetto, questo, che riprendeva il concetto vichiano di dinamismo storico.
Angiulli aggiungeva, riprendendo il Maudsley5, che l’evoluzione comportava
una continuità di natura, ma non di specie. Dopo essersi soffermato,
riferendosi alle opere di Haeckel, Huxley, Bessel, sull’evoluzione fisiologica e
biologica della vita, dimostrava, rifacendosi a Darwin, che la sfera biologica,
anticipava quella sociale su cui il pedagogista si tratteneva, riconoscendo che il
fatto sociologico in senso stretto era un prodotto naturale e che lo svolgimento
delle strutture e delle funzioni sociali era in naturale accordo con l’evoluzione
biologica. Anche in questo caso Angiulli, oltre a Comte, Littré e Spencer,
teneva presente apporti di altri studiosi del tempo come Ludwig Gumplowicz6.
Il fatto sociale aveva, quindi, una connessione biologica come, da parte sua, il
vivere insieme comportava l’accettazione di regole collettive, per cui,
considerando le tesi di Espinas, Angiulli affermava che «la rinnovazione
È interessante notare come l'esigenza di una maggiore presenza dell'Università nel contesto
sociale fosse viva anche nel mondo angloamericano,
3 Pierre Simon marchese di Laplace (1749-1827) nella sua Esposizione del sistema del mondo (1797)
presentava la cosiddetta "ipotesi nebulare" sull'origine del sistema solare.
4 Charles Lyell (1297-1875) fu professore di Geologia al Royal College di Londra e presidente
della Geological Society londinese. Tra le sue opere principali: Princìpi di geologia (1830-33),
Elementi di geologia (1838), L'antichità dell'uomo (1863).
5 Henry Maudsley (1835-1918) fu professore di Medicina Legale all'Università di Londra.
Svolse un ruolo importante per limitare la responsabilità dei delinquenti che venivano da lui
considerati non come colpevoli, ma come malati.
6 Ludwig Gumplowicz (1838-1909), professore di diritto pubblico presso l'Università di Graz,
si interessò anche di filosofia del diritto e di sociologia, elaborando la sua teoria secondo la
quale la società è fondata da "gruppi umani" sempre in lotta fra loro a causa della loro radicale
eterogeneità.
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progressiva della vita sociale implica coll’elevazione della mente collettiva il
concepimento di una meta, di un ideale di maggiore benessere da raggiungere
nell’avvenire». L’affermazione era importante perché denotava come in un
discorso prevalentemente orientato all’analisi dei fatti, si facesse strada il
concetto di dover essere. Scriveva, infatti, Angiulli che, senza la presenza di un
ideale verso cui tendere, da parte delle nuove generazioni veniva meno il
significato storico ed etico del fenomeno sociologico.
Se l’etica dipendeva dalla sociologia, suo compito era, però, di elaborare e
trasformare i fatti della vita collettiva per perfezionarli. Per questo l’etica era
una scienza essenzialmente pratica e in essa si individuavano i fondamenti della
religione e dell’arte. In questo Angiulli intendeva discostarsi dai neocriticisti
germanici che ritenevano insolubile la spiegazione dell’essenza delle cose e
dallo stesso Spencer, secondo il quale l’inconoscibile era il principio comune
della scienza e della religione. Angiulli invece intendeva andare oltre i confini
dei fatti fisici concreti, come aveva cercato di spiegare attraverso il concetto di
evoluzione cosmica.
Il pensiero di Angiulli, quindi, intendeva mediare l’aspetto biologico con
quello culturale. E questa mediazione lo conduceva ad affermare come
costitutivo dell’etica l’elemento investigativo, ossia il bisogno di andare oltre.
Pertanto il filosofo criticava ogni forma di dogmatismo religioso perché
avrebbe negato l’inevitabile sviluppo etico. Per Angiulli la perfezione morale si
realizzava nella storia. Di qui, seguendo Tylor7 e Guyau8, spiegava che la
religione aveva un’origine naturalistica per poi pervenire, col passare dei secoli,
a delle concezioni sovrasensibili che erano state messe in crisi dallo sviluppo
delle scienze. D’altra parte, il merito storico delle religioni era stato quello di
aver avuto una funzione moralizzatrice soprattutto sugli strati più bassi della
società. Al presente, la concezione dell’evoluzione cosmica sarebbe riuscita a
compendiare la morale con l’estetica come una volta aveva fatto la religione.
È inoltre significativo che Angiulli vedesse nell’etica o, come egli scriveva, nel
moralismo, ciò che avrebbe sostituito la religione. Infatti, venuta meno la
presenza della religione, secondo Angiulli il comportamento sociale sarebbe
stato determinato dalla moralità civile. Si potrebbe intravedere in queste
considerazioni un’anticipazione dello Stato etico o comunque di una
concezione totalitaria della società improntata dalla moralità pubblica.
Per Angiulli, il fatto etico era connesso con la condizione fisica, con
quella biologica, con quella sociale e con quella storica. Quello di Angiulli era,
quindi, un naturalismo etico, in cui le società impedivano, in quanto organismi,
le naturali forme di egoismo. L’organizzazione sociale rappresentava l’interesse
del tutto che era un principio antiegoistico e permetteva la giustizia. Era,
dunque, una forma di totalitarismo etico nel quale la volontà del singolo si
risolveva in quella della collettività. Il compito dell’etica, conseguentemente,
consisteva in un processo di perfezione dei diversi rami della cultura,
indirizzandoli verso un’ideale morale.
Il concetto d’ideale avrebbe dovuto, secondo Angiulli, impedire il
determinismo sociale grazie al ruolo dell’educazione che doveva servire a
preparare i giovani a raggiungere nuove conquiste nel miglioramento della vita
Edward Burnett Tylor (1832-1917) fu professore di Antropologia ad Oxford e presidente del
Royal Anthropological Institute.
8 Marie Jean Guyau (1854-1888), poeta e filosofo, fu tra i sostenitori della morale evolutiva
spenceriana prospettando che, col passare del tempo, la religione confessionale diventerà una
semplice espansione della socialità.
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umana. Per raggiungere tale obbiettivo, Angiulli si riferiva esplicitamente agli
Stati industrializzati e democratici, per cui il fine che ci si proponeva, tramite
l’istruzione, era la formazione del cittadino. Angiulli intendeva, quindi, come
altri pedagogisti del suo tempo (Siciliani, Ardigò, Gabelli), un tipo di scuola che
mettesse da parte il tradizionale impianto umanistico e si caratterizzasse per un
ammodernamento tecnico e scientifico dei programmi. Insisteva sulla presenza
nella scuola della matematica, della meccanica, della fisica, della chimica, della
fisiologia, della sociologia sottolineando nell’esigenza pratica l’ordine
pedagogico del loro insegnamento.
In realtà nei positivisti italiani vi era l’ostilità contro la tradizione
umanistica, perché a loro modo di vedere inadeguata alle nuove esigenze del
tempo, e l’esigenza di un’istruzione scientifica, facendo sì che la filosofia
positiva permeasse tutti i gradi della scuola in un’anticipazione del metodo
attivo in cui l’alunno doveva prendere coscienza di ciò che apprendeva. Era
necessario che nell’istruzione infantile «l’istruzione debba muovere dalla
cooperazione dell’esperienza stessa del bambino, e debba mirare a fargli
acquistare notizia delle proprietà e dei rapporti reali delle cose nella gradazione
della loro complessità nascente (…). Quanto poi alla scuola primaria si
affermano due cose: che essa sia educativa di tutte le attività umane, e abbracci
quindi da un lato la ginnastica, il canto, il disegno, gli esercizii più semplici del
lavoro manuale, e comprenda dall’altro in forma elementare e su la base del
metodo sperimentale le cognizioni più importanti intorno ai fatti della natura e
della vita sociale, perché ognuno divenga atto a cogliere nella vita i doveri di
uomo e di cittadino». Angiulli voleva, nella scuola dell’obbligo una maggiore
presenza di materie professionalizzanti e chiedeva che discipline come la fisica
e le scienze naturali fossero collegate ad una concezione elementare della
cosmologia in modo che l’alunno facesse proprie le caratteristiche della
filosofia positiva. In questo modo, la scuola prefigurata da Angiulli non era
affatto neutra ma orientata positivisticamente e per questo egli non riteneva
adatta nella scuola elementare la presenza del catechismo e, quindi,
dell’insegnamento della religione già scomparso, coi programmi Coppino del
1877. Difatti nella legge Coppino sull’obbligo nella scuola elementare (L. 15
luglio 1877, n. 3968), non si indicava tra le materie obbligatorie la religione, già
presente nella legge Casati (R. D. 13 novembre 1859, n. 3725), ma, al suo
posto, appariva l’insegnamento dello “studio delle prime nozioni dei diritti
dell’uomo e del cittadino”.
Per quanto riguarda la scuola media, essa doveva abbracciare l’istruzione
letteraria ma anche gli insegnamenti delle scienze naturali, storiche e morali in
modo da essere una continuazione ed un perfezionamento della scuola
primaria. In essa particolare rilevanza avrebbe dovuto avere lo studio della
filosofia, il cui intento era quello di far cogliere l’unità fra le leggi naturali e
quelle sociali e storiche in modo da garantire una visione scientifica del mondo.
La filosofia sarebbe dovuta essere studiata prima come elementi di psicologia,
quindi, come elementi di logica per far sì poi che l’alunno pervenisse ad un
concetto generale della filosofia «come dottrina della scienza e come dottrina
cosmica». Infine, «l’Università deve certamente apparecchiare al fine pratico
delle così dette professioni liberali, ma innanzi tutto ha da compiere la cultura
scientifica. La perfezione delle applicazioni pratiche dipende dalla perfezione
dell’istruzione scientifica». Angiulli auspicava che nell’Università il fine
professionale fosse in accordo con quello scientifico e rilevava che la disciplina
che più delle altre dimostrasse l’omogeneità dei metodi e delle leggi fosse la
filosofia.
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Di Angiulli restano numerose carte manoscritte per lo più illeggibili.
Esse furono in primo luogo vagliate dal suo discepolo Colozza, poi riordinate
dal nipote Angelo Francavilla. Attualmente sono in possesso del figlio di
quest’ultimo, Tommaso. In anni non lontani Alessandro Savorelli ne ha
pubblicato delle parti, tra le quali alcuni brani tratti da un Corso elementare di
psicologia di etica e di pedagogia, diviso in tre volumetti e da Problemi di scienze
dell’educazione.
Il Corso comprende cinque quaderni, di datazione incerta, mentre i
Problemi sono l’opera conclusiva di Andrea Angiulli e Colozza pensava di
pubblicarla col titolo I problemi contemporanei della Pedagogia.
Nel Corso Angiulli riteneva che la psicologia e l’etica fossero collegate tra
loro dalla biologia e che «La pedagogia è però essenzialmente una dottrina dei
mezzi educativi». Concepita la pedagogia come scienza pratica, spiegava che
essa deve individuare i modi e i mezzi per promuovere la crescita del soggetto;
costituiva una disciplina a sé e trovava la sua ragion d’essere nel soggetto da
educare e nei fini che si proponeva, anche se si giovava dell’apporto di altre
discipline quali la psicologia e l’etica. L’educazione, quindi, era un modo
dell’evoluzione biologica come quest’ultima era un modo dell’evoluzione
cosmica, e l’educazione aveva una funzione sua propria quando l’essere vivente
doveva assistere un altro più giovane per prepararlo alla lotta per la vita. In
senso più stretto l’educazione «consiste nell’attività consapevole del fine verso
del quale vogliamo indirizzare l’individuo non adulto e dei mezzi che
adoperiamo per raggiungerlo; e però tale attività si raccoglie nell’opera degli
individui sia nella famiglia sia nella scuola. La pedagogia nello stretto senso
consiste nella determinazione scientifica dei mezzi educativi». Nelle parole di
Angiulli era evidente la rivendicazione dell’autonomia della pedagogia come
disciplina a sé stante e tuttavia non poteva non identificare il fine dell’etica e
quello dell’educazione nel più generale processo di perfezionamento della
natura umana.
Rimaneva il problema di definire i fini, i mezzi e i metodi educativi, tema
che veniva affrontato nei Problemi di scienze dell’educazione.
Per quanto riguarda i fini, Angiulli reputava che essi dovevano essere
volti a promuovere le attività intellettive, emozionali e volitive e nel far
acquistare delle attitudini che consentissero di poter affrontare e soddisfare i
bisogni della vita. Tali fini rientravano nella vita individuale, ma accanto a
questa esisteva la vita sociale, la quale «ha virtù educativa in sé medesima,
perché accresce le forze della mente, produce nuove idee, nuovi sentimenti,
nuove direzioni sugli atti del volere e dell’operare, produce nuovi strumenti e
nuovi mezzi che aumentano il valore dell’esistenza». Lo scopo dell’educazione
era, allora, quello di far diventare l’individuo responsabile e, quindi, capace di
dominare gli istinti. Per tale scopo, era fondamentale quella che Angiulli
chiamava la cooperazione, cioè l’attività stessa dell’educando, «il quale non dovrà
ricevere passivamente le conoscenze, ma deve imparare ad appropriarsele e a
trovarle e ad elaborarle; non deve esser schiavo degli affetti momentanei e
cangevoli, ma deve imparare a moderarli; non deve restar schiavo dell’autorità e
del volere altrui, dell’educatore, ma deve imparare a regolare con le proprie
forze le sue azioni. Onde uno dei doveri capitali dell’educatore è di eccitare le
forze interne dell’individuo, e di svolgere la sua libertà ben regolata dal
discernimento». Sono concetti di grande interesse in cui oltre ad anticipazioni
attivistiche, è presente il concetto di autoeducazione sul quale aveva già
discusso con Siciliani. Occorre però precisare che il rapporto educativo in
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Angiulli non si restringeva alla relazione educando-educatore in quanto
importava un terzo elemento fondamentale che era l’ambiente sociale. Così il
pedagogista pugliese, che pure aveva ben rilevato il ruolo della famiglia, non
esitava ad affermare che questa stessa, per migliorarsi, aveva bisogno
dell’influenza della vita collettiva: «le idee generali, i sentimenti altruistici, la
volontà morale, si possono formare mediante la comunicazione intellettiva,
mediante i costumi della vita comune, l’autorità della volontà collettiva». In
Angiulli vi era così una specie di interazione tra famiglia e società. Da un lato, la
famiglia formava i soggetti che si sarebbero divenuti poi dei buoni cittadini,
dall’altro era la società a fornire alle famiglie le indicazioni culturali tramite le
quali queste dovevano configurarsi positivamente.
Alla luce di quanto sopra, la collettività veniva a prevalere sull’individuale:
ciò è comprensibile poiché Angiulli, come visto sopra, era convinto che gli
interessi egoistici dovessero di necessità cedere posto a quelli del gruppo, dello
Stato, poiché la stessa vita sociale avrebbe eliminato gli egoismi naturali.
Questo era tipico di tutta la tradizione positivista che intendeva rafforzare
l’unità del nuovo Stato, anche se si potrebbe osservare che questo comportava
una caratterizzazione totalitaria, giustificata dall’intento etico, ideale del
processo storico, permeato dalla logica dell’evoluzione.
Tra l’altro, affermava che sia l’arte educativa sia quella politica avevano per fine
comune una armonia nella vita collettiva che avrebbe garantito il
miglioramento sociale. Esisteva, pertanto, una forte relazione fra educazione e
politica nell’orientamento etico che ambedue dovevano esprimere. La politica
aveva, il compito favorire e promuovere la cultura e, da parte sua, l’educazione
nazionale doveva abbracciare tutti gli oggetti della cultura.
Vi era, quindi, un incontro armonico tra civiltà e politica in cui
l’intellettuale giocava un ruolo di grande importanza, anzi aveva più
precisamente un ruolo di grande importanza l’educatore.
Non bisognava pensare che, data l’esistenza dell’evoluzione e stabilito il
suo ruolo, occorresse perciò limitarsi ad adattarsi passivamente al volgere degli
eventi come avrebbe detto uno stoico; per Angiulli l’educazione aveva un ruolo
trasformatore e non meramente adattivo: «in fondo alle arti trasformatrici della
natura e della società umana, si porge la necessità dell’arte che ha a suo
soggetto l’uomo stesso, la trasformazione delle attività onde scaturiscono, cioè
l’arte dell’educazione». Il pedagogista pugliese aggiungeva che la necessità
trasformatrice, quindi innovatrice, dell’educazione cresceva con lo sviluppo
della civiltà. La tesi era interessante poiché comportava una interrelazione tra
educazione e ambiente sociale che si condizionavano l’un l’altro, in un processo
in cui le trasformazioni materiali erano il primo sostegno dell’educazione
dell’umanità. Sotto tale profilo, è chiaro come Angiulli fosse favorevole allo
sviluppo industriale e alla centralità dell’uomo nell’ambiente. La sua era una
visione antropocentrica del processo evolutivo nel quale l’individuo assumeva
sempre nuovi poteri, essendo questi solo limitato dalla trasmissione ereditaria
che circoscriveva in una direzione determinata gli interessi intellettivi. Si
manifestava, in questo caso, il tema dell’ereditarietà su cui avrebbero a lungo
insistito, per l’aspetto degenerativo e patologico Cesare Lombroso e la sua
scuola.
Angiulli comprendeva che le esperienze individuali non erano sempre
trasmissibili per via ereditaria; quelle che si sarebbero trasmesse, sarebbero state
il risultato di un lungo processo durato nel tempo. Il lungo retaggio di caratteri
ereditari per cui l’uomo, l’ soggetto dell’educazione, era costituito da elementi
innati ed elementi acquisiti, diventava per il filosofo pugliese «la cagione
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capitale dei limiti dell’educazione. Per Angiulli, il potere dell’educazione andava
ben oltre il determinismo biologico. Secondo il pedagogista, la cultura formava,
rispetto alla struttura organica, una specie di soprastruttura che la caratterizzava
singolarmente rispetto alle proprietà della razza, della famiglia, della nazione. La
varietà umana impediva, in questo modo, che le attività educative producessero
un effetto uniforme tramite un sistema educativo uniforme: ogni individuo,
quindi, sviluppava le sue potenzialità senza peraltro che queste non potessero
essere modificate. Nonostante ciò, Angiulli riconosceva l’esistenza di
disposizioni ereditarie che conducevano l’individuo al delitto o alla patologia e
che l’educazione non poteva del tutto eliminare.
Sul pensiero di Angiulli influiva tutto il determinismo biologico del suo
tempo, soprattutto per i suoi riferimenti all’ereditarietà. D’altra parte il concetto
stesso di evoluzione comportava l’accettazione di modi di essere determinati da
una concomitanza di cause diverse. Ciò potrebbe significare l’inutilità
dell’educazione. Angiulli a tal proposito avrebbe potuto osservare che il
compito dell’educazione sarebbe consistito nell’accelerare il processo evolutivo
e nel rendere esplicita la ragionevolezza dei nuovi costumi.
In ogni caso, era importante agire sul tessuto sociale, poiché la vita di
gruppo consentiva alcuni cambiamenti graduali anche perché la società stessa
era un’organizzazione progressiva. A suo dire, il primato educativo si
manifestava come primato dell’educazione sociale in una realtà che egli voleva
strutturata in modo industriale, ossia scientifico e cooperativo, e non militare.
Di qui il richiedere una seria politica che avrebbe dovuto sostituire allo stato
militare lo stato della cultura attraverso l’educazione. Su questo aspetto Angiulli
insisteva, segnalando il ruolo innovativo dell’educazione: «il problema vero
consiste nel trasferire il concetto scientifico dell’educazione nella coscienza di
un popolo».
Il discorso era ormai impostato su una visione in cui lo Stato doveva
assumersi in pieno le proprie responsabilità. L’educazione «è una funzione
sociale, è un fatto d’interesse generale nazionale, anzi umano, e la sua
attuazione deve comprendersi negli uffici superiori dello Stato». Era il punto di
arrivo di un percorso teoretico che affidava allo Stato il più alto compito di
formazione civile.
Angiulli ebbe buona fama in vita soprattutto nell’ambiente tedesco,
francese e inglese. In Italia, di là di altre recensioni a suoi saggi, si ricorda
quanto a lui dedicato nel volume di Francesco Fiorentino La filosofia
contemporanea in Italia (Morano e Margheri, Napoli 1876), e in quello di N.
Scaglione Le teorie dei pedagogisti contemporanei italiani e stranieri giudicate in rapporto
alla biologia, alla sociologia e alla filosofia positiva I, (Paravia, Torino 1889), scritti
prevalentemente espositivi del pensiero dell’Angiulli.
Dopo la scomparsa (1890), Angiulli, oltre che da Giovanni Bovio che ne
scrisse l’Elogio funebre («Avvenire educativo», IV, 1890) fu ricordato soprattutto
dal suo discepolo G. A. Colozza che ne scrisse la “voce” sul Dizionario illustrato
di pedagogia (I, Vallardi, Milano, s. d. ma 1891) poi La vita e il pensiero di A.
Angiulli (Milano, Battezzati 1891) e da F. Alterocca, Sulla vita e sulle opere di
Andrea Angiulli (Vallardi, Milano 1890).
Particolarmente interessante la “voce” Angiulli del Colozza. Questi
affermava come per Angiulli gli studi filosofici fossero un rilevante fattore
educativo e che egli, formatosi prima nell’ambiente hegeliano napoletano e poi
in quello germanico positivista, aveva integrato le teoria di Darwin e di
Spencer, insistendo sul fatto che la sociologia dovesse indagare le condizioni di
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tutti i prodotti culturali. Infine, per Angiulli l’educazione scientifica «dev’essere
la base di ogni buon indirizzo educativo, come le scienze sono alla base de’
progressi di tutta la storia moderna. Ma nella guisa che queste si integrano nella
filosofia, così l’istruzione filosofica per poter avere davvero un potere
educativo». In questo modo Colozza riconosceva come il pensiero pedagogico
di Angiulli fosse intimamente legato con quello speculativo, all’interno del
positivismo di matrice evoluzionistica.
Una svolta significativa per la fortuna critica dell’Angiulli fu però il saggio
che ne scrisse Giovanni Gentile, pubblicato ne “La critica” (VII, 1909, pp. 97120) e poi raccolto in Le origini della filosofia contemporanea in Italia II. I positivisti
(prima edizione Principato, Messina 1921). Il saggio di Gentile s’inseriva in una
complessa e sistematica opera di demolizione della cultura positivista in Italia a
favore del neoidealismo che ormai si avviava a diventare la filosofia egemone.
Gentile ricostruiva con cura la formazione hegeliana di Angiulli,
ricordando come questi fosse rimasto sempre fedele alla memoria del suo
maestro Bertrando Spaventa, nonostante il soggiorno in Germania fosse stato
decisivo per l’opzione positivista. Gentile spiegava come il pensatore pugliese si
fosse legato al pensiero di Vico e di Comte e avesse cercato di portare il
positivismo alle estreme conseguenze non ammettendo la conoscenza delle
ultime essenze delle cose, senza peraltro negare la possibilità di poter pervenire
a coteste essenze.
All’interno dell’ottica idealistica sono da ricordare due opere
significative sul positivismo: Il fallimento della pedagogia scientifica (Il Solco, Città di
Castello 1920) di F. Giuffrida e Studi sul positivismo pedagogico italiano ( La Voce,
Firenze 1921) di S. Caramella. Gli idealisti rimproveravano ai positivisti il
determinismo biologico e sociologico e soprattutto l’aver espresso una
metafisica naturalista piuttosto ingenua e dogmatica. Così Caramella
sottolineava che i volumi di Angiulli sono «espressione di un punto di vista che
si può definire come considerazione sociologica dell’istituto educativo in
quanto organo necessario al sostenersi delle istituzioni umane, e delle sue
relazioni con queste». Merito dell’Angiulli, comunque, era aver propugnato la
necessità della scuola di Stato, anche se con una caratterizzazione fortemente
areligiosa. L’impostazione idealistica divenne dominante e il positivismo in
generale fu considerato come un movimento del tutto superato, nonostante
che ad Angiulli fosse riconosciuto il merito di essere tra le menti più speculative
della corrente.
Negli anni del primato idealistico scrissero di Angiulli pedagogisti che si
erano formati alla scuola positivista come G. Tauro e L. Limentani. Da
ricordare anche, con toni un po’ celebrativi, Uomini di Puglia: A. Angiulli, S.
Castromediano, G. Massari (Ed. Apulia, Martina Franca 1916) di M. Viterbo e Il
Migliorismo nel pensiero filosofico e pedagogico di A. Angiulli ( Vecchi, Trani 1941) di
G. Silvestri. Quest’ultimo, in particolare, rilevava in Angiulli una specie di
incertezza riguardo la metafisica volendo da un lato criticarla e dall’altro
riprendendola attraverso il riconoscimento dell’ordine cosmico. Inoltre, per
Silvestri, Andrea Angiulli, proprio perché sostenitore dell’esistenza di un ordine
cosmico non può considerarsi veramente un ateo perché, a suo dire, «l’idea di
ateismo è legata a quella di caos». E tuttavia anche per Silvestri merito della
pedagogia di Angiulli è l’aver insistito sull’educazione di Stato, nonostante in
essa permanessero elementi scientisti. Equilibrato, infine, ma sempre critico
quanto su Angiulli scrisse Giovanni Calò in Dottrine e opere della storia
dell’educazione (Carabba, Lanciano 1932, pp 205-211). Sulla fortuna di Angiulli, e
in genere del positivismo, influirono negativamente sia il neoidealismo sia lo
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spiritualismo cattolico che dopo il Concordato del 1929 acquisì non poca
rilevanza nella cultura e nella politica italiana. Il neoidealismo rimproverava
sostanzialmente al positivismo (e anche ad Angiulli) il determinismo
naturalistico e scientista, ossia la debolezza metafisica, mentre riconosceva il
merito di essersi battuto per una scuola di Stato che promuoveva
l’alfabetizzazione di tutti i cittadini. Il pensiero cattolico, come del resto
traspare nella stessa opera di Silvestri, lamentava il tono fortemente anticlericale
dei suoi scritti.
Il secondo dopoguerra non mutò il giudizio sui limiti teoretici del
positivismo, entro cui la posizione di Angiulli si collocava. In tal merito si
vedano gli scritti di G. Flores d’Arcais, di S. Mandolfo, E. Liguori.
Una maggiore attenzione critica ed un equilibrato distacco
nell’illustrazione si sono avuti solo successivamente G. Impedovo e coi diversi
scritti di Francesco Cafaro. Impedovo rilevava che la filosofia di Angiulli,
ammettendo che ciò che al presente era ignoto potesse essere conosciuto un
domani, conferiva alla sua filosofia un intrinseco dinamismo; pertanto il suo
pensiero non era «strettamente chiuso nei rigidi schemi positivisti, ma aperto
verso una decisa problematica, verso una filosofia del progresso». Né Angiulli,
secondo Impedovo, poteva essere considerato veramente come antireligioso,
perché la sua critica era soltanto rivolta alle posizioni dogmatiche.
Diversamente Cafaro ha collocato il laicismo di Angiulli nel tempo che gli fu
proprio sottolineando con chiarezza gli aspetti innovativi che si trovano nella
sua opera: «l’aver propugnato molte intuizioni nuove, come la concezione
storico-sociale dell’educazione, che però va liberata dagli schemi
dell’evoluzionismo ottocentesco, la storicità dei problemi educativi, la
concezione della pedagogia come scienza sociale, la non definitività delle
soluzioni pedagogiche, la necessità di un coordinamento organico di tutti gli
studi in una prospettiva storico e filosofica, l’esigenza di un’educazione
scientifica e sociale integrata in una visione più ampia della vita, la netta
separazione dell’insegnamento laico-statale dall’educazione religiosa, una più
concreta educazione da dare alla donna e la rivalutazione della sua posizione
sociale, una più radicale e netta impostazione dei rapporti tra Stato, Chiesa e
Scuola, ne fanno un uomo moderno».
Particolare importanza, anche per il pensiero di Angiulli, ha avuto
l’antologia curata da Ugo Spirito. Spirito notava come il pugliese avesse nel suo
pensiero aspetti inaspettatamente moderni, soprattutto nella sua critica ad una
visione astratta della metafisica.
Negli anni successivi, l’interesse per il positivismo, e quindi per Angiulli, è
stato visto in toni meno polemici e più attenti alla ricostruzione del contesto
storico. Da ricordare gli studi del R. Tisato, quelli di A. Arcomano e di A.
Savorelli.
Tisato, che, per certi aspetti, fa propri alcuni elementi della distinzione
di Angiulli tra Stato e Chiesa, ha rilevato che merito del pugliese è stata
l’insistenza sul ruolo educativo che doveva avere, oltre la scuola, la famiglia. Per
Savorelli, invece, l’affidare l’educazione popolare alla classe dirigente, era
«l’esito di un progetto etico-pedagogico sempre oscillante tra l’esigenza di una
morale tendenzialmente universalistica e il generoso seppur malagevole
primato di una élite illuminata: nella cui riproposizione, alle soglie di un’era di
convulsioni storiche che segnavano l’abbandono dei principi liberali, si
riaffacciavano, sempre più complessi, i problemi irrisolti del Risorgimento
nazionale». Occorre, infatti, rileggere Angiulli nel preciso contesto storico in cui
ha operato.
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