ALLEGATO IV –I PARTE MAPPE CONCETTUALI: Sul VOLUME di G. U. CAVALLERA, Andrea Angiulli e la fondazione della Pedagogia scientifica: Andrea Angiulli, nato a Castellana in Terra di Bari nel 1837 e morto a Napoli nel 1890,dopo un breve periodo di insegnamento nei licei di Napoli, fu dal 1872 al 1876 professore di Pedagogia all’Università di Bologna e, dal 1876, succedendo a Edoardo Fusco, professore ordinario di Pedagogia all’Università di Napoli sino alla sua morte. Autore di tre importanti volumi (La filosofia e la ricerca positiva, 1868; La pedagogia, lo stato e la famiglia, 1876; La filosofia e la scuola, 1888), direttore dal 1881 alla morte della “Rassegna di opere filosofiche, scientifiche e letterarie”, è stato sicuramente uno dei capiscuola del positivismo italiano, in cui le tesi di Comte e Littré, di Mill e di Spencer hanno avuto un ripensamento alla luce del materialismo di Haeckel. È considerato uno dei fondatori della cosiddetta pedagogia scientifica, di una pedagogia, cioè, che si fondava su scienze come l’antropologia, la sociologia, la psicologia ecc. e che guardava con attenzione ai temi della scuola e della famiglia. Tra gli autori che hanno scritto su Angiulli va ricordato anzitutto il suo discepolo più caro, Giovanni Antonio Colozza; sua è la voce sul Dizionario illustrato di pedagogia diretto da Martinazzoli e Credaro in cui si dà un ritratto del professore carico anche di sincero affetto. E Colozza fu per qualche anno collega, all’Università di Palermo, di Giovanni Gentile, che lo aveva in stima. Gentile, che pure considerava Angiulli una mente speculativamente forte e a cui rimproverava la scarsa produzione scientifica fu, come è noto, autore di un’opera che divenne un punto di riferimento il mondo filosofico italiano, Le origini della filosofia contemporanea in Italia, pubblicata in 4 volumi, tra il 1917 e il 1920, dal Principato di Messina e che raccoglieva numerosi saggi apparsi, nei primi anni del secolo, su “La Critica” fondata da Croce e Gentile nel 1903 e diretta da Benedetto Croce. Si trattava di saggi molto severi, scritti anche nell’intento di contestare una filosofia in declino qual era in quei tempi il positivismo, avversi al neokantismo e sostenitori del neoidealismo di Spaventa. Le dure critiche di Gentile furono, per quanto riguarda il positivismo, accettate dal clima spiritualistico della prima metà del Novecento, e proprio a causa dell’autorevolezza del giudizio del filosofo siciliano si spiega anche la scarsa fortuna critica dei filosofi e pedagogisti positivisti durante il periodo dell’egemonia filosofica neoidealista. Il giudizio di Giovanni Gentile ha pesato a lungo sugli studi sul positivismo in Italia. Solo con gli anni Sessanta la produzione positivista ricominciò a essere studiata con maggior oggettività e rivalutata da studiosi come Renato Tisato e Francesco Cafaro. Di là degli intenti, il taglio dell’analisi di Gentile era comunque basato sulla diretta lettura dei testi e sul confronto sui temi più significativi, poco insistendo sul contesto storico, relativamente a lui vicino. In questo e per questo la lettura interpretativa di Gentile era chiaramente speculativa, e del resto ciò era altresì sollecitato dalla natura stessa delle opere stesse di Angiulli, ma anche di Siciliani, Ardigò, i quali, proprio insistendo sulla “scientificità” della loro elaborazione, la separavano dal contesto e ne mettevano in luce i tratti, per così dire, oggettivi, in una logica scientista che voleva essere atemporale e, se proprio di tempo si doveva parlare, questo era quello dell’evoluzione, determinato dallo sviluppo biologico e dalle necessità organiche, più che propriamente sociali. In tempi più recenti lo studioso che più si è interessato al pensiero di Andrea Angiulli è stato Alessandro Savorelli, curatore, tra l’altro, del volume Gli hegeliani e i positivisti in Italia, nel quale vengono raccolti e pubblicati alcuni saggi inediti del filosofo di Castellana verso il quale, tuttavia, Savorelli si è dimostrato alquanto ingeneroso, contestando anche l’importanza di tutto il positivismo italiano. La fortuna critica di Angiulli cominciò ben presto a scemare, anche a causa della mancanza di una sua propria scuola, ma occorre anche considerare come, poco tempo dalla sua morte, peraltro prematura, tutta l’opera sua, di Pietro Siciliani e degli altri positivisti sia stata travolta dalla revanche neoidealista che si prefiggeva la demolizione della filosofia positivista italiana. Angiulli riconosceva la necessità di una scuola dell’obbligo statale, che egli voleva estesa fino ai 13 anni e organizzata sistematicamente secondo le nuove esigenze dell’epoca (dando, cioè, risalto alle materie scientifiche che dovevano educare le nuove generazioni ad avviarsi ad un’età di grande fermento sociale e culturale, oltre che feconda di notevoli scoperte e invenzioni scientifiche e industriali), al contrario dei raccogliticci e anacronistici programmi scolastici della scuola popolare di allora, e, ancora, quanta importanza riservava nel suo pensiero Angiulli verso la donna, denotando acutamente l’importanza del suo ruolo educativo all’interno della famiglia e, quindi, ribadendo la necessità che anche la donna, in quanto madre e di conseguenza prima educatrice, doveva di necessità ricevere un’educazione completa. Questa nuova concezione del ruolo femminile dimostra poi la funzione decisiva che il filosofo riservava alla famiglia, in quanto questa era la prima istituzione educativa, necessaria per formare le menti delle future generazioni, che avrebbe dovuto integrare e precedere l’istruzione statale, venendone a sua volta informata. Non bisogna infatti dimenticare che il ruolo importante svolto dai positivisti italiani è stato quello di coinvolgere scuola e famiglia nella formazione dei cittadini del neonato Regno d’Italia, che necessitava di un’istituzione scolastica unitaria e coesa e l’impegno di pensatori come Angiulli, Gabelli, Siciliani in campo educativo è stato quanto meno positivo per la riconsiderazione dell’educazione femminile e per la diffusione in tutta la Penisola di una scuola di Stato pubblica e gratuita, anche se essa in molti casi rimaneva una chimera. D’altra parte, basta soltanto considerare la vicenda della vita intellettuale di Angiulli per rendersi conto di quanto sia interessante la sua figura: la sua formazione nell’ambito della scuola idealistica napoletana di Bertrando Spaventa, la sua clamorosa conversione berlinese al positivismo che gli valse il sarcasmo di Gentile, il ritorno a Napoli come professore trovandosi dinanzi il suo vecchio maestro e la sua scuola come duri avversari, ai quali tuttavia Angiulli rimaneva per certi versi legato da stima profonda. Sentimenti rispettosi che non certo vennero rivolti al suo collega Pietro Siciliani, col quale Angiulli ebbe una durissima polemica che si protrasse sino alla vigilia della morte del pensatore salentino, polemica che nel corso del saggio viene ampiamente descritta e riportata. La formazione di stampo idealista ricevuta a Napoli lasciò un’impronta costante nel pensiero del filosofo che, pur nella sua adesione decisa alla nuova 2 filosofia conosciuta oltralpe, aveva mantenuto fortemente l’impostazione storicistica e dialettica propria della cerchia di Spaventa, tenendo d’altra parte presente la filosofia di Giovanbattista Vico, attraverso la quale Angiulli filtrò e contestò la concezione evoluzionistica e determinista spenceriana. Attacchi nei suoi confronti furono portati sia dalle gerarchie ecclesiastiche, che non potevano tollerare il suo deciso anticlericalismo, sia dalla élite conservatrice che lo accusava, non correttamente, di essere un socialista. Accuse che sembrano permanere tuttora intorno alla memoria di Angiulli, se nel 2001, in un articolo di un giornale locale, il filosofo veniva definito:”Figlio ingrato di Castellana”, Giudizio che peraltro Alessandro Savorelli, nel centenario della morte del filosofo, aveva anticipato definendo Angiulli un teorico che non seppe o non volle curarsi fattivamente dei problemi della sua terra. Eppure Angiulli rischiò il carcere nel cospirare contro la monarchia borbonica dettando proclami alle popolazioni meridionali, quando ancora era un giovane studente, e ben tre volte si candidò come deputato nella sua provincia, senza mai ricevere il consenso dei suoi cittadini, pertanto non ritengo sia corretto apostrofare il filosofo di disinteresse verso la sua terra natia. L’illustrazione del pensiero di Angiulli è stata svolta nel presente saggio in chiave storica, ossia esaminando i suoi testi e l’evoluzione del suo pensiero cronologicamente e tenendo presente il contesto in cui si collocava. Andrea Angiulli, partecipò di prima persona all’unificazione d’Italia, prendendo parte con passione alla propaganda sovversiva all’interno del Regno delle Due Sicilie alla vigilia dell’impresa dei Mille e visse con turbamento le vicende del 20 settembre e la contrapposizione tra Stato e Chiesa. Nel ricordare l’anticlericalismo, che in Angiulli è stato aspro, talvolta addirittura ostentato con dichiarazioni astiose, bisogna tener presente, oltre al suo orientamento filosofico che non poteva non renderlo avverso all’intransigenza della Chiesa di allora, l’appartenenza del pedagogista alla massoneria, allora decisamente ostile al Vaticano. Basti pensare all’erezione a Roma (1889), in Campo dei Fiori, del monumento a Giordano Bruno, considerato campione del libero pensiero, voluta dal sindaco di Roma Ernesto Nathan, anch’egli massone. Per quello che riguarda la storia sociale, si sono tenuti come sfondo i problemi dell’emancipazione femminile, dell’equilibrio delle funzioni nella famiglia, la lotta al perdurante analfabetismo e l’arretratezza che investiva buona parte della Nazione, che faceva da contrasto con il rigoglio tecnico e scientifico che in Europa aveva avuto seguito alla seconda rivoluzione industriale e che aveva portato il Vecchio Continente ad avere una supremazia assoluta sull’intero globo. Il positivismo, sorto successivamente alle radicali trasformazioni avvenute in Europa in seguito alla cosiddetta Rivoluzione Industriale del XVIII secolo, si diffuse e caratterizzò le scienze e la cultura europea a partire dalla seconda metà dell'Ottocento sino agli inizi del secolo scorso. La sua caratteristica peculiare fu il metodo incentrato sull'osservazione attenta e rigorosa sulla ricerca e sullo studio di dati certi, con dimostrazioni verificate, sui fenomeni storici, sociali, naturali. Non più, quindi, la ricerca e l'indagine a priori, propria delle filosofie metafisiche. 3 Corrente filosofica europea, il positivismo si sviluppò in diverse situazioni culturali e storiche, come erano quelle dell'Inghilterra, della Francia, della Germania e dell'Italia, assumendo così connotazioni particolari, proprie dell'ambiente in cui, volta per volta, venne attestandosi. La prima formulazione della filosofia nascente fu il Cours de Philosophie Positive (1830-1842) di Auguste Comte (1798-1857), il cui pensiero fu poi divulgato e arricchito da M.-P.-É Littré (1801-1981), H. Taine (1828-1893), É. Durkheim (1858-1917). In Inghilterra si affermarono Herbert Spencer (1820-1903) e John Stuart Mill (1806-1873). Soprattutto Spencer, col suo evoluzionismo, godette di una fama eccezionale per tutto il secondo Ottocento. Il successo europeo del positivismo, il fatto, cioè, che tale corrente diventasse un modo comune di sentire, nonostante che nel suo interno sorgessero diverse scuole a seconda delle realtà nazionali in cui maturava, fu probabilmente dovuto alla concomitanza di diversi fattori, tra cui: a) il ruolo fondamentale dell'impostazione scientifica, se non proprio scientista, che gli garantiva una oggettività che lo poneva al riparo da questioni di principio e non verificabili; b) lo sviluppo, talvolta lento, ma decisivo dell'economia in un'Europa che, dopo quella del 1870 tra Francia e Prussia, non vide nel continente alcun conflitto di grandi dimensioni; c) la persistenza di una stabilità sociale che richiedeva concreti miglioramenti della qualità della vita, che sembrava appunto essere assicurata dallo sviluppo della scienza e della tecnica. Di qui altresì, grazie anche all'affermazione delle tesi evoluzionistiche di Darwin e di Spencer, la fede nel progresso e il conseguente riformismo, ben confacente alla cultura borghese, del tutto sfavorevole a rovesciamenti sociali immediati e violenti, come quelli auspicati dai socialisti e da Marx, e disposta, invece, ad una graduale trasformazione che elevasse il tenore della vita dei più, ma senza fratture. Non si dimentichi inoltre che, in particolare in Italia, la fortuna del positivismo aveva trovato paradossalmente un alleato in certe posizioni, del tutto opposte, della Chiesa di Roma, che con il Sillabo di Pio IX si era dichiarata ostile al libero pensiero e a tutte le novità del tempo. Com'è facile intuire, la chiusura di certi ambienti della Chiesa cattolica, che pure continuava ad operare positivamente su altri fronti, accentuò nel piano culturale una frattura che, resasi più acuta dopo il 20 settembre del 1870, avrebbe concorso ad alimentare la vis polemica di certe correnti vicine alle posizioni del positivismo. Un altro elemento che contribuì non poco alla diffusione del positivismo fu lo sviluppo delle scienze e delle tecniche. Sarebbe non certo corretto intendere il positivismo filosofico (e pedagogico) come una sovrastruttura, una legittimazione ideologica del successo delle scienze, ma certo quest'ultime contribuirono non poco a garantire la priorità dell'impostazione speculativa del positivismo. Si aggiunga, inoltre, che questo trionfo delle scienze accresceva la fede nel progresso, la fiducia che il domani sarebbe stato migliore del presente, fiducia che non poteva che giovare alla piccola borghesia che sembrava trovare nuove forme di rispettabilità sociale e allo stesso proletariato. La fiducia nel progresso era peraltro affiancata da un altro consistente elemento. L’assoluta centralità dell'Europa, o meglio di alcuni Stati europei, nella politica mondiale. Del resto, la politica colonialistica di Stati come la Gran Bretagna, la Francia, il Belgio e così via assicurava alle nazioni europee ricchezze mai prima avute, grazie allo sfruttamento delle terre d'oltre mare, e faceva sorgere nelle coscienze la sensazione del definitivo trionfo della razza bianca. 4 Invero, se grosso modo il primo Ottocento si era consumato nella affermazione delle diverse patrie, con un impegno ideale e materiale di diverse generazioni, il secondo Ottocento veniva come a godere dei risultati del primo, e quindi a razionalizzarne i risultati. Ciò conduceva, era chiaro, alla fine degli entusiasmi romantici e alla più prosaica gestione dell'esistente, talvolta a quella che Bismarck chiamò, con estrema chiarezza, la real-politik, e questo non poteva che sollevare perplessità, malumori, nostalgie e inquietudini tra le generazioni. Ma era, a ben vedere, il punto d'arrivo necessario, il bisogno di sistemazione dopo gli empiti romantici, belli sì, ma destinati ad esaurirsi nella normalizzazione delle cose, nel così detto processo di istituzionalizzazione, nel quale la scolarizzazione, in Italia come in tutta Europa, avrebbe giocato un ruolo fondamentale. Di qui l'attenzione alla materialità della vita. Vi erano, in quell'Europa da poco stabilizzata, problemi di rilevante importanza tra i quali mette conto segnalare l'igiene e l'alfabetizzazione. Non dimentichiamo la presenza periodica di malattie, delle nuove patologie respiratorie, di epidemie dovute alla diffusa sporcizia, delle difficoltà causate dall’aumento esponenziale della popolazione urbana nei grandi centri industriali. Anche in questo caso la quotidianità sembrava legittimare appieno la logica e il successo del positivismo. Più che disputare sui fini ultimi della vita, occorreva dunque impegnarsi concretamente per migliorare la qualità della vita. In tal modo riprendevano consistenza le tesi illuministiche, ma non più permeate da una astratta ragione, bensì da un articolato sistema di scienze, da una attenzione alla vita concreta, a problematiche puntuali, fuori da ogni retorica di un tardo ed astorico umanesimo. Per tutte queste ragioni, il positivismo, di cui ci siamo qui limitati a richiamare le sue linee di fondo, ebbe un successo mai prima riscontrato da una filosofia in età moderna e divenne un modo di pensare e di affrontare la realtà. Quest'ultima, certo, era estremamente articolata considerando le peculiarità di ciascuno dei numerosi Stati europei e, all'interno degli stessi a seconda del territorio, basti pensare alle varie “nazioni” inserite nello Stato Asburgico. Non bisogna dimenticare, inoltre, che se la Francia e la Gran Bretagna godevano di secoli di unità politica, Stati come l'Italia e la Germania erano di recente formazione, essendo essi il risultato di una unificazione di Staterelli minori, con forti diversità nelle realtà locali. E tuttavia, se la Germania riuscì in poco tempo, anche grazie a differenti potenzialità economiche e ad una forte volontà di accentramento politico-culturale, ad apparire effettivamente unita, le cose ebbero nella Penisola Italiana più lenta maturazione. In Italia, in particolare, la nuova temperie economica e culturale tardò a svilupparsi rispetto agli altri paesi dell'Europa occidentale che ne furono coinvolti, per il più lento incremento della crescita economica, oltre che per il ritardo in cui questa ebbe inizio. La borghesia e la classe operaia non ebbero il rapido sviluppo che avvenne altrove poiché le attenzioni dei governi dello Stato nascente, oltre che del mondo della cultura, erano rivolte essenzialmente all'unità del Paese, all’affermazione della potenza militare della nazione1 e al In quegli anni infatti ebbe luogo un notevole sforzo industriale volto a fornire l’Italia di un apparato bellico moderno che la ponesse allo stesso livello militare delle grandi nazioni europee. In particolare nel 1873 si dava via alla costruzione delle due supercorazzate Duilio e Dandolo, che furono le più potenti e avanzate macchine da guerra dell’epoca e che suscitarono grande scalpore in tutto il mondo. 1 5 complesso problema del rapporto fra Stato e Chiesa. In tal modo l'Italia si trovò ad essere un paese che voleva competere ed essere alla pari con altre nazioni più sviluppate sotto ogni aspetto, pur avendo una struttura statale e sociale risalente ai secoli precedenti. Soprattutto nel Meridione (nell'Italia del Nord era già avvenuta la nascita di diverse e importanti imprese industriali) questa arretratezza era evidente, non solo in campo economico, ma anche, e soprattutto, in campo sociale e culturale. Un eccellente quadro della situazione culturale viene offerta da Giovanni Gentile in Le origini della filosofia contemporanea in Italia2. Gentile distingueva, per quello che riguardava la cultura speculativa italiana dopo Rosmini e Gioberti, quattro grandi correnti: i platonici (Terenzio Mamiani, Giovanni Maria Bertini, Luigi Ferri, Francesco Bonatelli, Francesco Acri ecc.), i positivisti (Salvatore Tommasi, Andrea Angiulli, Cesare Lombroso, Roberto Ardigò e così via), i neokantiani (Francesco Fiorentino, Felice Tocco, Filippo Masci ecc.), gli hegeliani (Augusto Vera, Angelo Camillo De Meis, Bertrando Spaventa ecc.). A tali correnti principali Gentile ne affiancava alcune minori tra cui gli scettici (G. Ferrari, A. Franchi, B. Mazarella) e i neotomisti (G.-M. Cornoldi, G. Pecci, S. Sordi, S. Talamo). Gentile individuava negli hegeliani di Napoli (Vera e soprattutto Spaventa) e nei positivisti le due tendenze culturali più forti, la prima destinata a riprendere vitalità appunto negli anni della restaurazione, la seconda decisamente egemone nel secondo Ottocento. E Gentile, non senza riserve, riconosceva il valore storico del positivismo. Il filosofo, poi, rimproverava al positivismo un eccessivo scientismo, incapace di intendere la realtà del pensiero e quindi la filosofia quale Gentile la intendeva. Quello che anche un interprete non favorevole come Gentile non poteva non riconoscere era che di fatto il positivismo rappresentò per molti versi una ventata innovativa sulla cultura e sulla vita della Penisola. Non v’è alcun dubbio che uno dei campi in cui i positivisti si mossero con risolutezza e con successo fu quello educativo. In una nazione in cui il tasso di analfabetismo era altissimo occorreva muoversi con estrema decisione. Se nella prima metà del secolo l’impegno educativo, anche come aspetto innovativo, fu essenzialmente legato alla spiritualità cattolica, la nascita di uno Stato unitario richiedeva diverse responsabilità da parte della cultura laica. Ora, per formare uno Stato forte ed omogeneo era necessario non solo procedere alla creazione di nuove infrastrutture e di una economia attiva, ma avviare anche un effettivo processo di alfabetizzazione e realizzare una nuova ed efficiente organizzazione scolastica che rispondesse alla nuova situazione storica e alla volontà di crescita della nazione. Per far fronte a queste esigenze ci si servì della legge Casati, promulgata il 13 novembre 1859, formulata per il Regno di Sardegna e successivamente estesa in tutta l’Italia unita senza che essa subisse sostanziali modificazioni. Secondo la legge Casati l’istruzione era totalmente accentrata nello Stato. L’istruzione popolare, questione fondamentale, fu affidata ad una scuola elementare suddivisa in due corsi biennali distinti, inferiore, l’unico gratuito e obbligatorio, e superiore, per centri con almeno 4000 abitanti. La decisione di affidare la scuola elementare nella sua gestione, compresa quella degli L'opera, in 4 volumi, fu pubblicata presso il Principato di Messina tra il 1917 e 1923, e raccoglieva dei saggi pubblicati su "La Critica" tra il 1903 e il 1914, in un momento storico, cioè, in cui il neoidealismo di Gentile e di Croce cominciava ad affermare la propria egemonia. Ciò spiega il taglio spesso polemico. L'edizione da cui si citerà è quella rivista delle "Opere Complete" di Gentile. 2 6 insegnanti, ai Comuni secondo le possibilità economiche di questi, ebbe come conseguenza che molti centri non riuscirono ad aprire una scuola per ragioni economiche, o rifiutarono di farlo perché si considerava pericolosa l’istruzione delle masse popolari. A causa di questo diffuso comportamento non ebbero concreto successo le leggi Correnti del 1872 e Scialoja del 1873 che avevano come fine rendere effettivo l’obbligo scolastico. Solo nel 1877, con la legge Coppino, la scuola elementare divenne in buona parte veramente obbligatoria. A questa seguirono una serie di provvedimenti che riuscirono a rendere più moderno ed efficace l’insegnamento: aumento dei quadri degli insegnanti (1877), ammodernamento dei programmi (1888 e 1894), nuovo ordinamento della scuola normale (legge Gianturco 1896), creazione della quinta e sesta classe (legge Orlando 1904). Per quel che concerne l’istruzione secondaria la legge Casati concepiva la nascita della scuola tecnica e dell’istituto tecnico, entrambi di durata triennale (quest’ultimo diventerà poi quadriennale) e aggiungeva nei programmi del liceo discipline come la matematica, la fisica, la chimica e le scienze naturali secondo le nuove necessità sorte dopo la seconda Rivoluzione Industriale. Si formava così una triplice divisione della scuola secondaria: il liceoginnasio che preparava e avviava verso l’università coloro che avrebbero formato la futura classe dirigente, la scuola tecnica per chi voleva inserirsi subito nel mondo del lavoro e l’istituto tecnico, che aveva gli stessi fini ma che concedeva la possibilità di accedere all’università solo per le facoltà di Matematica e Scienze. Cinque le facoltà universitarie: Filosofia e lettere; Matematica, fisica e scienze naturali; Giurisprudenza; Medicina, Teologia (poi abolita nel 1877). Il problema, di fondo, al momento, quello pressante all’indomani dell’Unità era la lotta all’analfabetismo, perché solo una diffusa alfabetizzazione avrebbe consentito la formazione di buoni cittadini. Su questa problematica si sarebbero impegnati molti pedagogisti positivisti, tra cui Andrea Angiulli. Andrea Angiulli nacque il 12 febbraio 1837 a Castellana, in provincia di Bari, da Giuseppe e Luisa Longo, benestanti3. Compì i suoi primi studi in provincia, prima nel Seminario di Molfetta e poi a Bari. Nel 1857, per iniziare gli studi universitari, si recò a Napoli, dove frequentò i corsi di scienze naturali, di scienze giuridiche e di filosofia, e studiò varie lingue straniere, come il francese, il tedesco, l’inglese. A Napoli partecipò alle iniziative dei patrioti, incorrendo nei sospetti della polizia borbonica, alla quale, il 6 aprile 1860, sfuggì fortunosamente dopo aver dettato un proclama diretto alla popolazione della Basilicata. Nella città partenopea fu attratto dalle dottrine giobertiane e seguì le lezioni di Bertrando Spaventa, divenuto nel 1860 professore di Filosofia Nel 1861, una volta compiuti gli studi universitari, rifiutò la cattedra di Filosofia presso il liceo di Bari, giudicando necessario approfondire maggiormente la sua cultura e, a tal scopo, vinto nel 1862 un concorso di borse di studio all’estero indetto dal Governo, si recò a Berlino per perfezionare e approfondire la sua conoscenza dell’idealismo. Nella città tedesca rimase per tre anni mantenendosi a sue spese una volta esaurito il sussidio governativo. Il viaggio in Germania si rivelò fondamentale per la formazione del filosofo: qui Per la biografia di Angiulli cfr. F. ALTEROCCA, Sulla vita e le opere di Andrea Angiulli, Vallardi, Milano 1890; G. COLOZZA, La vita e il pensiero di Andrea Angiulli, Battezzati, Milano 1891; M. VITERBO, Uomini di Puglia: A. Angiulli, S. Castromediano, G. Massari, Ed. Apulia ,Martina Franca 1916. 3 7 egli abbandonò con una certa facilità il pensiero idealista per abbracciare la filosofia positiva che allora stava per sostituire il pensiero hegeliano nell’ateneo berlinese. Angiulli, infatti , dopo breve tempo cominciò a seguire le lezioni di Emil Du Bois-Reymond4 che convertirono il giovane studioso alla dottrina delle scienze positive. Nel 1865 si recò a Parigi e poi a Londra5 per meglio apprendere e approfondire la sua conoscenza della filosofia positivista. Ritornato in Italia, si allontanò poco per volta dal suo vecchio maestro Spaventa per avvicinarsi a Salvatore Tommasi, a Pasquale Villari, ad Arnaldo Cantoni e ad altri positivisti italiani. Nell’ottobre del 1867, per iniziativa dei parlamentari Giuseppe Romano (fratello del più noto Liborio) e Salvatore Lazzaro, gli fu assegnata la cattedra di Filosofia nel Liceo Vittorio Emanuele di Napoli, dove in seguito avrebbe insegnato anche Giovanni Gentile. In questo periodo istituì un corso di Filosofia del diritto. Nelle sue lezioni Angiulli si fece fautore del pensiero di Comte e delle recenti teorie evoluzionistiche di Charles Darwin richiamando su di sé molta attenzione. In un ambiente così ricco di tradizione religiosa, però, i suoi corsi portarono ben presto il filosofo allo scontro con il preside del Liceo, il sacerdote Ippolito Amilcarelli6, e con il frate domenicano Salvatore Balsamo, professore e padre spirituale del monastero. Il preside Amilcarelli, considerato anche che le idee del giovane docente avevano provocato scalpore e proteste fra i genitori degli alunni, pregò Angiulli di dare un carattere più elementare e quindi più adatto alle necessità dell’istruzione secondaria, giudicando inopportune le idee espresse nelle sue lezioni che potevano causare danni morali presso i suoi ascoltatori. Nonostante questi dissidi Angiulli diede alle stampe nel 1868 il suo primo lavoro, in realtà preparato per essere accolto su una rivista, intitolato La filosofia e la ricerca positiva nel quale si sosteneva che la filosofia, in quanto scienza, doveva essere una ricerca positiva e sperimentale, in opposizione all’hegelianismo, al kantismo e anche al positivismo di Comte. Si sosteneva, in quest’opera, la necessità della filosofia scientifica per migliorare con essa ogni aspetto della vita sociale e i problemi della collettività. L’opera ricevette consensi all’estero, ad esempio dalla rivista francese «La Philosophie positive» del Littré. In Italia, invece, il lavoro del filosofo pugliese fu duramente criticato dall’hegeliano Francesco Fiorentino7 e le teorie professatevi contribuirono ad acuire il contrasto con i due religiosi reggitori del liceo Vittorio Emanuele. A causa di ciò lo studioso fu trasferito d’ufficio, su richiesta di Amilcarelli, nel settembre 1871 in un altro Liceo di Napoli, il Principe Umberto: provvedimento che l’Angiulli giudicò come un’ insensata punizione e contro il Emil Du Bois-Reymond (Berlino 1818-1896) fu segretario dell'Accademia delle scienze di Berlino. Le sue due conferenze, tenute nel 1872 e 1880 suscitarono molto interesse in tutto il mondo. La sua opera principale è I sette enigmi del mondo cioè l'essenza della materia e della forza, l'origine del movimento, della vita, della sensibilità, l'ordinamento teologico della natura, l'origine del linguaggio e del pensiero razionale e il problema del libero arbitrio. 5 A Londra Angiulli conobbe Mary Romano, che sarebbe divenuta sua moglie. 6 Ippolito Amilcarelli (1823-1879), ordinato sacerdote nel 1854. Cultore di belle lettere, pubblicò Della lingua e dello stile. Lezioni (vol. I, Del Vaglio, Napoli, 1858; vol II, Cellini, Firenze 1863) fu eletto deputato nel 1861, per poi occupare il ruolo di rettore in diversi licei, fra cui il Liceo-Ginnasio “Vittorio Emanuele”, che resse per ventiquattro anni. 7 Francesco Fiorentino (1834-1894) fu professore universitario prima a Bologna, poi a Napoli, quindi a Pisa. In filosofia. Sotto l'influsso di Spaventa studiò Hegel, per diventare poi un neokantiano. 4 8 quale egli decise di ricorrere al Ministero, pur di non darla vinta ai suoi detrattori. La vertenza fu addirittura discussa con vivacità alla camera. Qui Angiulli fu tacciato di ateismo. Tutto si risolse a favore di Angiulli grazie all’intervento del ministro Cesare Correnti e del segretario generale della Pubblica Istruzione Giovanni Cantoni. Il filosofo fu elevato a professore universitario con l’incarico di Antropologia e Pedagogia presso l’università di Bologna, precedentemente ricoperto dal salentino Pietro Siciliani. Angiulli tenne l’incarico nell’ateneo felsineo per cinque anni, inaugurandovi l’insegnamento dalla pedagogia scientifica, disciplina incentrata sulla biologia e sulla sociologia, tenendo presenti le dottrine evoluzionistiche di Darwin. Nel giugno 1871 collaborò alla «Rivista critica di scienze, lettere ed arti» diretta da Francesco Trinchera jr., nella quale accusò Carlo Cantoni di dogmatismo teologico e metafisico nel suo manuale di filosofia e lo scritto Psicologia come scienza positiva di Ardigò. Dell’anno successivo è la pubblicazione in opuscolo del discorso La filosofia positiva e la pedagogia, in cui Angiulli pose i primi fondamenti per la sua nuova concezione pedagogica, che si imperniava sulla base della filosofia positiva e si fondava sull’antropologia, sulla storia e la sociologia. In tal modo, secondo il filosofo, la filosofia positiva si attua come pedagogia positiva e come politica positiva, e può risolvere il problema dell’educazione ed il problema sociale. Con il saggio La pedagogia lo Stato e la famiglia del 1876 Angiulli evidenziò lo stretto rapporto fra il positivismo e la pedagogia considerando come compito concreto dell’educazione il perfezionamento delle nuove generazioni e l’elevazione delle classi sociali inferiori, cosicché l’educazione veniva reputata un dovere nazionale e uno strumento di riscatto sociale. Nell’opera, formata da tre discorsi, l’autore metteva in risalto la necessità di una seria riforma educativa, ponendo il problema della pubblica istruzione nel campo della ricerca scientifica e sottolineando, come dovere dello Stato, quello di indirizzare i giovani alla verità. Il filosofo, evidenziata l’importanza dei primi gradi dell’educazione, sostenne la necessità di indirizzare l’azione pedagogica verso il bambino, la donna e il popolo. Nel 1876 Angiulli sposò Mary Romano, figlia del on. Giuseppe Romano, grazie al quale Angiulli aveva ottenuto la cattedra liceale a Napoli. Da questa unione il filosofo ebbe quattro figli, Luisa, Paola, Giuseppe e Maria. In quello stesso anno fu nominato professore ordinario alla cattedra di Pedagogia dell’Università di Napoli che era vacante dalla morte di Edoardo Fusco8, avvenuta nel 1873. A Napoli Angiulli ebbe modo di confrontarsi con diversi e illustri hegeliani che insegnavano in quell’ateneo quali Bertrando Spaventa, il suo antico maestro, Augusto Vera e Francesco Fiorentino, alla cui morte nel 1884 Angiulli succederà nell’insegnamento di Filosofia teoretica. Nello stesso anno occupò la cattedra di Etica. In questo periodo cominciò l’insegnamento di Etica e Pedagogia nella Scuola Normale Froebeliana di Napoli, fondata dalla signora Julia Salis Edoardo Fusco, pedagogista e letterato, nacque a Trani il 23 settembre 1821 e morì a Napoli il 28 dicembre 1873. Partecipò ai moti del 1848 e per questo costretto ad abbandonare Napoli, andando in esilio in Grecia, dove visse scrivendo e insegnando. I suoi scritti furono pubblicati in diverse riviste inglesi. In Inghilterra ottenne la cattedra di Lingua italiana a Eton e quella di Letteratura italiana nel collegio della Regina, cattedra che otterrà anche nell'Università di Dublino. Nel luglio 1860 fece ritorno in Italia dove, all'inizio, si dedicò al giornalismo. Poi divenne Ispettore generale delle scuole primarie e secondarie del Meridione. Fu nominato professore ordinario di Antropologia e Pedagogia all'Università di Bologna e poi a Napoli. 8 9 Schwabe, della quale fu nominato presidente dopo il riconoscimento dell’istituto da parte del governo. Del 1881 fu la fondazione della rivista “Rassegna critica di opere scientifiche, filosofiche e letterarie”, pubblicata a cadenza bimestrale fino alla morte del filosofo. L’insegnamento di Angiulli a Napoli riscosse grande successo presso gli studenti. Le sue lezioni tenute in due anni successivi presso l’università di Napoli, vennero pubblicate in un volume La filosofia e la scuola (1888), che egli con molta modestia definì appunti. In questo volume, sua ultima opera, erano trattate tre questioni fondamentali: il problema gnoseologico, il problema cosmologico e il problema etico, dal quale Angiulli ricavava la superiorità della filosofia come ricerca dei princìpi ultimi della realtà e della conoscenza e asseriva che l’educazione rappresentava la prima e fondamentale causa di tutti i miglioramenti sociali e morali. Con questo lavoro Angiulli pervenne ad una sistemazione filosofica delle relative ricerche e ad una sintesi dei suoi scritti filosofici e pedagogici. Lodevole pure l’intento di rannodare al problema scientifico, e segnatamente a quello sociale e morale, il problema educativo. Oltre al suo impegno accademico, Andrea Angiulli si dedicò attivamente all’attività politica. A Napoli il giovane studente, sostenitore della libertà e della necessità di unificazione dell’Italia, ebbe modo di conoscere e frequentò personaggi come Giuseppe Pisanelli9, Nicola Marselli10, Enrico Pessina11. Nel 1860 aderì a un fascio giovanile, e come detto sopra, scampò più volte fortunosamente alla cattura da parte della polizia. Il 6 aprile 1860, nella casa di Giovanni Tauro, dettò il proclama diretto alla popolazione della Basilicata per incitarla alla rivolta. Il documento fu redatto con un inchiostro particolare in modo tale da nascondere le lettere del proclama che si sarebbero rese visibili solo avvicinando il foglio presso una fonte di calore. La polizia irruppe nella casa arrestando tutti i congiuranti, tranne il fortunato studente che se ne era andato via poco prima. Sfuggito a quest’agguato, però, dovette sottrarsi alla ricerca serrata degli agenti per diverso tempo e sarebbe stato tratto in arresto nella sua stessa dimora se un suo conoscente, un calzolaio, non lo avesse messo in guardia, avvisandolo dell’imminente irruzione della polizia e facendolo sgattaiolare da una finestra quando gli agenti avevano già fatto irruzione in casa sua. Angiulli così dovette per diversi giorni nascondersi sotto falso nome nei dintorni di Napoli.Una volta compiuta l’unità nazionale, con l’impresa dei Mille e la caduta del Regno di Napoli, il giovane Angiulli e i suoi compagni poterono riottenere la libertà. Andrea Angiulli si candidò come deputato nel Collegio di Monopoli nel 1880 e a Bari nel 1882 e 1886, ma in tutte tre le occasioni la vittoria gli fu impedita da schieramenti conservatori ostili, che portarono avanti contro di lui una vera e propria campagna denigratoria, tacciandolo di ateismo e socialismo. Giuseppe Pisanelli, nato a Tricase, in provincia di Lecce, il 21 dicembre 1812 e morto a Napoli il 5 Aprile 1879, fu deputato al Parlamento napoletano nel 1849. Costretto all'esilio dalla repressione borbonica, si stabilì nel 1852 a Torino. Nel 1860 fu Ministro di Grazia e Giustizia sotto il governo di Garibaldi. Deputato dal 1861, fu Guardasigilli del Regno d'Italia (18611864) e preparò il Codice civile e la Procedura civile. Tra le sue opere Sulla pena di morte (1862) e Della istituzione dei giurati (2° edizione 1868). 10 Nicola Marselli (Napoli, 1832- Roma, 1899) fu generale e scrittore di tecniche militari. Tra le sue opere cfr. Guerra e la sua storia (1875). 11 Enrico Pessina (Napoli, 1828-1916) professore di Diritto Costituzionale a Bologna e poi di Diritto e procedura penale a Napoli, fu a lungo deputato e poi senatore. Ministro dell'Agricoltura nel 1879 e della Giustizia nel 1885. Tra le sue opere Dei progressi del diritto penale in Italia nel secolo XIX (1868), Elementi di diritto penale (1882-85). 9 10 Nel 1884 fu eletto consigliere comunale a Napoli, ma ebbe delle discordie con l’assessore alla pubblica istruzione Luigi Santa-Maria, giudicando negativamente le proposte di questi riguardo l’ordinamento scolastico. Dopo questa dura accusa l’assessore Santa-Maria si dimise, ma Angiulli, invitato dal sindaco Nicola Amore a prenderne il posto rifiutò per non far nascere l’impressione che le sue polemiche valessero soltanto ad ottenere il posto di assessore e, soprattutto, per non allontanarsi troppo dagli studi. Fu incaricato più volte dal governo a presiedere a concorsi e come ispettore scolastico. E in più occasioni fu presidente delle Conferenze pedagogiche e del Primo Congresso di Antropologia svoltosi a Roma nel 1885. Il 7 dicembre 1889 si trovava appunto a Roma per presiedere ad una riunione della Società Pedagogica Italiana quando fu colto da un inaspettato e repentino malore. Portato a Napoli per le cure, qui morì la sera del 2 gennaio 1890, assistito dal suo allievo Colozza, al quale raccomandava di proseguire la sua missione di filosofo e pedagogista. Le esequie furono solenni e videro la partecipazione di illustri figure del mondo accademico e della società di allora. In suo onore parlarono Giacomo Barzellotti12 per l’Università, Colozza per la famiglia, e Giovanni Bovio13 per la massoneria. Le spoglie del filosofo furono inumate nel cimitero di Napoli, nel settore riservato alle personalità eminenti, dove, su commissione della famiglia, gli fu eretto un busto ad opera dello scultore Achille D’Orsi. Nella sua prima opera pubblicata, La filosofia e la ricerca Positiva (1868), Andrea Angiulli esordiva come pensatore positivista e cercava di giustificare la scelta come necessaria per la stessa cultura. Come avrebbe osservato, non senza spirito polemico, Giovanni Gentile, La filosofia e la ricerca positiva era il «manifesto»14 del pensiero di Angiulli ed era un saggio che meritava attenzione in quanto conteneva in nuce gran parte del pensiero del pensatore di Castellana. Nel volume egli non solo si proponeva di dimostrare “la fondazione di un nuovo concetto della filosofia”, ma partiva da un assunto che poneva già come indiscutibile, che “Il fattore principale della storia moderna è la scienza positiva”. E l’affermazione era subito dopo giustificata con la constatazione dei grandi progressi promossi dalla scienza e dalla tecnica. In effetti, il tempo in cui viveva Angiulli era effettivamente testimone di uno sviluppo materiale e scientifico che mai aveva avuto eguale in precedenza. Era l’epoca della seconda rivoluzione industriale, l’epoca in cui vennero inventate le macchine a vapore, il telegrafo (1840, Morse), il telefono (1871, Meucci), il microscopio, le navi corazzate (1859, varo della Gloire), l’epoca in cui nasceva lo studio dei movimenti della Terra, dello sviluppo scientifico dell’astronomia, della conoscenza della reale età del pianeta e dell’esistenza di altre forme di vita prima dell’uomo (1842, classificazione dei dinosauri da parte di Richard Owen), della teoria dell’evoluzione e della selezione naturale (1859, Charles Darwin pubblicava L’origine della specie). Angiulli comprendeva molto G. Barzellotti (Firenze 1844-1917), studioso di filosofia e letteratura , fu professore dal 1896 di Storia della Filosofia all'Università di Roma. Tra i suoi scritti: La morale nella filosofia positiva (Firenze, 1871) e La letteratura e la rivoluzione in Italia (Firenze, 1875). Sul pensiero di Barzellotti cfr. G. GENTILE, Le origini della filosofia positiva in Italia, I, I Platonici, nuova ed. riv. a cura di V. A. Bellezza, Sansoni, Firenze 1957, pp. 341-362. 13 Giovanni Bovio (1841-1903), fu professore di Filosofia del diritto a Napoli (1875) e deputato (1876), portavoce dello schieramento repubblicano. Sue opere più importanti, Saggio critico del diritto penale (1872)e Filosofia del diritto (IV ed. 1896). 14 G. GENTILE, Le origini della filosofia contemporanea in Italia, I positivisti, cit., p. 127. 12 11 bene che non si trattava di una semplice sequenza di fatti, ma si rendeva conto di come questi si concatenassero tra di loro e non solo imprimessero un’accelerazione al corso della storia, ma trasformassero la stessa natura della società, coinvolgendone gli aspetti intellettuali e morali, in maniera da far emergere un nuovo senso del processo del reale. Angiulli aveva compreso i capisaldi del positivismo e si rendeva conto con pieno discernimento che la realtà civile stava assumendo, grazie all’intrinseco e necessario rapporto tra scienza e industria, un nuovo assetto sociale che a sua volta comportava il concetto di progresso sociale. In altri termini, se la storia del passato era vista soprattutto come il dinamismo di alcune classi sociali che non alteravano gli equilibri interni, l’accelerazione prodotta da scienza e tecnica, tra loro inscindibili, conducendo al mondo industriale, determinava una crescita generalizzata della realtà sociale, che affermava come inevitabile l’idea di progresso e quindi una trasformazione complessiva della mentalità, in un organismo in cui l’elemento produttivo, innovatore, era dato dalle scienze e quello di stabilizzazione dall’industria. Il mondo industriale garantiva a tutti i soggetti una vivibilità in fieri che nel passato non c’era. Il discorso speculativo, al tempo stesso, usciva definitivamente dall’astrattezza metafisica, e diveniva comprensione del processo reale dei fatti che determinano la storia. La filosofia come lettura della storia. Con la nuova età – e con la nuova filosofia, ossia il positivismo – la filosofia diveniva critica scientifica, ossia capacità di interpretare e guidare il processo storico. In questa attenzione al divenire storico permaneva, in Angiulli, la lezione idealistica, la lezione di Bertrando Spaventa15, solo che la molla della storia non era più lo spirito, ma la scienza e questo comportava un ulteriore rovesciamento. Il protagonista della storia non era più romanticamente il grand’uomo di cui poteva scrivere un Carlyle o intuire Hegel. Non c’era più una storia destinata ad essere dominata da un unico soggetto: ognuno, il popolo intero poteva contribuirvi. Tutti erano i protagonisti della storia. Angiulli coglieva molto bene che scienza e tecnica non implicavano sempre l’uomo di genio, ma il diuturno contributo di più specialisti, come la strutturazione industriale della società comportava l’interdipendenza e l’interazione dei lavoratori, tutti artefici del progresso. In questo la democrazia, come partecipazione di tutti al miglioramento collettivo, veniva non teorizzata, ma realizzata nei fatti. Ci si trovava di fronte ad una trasformazione sociale eccezionale, i cui meccanismi dinamici mettevano in qualche al riparo sia dal passatismo (la teologia, il feudalesimo ecc.) sia dai sommovimenti socialisti. Alle nuove conquiste materiali, naturalmente, doveva seguire lo sviluppo intellettuale; in tal modo si poteva davvero intendere il processo sociale come un organismo. Una nuova età, inoltre, era un periodo in cui si esaminava e si criticava quello che si era fatto in precedenza e nasceva un nuovo modo di pensare, un nuovo modo di essere: l’epoca che si stava vivendo non aspettava più dei nuovi dogmi per riconoscersi, non più un annuncio divino o la parola di un profeta, ma si identificava, come si è visto, nell’azione della scienza, che trasformava il mondo e migliorava il modo di vivere di tutta la società, generava libertà e democrazia. È il concetto di dialettica di cui Spaventa parla in Logica e Metafisica: «la filosofia non è soltanto (in quanto attività filosofica) l'ultimo risultato della dialettica della coscienza, ma è dialettica essa stessa, in sé stessa, nel suo proprio grembo. Questa dialettica è lo spiegamento della p o t e n z a i n f i n i t a d i c o n o s c e r e ; che è la stessa infinita potenza dell'essere» (B. SPAVENTA, Opere, a cura di G. Gentile, vol. III, Sansoni, Firenze 1972, pp. 135-136). 15 12 Riprendendo la lezione dei positivisti francesi, in cui il discorso filosofico era tutt’uno con quello di innovazione sociale, come Comte e Littré avevano sostenuto, Angiulli non esitava ad affermare, che il processo scientifico diventava la nuova concezione della vita in grado di permeare tutta la realtà. Era la fede nel progresso, che il filosofo “dimostrava” con l’evidenza delle innovazioni scaturite dalla scienza e dalla tecnica. Non più una filosofia come disvelamento dell’Assoluto, ma come interpretazione dell’articolarsi concreto dei fatti. Qui il punto di rottura con l’hegelismo, ma altresì con tutte le filosofie precedenti, come Angiulli cercava di dimostrare in una illustrazione storica che costituiva la parte più consistente, ma non per questo la più valida, dell’opera. Angiulli ricordava che per Hegel l’assoluto come spirito era unità di sostanza e di soggetto, era movimento, coscienza, sapere. In questo modo egli ricongiungeva Fichte a Spinoza. Diversa la posizione di Comte che recuperava il concreto elemento sociale del corso della storia. Alla luce di tutto questo Angiulli leggeva il corso della storia della filosofia intendendola come graduale dissoluzione della metafisica spiritualistica e idealistica. Il suo discorso storico è in parte di matrice spaventiana, come ha ricordato poi Gentile. Significativo il suo modo di spiegare il cristianesimo e il cattolicesimo: «l’elevazione dello spirito di contro alla materia, della vita celeste di contro alla terrena sarà il carattere dell’idealismo mistico del Cristianesimo. Se poi all’elemento ebraico ed all’elemento ellenico si unisce l’elemento pratico ed organizzatore de’ romani si avrà la costituzione del Cristianesimo come Cattolicismo»e sprezzante il suo giudizio sul monachesimo: «una depravazione morale e cerebrale dell’umanità». Alla fine dell’età moderna Kant riconduceva ad unità l’idealismo cartesiano e l’empirismo anglosassone. Il merito reale di Kant è stato quello di riportare il tutto al concetto di ragione, quindi all’esperienza. La conseguenza logica della riconduzione della filosofia all’esperienza era il positivismo di Comte; Angiulli compie una lettura storiografica a tesi, per la quale la filosofia attualmente egemone (nel caso specifico il positivismo) era l’inevitabile punto d’arrivo del processo storico. Di qui una serie di considerazioni. In primo luogo assumeva un ruolo nuovo la sociologia essendo questa la scienza che avrebbe fornito le basi a tutte le scienze morali; l’unico metodo era quello scientifico, sperimentale. Né era da opporre alla nuova concezione della vita qualunque spiritualismo. A parere di Angiulli l’affermazione del positivismo era ormai indiscussa. Tuttavia se la realtà era ricerca e la ricerca era esperienza, intesa come « regola suprema della coscienza moderna», rimaneva da definire meglio il concetto di esperienza e qui l’Angiulli, da antico allievo degli hegeliani di Napoli, riprendeva il concetto di storia. «La storia è il grande laboratorio del sapere umano. L’elemento storico non è più una pura erudizione, un antecedente o un metodo per le scienze morali, ma in tanto ha un significato come metodo e come erudizione, in quanto è elemento formativo non pure delle scienze morali ma di tutto il sapere, il quale come esperienza e ricerca è appunto storia. La storia considerata oggettivamente e nella sua universalità è il processo di formazione e di trasformazione degli esseri». Ci si trova di fronte ad una svolta interessante del pensiero di Angiulli, che tra non molto avrebbe formulato l’esigenza di un diverso empirismo, la cui impostazione, visto il richiamo alla storia non sarebbe stata meramente evoluzionistica, ma si potrebbe dire storicistica. È un aspetto da esaminare con grande attenzione, in quanto si fondevano, non sempre chiaramente, i retaggi idealistici e le convinzioni positivistiche. 13 Finiva così, secondo Angiulli, il senso delle filosofie spiritualistiche e metafisiche e nasceva la filosofia dell’esperienza, o empirismo moderno, un empirismo di altra natura rispetto a quello che il filosofo definiva volgare, che poi altro non era il pensiero dell’uomo comune o quello del sensismo illuministico. «È impossibile un empirismo che si riduca ai puri dati dei sensi (sensualismo), o ad una raccolta di notizie spezzate e sconnesse. L’empirismo moderno invece non mutila le attività del pensiero, né rinunzia alla ricerca dei generali e alla costruzione di una teoria; perché esso ha coscienza di tutte le attività psicologiche, ha coscienza scientifica di sé stesso». Ma tale empirismo moderno, o per meglio dire positivismo nella prospettiva particolare del pensatore doveva avere, per Angiulli, che continuava a far propria la lezione spaventiana del cominciamento, un principio guida che non poteva che essere a priori. Angiulli si rendeva conto che se tale a priori fosse frutto di una accettazione immediata si sarebbe scivolati nel dogmatismo; riteneva invece che esso fosse «identico alla critica stessa come risultato dei progressi della storia passata».. In altri termini, Angiulli faceva coincidere il principio guida con la stessa analisi critica, che poi era analisi storica, ma non alla maniera hegeliana, che criticava, piuttosto come concreta lettura del passato, ossia dell’a posteriori. Al che si potrebbe obiettare che un a priori che sia la lettura dell’a posteriori potrebbe sollevare non poche perplessità. Il fatto è che Angiulli sentiva la necessità di una chiave di volta della spiegazione storica e la sentiva, ancora idealisticamente, come un assoluto, salvo poi a ridurla nei fatti a spiegazione degli stessi. Era proprio la difesa della concreta esperienza storica a spingerlo a sollevare critiche agli spiritualisti e agli idealisti, legati ai concetti di infinito, di assoluto, di causa ecc. Diversamente dall’idealista che, a detta di Angiulli, ricavava concetti e sensi dall’a priori, da una visione assoluta del reale, quello che contava era l’esperienza storica. In questo modo, Angiulli recuperava l’altra scienza umana del tempo, la psicologia, dopo aver fatto propria la sociologia, ripresa dalla lettura comtiana, ma compiva un’operazione estremamente complessa. Infatti conservava l’impianto storicistico di derivazione hegeliana, con cui continuava a criticare le filosofie precedenti, ma al tempo stesso lo riformava riducendolo alla descrittivistica storica sorretta dal bagaglio scientifico. Infatti, allorché scriveva che l’intelletto era un processo di astrazione, aggiungeva che ciò non comportava idee innate o a priori alla Leibniz, in quanto il processo intellettivo non presupponeva alcuna facoltà, ma era una successione degli atti del sentire, dell’intendere e del volere. Tutto si riduceva ad esperienza e proprio perché tutto si riduceva ad esperienza era necessaria una educazione dello strutturarsi dell’esperienza, anzi una scienza dell’educazione, ossia una pedagogia che riconoscesse «la perfettibilità degli atti psicologici». In Angiulli si faceva così avanti il convincimento che la pedagogia contribuisse, migliorando il processo intellettivo, al miglioramento della società, quindi dell’umanità. Mentre da un lato Angiulli recuperava legittimamente il concetto di volere, che implicava attività dell’apprendimento e quindi l’educazione e quindi la libertà, accentuando il tema della trasformazione e la critica ad ogni facoltà intellettiva bell’e fatta, dall’altro illustrava una sorta di determinismo naturalistico nella necessità del condizionamento del passato. «L’eredità psicologica è un altro fatto accertato dalla scienza moderna e capace di recare molta luce in siffatte quistioni. Noi non facciamo che continuare le attitudini e le conquiste del passato. Il progresso è l’educazione dell’umanità; la civiltà è un risultato 14 d’esperienza, e non un miracolo di rivelazioni». Affermazioni queste che importavano elementi diversi, alcuni chiaramente dinamici quali il progresso, e quindi capaci di trasformazioni, altri più statici quali eredità e attitudini, più inclini a parlare di continuità. Quindi Angiulli, se da un lato voleva conservare, come retaggio idealistico, il divenire storico, dall’altro lo spiegava con le relazioni costanti dei fatti che erano a loro modo delle leggi che ancoravano il divenire alla mera estrinsecazione dell’esistente. Quello di Angiulli era un idealismo o storicismo naturalistico; idealismo in quanto ammetteva, anzi evidenziava, il divenire, naturalistico in quanto rifiutava ogni trascendentale, riconducendo tutto all’esperienza. Solo che non voleva che essa venisse ad esistere intesa come accettazione dell’immediato, come nella maggior parte dei positivisti, anzi del positivismo da cui voleva distinguersi. Angiulli rifiutava che ci potesse essere una mera conoscenza dei fatti, che in realtà comportava l’incapacità di spiegare la realtà, limitando la filosofia ad accettazione del dato. Angiulli, come il suo collega Pietro Siciliani, cercava una terza via tra il positivismo, a cui di fatto apparteneva e l’eredità idealistica della scuola di Spaventa a cui non voleva rinunciare, avvalorando il concetto di storia. Per questo egli insisteva sul concetto di relazione costante di fatti. Questo, a suo modo di vedere, significava che “necessario”, “assoluto”, “infinito” ecc. non erano come per gli idealisti qualcosa di fuori della storia, bensì «prodotti di umana astrazione», per cui si potrebbe ribattere, ad un ipotetico idealista che osservasse che dai fatti particolari non si può giungere ad una concezione del mondo e della natura e dell’umanità, che «le nostre concezioni della natura e della storia sono una generalizzazione dei fatti sperimentali, un portato del metodo induttivo, e non pretendono avere un valore assoluto a modo vostro, nel quale caso avreste ragione, ma un valore puramente relativo» . Così a chi avrebbe potuto obiettare che in tal modo la filosofia si sarebbe dissolta in scienze particolari come la logica, l’etica, la psicologia, Angiulli precisava: «una filosofia come una scienza prima, indipendente, come un sistema speculativo, le cui parti fossero l’ontologia, la teologia naturale, la cosmologia speculativa e la psicologia speculativa, cioè la filosofia come puro sistema metafisico non deve più esistere; ma non già la filosofia in generale. La vera filosofia è la negazione della filosofia; ma dopo la negazione della filosofia rimane dunque la vera filosofia. Or la vera filosofia è quella che conforme alla sua etimologia non è, ma diviene, non è sapere e molto meno assoluto sapere, ma studio, sforzo, ricerca per sapere». In queste parole riemergeva con estrema chiarezza l’hegeliano scolaro dello Spaventa, con tutto l’argomentare dialettico. Come parimenti di natura dialettica era la sintesi proposta da Angiulli: «lo studio delle leggi delle scienze (logica), delle loro relazioni (sistema delle scienze), e del risultato delle loro ricerche (concezione della realtà, della natura e della storia) costituirà appunto la filosofia. Cessa il dualismo e l’antagonismo tra le scienze e la filosofia. (…) Le scienze positive hanno bisogno della filosofia, e questa di quelle. Sono nella relazione di parti e di tutto, di organi e di organismo, di funzioni e di vita, di scienze particolari e di scienza generale e totale». Né era un rapporto meccanico, bensì critico. «La scienza positiva diventa il principio della storia moderna. La filosofia non potrà esistere che come investigazione scientifica, come ricerca positiva». La sintesi era molto importante. Essa veniva a configurare il pensiero di Angiulli come una sorta di positivismo idealistico o di idealismo positivistico, proprio per la riconduzione di tutta la problematica alla dimensione storica e la continua dialettica tutto (filosofia) – parte (scienze). Questo non lo mise al 15 riparo delle critiche degli idealisti e non solo degli idealisti, ma erano proprio queste critiche ad occultare l’originalità e anche la consistenza teoretica del pensiero di Angiulli, che potrebbe essere letto come una interpretazione specifica dell’idealismo in chiave di recupero delle scienze. In questo modo Angiulli vedeva di fronte a sé dischiudersi nuovi spazi di ricerca. È ricerca e non domma, sperimentale e non metafisica, a posteriori e non a priori; è in continua formazione come tutte le altre scienze; è immanente e non trascendente; è umana collettiva ed universale; inoltre come ricerca positiva è essenzialmente storica, è accordo di teoria e di pratica, di ideale e di reale. Ciò comportava un altro elemento di fondo, che ricorda anche Littré , ossia che occorreva mettere da parte sia la rivoluzione sia la conservazione ed insistere sulla trasformazione. Era la convinzione di una filosofia che determinasse il progresso sociale, il futuro dell’umanità. Si comprendono quindi le seguenti affermazioni. «La filosofia come ricerca positiva non può volere altro che la trasformazione del reale, perché essa stessa è trasformazione e progresso. La trasformazione della società mediante il lavoro, la libertà e la scienza è la dottrina della nuova filosofia e della nuova democrazia». Il discorso di Angiulli si spostava ormai sull’impegno civile, concreto: dalla sottigliezza speculativa allo scontro con la realtà. Non si doveva, infatti, trascurare che uno dei maggiori impegni della cultura positivista era la volontà di contribuire concretamente al miglioramento delle condizioni sociali. Questo, ovviamente, valeva particolarmente in Italia all’indomani dell’Unità, una Unità che ancora non vedeva Roma capitale né tanto meno, dopo la III Guerra di indipendenza (1866) la “redenzione” di Trento e Trieste. Ma non erano solo i problemi politici a turbare la coscienza degli intellettuali. Specialmente per un uomo del Sud, che aveva visto espandersi per poi essere represso con violenza il fenomeno del brigantaggio, il problema fondamentale era quello dell’elevazione del tenore di vita e della formazione di una coscienza civile adeguata ai tempi. In questo senso l’impegno per il miglioramento sociale veniva ad accompagnarsi, come in tanta cultura dell’epoca, ad una forte contrapposizione con la Chiesa romana, accusata di conservatorismo, e, quindi, con lo stesso concetto di religione. L’anticlericalismo di Angiulli, spesso ricorrente nelle sue pagine, trovava una spiegazione nel diffuso senso di ostilità, propria dell’intelligenza meridionale, verso i sacerdoti (più che di per sé verso la religione), accusati almeno dai moti napoletani del 1799 di essersi schierati con la conservazione e l’oppressione. La liberazione dagli elementi soprannaturali dalla storia e la consapevolezza che questa era una continua trasformazione spingeva Angiulli ad affermare di essere pervenuti ad un nuovo e fondamentale momento storico, finalmente capace di interpretare e promuovere il cammino della storia. Angiulli, che continuava a tenere presente il socialismo umanitaristico e universalistico di Littré, trasformava il suo discorso in un reale manifesto di crescita sociale. La filosofia non era più semplicemente la riflessione sulla natura delle cose, ma diventava la guida della trasformazione sociale che trovava nello Stato il centro di raccordo necessario e naturale dell’intero organismo. È l’immagine dello Stato liberale, che garantiva le condizioni per la libertà e l’eguaglianza, senza però scivolare in una sorta di collettivismo paritario a priori. Angiulli, infatti, riconosceva «la disuguaglianza delle capacità» tra gli individui. Da un punto di vista politico, pertanto, il suo discorso era riformista, innovatore, ma non rivoluzionario. Egli manteneva l’ordine sociale, come si conveniva in una Europa delle nazioni che già conosceva i fermenti 16 socialisti al suo interno e richiedeva, quindi, come essenziale, la stabilità civile che garantisse quella economica e conseguentemente favorisse il benessere e il riformismo. In questa logica Angiulli comprendeva con chiarezza il ruolo determinante che poteva e doveva avere la cultura per la stabilità e il riformismo sociale. Riteneva, infatti, che il principio del progresso umano e sociale fosse la cultura scientifica, al cui sviluppo dovevano necessariamente contribuire la scuola, e i processi di istruzione. Questo, il programma intellettuale su cui Angiulli s’impegnò e, chiaramente, i concetti di ricerca, progresso, elaborazione storica comportavano, sempre per Angiulli, la fine di ogni immobilismo concettuale, mentre il diritto non era più un’entità metafisica, «ma un rapporto di condizioni concrete della vita umana. Il quale perciò si costituisce e si trasforma a misura che si costituiscono e si trasformano le suddette condizioni». Lo stesso concetto di bene subiva un’evoluzione. Angiulli comprendeva chiaramente come la sua posizione potesse essere accusata di relativismo e reagiva spiegando che il suo punto di vista non doveva essere inteso come capriccio o arbitrio soggettivo; del resto il concetto di trasformazione, da lui riconosciuto e sostenuto, non era un «rimutamento totale», permanendo rapporti costanti che dipendevano dalla natura degli esseri. Così l’etica rimaneva e si basava sul principio della vita umana; la politica doveva garantire il bene di tutti e non di pochi; la distinzione tra sovrano e suddito era solo frutto di contingenze storiche e così via. Angiulli non esitava ad allontanare l’accusa di comunismo. «Questa dottrina non è il comunismo, perché eleva invece il valore di libertà e di sovranità in ogni individuo, e però mantiene la distinzione delle capacità. Lo Stato non è un fine a sé stesso, ma è un mezzo per la libertà degli individui».. Ci troviamo, in sostanza, dinanzi ad un evoluzionismo sociale, politicamente moderato e capace di insistere sulle potenzialità collettive, sino a prospettare, come già l’ultimo Comte, la religione dell’umanità, quella “nuova coscienza religiosa”, in grado di soppiantare definitivamente quelle tradizionali. «La nuova coscienza religiosa che potrà sorgere da questa elaborazione intellettuale sarà superiore al cattolicismo al protestantesimo ed al cristianesimo, perché sarà la religione dell’umanità. Il cristianesimo dovrà assorbirsi nell’umanità».. Qui Angiulli si mostrava estremamente vicino a Comte e a Littré, sino a ritenere assurda non solo una religione di Stato, ma la stessa possibilità di una compresenza di un libero Stato e di una libera Chiesa, stante il carattere autocratico della Chiesa romana. In effetti, ci si trovava negli anni della più dura contrapposizione tra Stato e Chiesa. Infine come mutava il senso del vero e del bene, così cambiava l’estetica. Ogni tempo aveva avuto una sua produzione artistica e Angiulli intuiva i futuri mutamenti che l’industria e la scienza porteranno nell’arte e guardava con attenzione alla produzione letteraria naturalista e verista ancora in fieri. Ma ciò che premeva veramente al filosofo era il miglioramento delle condizioni materiali della vita umana. Il discorso filosofico tendeva così a diventare discorso pedagogico. Nel 1871, in occasione dell’insediamento quale professore incaricato di Antropologia e Pedagogia nell’Università di Bologna, Angiulli teneva un’importante allocuzione, La filosofia positiva e la pedagogia, che in realtà era, idealmente, la continuazione del precedente volume. Il punto di partenza del saggio era la constatazione dello sviluppo scientifico che aveva condotto all’affermazione della società industriale. 17 Effettivamente la situazione politica italiana ed europea che Angiulli aveva di fronte a sé era una situazione a dir poco travagliata. Il 20 settembre 1870 i bersaglieri entrarono a Roma che nel 1871 sarebbe diventata formalmente capitale, ponendo fine alla plurisecolare vita dello Stato pontificio, ma il pontefice Pio IX ritenne il governo italiano usurpatore dei suoi diritti e, chiudendosi dentro il Vaticano, si dichiarò prigioniero degli italiani, aprendo una lacerazione ancora più profonda nelle coscienze. Ma ai primi del settembre del 1870 era caduto l’impero napoleonico, principale sostenitore della causa papale, e, mentre Guglielmo I a Versailles veniva incoronato (18 marzo 1871) imperatore di Germania, Parigi conosceva l’esperimento socialista e radicale della Comune che si traduceva in una tremenda e sanguinaria lotta civile volta ad infrangere ogni possibilità di convivenza pacifica tra repubblicani e socialisti. Tenendo conto di tale rivolgimento, non c’è da stupirsi che Émile Littré si accingesse a rivedere criticamente le certezze di qualche anno prima. Il problema di Angiulli era, pertanto, quello di contribuire come intellettuale moderato alla agognata stabilità sociale che fosse insieme progresso sociale lontano dagli estremismi e dalla conflittualità delle coscienze. Angiulli non credeva che lo sviluppo intellettuale fosse in contrapposizione con quello morale; capiva assai bene come tale tesi potesse giovare alle forze reazionarie, ai conservatori, allo status ante. Occorreva andare avanti. Il cammino della storia non era mai indolore, ma era positivo. Angiulli sentiva il bisogno di una fede comune che ancora non c’era, una fede che sostituisse quelle tramontate. L’obiettivo delle coscienze era la «ricostruzione dell’essere sociale». Già un altro pedagogista, Aristide Gabelli, nel 1866 aveva scritto che «quanto maggiormente si allarga la libertà conceduta a ogni cittadino, quanto più crescono i suoi diritti, i suoi poteri, la sua ingerenza nei pubblici affari, tanto è più necessaria una guarentigia ch’egli ne farà uso in modo consentaneo a giustizia e all’utilità del paese». Gabelli individuava tale guarentigia nella coscienza e sosteneva che era necessario ricorrere all’educazione per formare buoni cittadini. Che fare, allora? Angiulli intuiva con chiarezza che la costruzione dell’essere sociale implicava il consenso e individua nell’ elemento intellettuale ciò che determinava la gerarchia delle funzioni, l’energia che «trasmuta i fatti organici in fatti storici e suscita e dirige tutto il movimento della vita collettiva». L’elemento intellettuale e non le condizioni naturali, i sentimenti, i caratteri, le forme politiche. Angiulli sentiva come mai prima l’impegno civile dell’intellettuale. Ne risultava che il motore della storia, nonostante che Angiulli si sforzasse di ricordarne l’origine psichica, era sempre l’idea. E l’idea, in questo positivismo non privo di forti echi idealistici, era da un lato sapere (cioè fondamento dei progressi passati), dall’altro fondamento dei progressi a venire. Angiulli aggiungeva però subito che lo sviluppo intellettuale non era lineare, riprendendo le teorie di Comte e Vico. Sempre seguendo il pensiero di Comte, Angiulli rilevava che attualmente nel mondo morale convivevano conflittualmente la concezione mitica, quella astratta e quella positiva. Era possibile una mediazione? Secondo Spencer, annotava Angiulli, le tre concezioni avevano un punto di partenza vicino come uno stesso punto di arrivo. Muovevano dai fenomeni dell’esperienza comune e cercavano una spiegazione del problema del mondo. L’errore della posizione teologica e di quella ontologica stava nell’affidarsi alla fantasia e all’astrazione. Il positivismo invece spiegava i principii dei fenomeni con i fenomeni stessi. Nel suo argomentare Angiulli si mostrava in tutta la sua ortodossia positivista, pervenendo ad una concezione evoluzionista, dinamica del processo 18 del reale. Diventa sempre più evidente la necessità di rivedere i sentimenti morali cercando di fondarli sulla concretezza della vita sociale. Affinché ciò accadesse, continuava Angiulli, ci sarebbe voluta una soluzione pratica e per far entrare la teoria nella coscienza di tutti sarebbe stata necessaria l’istruzione, sarebbe stata necessaria la scuola. Questo il punto. Angiulli era pervenuto ad una sua concezione del positivismo, ma si rendeva conto che questa concezione poteva avere un senso solo se avesse acquistato la capacità di trasformare, di contribuire fattivamente all’evoluzione sociale. E il problema che a lui era di fronte non era dato solo dal permanere di punti di vista e di comportamenti religiosi e metafisici; era anche e soprattutto offerto dalla effettiva precarietà della vita sociale. In qualche modo, avendo a suo parere delineato il problema generale, l’esito della sua opera si spostava quasi necessariamente sul piano operativo e su questo piano doveva, altrettanto necessariamente, incontrare la pedagogia come disciplina capace di dare alle istituzioni scolastiche la vitalità giusta per la rinascita civile. Il filosofo Angiulli si faceva pedagogista. Il problema dell’educazione, e conseguentemente della scuola, diventava il problema essenziale per l’uomo di pensiero, la vera questione che era di pertinenza immediata del pensatore positivista. In questa prospettiva, il problema educativo non poteva essere semplicemente legato a quello dell’istruzione, ma anche, e soprattutto, a quello della più completa formazione, poiché vi era in gioco la formazione della mentalità, della forma mentis, del modo di partecipare alla vita civile, di concepire la vita sociale. In altri termini, il problema educativo si poneva in quanto, sullo sfondo, urgeva il problema morale. Naturalmente la questione riguardava in primo luogo l’educazione del popolo, aspetto assai dibattuto. «Non basta moltiplicare le scuole e render l’istruzione fino ad un certo grado obbligatoria e gratuita. L’efficacia delle scuole non deriva dal loro numero e dal loro meccanismo, ma dal loro contenuto». Angiulli lamentava allora che non solo nei contenuti delle discipline e dell’impostazione scolastica permanessero diverse concezioni della vita, ma vi fosse una notevole diversità e contrasto di approccio educativo tra i vari gradi scolastici, tra gli insegnamenti scientifici e quelli letterari, tra gli stessi docenti, tra docenti e genitori e vita sociale. Non esisteva una effettiva unitarietà di impostazione e di vedute, anzi la frammentazione e l’incoerenza dell’insegnamento potevano far sembrare a molti un’utopia la riuscita di una efficiente scuola popolare. La preoccupazione di Angiulli era, quindi, prettamente speculativa, di una speculazione di matrice comtiana per la quale il problema sociale, concreto, derivava da quello speculativo. Era l’assenza di una effettiva egemonia della filosofia positiva nell’istruzione pubblica a renderla inefficace e, pertanto, a rendere inefficace la sua incidenza per il miglioramento della società. Naturalmente questo comportava da un lato il carattere unitario, e per certi versi metafisico, dell’impostazione di Angiulli e del positivismo in generale, e dall’altro la intrinseca natura totalitaria di tutta l’impostazione speculativa, in quanto la scienza o meglio la filosofia positiva si manifestava come l’unica chiave di lettura dell’intero processo storico, il quale ultimo, a sua volta, per un corretto sviluppo, doveva essere permeato e guidato da tale filosofia. Angiulli ribadiva il primato della pedagogia (quindi della scienza) per la ricostruzione e l’armonia sociale. Di qui seguiva, ancora una volta, che erano le 19 idee a dirigere e a determinare il corso della storia. Era inoltre implicito che la pedagogia di cui egli parlava non poteva che appartenere alle scienze positive. Si trattava di definirla nei particolari. Altri elementi fondamentali dell’affermazione sono che in tale prospettiva lo Stato aveva la funzione di garante della corretta incidenza pedagogica (lo Stato liberale), mentre la scuola era lo strumento pratico, istituzionale, di azione e promozione sociale. La pedagogia veniva così ad assumere un ruolo guida di primaria importanza, conservando una duplice natura, quella di riflessione speculativa, meglio scientifica, e quella di azione concreta. Ora riconosceva che la pedagogia aveva un fondamento nell’antropologia poiché l’educazione doveva conformarsi alla natura fisica e psichica dell’uomo. Se non che l’uomo poteva essere visto (metafisica) come coscienza ed era tale impostazione, a detta di Angiulli, che ancora prevaleva nelle scuole italiane. Ma alla fine dei conti anche le scienze positive non risultavano essere poi del tutto precise intorno al concetto di antropologia intesa o come studio delle varietà umane o come storia delle società. Occorreva una maggiore determinazione e Angiulli, secondo lo spirito del tempo, individuava le diverse scienze particolari su cui doveva a sua volta fondarsi l’antropologia. In altri termini, Angiulli ancorava la conoscenza dell’uomo alle scienze naturali ed umane (biologia, sociologia, psicologia ecc.) e per questo lo studio della persona rientra nell’ambito naturalistico scientifico. D’altra parte l’antropologia da sola non poteva bastare in quanto l’educazione non riguardava solo la vita individuale dell’uomo, ma anche quella morale e sociale. Bisognava avere una cognizione precisa dei prodotti umani, e la scienza che forniva la cognizione dei prodotti umani era la storia. È interessante che Angiulli avesse indicato la storia e non la sociologia come l’altra scienza costitutiva della pedagogia. In questa sua convinzione si scorgeva una chiara influenza del suo modo di intendere Vico16: in questo vi era inoltre un chiaro intento del primato italiano di cui non era esente il pensatore pugliese nonostante la sua formazione europea e traspariva nella stessa rivendicazione di una originalità all’interno di un movimento, quello positivista, di vasta portata internazionale. Naturalmente Angiulli vedeva la storia come processo di trasformazione e di miglioramento sociale, non come mera informazione. La storia non si ripete e per sua intrinseca natura chi intende la storia è per l’innovazione, per il progresso. Anche qui era evidente l’influenza idealistica ricevuta da Spaventa. «Appunto perché la storia è l’educazione o la pedagogia dell’umanità, la scuola del presente sarà fattore di educazione e di progresso, quando non ripete semplicemente il passato, ma aggiunge nuovi elementi e nuova forza alla corrente dell’avvenire». Angiulli si rendeva conto della fondamentale importanza del significato della storia come impulso per il progresso pedagogico e civile in genere, ma non voleva che essa venisse, per così dire, contaminata da influenze metafisiche. Il suo era un immanentismo naturalistico, dove potrebbero essere individuate influenze del naturalismo panteistico di Spinoza. Lo stesso concetto di sociologia mutuato da Comte non era altro che un modo di intendere la storia, esplicandosi come garante del progresso storico.. Ma l’antropologia e la storia (o sociologia) non erano ancora sufficienti. «Alla costituzione delle scienze naturali segue la costituzione delle scienze storiche. Come Galilei cominciò la prima nella storia moderna, così Vico cominciò la seconda. Come il grande principio di Galilei fu la spiegazione della natura mediante le leggi ricavate dalla natura stessa, così la creazione di Vico fu di vedere come il concetto etico ed umano era inesplicabile senza il concetto storico, il concetto di sviluppo, come dice lo Spaventa» 16 20 Infatti, se la scienza dell’uomo e la scienza della storia si integravano tra loro, «egli è chiaro che come perciò l’antropologia e la sociologia hanno l’ultimo fondamento della loro positività scientifica fuori della loro sfera particolare, nella concezione dell’unità cosmica, così la pedagogia di sotto all’antropologia e alla sociologia ha per sua base la dottrina di cotesta unità cosmica. La legge e la dottrina dell’educazione umana non deve rompere ma deve continuare la legge e la dottrina dell’evoluzione cosmica. Or, questa dottrina che studia la legge dell’unità e dell’evoluzione cosmica e che perciò non è più una scienza particolare, ma una scienza generale, è la filosofia positiva. L’ultimo fondamento dunque della pedagogia è la filosofia». L’approdo, pertanto, era la filosofia. Il che sembrerebbe contraddire quanto prima affermato da Angiulli allorché egli aveva distinto la pedagogia dalla filosofia e dalla precettistica, rendendo l’individuo oggetto delle scienze naturali ed umane. A tale osservazione il pensatore avrebbe potuto però rispondere che la filosofia, da cui si allontanava la pedagogia, era, chiaramente, quella teologica e metafisica, espressione del passato. Al contrario, la filosofia su cui si sarebbe dovuta basare la pedagogia sarebbe stata la nuova filosofia, ossia la filosofia positiva. Il discorso si rinchiudeva, pertanto, in sistema. Se la scienza dell’uomo e la scienza della storia erano l’elemento propulsivo, ciò che l’unitarietà allo sviluppo era la filosofia, ed era la filosofia, intesa come filosofia positiva, a fornire alla pedagogia il sistema del contenuto enciclopedico. Ciò significava a sua volta che la pedagogia era il corifeo della filosofia positiva. «La pedagogia prepara l’ingresso della filosofia positiva nella scuola e mediante la scuola nella vita sociale». Così, riprendendo la classificazione comtiana delle scienze (matematica, meccanica, fisica, chimica, biologia, sociologia), Angiulli individuava il significato della pedagogia come scienza pratica, essendo insieme scienza ed arte. Infatti le scienze su cui si fondava (quelle astratte come la biologia e la sociologia e quelle concrete come l’etnologia e la storia) vi devono trovare applicazione. Di qui alcuni passaggi interessanti che investivano la pedagogia non solo nella scontata dimensione didattica ma pure quella politica e quella sociale. La politica, prendendo come punto di partenza l’individuo, si indirizzava alla società; la pedagogia, prendendo come punto di partenza la società, si indirizzava all’individuo. Mediante l’educazione, a dire di Angiulli, l’uomo infatti acquistava coscienza della legge, diventando cittadino. «Così la filosofia positiva si attua come pedagogia positiva e come politica positiva, e può risolvere il problema dell’educazione e il problema sociale». Ciò significava, infine, per Angiulli la fine delle idee socialiste. Lo sviluppo sociale non era più affidato ad un capo nella contrapposizione della lotta di classe. Al contrario, sarebbe stato il graduale corso della storia a garantire pacificamente l’evoluzione sociale e la conoscenza delle necessità storiche, opera dell’educazione, avrebbe messo fine ai moti turbolenti e alle violenze. Il vero motore della storia, secondo Angiulli, non erano, pertanto, i singoli individui, bensì l’intero processo sociale, che era opera collettiva. La pedagogia diveniva in tal modo non solo garante dell’ordine costituito, ma foriera di una graduale processo di miglioramento collettivo. La pedagogia offriva una concreta possibilità di operare fattivamente senza rinunciare al ruolo di filosofo. 21