ALLEGATO IV –I PARTE
MAPPE CONCETTUALI:
Sul VOLUME di G. U. CAVALLERA, Andrea Angiulli e la fondazione
della Pedagogia scientifica:
Andrea Angiulli, nato a Castellana in Terra di Bari nel 1837 e morto a
Napoli nel 1890,dopo un breve periodo di insegnamento nei licei di Napoli, fu
dal 1872 al 1876 professore di Pedagogia all’Università di Bologna e, dal 1876,
succedendo a Edoardo Fusco, professore ordinario di Pedagogia all’Università
di Napoli sino alla sua morte. Autore di tre importanti volumi (La filosofia e la
ricerca positiva, 1868; La pedagogia, lo stato e la famiglia, 1876; La filosofia e la scuola,
1888), direttore dal 1881 alla morte della “Rassegna di opere filosofiche,
scientifiche e letterarie”, è stato sicuramente uno dei capiscuola del positivismo
italiano, in cui le tesi di Comte e Littré, di Mill e di Spencer hanno avuto un
ripensamento alla luce del materialismo di Haeckel.
È considerato uno dei fondatori della cosiddetta pedagogia scientifica, di
una pedagogia, cioè, che si fondava su scienze come l’antropologia, la
sociologia, la psicologia ecc. e che guardava con attenzione ai temi della scuola
e della famiglia.
Tra gli autori che hanno scritto su Angiulli va ricordato anzitutto il suo
discepolo più caro, Giovanni Antonio Colozza; sua è la voce sul Dizionario
illustrato di pedagogia diretto da Martinazzoli e Credaro in cui si dà un ritratto del
professore carico anche di sincero affetto. E Colozza fu per qualche anno
collega, all’Università di Palermo, di Giovanni Gentile, che lo aveva in stima.
Gentile, che pure considerava Angiulli una mente speculativamente forte
e a cui rimproverava la scarsa produzione scientifica fu, come è noto, autore di
un’opera che divenne un punto di riferimento il mondo filosofico italiano, Le
origini della filosofia contemporanea in Italia, pubblicata in 4 volumi, tra il 1917 e il
1920, dal Principato di Messina e che raccoglieva numerosi saggi apparsi, nei
primi anni del secolo, su “La Critica” fondata da Croce e Gentile nel 1903 e
diretta da Benedetto Croce.
Si trattava di saggi molto severi, scritti anche nell’intento di contestare una
filosofia in declino qual era in quei tempi il positivismo, avversi al neokantismo
e sostenitori del neoidealismo di Spaventa.
Le dure critiche di Gentile furono, per quanto riguarda il positivismo,
accettate dal clima spiritualistico della prima metà del Novecento, e proprio a
causa dell’autorevolezza del giudizio del filosofo siciliano si spiega anche la
scarsa fortuna critica dei filosofi e pedagogisti positivisti durante il periodo
dell’egemonia filosofica neoidealista.
Il giudizio di Giovanni Gentile ha pesato a lungo sugli studi sul
positivismo in Italia. Solo con gli anni Sessanta la produzione positivista
ricominciò a essere studiata con maggior oggettività e rivalutata da studiosi
come Renato Tisato e Francesco Cafaro.
Di là degli intenti, il taglio dell’analisi di Gentile era comunque basato sulla
diretta lettura dei testi e sul confronto sui temi più significativi, poco insistendo
sul contesto storico, relativamente a lui vicino. In questo e per questo la lettura
interpretativa di Gentile era chiaramente speculativa, e del resto ciò era altresì
sollecitato dalla natura stessa delle opere stesse di Angiulli, ma anche di
Siciliani, Ardigò, i quali, proprio insistendo sulla “scientificità” della loro
elaborazione, la separavano dal contesto e ne mettevano in luce i tratti, per così
dire, oggettivi, in una logica scientista che voleva essere atemporale e, se
proprio di tempo si doveva parlare, questo era quello dell’evoluzione,
determinato dallo sviluppo biologico e dalle necessità organiche, più che
propriamente sociali.
In tempi più recenti lo studioso che più si è interessato al pensiero di
Andrea Angiulli è stato Alessandro Savorelli, curatore, tra l’altro, del volume
Gli hegeliani e i positivisti in Italia, nel quale vengono raccolti e pubblicati alcuni
saggi inediti del filosofo di Castellana verso il quale, tuttavia, Savorelli si è
dimostrato alquanto ingeneroso, contestando anche l’importanza di tutto il
positivismo italiano.
La fortuna critica di Angiulli cominciò ben presto a scemare, anche a
causa della mancanza di una sua propria scuola, ma occorre anche considerare
come, poco tempo dalla sua morte, peraltro prematura, tutta l’opera sua, di
Pietro Siciliani e degli altri positivisti sia stata travolta dalla revanche neoidealista
che si prefiggeva la demolizione della filosofia positivista italiana.
Angiulli riconosceva la necessità di una scuola dell’obbligo statale, che
egli voleva estesa fino ai 13 anni e organizzata sistematicamente secondo le
nuove esigenze dell’epoca (dando, cioè, risalto alle materie scientifiche che
dovevano educare le nuove generazioni ad avviarsi ad un’età di grande
fermento sociale e culturale, oltre che feconda di notevoli scoperte e invenzioni
scientifiche e industriali), al contrario dei raccogliticci e anacronistici
programmi scolastici della scuola popolare di allora, e, ancora, quanta
importanza riservava nel suo pensiero Angiulli verso la donna, denotando
acutamente l’importanza del suo ruolo educativo all’interno della famiglia e,
quindi, ribadendo la necessità che anche la donna, in quanto madre e di
conseguenza prima educatrice, doveva di necessità ricevere un’educazione
completa.
Questa nuova concezione del ruolo femminile dimostra poi la funzione
decisiva che il filosofo riservava alla famiglia, in quanto questa era la prima
istituzione educativa, necessaria per formare le menti delle future generazioni,
che avrebbe dovuto integrare e precedere l’istruzione statale, venendone a sua
volta informata.
Non bisogna infatti dimenticare che il ruolo importante svolto dai
positivisti italiani è stato quello di coinvolgere scuola e famiglia nella
formazione dei cittadini del neonato Regno d’Italia, che necessitava di
un’istituzione scolastica unitaria e coesa e l’impegno di pensatori come Angiulli,
Gabelli, Siciliani in campo educativo è stato quanto meno positivo per la
riconsiderazione dell’educazione femminile e per la diffusione in tutta la
Penisola di una scuola di Stato pubblica e gratuita, anche se essa in molti casi
rimaneva una chimera.
D’altra parte, basta soltanto considerare la vicenda della vita intellettuale
di Angiulli per rendersi conto di quanto sia interessante la sua figura: la sua
formazione nell’ambito della scuola idealistica napoletana di Bertrando
Spaventa, la sua clamorosa conversione berlinese al positivismo che gli valse il
sarcasmo di Gentile, il ritorno a Napoli come professore trovandosi dinanzi il
suo vecchio maestro e la sua scuola come duri avversari, ai quali tuttavia
Angiulli rimaneva per certi versi legato da stima profonda. Sentimenti
rispettosi che non certo vennero rivolti al suo collega Pietro Siciliani, col quale
Angiulli ebbe una durissima polemica che si protrasse sino alla vigilia della
morte del pensatore salentino, polemica che nel corso del saggio viene
ampiamente descritta e riportata.
La formazione di stampo idealista ricevuta a Napoli lasciò un’impronta
costante nel pensiero del filosofo che, pur nella sua adesione decisa alla nuova
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filosofia conosciuta oltralpe, aveva mantenuto fortemente l’impostazione
storicistica e dialettica propria della cerchia di Spaventa, tenendo d’altra parte
presente la filosofia di Giovanbattista Vico, attraverso la quale Angiulli filtrò e
contestò la concezione evoluzionistica e determinista spenceriana.
Attacchi nei suoi confronti furono portati sia dalle gerarchie
ecclesiastiche, che non potevano tollerare il suo deciso anticlericalismo, sia dalla
élite conservatrice che lo accusava, non correttamente, di essere un socialista.
Accuse che sembrano permanere tuttora intorno alla memoria di
Angiulli, se nel 2001, in un articolo di un giornale locale, il filosofo veniva
definito:”Figlio ingrato di Castellana”, Giudizio che peraltro Alessandro Savorelli,
nel centenario della morte del filosofo, aveva anticipato definendo Angiulli un
teorico che non seppe o non volle curarsi fattivamente dei problemi della sua
terra.
Eppure Angiulli rischiò il carcere nel cospirare contro la monarchia
borbonica dettando proclami alle popolazioni meridionali, quando ancora era
un giovane studente, e ben tre volte si candidò come deputato nella sua
provincia, senza mai ricevere il consenso dei suoi cittadini, pertanto non
ritengo sia corretto apostrofare il filosofo di disinteresse verso la sua terra natia.
L’illustrazione del pensiero di Angiulli è stata svolta nel presente saggio in
chiave storica, ossia esaminando i suoi testi e l’evoluzione del suo pensiero
cronologicamente e tenendo presente il contesto in cui si collocava.
Andrea Angiulli, partecipò di prima persona all’unificazione d’Italia,
prendendo parte con passione alla propaganda sovversiva all’interno del Regno
delle Due Sicilie alla vigilia dell’impresa dei Mille e visse con turbamento le
vicende del 20 settembre e la contrapposizione tra Stato e Chiesa.
Nel ricordare l’anticlericalismo, che in Angiulli è stato aspro, talvolta
addirittura ostentato con dichiarazioni astiose, bisogna tener presente, oltre al
suo orientamento filosofico che non poteva non renderlo avverso
all’intransigenza della Chiesa di allora, l’appartenenza del pedagogista alla
massoneria, allora decisamente ostile al Vaticano. Basti pensare all’erezione a
Roma (1889), in Campo dei Fiori, del monumento a Giordano Bruno,
considerato campione del libero pensiero, voluta dal sindaco di Roma Ernesto
Nathan, anch’egli massone.
Per quello che riguarda la storia sociale, si sono tenuti come sfondo i
problemi dell’emancipazione femminile, dell’equilibrio delle funzioni nella
famiglia, la lotta al perdurante analfabetismo e l’arretratezza che investiva
buona parte della Nazione, che faceva da contrasto con il rigoglio tecnico e
scientifico che in Europa aveva avuto seguito alla seconda rivoluzione
industriale e che aveva portato il Vecchio Continente ad avere una supremazia
assoluta sull’intero globo.
Il positivismo, sorto successivamente alle radicali trasformazioni
avvenute in Europa in seguito alla cosiddetta Rivoluzione Industriale del XVIII
secolo, si diffuse e caratterizzò le scienze e la cultura europea a partire dalla
seconda metà dell'Ottocento sino agli inizi del secolo scorso. La sua
caratteristica peculiare fu il metodo incentrato sull'osservazione attenta e
rigorosa sulla ricerca e sullo studio di dati certi, con dimostrazioni verificate, sui
fenomeni storici, sociali, naturali. Non più, quindi, la ricerca e l'indagine a priori,
propria delle filosofie metafisiche.
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Corrente filosofica europea, il positivismo si sviluppò in diverse
situazioni culturali e storiche, come erano quelle dell'Inghilterra, della Francia,
della Germania e dell'Italia, assumendo così connotazioni particolari, proprie
dell'ambiente in cui, volta per volta, venne attestandosi. La prima formulazione
della filosofia nascente fu il Cours de Philosophie Positive (1830-1842) di Auguste
Comte (1798-1857), il cui pensiero fu poi divulgato e arricchito da M.-P.-É
Littré (1801-1981), H. Taine (1828-1893), É. Durkheim (1858-1917). In
Inghilterra si affermarono Herbert Spencer (1820-1903) e John Stuart Mill
(1806-1873). Soprattutto Spencer, col suo evoluzionismo, godette di una fama
eccezionale per tutto il secondo Ottocento.
Il successo europeo del positivismo, il fatto, cioè, che tale corrente
diventasse un modo comune di sentire, nonostante che nel suo interno
sorgessero diverse scuole a seconda delle realtà nazionali in cui maturava, fu
probabilmente dovuto alla concomitanza di diversi fattori, tra cui: a) il ruolo
fondamentale dell'impostazione scientifica, se non proprio scientista, che gli
garantiva una oggettività che lo poneva al riparo da questioni di principio e non
verificabili; b) lo sviluppo, talvolta lento, ma decisivo dell'economia in
un'Europa che, dopo quella del 1870 tra Francia e Prussia, non vide nel
continente alcun conflitto di grandi dimensioni; c) la persistenza di una stabilità
sociale che richiedeva concreti miglioramenti della qualità della vita, che
sembrava appunto essere assicurata dallo sviluppo della scienza e della tecnica.
Di qui altresì, grazie anche all'affermazione delle tesi evoluzionistiche di
Darwin e di Spencer, la fede nel progresso e il conseguente riformismo, ben
confacente alla cultura borghese, del tutto sfavorevole a rovesciamenti sociali
immediati e violenti, come quelli auspicati dai socialisti e da Marx, e disposta,
invece, ad una graduale trasformazione che elevasse il tenore della vita dei più,
ma senza fratture.
Non si dimentichi inoltre che, in particolare in Italia, la fortuna del
positivismo aveva trovato paradossalmente un alleato in certe posizioni, del
tutto opposte, della Chiesa di Roma, che con il Sillabo di Pio IX si era dichiarata
ostile al libero pensiero e a tutte le novità del tempo. Com'è facile intuire, la
chiusura di certi ambienti della Chiesa cattolica, che pure continuava ad operare
positivamente su altri fronti, accentuò nel piano culturale una frattura che,
resasi più acuta dopo il 20 settembre del 1870, avrebbe concorso ad alimentare
la vis polemica di certe correnti vicine alle posizioni del positivismo.
Un altro elemento che contribuì non poco alla diffusione del positivismo
fu lo sviluppo delle scienze e delle tecniche. Sarebbe non certo corretto
intendere il positivismo filosofico (e pedagogico) come una sovrastruttura, una
legittimazione ideologica del successo delle scienze, ma certo quest'ultime
contribuirono non poco a garantire la priorità dell'impostazione speculativa del
positivismo. Si aggiunga, inoltre, che questo trionfo delle scienze accresceva la
fede nel progresso, la fiducia che il domani sarebbe stato migliore del presente,
fiducia che non poteva che giovare alla piccola borghesia che sembrava trovare
nuove forme di rispettabilità sociale e allo stesso proletariato.
La fiducia nel progresso era peraltro affiancata da un altro consistente
elemento. L’assoluta centralità dell'Europa, o meglio di alcuni Stati europei,
nella politica mondiale. Del resto, la politica colonialistica di Stati come la Gran
Bretagna, la Francia, il Belgio e così via assicurava alle nazioni europee
ricchezze mai prima avute, grazie allo sfruttamento delle terre d'oltre mare, e
faceva sorgere nelle coscienze la sensazione del definitivo trionfo della razza
bianca.
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Invero, se grosso modo il primo Ottocento si era consumato nella
affermazione delle diverse patrie, con un impegno ideale e materiale di diverse
generazioni, il secondo Ottocento veniva come a godere dei risultati del primo,
e quindi a razionalizzarne i risultati.
Ciò conduceva, era chiaro, alla fine degli entusiasmi romantici e alla più
prosaica gestione dell'esistente, talvolta a quella che Bismarck chiamò, con
estrema chiarezza, la real-politik, e questo non poteva che sollevare perplessità,
malumori, nostalgie e inquietudini tra le generazioni. Ma era, a ben vedere, il
punto d'arrivo necessario, il bisogno di sistemazione dopo gli empiti romantici,
belli sì, ma destinati ad esaurirsi nella normalizzazione delle cose, nel così detto
processo di istituzionalizzazione, nel quale la scolarizzazione, in Italia come in
tutta Europa, avrebbe giocato un ruolo fondamentale. Di qui l'attenzione alla
materialità della vita. Vi erano, in quell'Europa da poco stabilizzata, problemi di
rilevante importanza tra i quali mette conto segnalare
l'igiene e
l'alfabetizzazione. Non dimentichiamo la presenza periodica di malattie, delle
nuove patologie respiratorie, di epidemie dovute alla diffusa sporcizia, delle
difficoltà causate dall’aumento esponenziale della popolazione urbana nei
grandi centri industriali. Anche in questo caso la quotidianità sembrava
legittimare appieno la logica e il successo del positivismo. Più che disputare sui
fini ultimi della vita, occorreva dunque impegnarsi concretamente per
migliorare la qualità della vita. In tal modo riprendevano consistenza le tesi
illuministiche, ma non più permeate da una astratta ragione, bensì da un
articolato sistema di scienze, da una attenzione alla vita concreta, a
problematiche puntuali, fuori da ogni retorica di un tardo ed astorico
umanesimo.
Per tutte queste ragioni, il positivismo, di cui ci siamo qui limitati a
richiamare le sue linee di fondo, ebbe un successo mai prima riscontrato da una
filosofia in età moderna e divenne un modo di pensare e di affrontare la realtà.
Quest'ultima, certo, era estremamente articolata considerando le
peculiarità di ciascuno dei numerosi Stati europei e, all'interno degli stessi a
seconda del territorio, basti pensare alle varie “nazioni” inserite nello Stato
Asburgico. Non bisogna dimenticare, inoltre, che se la Francia e la Gran
Bretagna godevano di secoli di unità politica, Stati come l'Italia e la Germania
erano di recente formazione, essendo essi il risultato di una unificazione di
Staterelli minori, con forti diversità nelle realtà locali. E tuttavia, se la Germania
riuscì in poco tempo, anche grazie a differenti potenzialità economiche e ad
una forte volontà di accentramento politico-culturale, ad apparire
effettivamente unita, le cose ebbero nella Penisola Italiana più lenta
maturazione.
In Italia, in particolare, la nuova temperie economica e culturale tardò a
svilupparsi rispetto agli altri paesi dell'Europa occidentale che ne furono
coinvolti, per il più lento incremento della crescita economica, oltre che per il
ritardo in cui questa ebbe inizio. La borghesia e la classe operaia non ebbero il
rapido sviluppo che avvenne altrove poiché le attenzioni dei governi dello Stato
nascente, oltre che del mondo della cultura, erano rivolte essenzialmente
all'unità del Paese, all’affermazione della potenza militare della nazione1 e al
In quegli anni infatti ebbe luogo un notevole sforzo industriale volto a fornire l’Italia di un
apparato bellico moderno che la ponesse allo stesso livello militare delle grandi nazioni
europee. In particolare nel 1873 si dava via alla costruzione delle due supercorazzate Duilio e
Dandolo, che furono le più potenti e avanzate macchine da guerra dell’epoca e che suscitarono
grande scalpore in tutto il mondo.
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complesso problema del rapporto fra Stato e Chiesa. In tal modo l'Italia si
trovò ad essere un paese che voleva competere ed essere alla pari con altre
nazioni più sviluppate sotto ogni aspetto, pur avendo una struttura statale e
sociale risalente ai secoli precedenti. Soprattutto nel Meridione (nell'Italia del
Nord era già avvenuta la nascita di diverse e importanti imprese industriali)
questa arretratezza era evidente, non solo in campo economico, ma anche, e
soprattutto, in campo sociale e culturale.
Un eccellente quadro della situazione culturale viene offerta da Giovanni
Gentile in Le origini della filosofia contemporanea in Italia2. Gentile distingueva, per
quello che riguardava la cultura speculativa italiana dopo Rosmini e Gioberti,
quattro grandi correnti: i platonici (Terenzio Mamiani, Giovanni Maria Bertini,
Luigi Ferri, Francesco Bonatelli, Francesco Acri ecc.), i positivisti (Salvatore
Tommasi, Andrea Angiulli, Cesare Lombroso, Roberto Ardigò e così via), i
neokantiani (Francesco Fiorentino, Felice Tocco, Filippo Masci ecc.), gli
hegeliani (Augusto Vera, Angelo Camillo De Meis, Bertrando Spaventa ecc.). A
tali correnti principali Gentile ne affiancava alcune minori tra cui gli scettici (G.
Ferrari, A. Franchi, B. Mazarella) e i neotomisti (G.-M. Cornoldi, G. Pecci, S.
Sordi, S. Talamo).
Gentile individuava negli hegeliani di Napoli (Vera e soprattutto Spaventa)
e nei positivisti le due tendenze culturali più forti, la prima destinata a
riprendere vitalità appunto negli anni della restaurazione, la seconda
decisamente egemone nel secondo Ottocento. E Gentile, non senza riserve,
riconosceva il valore storico del positivismo. Il filosofo, poi, rimproverava al
positivismo un eccessivo scientismo, incapace di intendere la realtà del pensiero
e quindi la filosofia quale Gentile la intendeva. Quello che anche un interprete
non favorevole come Gentile non poteva non riconoscere era che di fatto il
positivismo rappresentò per molti versi una ventata innovativa sulla cultura e
sulla vita della Penisola.
Non v’è alcun dubbio che uno dei campi in cui i positivisti si mossero
con risolutezza e con successo fu quello educativo. In una nazione in cui il
tasso di analfabetismo era altissimo occorreva muoversi con estrema decisione.
Se nella prima metà del secolo l’impegno educativo, anche come aspetto
innovativo, fu essenzialmente legato alla spiritualità cattolica, la nascita di uno
Stato unitario richiedeva diverse responsabilità da parte della cultura laica. Ora,
per formare uno Stato forte ed omogeneo era necessario non solo procedere
alla creazione di nuove infrastrutture e di una economia attiva, ma avviare
anche un effettivo processo di alfabetizzazione e realizzare una nuova ed
efficiente organizzazione scolastica che rispondesse alla nuova situazione
storica e alla volontà di crescita della nazione.
Per far fronte a queste esigenze ci si servì della legge Casati, promulgata
il 13 novembre 1859, formulata per il Regno di Sardegna e successivamente
estesa in tutta l’Italia unita senza che essa subisse sostanziali modificazioni.
Secondo la legge Casati l’istruzione era totalmente accentrata nello Stato.
L’istruzione popolare, questione fondamentale, fu affidata ad una scuola
elementare suddivisa in due corsi biennali distinti, inferiore, l’unico gratuito e
obbligatorio, e superiore, per centri con almeno 4000 abitanti. La decisione di
affidare la scuola elementare nella sua gestione, compresa quella degli
L'opera, in 4 volumi, fu pubblicata presso il Principato di Messina tra il 1917 e 1923, e
raccoglieva dei saggi pubblicati su "La Critica" tra il 1903 e il 1914, in un momento storico,
cioè, in cui il neoidealismo di Gentile e di Croce cominciava ad affermare la propria egemonia.
Ciò spiega il taglio spesso polemico. L'edizione da cui si citerà è quella rivista delle "Opere
Complete" di Gentile.
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insegnanti, ai Comuni secondo le possibilità economiche di questi, ebbe come
conseguenza che molti centri non riuscirono ad aprire una scuola per ragioni
economiche, o rifiutarono di farlo perché si considerava pericolosa l’istruzione
delle masse popolari.
A causa di questo diffuso comportamento non ebbero concreto successo
le leggi Correnti del 1872 e Scialoja del 1873 che avevano come fine rendere
effettivo l’obbligo scolastico. Solo nel 1877, con la legge Coppino, la scuola
elementare divenne in buona parte veramente obbligatoria. A questa seguirono
una serie di provvedimenti che riuscirono a rendere più moderno ed efficace
l’insegnamento: aumento dei quadri degli insegnanti (1877), ammodernamento
dei programmi (1888 e 1894), nuovo ordinamento della scuola normale (legge
Gianturco 1896), creazione della quinta e sesta classe (legge Orlando 1904).
Per quel che concerne l’istruzione secondaria la legge Casati concepiva la
nascita della scuola tecnica e dell’istituto tecnico, entrambi di durata triennale
(quest’ultimo diventerà poi quadriennale) e aggiungeva nei programmi del liceo
discipline come la matematica, la fisica, la chimica e le scienze naturali secondo
le nuove necessità sorte dopo la seconda Rivoluzione Industriale.
Si formava così una triplice divisione della scuola secondaria: il liceoginnasio che preparava e avviava verso l’università coloro che avrebbero
formato la futura classe dirigente, la scuola tecnica per chi voleva inserirsi
subito nel mondo del lavoro e l’istituto tecnico, che aveva gli stessi fini ma che
concedeva la possibilità di accedere all’università solo per le facoltà di
Matematica e Scienze.
Cinque le facoltà universitarie: Filosofia e lettere; Matematica, fisica e
scienze naturali; Giurisprudenza; Medicina, Teologia (poi abolita nel 1877). Il
problema, di fondo, al momento, quello pressante all’indomani dell’Unità era la
lotta all’analfabetismo, perché solo una diffusa alfabetizzazione avrebbe
consentito la formazione di buoni cittadini. Su questa problematica si
sarebbero impegnati molti pedagogisti positivisti, tra cui Andrea Angiulli.
Andrea Angiulli nacque il 12 febbraio 1837 a Castellana, in provincia di
Bari, da Giuseppe e Luisa Longo, benestanti3. Compì i suoi primi studi in
provincia, prima nel Seminario di Molfetta e poi a Bari. Nel 1857, per iniziare
gli studi universitari, si recò a Napoli, dove frequentò i corsi di scienze naturali,
di scienze giuridiche e di filosofia, e studiò varie lingue straniere, come il
francese, il tedesco, l’inglese.
A Napoli partecipò alle iniziative dei patrioti, incorrendo nei sospetti
della polizia borbonica, alla quale, il 6 aprile 1860, sfuggì fortunosamente dopo
aver dettato un proclama diretto alla popolazione della Basilicata. Nella città
partenopea fu attratto dalle dottrine giobertiane e seguì le lezioni di Bertrando
Spaventa, divenuto nel 1860 professore di Filosofia
Nel 1861, una volta compiuti gli studi universitari, rifiutò la cattedra di
Filosofia presso il liceo di Bari, giudicando necessario approfondire
maggiormente la sua cultura e, a tal scopo, vinto nel 1862 un concorso di borse
di studio all’estero indetto dal Governo, si recò a Berlino per perfezionare e
approfondire la sua conoscenza dell’idealismo. Nella città tedesca rimase per
tre anni mantenendosi a sue spese una volta esaurito il sussidio governativo. Il
viaggio in Germania si rivelò fondamentale per la formazione del filosofo: qui
Per la biografia di Angiulli cfr. F. ALTEROCCA, Sulla vita e le opere di Andrea Angiulli, Vallardi,
Milano 1890; G. COLOZZA, La vita e il pensiero di Andrea Angiulli, Battezzati, Milano 1891; M.
VITERBO, Uomini di Puglia: A. Angiulli, S. Castromediano, G. Massari, Ed. Apulia ,Martina
Franca 1916.
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egli abbandonò con una certa facilità il pensiero idealista per abbracciare la
filosofia positiva che allora stava per sostituire il pensiero hegeliano nell’ateneo
berlinese.
Angiulli, infatti , dopo breve tempo cominciò a seguire le lezioni di Emil
Du Bois-Reymond4 che convertirono il giovane studioso alla dottrina delle
scienze positive. Nel 1865 si recò a Parigi e poi a Londra5 per meglio
apprendere e approfondire la sua conoscenza della filosofia positivista.
Ritornato in Italia, si allontanò poco per volta dal suo vecchio maestro
Spaventa per avvicinarsi a Salvatore Tommasi, a Pasquale Villari, ad Arnaldo
Cantoni e ad altri positivisti italiani.
Nell’ottobre del 1867, per iniziativa dei parlamentari Giuseppe Romano
(fratello del più noto Liborio) e Salvatore Lazzaro, gli fu assegnata la cattedra
di Filosofia nel Liceo Vittorio Emanuele di Napoli, dove in seguito avrebbe
insegnato anche Giovanni Gentile.
In questo periodo istituì un corso di Filosofia del diritto. Nelle sue lezioni
Angiulli si fece fautore del pensiero di Comte e delle recenti teorie
evoluzionistiche di Charles Darwin richiamando su di sé molta attenzione. In
un ambiente così ricco di tradizione religiosa, però, i suoi corsi portarono ben
presto il filosofo allo scontro con il preside del Liceo, il sacerdote Ippolito
Amilcarelli6, e con il frate domenicano Salvatore Balsamo, professore e padre
spirituale del monastero. Il preside Amilcarelli, considerato anche che le idee
del giovane docente avevano provocato scalpore e proteste fra i genitori degli
alunni, pregò Angiulli di dare un carattere più elementare e quindi più adatto
alle necessità dell’istruzione secondaria, giudicando inopportune le idee
espresse nelle sue lezioni che potevano causare danni morali presso i suoi
ascoltatori.
Nonostante questi dissidi Angiulli diede alle stampe nel 1868 il suo primo
lavoro, in realtà preparato per essere accolto su una rivista, intitolato La filosofia
e la ricerca positiva nel quale si sosteneva che la filosofia, in quanto scienza,
doveva essere una ricerca positiva e sperimentale, in opposizione
all’hegelianismo, al kantismo e anche al positivismo di Comte. Si sosteneva, in
quest’opera, la necessità della filosofia scientifica per migliorare con essa ogni
aspetto della vita sociale e i problemi della collettività. L’opera ricevette
consensi all’estero, ad esempio dalla rivista francese «La Philosophie positive»
del Littré.
In Italia, invece, il lavoro del filosofo pugliese fu duramente criticato
dall’hegeliano Francesco Fiorentino7 e le teorie professatevi contribuirono ad
acuire il contrasto con i due religiosi reggitori del liceo Vittorio Emanuele. A
causa di ciò lo studioso fu trasferito d’ufficio, su richiesta di Amilcarelli, nel
settembre 1871 in un altro Liceo di Napoli, il Principe Umberto:
provvedimento che l’Angiulli giudicò come un’ insensata punizione e contro il
Emil Du Bois-Reymond (Berlino 1818-1896) fu segretario dell'Accademia delle scienze di
Berlino. Le sue due conferenze, tenute nel 1872 e 1880 suscitarono molto interesse in tutto il
mondo. La sua opera principale è I sette enigmi del mondo cioè l'essenza della materia e della
forza, l'origine del movimento, della vita, della sensibilità, l'ordinamento teologico della natura,
l'origine del linguaggio e del pensiero razionale e il problema del libero arbitrio.
5 A Londra Angiulli conobbe Mary Romano, che sarebbe divenuta sua moglie.
6 Ippolito Amilcarelli (1823-1879), ordinato sacerdote nel 1854. Cultore di belle lettere,
pubblicò Della lingua e dello stile. Lezioni (vol. I, Del Vaglio, Napoli, 1858; vol II, Cellini, Firenze
1863) fu eletto deputato nel 1861, per poi occupare il ruolo di rettore in diversi licei, fra cui il
Liceo-Ginnasio “Vittorio Emanuele”, che resse per ventiquattro anni.
7 Francesco Fiorentino (1834-1894) fu professore universitario prima a Bologna, poi a Napoli,
quindi a Pisa. In filosofia. Sotto l'influsso di Spaventa studiò Hegel, per diventare poi un
neokantiano.
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quale egli decise di ricorrere al Ministero, pur di non darla vinta ai suoi
detrattori. La vertenza fu addirittura discussa con vivacità alla camera. Qui
Angiulli fu tacciato di ateismo. Tutto si risolse a favore di Angiulli grazie
all’intervento del ministro Cesare Correnti e del segretario generale della
Pubblica Istruzione Giovanni Cantoni. Il filosofo fu elevato a professore
universitario con l’incarico di Antropologia e Pedagogia presso l’università di
Bologna, precedentemente ricoperto dal salentino Pietro Siciliani.
Angiulli tenne l’incarico nell’ateneo felsineo per cinque anni,
inaugurandovi l’insegnamento dalla pedagogia scientifica, disciplina incentrata
sulla biologia e sulla sociologia, tenendo presenti le dottrine evoluzionistiche di
Darwin.
Nel giugno 1871 collaborò alla «Rivista critica di scienze, lettere ed arti»
diretta da Francesco Trinchera jr., nella quale accusò Carlo Cantoni di
dogmatismo teologico e metafisico nel suo manuale di filosofia e lo scritto
Psicologia come scienza positiva di Ardigò. Dell’anno successivo è la pubblicazione
in opuscolo del discorso La filosofia positiva e la pedagogia, in cui Angiulli pose i
primi fondamenti per la sua nuova concezione pedagogica, che si imperniava
sulla base della filosofia positiva e si fondava sull’antropologia, sulla storia e la
sociologia. In tal modo, secondo il filosofo, la filosofia positiva si attua come
pedagogia positiva e come politica positiva, e può risolvere il problema
dell’educazione ed il problema sociale.
Con il saggio La pedagogia lo Stato e la famiglia del 1876 Angiulli evidenziò
lo stretto rapporto fra il positivismo e la pedagogia considerando come
compito concreto dell’educazione il perfezionamento delle nuove generazioni e
l’elevazione delle classi sociali inferiori, cosicché l’educazione veniva reputata
un dovere nazionale e uno strumento di riscatto sociale. Nell’opera, formata da
tre discorsi, l’autore metteva in risalto la necessità di una seria riforma
educativa, ponendo il problema della pubblica istruzione nel campo della
ricerca scientifica e sottolineando, come dovere dello Stato, quello di
indirizzare i giovani alla verità. Il filosofo, evidenziata l’importanza dei primi
gradi dell’educazione, sostenne la necessità di indirizzare l’azione pedagogica
verso il bambino, la donna e il popolo.
Nel 1876 Angiulli sposò Mary Romano, figlia del on. Giuseppe Romano,
grazie al quale Angiulli aveva ottenuto la cattedra liceale a Napoli. Da questa
unione il filosofo ebbe quattro figli, Luisa, Paola, Giuseppe e Maria. In quello
stesso anno fu nominato professore ordinario alla cattedra di Pedagogia
dell’Università di Napoli che era vacante dalla morte di Edoardo Fusco8,
avvenuta nel 1873.
A Napoli Angiulli ebbe modo di confrontarsi con diversi e illustri
hegeliani che insegnavano in quell’ateneo quali Bertrando Spaventa, il suo
antico maestro, Augusto Vera e Francesco Fiorentino, alla cui morte nel 1884
Angiulli succederà nell’insegnamento di Filosofia teoretica. Nello stesso anno
occupò la cattedra di Etica.
In questo periodo cominciò l’insegnamento di Etica e Pedagogia nella
Scuola Normale Froebeliana di Napoli, fondata dalla signora Julia Salis
Edoardo Fusco, pedagogista e letterato, nacque a Trani il 23 settembre 1821 e morì a Napoli
il 28 dicembre 1873. Partecipò ai moti del 1848 e per questo costretto ad abbandonare Napoli,
andando in esilio in Grecia, dove visse scrivendo e insegnando. I suoi scritti furono pubblicati
in diverse riviste inglesi. In Inghilterra ottenne la cattedra di Lingua italiana a Eton e quella di
Letteratura italiana nel collegio della Regina, cattedra che otterrà anche nell'Università di
Dublino. Nel luglio 1860 fece ritorno in Italia dove, all'inizio, si dedicò al giornalismo. Poi
divenne Ispettore generale delle scuole primarie e secondarie del Meridione. Fu nominato
professore ordinario di Antropologia e Pedagogia all'Università di Bologna e poi a Napoli.
8
9
Schwabe, della quale fu nominato presidente dopo il riconoscimento
dell’istituto da parte del governo. Del 1881 fu la fondazione della rivista
“Rassegna critica di opere scientifiche, filosofiche e letterarie”, pubblicata a
cadenza bimestrale fino alla morte del filosofo.
L’insegnamento di Angiulli a Napoli riscosse grande successo presso gli
studenti. Le sue lezioni tenute in due anni successivi presso l’università di
Napoli, vennero pubblicate in un volume La filosofia e la scuola (1888), che egli
con molta modestia definì appunti.
In questo volume, sua ultima opera, erano trattate tre questioni
fondamentali: il problema gnoseologico, il problema cosmologico e il problema
etico, dal quale Angiulli ricavava la superiorità della filosofia come ricerca dei
princìpi ultimi della realtà e della conoscenza e asseriva che l’educazione
rappresentava la prima e fondamentale causa di tutti i miglioramenti sociali e
morali. Con questo lavoro Angiulli pervenne ad una sistemazione filosofica
delle relative ricerche e ad una sintesi dei suoi scritti filosofici e pedagogici.
Lodevole pure l’intento di rannodare al problema scientifico, e segnatamente a
quello sociale e morale, il problema educativo.
Oltre al suo impegno accademico, Andrea Angiulli si dedicò attivamente
all’attività politica. A Napoli il giovane studente, sostenitore della libertà e della
necessità di unificazione dell’Italia, ebbe modo di conoscere e frequentò
personaggi come Giuseppe Pisanelli9, Nicola Marselli10, Enrico Pessina11. Nel
1860 aderì a un fascio giovanile, e come detto sopra, scampò più volte
fortunosamente alla cattura da parte della polizia. Il 6 aprile 1860, nella casa di
Giovanni Tauro, dettò il proclama diretto alla popolazione della Basilicata per
incitarla alla rivolta. Il documento fu redatto con un inchiostro particolare in
modo tale da nascondere le lettere del proclama che si sarebbero rese visibili
solo avvicinando il foglio presso una fonte di calore. La polizia irruppe nella
casa arrestando tutti i congiuranti, tranne il fortunato studente che se ne era
andato via poco prima. Sfuggito a quest’agguato, però, dovette sottrarsi alla
ricerca serrata degli agenti per diverso tempo e sarebbe stato tratto in arresto
nella sua stessa dimora se un suo conoscente, un calzolaio, non lo avesse messo
in guardia, avvisandolo dell’imminente irruzione della polizia e facendolo
sgattaiolare da una finestra quando gli agenti avevano già fatto irruzione in casa
sua. Angiulli così dovette per diversi giorni nascondersi sotto falso nome nei
dintorni di Napoli.Una volta compiuta l’unità nazionale, con l’impresa dei Mille
e la caduta del Regno di Napoli, il giovane Angiulli e i suoi compagni poterono
riottenere la libertà.
Andrea Angiulli si candidò come deputato nel Collegio di Monopoli nel
1880 e a Bari nel 1882 e 1886, ma in tutte tre le occasioni la vittoria gli fu
impedita da schieramenti conservatori ostili, che portarono avanti contro di lui
una vera e propria campagna denigratoria, tacciandolo di ateismo e socialismo.
Giuseppe Pisanelli, nato a Tricase, in provincia di Lecce, il 21 dicembre 1812 e morto a
Napoli il 5 Aprile 1879, fu deputato al Parlamento napoletano nel 1849. Costretto all'esilio dalla
repressione borbonica, si stabilì nel 1852 a Torino. Nel 1860 fu Ministro di Grazia e Giustizia
sotto il governo di Garibaldi. Deputato dal 1861, fu Guardasigilli del Regno d'Italia (18611864) e preparò il Codice civile e la Procedura civile. Tra le sue opere Sulla pena di morte (1862)
e Della istituzione dei giurati (2° edizione 1868).
10 Nicola Marselli (Napoli, 1832- Roma, 1899) fu generale e scrittore di tecniche militari. Tra le
sue opere cfr. Guerra e la sua storia (1875).
11 Enrico Pessina (Napoli, 1828-1916) professore di Diritto Costituzionale a Bologna e poi di
Diritto e procedura penale a Napoli, fu a lungo deputato e poi senatore. Ministro
dell'Agricoltura nel 1879 e della Giustizia nel 1885. Tra le sue opere Dei progressi del diritto penale
in Italia nel secolo XIX (1868), Elementi di diritto penale (1882-85).
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10
Nel 1884 fu eletto consigliere comunale a Napoli, ma ebbe delle discordie
con l’assessore alla pubblica istruzione Luigi Santa-Maria, giudicando
negativamente le proposte di questi riguardo l’ordinamento scolastico. Dopo
questa dura accusa l’assessore Santa-Maria si dimise, ma Angiulli, invitato dal
sindaco Nicola Amore a prenderne il posto rifiutò per non far nascere
l’impressione che le sue polemiche valessero soltanto ad ottenere il posto di
assessore e, soprattutto, per non allontanarsi troppo dagli studi.
Fu incaricato più volte dal governo a presiedere a concorsi e come
ispettore scolastico. E in più occasioni fu presidente delle Conferenze
pedagogiche e del Primo Congresso di Antropologia svoltosi a Roma nel 1885.
Il 7 dicembre 1889 si trovava appunto a Roma per presiedere ad una
riunione della Società Pedagogica Italiana quando fu colto da un inaspettato e
repentino malore. Portato a Napoli per le cure, qui morì la sera del 2 gennaio
1890, assistito dal suo allievo Colozza, al quale raccomandava di proseguire la
sua missione di filosofo e pedagogista.
Le esequie furono solenni e videro la partecipazione di illustri figure del
mondo accademico e della società di allora. In suo onore parlarono Giacomo
Barzellotti12 per l’Università, Colozza per la famiglia, e Giovanni Bovio13 per la
massoneria.
Le spoglie del filosofo furono inumate nel cimitero di Napoli, nel settore
riservato alle personalità eminenti, dove, su commissione della famiglia, gli fu
eretto un busto ad opera dello scultore Achille D’Orsi.
Nella sua prima opera pubblicata, La filosofia e la ricerca Positiva (1868),
Andrea Angiulli esordiva come pensatore positivista e cercava di giustificare la
scelta come necessaria per la stessa cultura. Come avrebbe osservato, non
senza spirito polemico, Giovanni Gentile, La filosofia e la ricerca positiva era il
«manifesto»14 del pensiero di Angiulli ed era un saggio che meritava attenzione
in quanto conteneva in nuce gran parte del pensiero del pensatore di Castellana.
Nel volume egli non solo si proponeva di dimostrare “la fondazione di
un nuovo concetto della filosofia”, ma partiva da un assunto che poneva già
come indiscutibile, che “Il fattore principale della storia moderna è la scienza
positiva”. E l’affermazione era subito dopo giustificata con la constatazione dei
grandi progressi promossi dalla scienza e dalla tecnica.
In effetti, il tempo in cui viveva Angiulli era effettivamente testimone di
uno sviluppo materiale e scientifico che mai aveva avuto eguale in precedenza.
Era l’epoca della seconda rivoluzione industriale, l’epoca in cui vennero
inventate le macchine a vapore, il telegrafo (1840, Morse), il telefono (1871,
Meucci), il microscopio, le navi corazzate (1859, varo della Gloire), l’epoca in
cui nasceva lo studio dei movimenti della Terra, dello sviluppo scientifico
dell’astronomia, della conoscenza della reale età del pianeta e dell’esistenza di
altre forme di vita prima dell’uomo (1842, classificazione dei dinosauri da parte
di Richard Owen), della teoria dell’evoluzione e della selezione naturale (1859,
Charles Darwin pubblicava L’origine della specie). Angiulli comprendeva molto
G. Barzellotti (Firenze 1844-1917), studioso di filosofia e letteratura , fu professore dal 1896
di Storia della Filosofia all'Università di Roma. Tra i suoi scritti: La morale nella filosofia positiva
(Firenze, 1871) e La letteratura e la rivoluzione in Italia (Firenze, 1875). Sul pensiero di Barzellotti
cfr. G. GENTILE, Le origini della filosofia positiva in Italia, I, I Platonici, nuova ed. riv. a cura di V.
A. Bellezza, Sansoni, Firenze 1957, pp. 341-362.
13 Giovanni Bovio (1841-1903), fu professore di Filosofia del diritto a Napoli (1875) e deputato
(1876), portavoce dello schieramento repubblicano. Sue opere più importanti, Saggio critico del
diritto penale (1872)e Filosofia del diritto (IV ed. 1896).
14 G. GENTILE, Le origini della filosofia contemporanea in Italia, I positivisti, cit., p. 127.
12
11
bene che non si trattava di una semplice sequenza di fatti, ma si rendeva conto
di come questi si concatenassero tra di loro e non solo imprimessero
un’accelerazione al corso della storia, ma trasformassero la stessa natura della
società, coinvolgendone gli aspetti intellettuali e morali, in maniera da far
emergere un nuovo senso del processo del reale. Angiulli aveva compreso i
capisaldi del positivismo e si rendeva conto con pieno discernimento che la
realtà civile stava assumendo, grazie all’intrinseco e necessario rapporto tra
scienza e industria, un nuovo assetto sociale che a sua volta comportava il
concetto di progresso sociale. In altri termini, se la storia del passato era vista
soprattutto come il dinamismo di alcune classi sociali che non alteravano gli
equilibri interni, l’accelerazione prodotta da scienza e tecnica, tra loro
inscindibili, conducendo al mondo industriale, determinava una crescita
generalizzata della realtà sociale, che affermava come inevitabile l’idea di
progresso e quindi una trasformazione complessiva della mentalità, in un
organismo in cui l’elemento produttivo, innovatore, era dato dalle scienze e
quello di stabilizzazione dall’industria. Il mondo industriale garantiva a tutti i
soggetti una vivibilità in fieri che nel passato non c’era. Il discorso speculativo,
al tempo stesso, usciva definitivamente dall’astrattezza metafisica, e diveniva
comprensione del processo reale dei fatti che determinano la storia. La filosofia
come lettura della storia.
Con la nuova età – e con la nuova filosofia, ossia il positivismo – la
filosofia diveniva critica scientifica, ossia capacità di interpretare e guidare il
processo storico. In questa attenzione al divenire storico permaneva, in
Angiulli, la lezione idealistica, la lezione di Bertrando Spaventa15, solo che la
molla della storia non era più lo spirito, ma la scienza e questo comportava un
ulteriore rovesciamento. Il protagonista della storia non era più
romanticamente il grand’uomo di cui poteva scrivere un Carlyle o intuire
Hegel. Non c’era più una storia destinata ad essere dominata da un unico
soggetto: ognuno, il popolo intero poteva contribuirvi. Tutti erano i
protagonisti della storia. Angiulli coglieva molto bene che scienza e tecnica non
implicavano sempre l’uomo di genio, ma il diuturno contributo di più
specialisti, come la strutturazione industriale della società comportava
l’interdipendenza e l’interazione dei lavoratori, tutti artefici del progresso. In
questo la democrazia, come partecipazione di tutti al miglioramento collettivo,
veniva non teorizzata, ma realizzata nei fatti. Ci si trovava di fronte ad una
trasformazione sociale eccezionale, i cui meccanismi dinamici mettevano in
qualche al riparo sia dal passatismo (la teologia, il feudalesimo ecc.) sia dai
sommovimenti socialisti.
Alle nuove conquiste materiali, naturalmente, doveva seguire lo sviluppo
intellettuale; in tal modo si poteva davvero intendere il processo sociale come
un organismo. Una nuova età, inoltre, era un periodo in cui si esaminava e si
criticava quello che si era fatto in precedenza e nasceva un nuovo modo di
pensare, un nuovo modo di essere: l’epoca che si stava vivendo non aspettava
più dei nuovi dogmi per riconoscersi, non più un annuncio divino o la parola di
un profeta, ma si identificava, come si è visto, nell’azione della scienza, che
trasformava il mondo e migliorava il modo di vivere di tutta la società,
generava libertà e democrazia.
È il concetto di dialettica di cui Spaventa parla in Logica e Metafisica: «la filosofia non è
soltanto (in quanto attività filosofica) l'ultimo risultato della dialettica della coscienza, ma è
dialettica essa stessa, in sé stessa, nel suo proprio grembo. Questa dialettica è lo spiegamento
della p o t e n z a i n f i n i t a d i c o n o s c e r e ; che è la stessa infinita potenza dell'essere»
(B. SPAVENTA, Opere, a cura di G. Gentile, vol. III, Sansoni, Firenze 1972, pp. 135-136).
15
12
Riprendendo la lezione dei positivisti francesi, in cui il discorso filosofico
era tutt’uno con quello di innovazione sociale, come Comte e Littré avevano
sostenuto, Angiulli non esitava ad affermare, che il processo scientifico
diventava la nuova concezione della vita in grado di permeare tutta la realtà.
Era la fede nel progresso, che il filosofo “dimostrava” con l’evidenza delle
innovazioni scaturite dalla scienza e dalla tecnica. Non più una filosofia come
disvelamento dell’Assoluto, ma come interpretazione dell’articolarsi concreto
dei fatti. Qui il punto di rottura con l’hegelismo, ma altresì con tutte le filosofie
precedenti, come Angiulli cercava di dimostrare in una illustrazione storica che
costituiva la parte più consistente, ma non per questo la più valida, dell’opera.
Angiulli ricordava che per Hegel l’assoluto come spirito era unità di
sostanza e di soggetto, era movimento, coscienza, sapere. In questo modo egli
ricongiungeva Fichte a Spinoza. Diversa la posizione di Comte che recuperava
il concreto elemento sociale del corso della storia. Alla luce di tutto questo
Angiulli leggeva il corso della storia della filosofia intendendola come graduale
dissoluzione della metafisica spiritualistica e idealistica. Il suo discorso storico
è in parte di matrice spaventiana, come ha ricordato poi Gentile. Significativo il
suo modo di spiegare il cristianesimo e il cattolicesimo: «l’elevazione dello
spirito di contro alla materia, della vita celeste di contro alla terrena sarà il
carattere dell’idealismo mistico del Cristianesimo. Se poi all’elemento ebraico
ed all’elemento ellenico si unisce l’elemento pratico ed organizzatore de’
romani si avrà la costituzione del Cristianesimo come Cattolicismo»e
sprezzante il suo giudizio sul monachesimo: «una depravazione morale e
cerebrale dell’umanità». Alla fine dell’età moderna Kant riconduceva ad unità
l’idealismo cartesiano e l’empirismo anglosassone. Il merito reale di Kant è
stato quello di riportare il tutto al concetto di ragione, quindi all’esperienza.
La conseguenza logica della riconduzione della filosofia all’esperienza era
il positivismo di Comte; Angiulli compie una lettura storiografica a tesi, per la
quale la filosofia attualmente egemone (nel caso specifico il positivismo) era
l’inevitabile punto d’arrivo del processo storico.
Di qui una serie di considerazioni. In primo luogo assumeva un ruolo
nuovo la sociologia essendo questa la scienza che avrebbe fornito le basi a tutte
le scienze morali; l’unico metodo era quello scientifico, sperimentale. Né era da
opporre alla nuova concezione della vita qualunque spiritualismo. A parere di
Angiulli l’affermazione del positivismo era ormai indiscussa. Tuttavia se la
realtà era ricerca e la ricerca era esperienza, intesa come « regola suprema della
coscienza moderna», rimaneva da definire meglio il concetto di esperienza e qui
l’Angiulli, da antico allievo degli hegeliani di Napoli, riprendeva il concetto di
storia. «La storia è il grande laboratorio del sapere umano. L’elemento storico
non è più una pura erudizione, un antecedente o un metodo per le scienze
morali, ma in tanto ha un significato come metodo e come erudizione, in
quanto è elemento formativo non pure delle scienze morali ma di tutto il
sapere, il quale come esperienza e ricerca è appunto storia. La storia
considerata oggettivamente e nella sua universalità è il processo di formazione
e di trasformazione degli esseri». Ci si trova di fronte ad una svolta interessante
del pensiero di Angiulli, che tra non molto avrebbe formulato l’esigenza di un
diverso empirismo, la cui impostazione, visto il richiamo alla storia non sarebbe
stata meramente evoluzionistica, ma si potrebbe dire storicistica. È un aspetto
da esaminare con grande attenzione, in quanto si fondevano, non sempre
chiaramente, i retaggi idealistici e le convinzioni positivistiche.
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Finiva così, secondo Angiulli, il senso delle filosofie spiritualistiche e
metafisiche e nasceva la filosofia dell’esperienza, o empirismo moderno, un
empirismo di altra natura rispetto a quello che il filosofo definiva volgare, che
poi altro non era il pensiero dell’uomo comune o quello del sensismo
illuministico. «È impossibile un empirismo che si riduca ai puri dati dei sensi
(sensualismo), o ad una raccolta di notizie spezzate e sconnesse. L’empirismo
moderno invece non mutila le attività del pensiero, né rinunzia alla ricerca dei
generali e alla costruzione di una teoria; perché esso ha coscienza di tutte le
attività psicologiche, ha coscienza scientifica di sé stesso».
Ma tale empirismo moderno, o per meglio dire positivismo nella prospettiva
particolare del pensatore doveva avere, per Angiulli, che continuava a far
propria la lezione spaventiana del cominciamento, un principio guida che non
poteva che essere a priori.
Angiulli si rendeva conto che se tale a priori fosse frutto di una
accettazione immediata si sarebbe scivolati nel dogmatismo; riteneva invece
che esso fosse «identico alla critica stessa come risultato dei progressi della
storia passata».. In altri termini, Angiulli faceva coincidere il principio guida con
la stessa analisi critica, che poi era analisi storica, ma non alla maniera hegeliana,
che criticava, piuttosto come concreta lettura del passato, ossia dell’a posteriori.
Al che si potrebbe obiettare che un a priori che sia la lettura dell’a posteriori
potrebbe sollevare non poche perplessità. Il fatto è che Angiulli sentiva la
necessità di una chiave di volta della spiegazione storica e la sentiva, ancora
idealisticamente, come un assoluto, salvo poi a ridurla nei fatti a spiegazione
degli stessi.
Era proprio la difesa della concreta esperienza storica a spingerlo a
sollevare critiche agli spiritualisti e agli idealisti, legati ai concetti di infinito, di
assoluto, di causa ecc. Diversamente dall’idealista che, a detta di Angiulli,
ricavava concetti e sensi dall’a priori, da una visione assoluta del reale, quello
che contava era l’esperienza storica. In questo modo, Angiulli recuperava l’altra
scienza umana del tempo, la psicologia, dopo aver fatto propria la sociologia,
ripresa dalla lettura comtiana, ma compiva un’operazione estremamente
complessa. Infatti conservava l’impianto storicistico di derivazione hegeliana,
con cui continuava a criticare le filosofie precedenti, ma al tempo stesso lo
riformava riducendolo alla descrittivistica storica sorretta dal bagaglio
scientifico.
Infatti, allorché scriveva che l’intelletto era un processo di astrazione,
aggiungeva che ciò non comportava idee innate o a priori alla Leibniz, in quanto
il processo intellettivo non presupponeva alcuna facoltà, ma era una successione
degli atti del sentire, dell’intendere e del volere. Tutto si riduceva ad esperienza
e proprio perché tutto si riduceva ad esperienza era necessaria una educazione
dello strutturarsi dell’esperienza, anzi una scienza dell’educazione, ossia una
pedagogia che riconoscesse «la perfettibilità degli atti psicologici». In Angiulli si
faceva così avanti il convincimento che la pedagogia contribuisse, migliorando
il processo intellettivo, al miglioramento della società, quindi dell’umanità.
Mentre da un lato Angiulli recuperava legittimamente il concetto di volere, che
implicava attività dell’apprendimento e quindi l’educazione e quindi la libertà,
accentuando il tema della trasformazione e la critica ad ogni facoltà intellettiva
bell’e fatta, dall’altro illustrava una sorta di determinismo naturalistico nella
necessità del condizionamento del passato. «L’eredità psicologica è un altro
fatto accertato dalla scienza moderna e capace di recare molta luce in siffatte
quistioni. Noi non facciamo che continuare le attitudini e le conquiste del
passato. Il progresso è l’educazione dell’umanità; la civiltà è un risultato
14
d’esperienza, e non un miracolo di rivelazioni». Affermazioni queste che
importavano elementi diversi, alcuni chiaramente dinamici quali il progresso, e
quindi capaci di trasformazioni, altri più statici quali eredità e attitudini, più inclini
a parlare di continuità.
Quindi Angiulli, se da un lato voleva conservare, come retaggio
idealistico, il divenire storico, dall’altro lo spiegava con le relazioni costanti dei
fatti che erano a loro modo delle leggi che ancoravano il divenire alla mera
estrinsecazione dell’esistente. Quello di Angiulli era un idealismo o storicismo
naturalistico; idealismo in quanto ammetteva, anzi evidenziava, il divenire,
naturalistico in quanto rifiutava ogni trascendentale, riconducendo tutto
all’esperienza. Solo che non voleva che essa venisse ad esistere intesa come
accettazione dell’immediato, come nella maggior parte dei positivisti, anzi del
positivismo da cui voleva distinguersi. Angiulli rifiutava che ci potesse essere
una mera conoscenza dei fatti, che in realtà comportava l’incapacità di spiegare
la realtà, limitando la filosofia ad accettazione del dato. Angiulli, come il suo
collega Pietro Siciliani, cercava una terza via tra il positivismo, a cui di fatto
apparteneva e l’eredità idealistica della scuola di Spaventa a cui non voleva
rinunciare, avvalorando il concetto di storia. Per questo egli insisteva sul
concetto di relazione costante di fatti. Questo, a suo modo di vedere, significava
che “necessario”, “assoluto”, “infinito” ecc. non erano come per gli idealisti
qualcosa di fuori della storia, bensì «prodotti di umana astrazione», per cui si
potrebbe ribattere, ad un ipotetico idealista che osservasse che dai fatti
particolari non si può giungere ad una concezione del mondo e della natura e
dell’umanità, che «le nostre concezioni della natura e della storia sono una
generalizzazione dei fatti sperimentali, un portato del metodo induttivo, e non
pretendono avere un valore assoluto a modo vostro, nel quale caso avreste
ragione, ma un valore puramente relativo» . Così a chi avrebbe potuto obiettare
che in tal modo la filosofia si sarebbe dissolta in scienze particolari come la
logica, l’etica, la psicologia, Angiulli precisava: «una filosofia come una scienza
prima, indipendente, come un sistema speculativo, le cui parti fossero
l’ontologia, la teologia naturale, la cosmologia speculativa e la psicologia
speculativa, cioè la filosofia come puro sistema metafisico non deve più
esistere; ma non già la filosofia in generale. La vera filosofia è la negazione della
filosofia; ma dopo la negazione della filosofia rimane dunque la vera filosofia.
Or la vera filosofia è quella che conforme alla sua etimologia non è, ma diviene,
non è sapere e molto meno assoluto sapere, ma studio, sforzo, ricerca per
sapere». In queste parole riemergeva con estrema chiarezza l’hegeliano scolaro
dello Spaventa, con tutto l’argomentare dialettico. Come parimenti di natura
dialettica era la sintesi proposta da Angiulli: «lo studio delle leggi delle scienze
(logica), delle loro relazioni (sistema delle scienze), e del risultato delle loro
ricerche (concezione della realtà, della natura e della storia) costituirà appunto
la filosofia. Cessa il dualismo e l’antagonismo tra le scienze e la filosofia. (…)
Le scienze positive hanno bisogno della filosofia, e questa di quelle. Sono nella
relazione di parti e di tutto, di organi e di organismo, di funzioni e di vita, di
scienze particolari e di scienza generale e totale». Né era un rapporto
meccanico, bensì critico. «La scienza positiva diventa il principio della storia
moderna. La filosofia non potrà esistere che come investigazione scientifica,
come ricerca positiva».
La sintesi era molto importante. Essa veniva a configurare il pensiero di
Angiulli come una sorta di positivismo idealistico o di idealismo positivistico,
proprio per la riconduzione di tutta la problematica alla dimensione storica e la
continua dialettica tutto (filosofia) – parte (scienze). Questo non lo mise al
15
riparo delle critiche degli idealisti e non solo degli idealisti, ma erano proprio
queste critiche ad occultare l’originalità e anche la consistenza teoretica del
pensiero di Angiulli, che potrebbe essere letto come una interpretazione
specifica dell’idealismo in chiave di recupero delle scienze.
In questo modo Angiulli vedeva di fronte a sé dischiudersi nuovi spazi di
ricerca. È ricerca e non domma, sperimentale e non metafisica, a posteriori e
non a priori; è in continua formazione come tutte le altre scienze; è immanente
e non trascendente; è umana collettiva ed universale; inoltre come ricerca
positiva è essenzialmente storica, è accordo di teoria e di pratica, di ideale e di
reale.
Ciò comportava un altro elemento di fondo, che ricorda anche Littré ,
ossia che occorreva mettere da parte sia la rivoluzione sia la conservazione ed
insistere sulla trasformazione. Era la convinzione di una filosofia che
determinasse il progresso sociale, il futuro dell’umanità. Si comprendono
quindi le seguenti affermazioni. «La filosofia come ricerca positiva non può
volere altro che la trasformazione del reale, perché essa stessa è trasformazione
e progresso. La trasformazione della società mediante il lavoro, la libertà e la
scienza è la dottrina della nuova filosofia e della nuova democrazia». Il discorso
di Angiulli si spostava ormai sull’impegno civile, concreto: dalla sottigliezza
speculativa allo scontro con la realtà.
Non si doveva, infatti, trascurare che uno dei maggiori impegni della
cultura positivista era la volontà di contribuire concretamente al miglioramento
delle condizioni sociali. Questo, ovviamente, valeva particolarmente in Italia
all’indomani dell’Unità, una Unità che ancora non vedeva Roma capitale né
tanto meno, dopo la III Guerra di indipendenza (1866) la “redenzione” di
Trento e Trieste. Ma non erano solo i problemi politici a turbare la coscienza
degli intellettuali. Specialmente per un uomo del Sud, che aveva visto
espandersi per poi essere represso con violenza il fenomeno del brigantaggio, il
problema fondamentale era quello dell’elevazione del tenore di vita e della
formazione di una coscienza civile adeguata ai tempi. In questo senso
l’impegno per il miglioramento sociale veniva ad accompagnarsi, come in tanta
cultura dell’epoca, ad una forte contrapposizione con la Chiesa romana,
accusata di conservatorismo, e, quindi, con lo stesso concetto di religione.
L’anticlericalismo di Angiulli, spesso ricorrente nelle sue pagine, trovava
una spiegazione nel diffuso senso di ostilità, propria dell’intelligenza
meridionale, verso i sacerdoti (più che di per sé verso la religione), accusati
almeno dai moti napoletani del 1799 di essersi schierati con la conservazione e
l’oppressione. La liberazione dagli elementi soprannaturali dalla storia e la
consapevolezza che questa era una continua trasformazione spingeva Angiulli
ad affermare di essere pervenuti ad un nuovo e fondamentale momento
storico, finalmente capace di interpretare e promuovere il cammino della storia.
Angiulli, che continuava a tenere presente il socialismo umanitaristico e
universalistico di Littré, trasformava il suo discorso in un reale manifesto di
crescita sociale. La filosofia non era più semplicemente la riflessione sulla
natura delle cose, ma diventava la guida della trasformazione sociale che
trovava nello Stato il centro di raccordo necessario e naturale dell’intero
organismo. È l’immagine dello Stato liberale, che garantiva le condizioni per la
libertà e l’eguaglianza, senza però scivolare in una sorta di collettivismo
paritario a priori. Angiulli, infatti, riconosceva «la disuguaglianza delle capacità»
tra gli individui. Da un punto di vista politico, pertanto, il suo discorso era
riformista, innovatore, ma non rivoluzionario. Egli manteneva l’ordine sociale,
come si conveniva in una Europa delle nazioni che già conosceva i fermenti
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socialisti al suo interno e richiedeva, quindi, come essenziale, la stabilità civile
che garantisse quella economica e conseguentemente favorisse il benessere e il
riformismo. In questa logica Angiulli comprendeva con chiarezza il ruolo
determinante che poteva e doveva avere la cultura per la stabilità e il
riformismo sociale. Riteneva, infatti, che il principio del progresso umano e
sociale fosse la cultura scientifica, al cui sviluppo dovevano necessariamente
contribuire la scuola, e i processi di istruzione. Questo, il programma
intellettuale su cui Angiulli s’impegnò e, chiaramente, i concetti di ricerca,
progresso, elaborazione storica comportavano, sempre per Angiulli, la fine di
ogni immobilismo concettuale, mentre il diritto non era più un’entità
metafisica, «ma un rapporto di condizioni concrete della vita umana. Il quale
perciò si costituisce e si trasforma a misura che si costituiscono e si
trasformano le suddette condizioni». Lo stesso concetto di bene subiva
un’evoluzione.
Angiulli comprendeva chiaramente come la sua posizione potesse essere
accusata di relativismo e reagiva spiegando che il suo punto di vista non doveva
essere inteso come capriccio o arbitrio soggettivo; del resto il concetto di
trasformazione, da lui riconosciuto e sostenuto, non era un «rimutamento
totale», permanendo rapporti costanti che dipendevano dalla natura degli esseri.
Così l’etica rimaneva e si basava sul principio della vita umana; la politica
doveva garantire il bene di tutti e non di pochi; la distinzione tra sovrano e
suddito era solo frutto di contingenze storiche e così via. Angiulli non esitava
ad allontanare l’accusa di comunismo. «Questa dottrina non è il comunismo,
perché eleva invece il valore di libertà e di sovranità in ogni individuo, e però
mantiene la distinzione delle capacità. Lo Stato non è un fine a sé stesso, ma è
un mezzo per la libertà degli individui».. Ci troviamo, in sostanza, dinanzi ad un
evoluzionismo sociale, politicamente moderato e capace di insistere sulle
potenzialità collettive, sino a prospettare, come già l’ultimo Comte, la religione
dell’umanità, quella “nuova coscienza religiosa”, in grado di soppiantare
definitivamente quelle tradizionali. «La nuova coscienza religiosa che potrà
sorgere da questa elaborazione intellettuale sarà superiore al cattolicismo al
protestantesimo ed al cristianesimo, perché sarà la religione dell’umanità. Il
cristianesimo dovrà assorbirsi nell’umanità».. Qui Angiulli si mostrava
estremamente vicino a Comte e a Littré, sino a ritenere assurda non solo una
religione di Stato, ma la stessa possibilità di una compresenza di un libero Stato
e di una libera Chiesa, stante il carattere autocratico della Chiesa romana. In
effetti, ci si trovava negli anni della più dura contrapposizione tra Stato e
Chiesa.
Infine come mutava il senso del vero e del bene, così cambiava l’estetica.
Ogni tempo aveva avuto una sua produzione artistica e Angiulli intuiva i futuri
mutamenti che l’industria e la scienza porteranno nell’arte e guardava con
attenzione alla produzione letteraria naturalista e verista ancora in fieri.
Ma ciò che premeva veramente al filosofo era il miglioramento delle
condizioni materiali della vita umana. Il discorso filosofico tendeva così a
diventare discorso pedagogico.
Nel 1871, in occasione dell’insediamento quale professore incaricato di
Antropologia e Pedagogia nell’Università di Bologna, Angiulli teneva
un’importante allocuzione, La filosofia positiva e la pedagogia, che in realtà era,
idealmente, la continuazione del precedente volume.
Il punto di partenza del saggio era la constatazione dello sviluppo
scientifico che aveva condotto all’affermazione della società industriale.
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Effettivamente la situazione politica italiana ed europea che Angiulli aveva di
fronte a sé era una situazione a dir poco travagliata. Il 20 settembre 1870 i
bersaglieri entrarono a Roma che nel 1871 sarebbe diventata formalmente
capitale, ponendo fine alla plurisecolare vita dello Stato pontificio, ma il
pontefice Pio IX ritenne il governo italiano usurpatore dei suoi diritti e,
chiudendosi dentro il Vaticano, si dichiarò prigioniero degli italiani, aprendo
una lacerazione ancora più profonda nelle coscienze. Ma ai primi del settembre
del 1870 era caduto l’impero napoleonico, principale sostenitore della causa
papale, e, mentre Guglielmo I a Versailles veniva incoronato (18 marzo 1871)
imperatore di Germania, Parigi conosceva l’esperimento socialista e radicale
della Comune che si traduceva in una tremenda e sanguinaria lotta civile volta
ad infrangere ogni possibilità di convivenza pacifica tra repubblicani e socialisti.
Tenendo conto di tale rivolgimento, non c’è da stupirsi che Émile Littré si
accingesse a rivedere criticamente le certezze di qualche anno prima. Il
problema di Angiulli era, pertanto, quello di contribuire come intellettuale
moderato alla agognata stabilità sociale che fosse insieme progresso sociale
lontano dagli estremismi e dalla conflittualità delle coscienze. Angiulli non
credeva che lo sviluppo intellettuale fosse in contrapposizione con quello
morale; capiva assai bene come tale tesi potesse giovare alle forze reazionarie,
ai conservatori, allo status ante. Occorreva andare avanti. Il cammino della storia
non era mai indolore, ma era positivo. Angiulli sentiva il bisogno di una fede
comune che ancora non c’era, una fede che sostituisse quelle tramontate.
L’obiettivo delle coscienze era la «ricostruzione dell’essere sociale». Già un altro
pedagogista, Aristide Gabelli, nel 1866 aveva scritto che «quanto maggiormente
si allarga la libertà conceduta a ogni cittadino, quanto più crescono i suoi diritti,
i suoi poteri, la sua ingerenza nei pubblici affari, tanto è più necessaria una
guarentigia ch’egli ne farà uso in modo consentaneo a giustizia e all’utilità del
paese». Gabelli individuava tale guarentigia nella coscienza e sosteneva che era
necessario ricorrere all’educazione per formare buoni cittadini.
Che fare, allora? Angiulli intuiva con chiarezza che la costruzione
dell’essere sociale implicava il consenso e individua nell’ elemento intellettuale ciò
che determinava la gerarchia delle funzioni, l’energia che «trasmuta i fatti
organici in fatti storici e suscita e dirige tutto il movimento della vita collettiva».
L’elemento intellettuale e non le condizioni naturali, i sentimenti, i caratteri, le
forme politiche. Angiulli sentiva come mai prima l’impegno civile
dell’intellettuale.
Ne risultava che il motore della storia, nonostante che Angiulli si
sforzasse di ricordarne l’origine psichica, era sempre l’idea. E l’idea, in questo
positivismo non privo di forti echi idealistici, era da un lato sapere (cioè
fondamento dei progressi passati), dall’altro fondamento dei progressi a venire.
Angiulli aggiungeva però subito che lo sviluppo intellettuale non era lineare,
riprendendo le teorie di Comte e Vico.
Sempre seguendo il pensiero di Comte, Angiulli rilevava che attualmente
nel mondo morale convivevano conflittualmente la concezione mitica, quella
astratta e quella positiva. Era possibile una mediazione? Secondo Spencer,
annotava Angiulli, le tre concezioni avevano un punto di partenza vicino come
uno stesso punto di arrivo. Muovevano dai fenomeni dell’esperienza comune e
cercavano una spiegazione del problema del mondo. L’errore della posizione
teologica e di quella ontologica stava nell’affidarsi alla fantasia e all’astrazione. Il
positivismo invece spiegava i principii dei fenomeni con i fenomeni stessi.
Nel suo argomentare Angiulli si mostrava in tutta la sua ortodossia
positivista, pervenendo ad una concezione evoluzionista, dinamica del processo
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del reale. Diventa sempre più evidente la necessità di rivedere i sentimenti
morali cercando di fondarli sulla concretezza della vita sociale. Affinché ciò
accadesse, continuava Angiulli, ci sarebbe voluta una soluzione pratica e per far
entrare la teoria nella coscienza di tutti sarebbe stata necessaria l’istruzione,
sarebbe stata necessaria la scuola.
Questo il punto. Angiulli era pervenuto ad una sua concezione del
positivismo, ma si rendeva conto che questa concezione poteva avere un senso
solo se avesse acquistato la capacità di trasformare, di contribuire fattivamente
all’evoluzione sociale. E il problema che a lui era di fronte non era dato solo dal
permanere di punti di vista e di comportamenti religiosi e metafisici; era anche
e soprattutto offerto dalla effettiva precarietà della vita sociale. In qualche
modo, avendo a suo parere delineato il problema generale, l’esito della sua
opera si spostava quasi necessariamente sul piano operativo e su questo piano
doveva, altrettanto necessariamente, incontrare la pedagogia come disciplina
capace di dare alle istituzioni scolastiche la vitalità giusta per la rinascita civile. Il
filosofo Angiulli si faceva pedagogista.
Il problema dell’educazione, e conseguentemente della scuola, diventava
il problema essenziale per l’uomo di pensiero, la vera questione che era di
pertinenza immediata del pensatore positivista. In questa prospettiva, il
problema educativo non poteva essere semplicemente legato a quello
dell’istruzione, ma anche, e soprattutto, a quello della più completa formazione,
poiché vi era in gioco la formazione della mentalità, della forma mentis, del
modo di partecipare alla vita civile, di concepire la vita sociale. In altri termini,
il problema educativo si poneva in quanto, sullo sfondo, urgeva il problema
morale.
Naturalmente la questione riguardava in primo luogo l’educazione del
popolo, aspetto assai dibattuto. «Non basta moltiplicare le scuole e render
l’istruzione fino ad un certo grado obbligatoria e gratuita. L’efficacia delle
scuole non deriva dal loro numero e dal loro meccanismo, ma dal loro
contenuto». Angiulli lamentava allora che non solo nei contenuti delle
discipline e dell’impostazione scolastica permanessero diverse concezioni della
vita, ma vi fosse una notevole diversità e contrasto di approccio educativo tra i
vari gradi scolastici, tra gli insegnamenti scientifici e quelli letterari, tra gli stessi
docenti, tra docenti e genitori e vita sociale. Non esisteva una effettiva
unitarietà di impostazione e di vedute, anzi la frammentazione e l’incoerenza
dell’insegnamento potevano far sembrare a molti un’utopia la riuscita di una
efficiente scuola popolare. La preoccupazione di Angiulli era, quindi,
prettamente speculativa, di una speculazione di matrice comtiana per la quale il
problema sociale, concreto, derivava da quello speculativo. Era l’assenza di una
effettiva egemonia della filosofia positiva nell’istruzione pubblica a renderla
inefficace e, pertanto, a rendere inefficace la sua incidenza per il miglioramento
della società.
Naturalmente questo comportava da un lato il carattere unitario, e per
certi versi metafisico, dell’impostazione di Angiulli e del positivismo in
generale, e dall’altro la intrinseca natura totalitaria di tutta l’impostazione
speculativa, in quanto la scienza o meglio la filosofia positiva si manifestava
come l’unica chiave di lettura dell’intero processo storico, il quale ultimo, a sua
volta, per un corretto sviluppo, doveva essere permeato e guidato da tale
filosofia.
Angiulli ribadiva il primato della pedagogia (quindi della scienza) per la
ricostruzione e l’armonia sociale. Di qui seguiva, ancora una volta, che erano le
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idee a dirigere e a determinare il corso della storia. Era inoltre implicito che la
pedagogia di cui egli parlava non poteva che appartenere alle scienze positive.
Si trattava di definirla nei particolari. Altri elementi fondamentali
dell’affermazione sono che in tale prospettiva lo Stato aveva la funzione di
garante della corretta incidenza pedagogica (lo Stato liberale), mentre la scuola
era lo strumento pratico, istituzionale, di azione e promozione sociale. La
pedagogia veniva così ad assumere un ruolo guida di primaria importanza,
conservando una duplice natura, quella di riflessione speculativa, meglio
scientifica, e quella di azione concreta.
Ora riconosceva che la pedagogia aveva un fondamento nell’antropologia
poiché l’educazione doveva conformarsi alla natura fisica e psichica dell’uomo.
Se non che l’uomo poteva essere visto (metafisica) come coscienza ed era tale
impostazione, a detta di Angiulli, che ancora prevaleva nelle scuole italiane. Ma
alla fine dei conti anche le scienze positive non risultavano essere poi del tutto
precise intorno al concetto di antropologia intesa o come studio delle varietà
umane o come storia delle società. Occorreva una maggiore determinazione e
Angiulli, secondo lo spirito del tempo, individuava le diverse scienze particolari
su cui doveva a sua volta fondarsi l’antropologia. In altri termini, Angiulli
ancorava la conoscenza dell’uomo alle scienze naturali ed umane (biologia,
sociologia, psicologia ecc.) e per questo lo studio della persona rientra
nell’ambito naturalistico scientifico. D’altra parte l’antropologia da sola non
poteva bastare in quanto l’educazione non riguardava solo la vita individuale
dell’uomo, ma anche quella morale e sociale. Bisognava avere una cognizione
precisa dei prodotti umani, e la scienza che forniva la cognizione dei prodotti
umani era la storia. È interessante che Angiulli avesse indicato la storia e non la
sociologia come l’altra scienza costitutiva della pedagogia. In questa sua
convinzione si scorgeva una chiara influenza del suo modo di intendere Vico16:
in questo vi era inoltre un chiaro intento del primato italiano di cui non era
esente il pensatore pugliese nonostante la sua formazione europea e traspariva
nella stessa rivendicazione di una originalità all’interno di un movimento, quello
positivista, di vasta portata internazionale.
Naturalmente Angiulli vedeva la storia come processo di trasformazione
e di miglioramento sociale, non come mera informazione. La storia non si
ripete e per sua intrinseca natura chi intende la storia è per l’innovazione, per il
progresso. Anche qui era evidente l’influenza idealistica ricevuta da Spaventa.
«Appunto perché la storia è l’educazione o la pedagogia dell’umanità, la scuola
del presente sarà fattore di educazione e di progresso, quando non ripete
semplicemente il passato, ma aggiunge nuovi elementi e nuova forza alla
corrente dell’avvenire». Angiulli si rendeva conto della fondamentale
importanza del significato della storia come impulso per il progresso
pedagogico e civile in genere, ma non voleva che essa venisse, per così dire,
contaminata da influenze metafisiche. Il suo era un immanentismo
naturalistico, dove potrebbero essere individuate influenze del naturalismo
panteistico di Spinoza. Lo stesso concetto di sociologia mutuato da Comte non
era altro che un modo di intendere la storia, esplicandosi come garante del
progresso storico..
Ma l’antropologia e la storia (o sociologia) non erano ancora sufficienti.
«Alla costituzione delle scienze naturali segue la costituzione delle scienze storiche. Come
Galilei cominciò la prima nella storia moderna, così Vico cominciò la seconda. Come il grande
principio di Galilei fu la spiegazione della natura mediante le leggi ricavate dalla natura stessa,
così la creazione di Vico fu di vedere come il concetto etico ed umano era inesplicabile senza il
concetto storico, il concetto di sviluppo, come dice lo Spaventa»
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Infatti, se la scienza dell’uomo e la scienza della storia si integravano tra
loro, «egli è chiaro che come perciò l’antropologia e la sociologia hanno
l’ultimo fondamento della loro positività scientifica fuori della loro sfera
particolare, nella concezione dell’unità cosmica, così la pedagogia di sotto
all’antropologia e alla sociologia ha per sua base la dottrina di cotesta unità
cosmica. La legge e la dottrina dell’educazione umana non deve rompere ma
deve continuare la legge e la dottrina dell’evoluzione cosmica. Or, questa
dottrina che studia la legge dell’unità e dell’evoluzione cosmica e che perciò
non è più una scienza particolare, ma una scienza generale, è la filosofia
positiva. L’ultimo fondamento dunque della pedagogia è la filosofia».
L’approdo, pertanto, era la filosofia.
Il che sembrerebbe contraddire quanto prima affermato da Angiulli
allorché egli aveva distinto la pedagogia dalla filosofia e dalla precettistica,
rendendo l’individuo oggetto delle scienze naturali ed umane. A tale
osservazione il pensatore avrebbe potuto però rispondere che la filosofia, da
cui si allontanava la pedagogia, era, chiaramente, quella teologica e metafisica,
espressione del passato. Al contrario, la filosofia su cui si sarebbe dovuta
basare la pedagogia sarebbe stata la nuova filosofia, ossia la filosofia positiva.
Il discorso si rinchiudeva, pertanto, in sistema. Se la scienza dell’uomo e
la scienza della storia erano l’elemento propulsivo, ciò che l’unitarietà allo
sviluppo era la filosofia, ed era la filosofia, intesa come filosofia positiva, a
fornire alla pedagogia il sistema del contenuto enciclopedico. Ciò significava a
sua volta che la pedagogia era il corifeo della filosofia positiva. «La pedagogia
prepara l’ingresso della filosofia positiva nella scuola e mediante la scuola nella
vita sociale». Così, riprendendo la classificazione comtiana delle scienze
(matematica, meccanica, fisica, chimica, biologia, sociologia), Angiulli
individuava il significato della pedagogia come scienza pratica, essendo insieme
scienza ed arte. Infatti le scienze su cui si fondava (quelle astratte come la
biologia e la sociologia e quelle concrete come l’etnologia e la storia) vi devono
trovare applicazione.
Di qui alcuni passaggi interessanti che investivano la pedagogia non solo
nella scontata dimensione didattica ma pure quella politica e quella sociale. La
politica, prendendo come punto di partenza l’individuo, si indirizzava alla
società; la pedagogia, prendendo come punto di partenza la società, si
indirizzava all’individuo. Mediante l’educazione, a dire di Angiulli, l’uomo
infatti acquistava coscienza della legge, diventando cittadino. «Così la filosofia
positiva si attua come pedagogia positiva e come politica positiva, e può
risolvere il problema dell’educazione e il problema sociale». Ciò significava,
infine, per Angiulli la fine delle idee socialiste. Lo sviluppo sociale non era più
affidato ad un capo nella contrapposizione della lotta di classe. Al contrario,
sarebbe stato il graduale corso della storia a garantire pacificamente
l’evoluzione sociale e la conoscenza delle necessità storiche, opera
dell’educazione, avrebbe messo fine ai moti turbolenti e alle violenze. Il vero
motore della storia, secondo Angiulli, non erano, pertanto, i singoli individui,
bensì l’intero processo sociale, che era opera collettiva. La pedagogia diveniva
in tal modo non solo garante dell’ordine costituito, ma foriera di una graduale
processo di miglioramento collettivo.
La pedagogia offriva una concreta possibilità di operare fattivamente
senza rinunciare al ruolo di filosofo.
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