Martedì 23 agosto, ore 15 SENSO RELIGIOSO E CULTURA LAICA DI FRONTE ALLE RESPONSABILITA’ DELLA POLITICA Partecipano: Roberto Formigoni vice presidente del Parlamento europeo Claudio Martelli vice segretario del Partito socialista italiano Giovanni Spadolini presidente del Senato. Conduce l'incontro: Maurizio Vitali. Il senso religioso descrive l'uomo in termini di libertà; la politica deve quindi misurarsi con questo elemento fondamentale. La democrazia è tale quando rispetta le identità e quando permette alle "formazioni sociali" di vivere ed affermarsi. Non c'è alcun conflitto fra senso religioso e cultura laica. R. Formigoni: Il tema di oggi è: "Senso religioso e cultura laica di fronte alle responsabilità della politica". A me pare indubbiamente che la parola centrale di questa tavola rotonda e del resto di tutto il Meeting è, il senso religioso. Non è affatto qualche cosa di contrapposto alla cultura laica e tanto meno alla cultura, perché anzi - voglio fare una osservazione elementare, banale - in questa tavola rotonda siamo tutti laici, sono laico anche io ed anzi è proprio per questo che il senso religioso mi interessa. Mi interessa in quanto uomo. Il senso religioso - noi con la parola senso religioso intendiamo ciò che fa essere l'uomo uomo - è l'espressione della domanda fondamentale di significato che c'è in ogni uomo. Ed è per questo che oggi è stimolante vedere che cosa ha da dire la politica di fronte alla domanda che l'uomo è. Che cosa ha da dire la politica in concreto di fronte a quel complesso di esigenze e di desideri originari che costituiscono l'identità dell'uomo, che fanno essere l'uomo un uomo. Per anticipare una definizione, io credo che il problema della politica, il primo, fondamentale problema della politica sia esattamente quello di non bloccare questa domanda, di non impedire che la domanda di significato, di significato della vita che è dentro ogni uomo, si esprima. La prima cosa da chiedere alla politica è che non blocchi, che non soffochi, che non impedisca di manifestarsi alla domanda di significato che l'uomo ha dentro di sé. E anzi che, se possibile, la politica aiuti questa domanda ad esprimersi e a trovare risposta. Il senso religioso descrive l'uomo innanzitutto in termini di libertà, come l'espressione di una libertà irriducibile (perché l'uomo è irriducibile a un qualunque antecedente biologico o storico). L'identità più profonda dell'uomo, di ogni uomo, coincide proprio con questa sottesa aspirazione ad essere se stesso, cioè ad essere libero, a esprimersi in termini assolutamente personali, non catalogabili, non omologabili, secondo nessun criterio di giudizio che non sia altro, appunto, che la sua libertà. E quindi la politica ha da misurarsi, da confrontarsi col fatto che l'uomo è una tensione costante, è una domanda continua verso la realizzazione di sé, verso la pienezza del proprio essere. In qualche modo è proprio questa tensione all'infinito ciò che fa essere un uomo vero. Tensione dell'uomo alla libertà: il senso religioso definisce l'uomo, innanzitutto, come tensione alla libertà, alla creatività, all'espressione di sé. C'è una seconda caratteristica in cui l'uomo è colto nella prospettiva del senso religioso. Io la definirei in questi termini: l'uomo tende inevitabilmente a mettersi insieme ad altri uomini, ad associarsi con altri. La sua libertà si esprime innanzitutto come un riconoscimento che l'uomo opera, di altri uomini, altri soggetti, nella tendenza a mettersi con altri. E una terza caratteristica: la tendenza dell'uomo a costruire società, a concorrere a dare un volto, una identità al mondo in cui vive. Io penso che la responsabilità della politica sia quella di essere al servizio di questa triplice connotazione dell'uomo. La valorizzazione di questi tre aspetti genera un pluralismo reale. La democrazia è tale, cioè la democrazia è vera e giusta, quando rispetta le diversità, quando si fonda su di esse. Non una democrazia degli individui isolati, degli uomini soli, o che tenda a dividere gli uomini tra di loro, ma una democrazia di uomini che si mettono assieme e che si riconoscono con altri e quindi creano gruppi, movimenti, associazioni, creano quelle che la dottrina sociale cristiana chiama le "formazioni sociali". Del resto, proprio la Costituzione italiana parte dal riconoscimento, come diritto fondamentale, del diritto di associazione, del diritto degli uomini a mettersi insieme e ad essere protagonisti della società. Una democrazia è vera quando riconosce, valorizza il diritto degli uomini a costruire, a partire da una identità, una società in cui sia possibile essere protagonisti, nel campo culturale, economico, imprenditoriale. A questo punto domando: quale è la situazione oggi nel nostro paese, riguardo a questo compito fondamentale della politica? Io credo si possa dire, almeno per molti aspetti, che la situazione e completamente l'opposto. Siamo in presenza di un potere che tende, piuttosto che a interessarsi dell'uomo nel concreto svolgersi della sua vita, a sostenere il potere stesso. Infatti il discorso politico, non soltanto nel nostro paese, usa soprattutto la parola "consenso". Fa politica chi è capace di creare il consenso della gente attorno alle sue scelte. Il potere, per sua natura, tende più che a mettersi in rapporto con i desideri dell'uomo, con le esigenze fondamentali dell'uomo, col senso religioso, a governare e a manipolare le reazioni dell'uomo, perché tende a usare quelle reazioni per sostenere se stesso, per perpetuarsi e moltiplicarsi. Anzi, io dico che nella nostra società, nonostante tanti discorsi sbandierati di libertà e di pluralismo, la paura più grande che si ha è proprio la paura della diversità, la paura della differenza, a meno che non sia una differenza funzionale al potere stesso, cioè manipolabile dal potere. Uno degli ospiti del Meeting, Giacomo Contri, in un articolo recente, ha parlato di questa tendenza a governare le differenze presenti nella società piuttosto che a lasciarsi interrogare da queste differenze, a lasciare che siano le differenze a organizzare la convivenza. Anche qui, per farla breve, io credo che il tema della differenza sia decisivo per la nostra attuale fase culturale, sociale e politica. Ricordate la triade della Rivoluzione Francese? Se vogliamo riprenderla in considerazione oggi, io credo che accanto alla libertà e alla fraternità debba essere posto il tema della diversità: non libertè, fraternitè, egalitè, ma libertè, fraternitè, díversitè. Oggi è la diversità che segnala la possibilità della libertà all'interno della società. Mentre oggi vediamo piuttosto una tendenza all'omologazione, ad appiattire le diversità, a censurare, a non confrontarsi con l'uomo concreto per come si pone: l'uomo nella sua libertà e nella sua unicità è per definizione stessa, diversità. Il potere tende a negare le diversità per organizzare invece un governo capillare, degli elementi comuni, dei valori comuni. Voglio andare più a fondo nella polemica con certe linee di tendenza presenti nel dibattito culturale di oggi. Questa parola "valori comuni", per come è utilizzata oggi mi sembra decisamente ambigua, soprattutto, diciamolo con chiarezza, all'interno di un certo dibattito cattolico. Mi sembra che limitare la questione della politica o della cultura sulla ricerca di alcuni valori comuni, sia oggi un gioco al ribasso, una tentata omologazione che porta a censurare, a eliminare le differenze scomode e perciò le identità reali. Perché? Perché l'uomo vive esattamente nella diversità rispetto ad ogni altro uomo, nella differenza, come del resto già notava alcuni secoli fa Aristotele. E l'obiettivo della democrazia non può che essere questo: che vivano le differenze. Una democrazia è vera quando ogni identità sa accettare e valorizzare ciò che non si omologa, ciò che è differente da lei. Credo che oggi il tema della differenza sia decisivo e non è un caso che la polemica più forte è portata proprio a chi costituisce all'interno della società, identità scomode (mi riferisco a diversi articoli della stampa di questi giorni). Un secondo punto vorrei proporre al dibattito dei nostri interlocutori: il problema del diritto di associazione e della possibilità di costruire all'interno della società, di partecipare alla costruzione della casa in cui tutti noi siamo. Io credo che tra i tanti articoli della Costituzione ancora validi, uno in particolare non sia stato realizzato, ed è quell'articolo 2 a cui accennavo inizialmente, che riconosce tra i diritti inviolabili dell'uomo proprio il diritto a creare delle formazioni sociali. L'art. 2 recita esattamente: " ... Formazioni sociali ove si svolge la personalità dell'uomo". Più che una Repubblica fondata sul riconoscimento di questo diritto mi sembra, in molte manifestazioni concrete, una Repubblica che tende a dividere gli uomini gli uni dagli altri. Vorrei fare un esempio concreto, quello della scuola. È evidente che la scuola italiana di oggi appare dominata da un disegno culturale che punta piuttosto all'omologazione che non alla valorizzazione delle diverse identità. Non è da oggi che noi chiediamo una scuola che valorizzi la libertà della persona, la sua possibilità di essere protagonista. Credo che nel tema della scuola sia veramente in questione una delle caratteristiche fondamentali. Si tratta di decidere se sia ancora giusto aver paura della libertà della gente che si esprime, della libertà dei genitori, della libertà degli insegnanti, della libertà dei ragazzi, quasi che lo stato, dall'alto, debba governare, far scendere i suoi contenuti, obbligatoriamente uguali per tutti e non invece permette l'esprimersi dal basso di una molteplicità e di una ricchezza di identità diverse. C. Martelli: Non è la prima volta che discuto con Roberto Formigoni anzi, a partire dal 1980, data del vostro primo Meeting, è diventata una consuetudine che ha fatto all'inizio scandalo e ha suscitato qualche fastidio in casa vostra ma - dovete credere - anche in casa nostra, in casa socialista, in casa laica, per così dire. Trovo facilmente una consonanza intellettuale con voi anche se non sempre il linguaggio è identico. E figuriamoci se non siamo d'accordo nella premessa delle premesse e cioè che compito della politica è innanzitutto non solo quello di difendere ma, promuovere, favorire, sviluppare, la libertà degli uomini. All'ultimo congresso socialista, qui a Rimini - anche questa è una consonanza che ci unisce - tutto il mio intervento era un tentativo di spiegare il socialismo in termini di libertà e di liberazione, non soltanto per un omaggio a quel socialismo liberale dei Rosselli che ci ha tanto educato e non soltanto per una particolare simpatia culturale con le tendenze della filosofia sociale soprattutto di area anglosassone, ma vi sono alle nostre spalle alcune esperienze molto concrete e molto ampie che ci hanno spinto nella stessa direzione di ricerca, nonostante che ciascuno abbia la sua identità, la sua diversità, il suo diverso bagaglio culturale. Io penso che la prima, in un certo senso la più importante di queste esperienze comuni è l'enorme, la straordinaria lezione umana, morale e politica che a noi socialisti e a voi di M.P. e C.L. è giunta dal dissenso nell'Est europeo. E riflettendo su quella esperienza e su quella lezione, sullo scacco tragico cui è approdato il tentativo più coerente di fondare un nuovo stato, un nuovo ordine di cose e nuove società sulla privazione delle libertà individuali azzerando la storia di comunità e di popoli nei loro valori culturali precedenti, è da quell'esperienza che è venuto un grande impulso, nella sinistra come nel mondo cattolico, a ricercare se le divisioni, gli spartiacque, gli steccati ideologici che abbiamo tutti ereditato fossero ancora giustificati. Qualche anno fa in un intervista dedicata proprio a uno dei vostri Meeting avevo osservato già questa consonanza con una esperienza come la vostra, come quella di Roberto, che certamente trae grandi insegnamenti dal fatto che a guidare oggi la Chiesa cattolica sia un pontefice venuto dall'Est. Nella formazione così complessa di cui è portatore, intellettuale, operaio, poeta e grande sacerdote, innanzitutto, ha giocato un ruolo determinante l'essere in qualche modo come noi siamo, post-marxista, essersi formato e sperimentato in un duro confronto con la realtà appunto di chi aveva voluto azzerare la storia culturale, nazionale, sociale, religiosa del popolo polacco. Così come a noi il dissenso nell’Est ha insegnato un ritorno coraggioso alle nostre origini autentiche che non sono quelle marxiste, ma sono quelle di un socialismo umanistico, filantropico, con forti correnti anarchiche e libertarie al proprio interno, un socialismo che per comunicarsi al proletariato delle campagne e al primo proletariato industriale dovette di necessità assumere linguaggio, figure proprie della tradizione religiosa e in particolare di quella cristiana e cattolica. Si parlava alla fine dell'800 - ne parlavano i nostri antenati socialisti - di apostolato nelle campagne, di predicazione, di evangelizzazione, sia pure di una evangelizzazione sociale. Vi fu dunque un largo mutuare di temi, di criteri, di linguaggio propri della tradizione cristiano sociale da parte del socialismo delle origini, quello al quale abbiamo inteso con grande convinzione di guidare la nostra navicella ammaestrati una volta di più dall'esperienza fallimentare, dallo scacco tragico delle società comuniste e dal grande insegnamento del dissenso politico, intellettuale, culturale, maturato in quelle società. Per questo mi accosto al tema di oggi con una relativa tranquillità. Io non credo che vi sia un conflitto pregiudiziale tra senso religioso e coscienza laica. Come Roberto Formigoni può tranquillamente dire, "mi sento laico, voglio parlare da laico" e naturalmente ritiene di non smentire affatto il suo senso religioso, così io vorrei parlare di senso religioso senza smentire affatto il mio essere laico. Semmai interessa di più capire bene che cosa intendiamo. Il senso religioso, per esempio, sorge, come ho visto e letto in rapporto a una delle vostre mostre qui nel Meeting, istantaneamente nell'uomo primitivo al cospetto della volta stellata? Il senso religioso è senso dell'infinito o è senso del limite? O è entrambe le cose e cioè il senso del limite dell'uomo di fronte all'infinito? E la coscienza laica è l'ordinamento di scoperte sempre più grandi e inaudite nell'ordine scientifico, tecnologico, nelle costruzioni sociali o è la coscienza degli stretti confini entro cui è chiusa la vita umana? Io non credo che l'uomo sia in natura laico o religioso. Penso che l'uomo sia l'uomo, limitato nella conoscenza e assetato di conoscenza. Che sia immenso rispetto alle altre creature ma sia anche infimo rispetto all'infinito. Che sia dotato di senso ma che sia anche costretto e condannato, molto spesso, a vivere nell'assurdo, l'assurdo di cui così magistralmente ha parlato nelle sue indimenticabili pièces Eugene Jonesco. Se dunque sia il senso religioso che la coscienza laica, sono intimamente dialettici e si aprono a diverse interpretazioni, che senso ha - come ha ben detto Cesana - continuare a dividere e tripartire gli italiani in tre grandi categorie, in tre grandi culture che dovrebbero essere permanentemente in lotta e sempre in conflitto tra di loro: la cultura laica, la cultura cattolica, la cultura marxista. lo non so se ho capito bene il senso del rifiuto di Cesana di iscrivere la propria storia e quella del movimento in una delle tre categorie culturali. Cesana dice che è sbagliata, da respingere la tendenza così diffusa a racchiudere i cattolici in un ghetto per quanto grande possa essere questo ghetto. Bene, io debbo subito aggiungere che a nostra volta noi socialisti non desideriamo affatto essere rinchiusi né in un ghetto marxista, né in un ghetto laicista. E dunque cosa significa questo duplice rifiuto a essere omologati, classificati come specie, che proviene sia da noi sia da voi? Non si tratta soltanto, credo, di una certa insofferenza per gli steccati ideologici, per le tradizioni pietrificate, per gli sbarramenti dottrinari, credo che si tratti anche d'altro. Quando Cesana rifiuta il ghetto per i cattolici italiani, credo intenda rivendicare la diversità di cui parlava Formigoni, intenda cioè rivendicare al cattolicesimo non tanto un qualche connotato culturale rispetto ad altri, ma una differenza, una diversità irriducibile dell'esperienza religiosa e della specifica esperienza cattolica, del suo fondamento rivelato, irriducibile alla storiografia culturale, alla sociologia culturale, all'antropologia e alla filosofia della storia. E figuriamoci allora se si rifiuta di ridurre la dimensione dell'esperienza religiosa e di quella cattolica in particolare, alla cultura cattolica, se si può accettare di ridurre l'esperienza religiosa alla forma o alla presenza transitoria in un partito transitorio come tutti gli altri partiti. Nella stessa misura noi sentiamo altrettanto errata la pretesa di ridurre l'umanesimo socialista e l'umanesimo liberale alle dimensioni e ai diversi percorsi di altri partiti, così come oggi, ieri, domani si configurano. Ed è anche per questo che noi rimettiamo continuamente in discussione la forma del nostro partito, perché è quella che deve adattarsi all'umanesimo socialista e liberale e alle sue acquisizioni e non viceversa. Per esempio, a noi oggi appare ormai del tutto pacifico che sarebbe insensato e inaccettabile contrapporre socialismo e liberalismo e questo non soltanto per un omaggio a tradizioni che tentarono questa sintesi. Si tratta di una acquisizione che a sua volta è la premessa per comprendere meglio il mondo in cui viviamo e che non è senza conseguenze pratiche o politiche. C'è qui l'amico Spadolini, del quale ho grande stima e grande rispetto. Qualche anno fa, nella convenzione dei giovani socialisti, mi permisi di contestare uno dei tanti tabù della cosiddetta cultura laica o di quello che io chiamo il "laicismo parlato", retorico, arcaico, e cioè che scuola di stato significhi scuola pubblica e che scuola libera significhi per forza scuola confessionale e che l'avvenire della scuola italiana non può essere pensato prolungando all'infinito questa realtà che vede 12-13 milioni di allievi, 1 milione di insegnanti, tutti omologati dentro una struttura ipercentralizzata, iperburocratica, iperincapace di promuovere un vero rapporto educativo. Nella scuola italiana di tutto si parla salvo che del rapporto educativo, e si affida tranquillamente l'educazione dei ragazzi non alle famiglie per lo più impegnate con il lavoro, non alla scuola che non si occupa del rapporto educativo (vittima di uno dei tanti accecamenti della cultura idealistica dell'inizio del secolo ed in particolare, in questo caso, di Gentile che negava l'autonomia della sfera educativa-pedagogica, e che è stato il principale autore della riforma scolastica nel nostro paese). Considero molto più interessante e importante proprio da un punto di vista laico, se volete liberale, che si possano organizzare diverse esperienze educative e che possano tra di loro confrontarsi, misurarsi, verificarsi e che questo richiede che sia restituita alle famiglie una responsabilità nell'iniziativa educativa e richiede che tanti e diversi soggetti (la Chiesa, il mondo cattolico, il mondo sindacale, il mondo imprenditoriale, tante e diverse scuole pedagogiche nel concreto dell'organizzazione di tante diverse realtà scolastiche) possano misurarsi. Allo stato deve competere, insieme con la definizione di quella, che del resto è un obbligo previsto dalla Costituzione, una carta delle parità scolastiche, anche il compito di fissare alcuni parametri e criteri e garantire poi l'accesso gratuito a tutti ... la forma tecnica può essere la più diversa. L'essenziale è che vi sia un quadro di riferimento, una carta delle parità scolastiche e che poi si compia questa evoluzione dall'illusione statalistica ad una scuola pubblica e libera, varia nelle sue organizzazioni, nelle sue ispirazioni, nelle sue tendenze pedagogiche. G. Spadolini: Per un disguido tecnico la prima parte dell'intervento del sen. Spadolini non è stato registrato. Ce ne scusiamo con l'interessato e con i lettori. Vorrei esprimere il mio giudizio sulla crisi dei partiti: per molti anni ho fatto alcune battaglie, prima ancora di entrare nella vita politica, per mettere dei confini al potere dei partiti. Ad un convegno che si svolse nel marzo del 1987 sul tema del confronto tra cultura socialista e cultura repubblicana, ci fu una relazione indimenticabile di un grande storico che anche voi certamente amate, Rosario Romeo, il quale concluse proponendo un'autoriforma dei partiti attraverso gli statuti (vecchia idea che era stata di Vittorio Capraris del gruppo del "Mondo"). Io credo che ci sia un'invasione di campo abusiva da parte dei partiti politici e quando mi sono riferito alla Costituzione e al valore che l'autorità democratica ha in essa, l'ho fatto perché la Carta Costituzionale costituisce un limite allo strapotere dei partiti. Non dimenticate che l'Italia, la Costituzione repubblicana, è la sola del dopoguerra (rispetto a quella francese e a quella tedesca e ad altre coeve), che abbia dedicato un articolo, il 49, ai partiti, attribuendo loro il compito essenziale di concorrere a determinare la politica nazionale e quindi inserendoli in una logica statutaria, costituzionale. Sono quindi d'accordo sulla necessità assoluta di una riflessione ulteriore contro la degenerazione partitocratica che va contro la libertà del governo parlamentare. Non meno di quanto sia da sempre d'accordo sulla necessità di una legislazione anti-trust, contro la concentrazione eccessiva di potere soprattutto nel campo dell'informazione. È una battaglia che ho combattuto da anni lontani: è stata una delle battaglie fondamentali del "Mondo" di Pannunzio e credo che il regime democratico, nella sua essenza, sia volto a sgominare le concentrazioni di potere. Queste concentrazioni anche in campo economico le hanno lasciate crescere le forze politiche, perché il Parlamento poteva in qualunque momento bloccarle. Io sono assolutamente d'accordo sulla necessità che la democrazia italiana si dia regole fisse sulla trasparenza nella vita pubblica, amministrativa e economica (nei grandi gruppi economici privati e, lasciatemi dire, anche pubblici, perché l'arbitrio regna sovrano nei primi e nei secondi e non conosce eccezioni).