L` identità nazionale palestinese è nata dagli errori di

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IL CORRIERE DELLA SERA
«L' identità nazionale palestinese è nata dagli errori di Onu e Israele»
«Lo Stato ebraico non ha capito che le guerre e i campi profughi hanno creato un popolo»
di Romano Sergio
L' articolo con cui Piero Ostellino ha appassionatamente ricostruito la storia dei rapporti arabo-israeliani e
della diaspora palestinese mi ha ricordato una curiosa pagina di storia ebraica. Theodor Herzl, fondatore del
movimento sionista, voleva da re agli ebrei una terra ma non credeva alla teoria del ritorno e non era
convinto che questa terra dovesse essere necessariamente la Palestina. Se sua maestà britannica gli avesse
fatto dono dell' Uganda, su cui sventolava da poco tempo la «Union Jac k», Herzl se ne sarebbe accontentato
e avrebbe guidato il suo popolo, come un novello Mosè, verso una terra africana. Ma nel congresso sionista
in cui la soluzione ugandese fu dibattuta, il precursore dello Stato ebraico constatò che la maggioranza d ei
partecipanti non intendeva rinunciare alla Palestina e non era disposta a prendere in considerazione altre
prospettive. Herzl si adattò alla loro volontà e si consolò pensando che la Palestina presentava, per il fine che
egli si era proposto, uno straordinario vantaggio: era spopolata e quindi particolarmente adatta ad accogliere
l' immigrazione ebraica. La frase favorita con cui Herzl presentava ai suoi interlocutori i progetti del
movimento sionista divenne da quel momento «una terra senza popolo per un popolo senza terra». Il leader
sionista, paradossalmente, aveva allo stesso tempo torto e ragione. Aveva torto perché la Palestina, agli
albori del suo movimento, era abitata da contadini, pastori, mercanti e artigiani arabi, prevalente mente
musulmani. E aveva ragione perché quel popolo non era una nazione e non aveva alcuna coscienza della
propria particolare identità. Quando chiamiamo palestinesi coloro che abitarono nella regione fino alla
nascita dello Stato ebraico, li «battez ziamo» con un nome europeo tratto dagli annali della storia romana e
da quelli dell' impero britannico. Non è del tutto esatto quindi dire che 800 mila «palestinesi» furono cacciati
dalle loro case durante la prima guerra arabo-israeliana. Erano «ind igeni» che avevano lungamente occupato
una provincia dell' impero ottomano ed erano divenuti, dopo la grande guerra, sudditi protetti dell' impero
britannico. È davvero così sorprendente che ai Paesi della regione, nel ' 48, la spartizione decisa dal l' Onu e
la contemporanea creazione di due Stati «palestinesi» - uno ebreo, l' altro arabo - sembrassero una
intollerabile invasione di campo? Proviamo a metterci nei loro panni. Terminata la guerra avevano salutato
con entusiasmo la fine dei grandi imperi coloniali. L' Italia sconfitta aveva perduto la Libia. La Francia
semisconfitta aveva dovuto rinunciare al Libano e alla Siria. La Gran Bretagna vincitrice aveva concesso l'
indipendenza all' India (la regina madre, morta qualche giorno fa, ne fu l' ultima imperatrice) e si preparava
ad andarsene dalla Palestina. «Il mondo arabo agli arabi» era ormai diventato il motto del giorno. Ma ecco
che, all' alba di questo mondo nuovo, la maggiore organizzazione internazionale decide di dare una pa tria
agli ebrei e di permetterne la nascita in una regione storicamente araba. Non è tutto. Per risolvere il problema
degli «indigeni» le Nazioni Unite decisero di costituire, accanto allo Stato ebraico, uno Stato arabo. Ai Paesi
arabi della regione questa spartizione sembrò una doppia ingiustizia. Creava uno Stato europeo là dove l'
Europa aveva promesso di andarsene e collocava al suo fianco, in una sorta di confederazione, uno Stato
arabo costituito da un popolo che non aveva identità naziona le. Fu spiegato che gli ebrei avevano subito
terribili persecuzioni e che il mondo aveva contratto con loro un debito. Ma gli arabi non riuscivano a capire
perché questo debito dovesse venire pagato da loro anziché dai persecutori. Perché l' Onu non aveva
assegnato agli ebrei una provincia europea? Perché non aveva permesso, ad esempio, che essi facessero
ritorno in quel grande «regno degli ebrei» che si era costituito dopo il medioevo fra Polonia, Bielorussia,
Ucraina e Lituania? Gli arabi entr arono in guerra quindi per due ragioni: volevano impedire la nascita di
uno Stato europeo nella regione e spartirsi la zona su cui l' Onu aveva costituito, con una specie di editto
imperiale, due nuove entità statali. Sulla fuga degli indigeni dai te rritori in cui si combatteva esiste, come
Ostellino sa, una vasta letteratura storica. Molti, è vero, furono incitati ad andarsene dai leader arabi. Ma
alcuni storici israeliani «revisionisti» hanno dimostrato recentemente che molti altri furono spin ti ad
andarsene dalle truppe israeliane. Confesso che la «pulizia etnica» mi sembra il più comprensibile dei
peccati commessi da Israele negli ultimi 50 anni. Aggredito dai suoi vicini e deciso a meglio garantire la
propria sicurezza, Ben Gurion appr ofittò della guerra per consolidare l' omogeneità nazional-religiosa dello
Stato che egli aveva appena creato. La politica e la guerra obbediscono a regole che non è possibile pesare e
valutare con i criteri del buon cuore e dei nobili sentimenti. Gl i arabi avevano il diritto di contestare le
decisioni dell' Onu e gli ebrei avevano il diritto di difendere la loro patria. Se avessero vinto, gli arabi
avrebbero cancellato Israele dalla carta geografica e si sarebbero spartita la vecchia provincia ottomana.
Vincendo, Israele «ripulì» il territorio e ne corresse le frontiere a proprio vantaggio. Comincia da quel
momento, tuttavia, la catena degli errori e delle tragedie. I Paesi arabi avrebbero dovuto accogliere i profughi
nelle loro terre e ai utarli a rifarsi una vita? Forse. Ma finché ebbero la speranza di rovesciare il risultato del '
49, li vollero nei campi per tenere aperta la questione e sottoporre il mondo a una sorta di ricatto umanitario.
Se Ostellino e io provassimo a compilare assieme una lista degli errori e delle sciocchezze commessi da
leader arabi nei primi 30 anni della storia dello Stato di Israele, riempiremmo parecchie pagine di questo
giornale. L' errore di Israele, soprattutto dopo la Guerra dei sei giorni (' 67) e la presa di Gerusalemme, fu di
non capire che anche gli «indigeni», nel frattempo, erano diventati un popolo. Cacciati dalle loro case
avevano perduto la terra, ma acquistato una patria. Questa patria è il «campo profughi» dove i palestinesi di
du e generazioni sono nati, sono andati a scuola, hanno giocato a pallone, si sono sposati. In questi piccoli
pezzi di terra disseminati nella regione, si è formata una micidiale miscela di indignazione, rabbia, nostalgia,
violenza; e questa miscela, pi accia o no, si chiama «identità nazionale». Non ha molta importanza, a questo
punto, attribuire agli uni o agli altri la colpa di ciò che è accaduto. Esiste un fatto nuovo a cui è impossibile
voltare le spalle: le guerre arabo-israeliane hanno genera to un nuovo popolo. Anziché prenderne atto e
adattarsi a questa nuova realtà, gli israeliani hanno praticato una politica pericolosamente incoerente. Alcuni
governi (quelli di Rabin, Peres e Barak) hanno capito che occorreva accettare la prospettiva di uno Stato
palestinese. Altri (da ultimo quelli di Netanyahu e Sharon) hanno continuato a considerare i palestinesi come
gli occasionali abitanti di un territorio che era stato ottomano e sarebbe divenuto israeliano. Gli uni e gli
altri, tuttavia, hanno permesso ad alcune migliaia di esponenti del fondamentalismo ebraico di installarsi, per
meglio aspettare il messia, in terre abitate dai palestinesi e destinate a diventare, prima o dopo, parte del loro
Stato. Fra l' inizio degli anni ' 90 e l ' inizio dell' ultima Intifada, il numero di questi coloni è raddoppiato:
erano 110 mila e sono oggi circa 200 mila. È incomprensibile che qualcuno, fra gli arabi, avesse qualche
dubbio sulle reali intenzioni degli israeliani? Questa storia non è div ersa da quella raccontata da Ostellino.
Abbiamo gli stessi ricordi, abbiamo visto gli stessi avvenimenti, abbiamo letto gli stessi libri e giungiamo
probabilmente alle stesse conclusioni. Cambia tuttavia quel gioco di luci e ombre che dipende in ulti ma
analisi dallo sguardo e dalla personale sensibilità dello storico. * Prima del 1948 1882 Inizia la
colonizzazione ebraica in Palestina. 1896 Il giornalista ungherese Theodor Herzl pubblica «Lo Stato
ebraico», il documento che segna la nascita del sionismo politico. 1897 Primo congresso sionista a Basilea.
Si chiede «una sede nazionale» in Palestina. 1917 Dichiarazione di Balfour (primo ministro britannico) per
la costituzione di uno Stato ebraico in Palestina. 1928-1936 Rivolte dei palestines i contro l' occupazione
britannica. 1947 Il 29 novembre l' Onu approva la risoluzione 181 per la creazione dello Stato d' Israele.
Prevede la divisione della Palestina in tre parti: uno Stato ebraico, uno palestinese e una zona internazionale
con Ger usalemme e Betlemme. * Dal 1948 in poi 1948 Il 14 maggio David Ben Gurion proclama a Tel
Aviv lo Stato di Israele. Gli Stati arabi attaccano subito: è guerra fino al ' 49 quando gli ebrei controlleranno
il 77% del territorio, contro il 56% assegnato dall' Onu. 1956 Israele partecipa all' attacco anglo-francese
contro l' Egitto e invade Gaza e il Sinai. Interviene l' Onu e le forze di Tel Aviv si ritirano dalla zona
occupata. 1967 Il 6 giugno scoppia la «guerra dei 6 giorni». Israele occupa la st riscia di Gaza, le alture del
Golan e tutta Gerusalemme. L' Onu chiede il suo ritiro dai Territori occupati con la risoluzione 242. 1973 Il
6 ottobre Egitto e Siria attaccano Israele: è la «guerra del Kippur». 1982 Offensiva militare conto il Libano e
l' Olp. Il 14 settembre massacro nei campi profughi di Sabra e Chatila. 1987 Scoppia la prima Intifada.
(giovedi , 11 aprile 2002)
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