LE FRANE Le valli, le montagne e le pianure sono abitualmente

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LE FRANE
Le valli, le montagne e le pianure sono abitualmente considerate come forme che non cambiano nel tempo.
In realtà la superficie del nostro pianeta si trasforma di continuo, ma in modo troppo lento perché noi
possiamo accorgercene. Solo in alcuni casi, come appunto quello delle frane, gli eventi subiscono una brutta
accelerazione e in pochi attimi la natura svolge un lavoro che altrimenti richiederebbe migliaia se non
milioni di anni.
Il meccanismo di una frana si può spiegare in questo modo: il materiale che costituisce un pendio, una
scarpata o una parete rocciosa, è attirato verso il basso della gravità. Rimane in quella posizione perché delle
resistenze interne lo trattengono. Questo equilibrio di forze dipende da fattori come la natura del terreno o
della roccia, la forma (o profilo) del pendio o la quantità d’acqua presente. Tali condizioni possono cambiare,
per cause naturali o artificiali. In questo caso l’equilibrio si può spezzare in favore della forza di gravità, che
vince le resistenze interne e trascina il materiale verso il basso causando, in altre parole, una frana.
Le frane possono quindi essere definite come "movimenti di materiale solido che, in virtù della loro
condizione di precaria stabilità, vengono trascinate istantaneamente verso il basso per effetto della sola
forza di gravità".
La condizione precaria stabilità sopracitata può essere determinata per evoluzione del processo di costante
modificazione del suolo che prende il nome di modellamento dei versanti: esso è regolato dalla variabile
combinazione dei vari processi di degradazione e denudazione che provocano, nel lungo periodo, un
abbassamento dei rilievi (erosione) ed un colmamento delle aree depresse (accumulo). L’azione combinata
dei cosiddetti processi morfogenetici dei versanti è generalmente riconducibile a due principali categorie di
fenomeni: la prima tende ad alterare la roccia in posto e la seconda ad erodere e trasportare i prodotti di tale
alterazione verso il basso.
In generale, quindi, il modellamento dei versanti è legato al rapporto tra i processi di alterazione chimica e
fisica con quelli di erosione e trasporto dei sedimenti. I primi, che sono legati essenzialmente alle
condizioni climatiche, agiscono perpendicolarmente al versante e sono responsabili della degradazione delle
rocce e terreni superficiali e conseguente formazione di una coltre detritica instabile; i secondi, invece, che
si sviluppano parallelamente al versante e sono dovuti prevalentemente all’azione delle acque di
ruscellamento superficiale ed ai movimenti di massa che erodono la roccia in posto e trasportano verso il
basso i sedimenti. In questo secondo tipo di processo giocano un ruolo fondamentale le frane che sono
successive ai processi di alterazione che favoriscono un ispessimento della coltre instabile e determinano il
rapido denudamento dei versanti.
Le Forze in Gioco
Le forze in gioco nell’equilibrio di un versante sono quelle di rottura, dette anche forze di taglio e quelle
opposte, dette di resistenza interna. Le forze di taglio possono derivare da sollecitazioni esterne alla
scarpata, ma in genere sono prodotte dal peso stesso dal materiale che compone il versante. Le forze di
resistenza interna hanno invece una natura più complessa. Per spiegarla immaginiamo un asse inclinato sul
quale si trova un sasso, immobile. La forza di gravità tende a farlo scivolare o rotolare per cui, se non si
muove, significa che è fissato all’asse, magari con della colla. Oppure vi è semplicemente appoggiato e
allora qualcos’altro lo trattiene. Nel caso in cui il sasso sia incollato, la resistenza all’attrazione di gravità
deriva dalla coesione. È questa una forza che dipende solo dalla natura del collante e che può permettere al
sasso di rimanere stabile, anche su un asse verticale o capovolto. La coesione è propria delle rocce e dei
terreni coerenti, ossia formati da elementi legati gli uni agli altri. Può essere data da un cemento naturale che
salda tra di loro granelli di sabbia, ghiaie o ciottoli, oppure dai legami esistenti tra atomi e molecole, o ancora
dalla presenza di forze capillari. Le particelle di rocce e i terreni coerenti possono formare pendii di qualsiasi
inclinazione, a patto che lo sforzo prodotto dalla gravità non superi in alcun punto la resistenza del materiale.
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Il peso P di una particella di terreno appoggia su di una superficie si divide in due parti: una (A) che preme
sulla superficie di contatto e che, favorendo il grado di incastro della particella, aumenta la resistenza per
attrito, e un’altra (B) che invece tende a farlo muovere e che viene detta forza di taglio
Nel caso in cui il sasso sia semplicemente appoggiato, la resistenza al movimento è data dalla forza di attrito.
Il sasso non si sposta perché la sua superficie e quella dell’asse, non essendo perfettamente lisce, si
"incastrano" l’una contro l’altra. In questa situazione la gravità gioca un doppio ruolo: tende a far muovere il
sasso verso il basso ma, al tempo stesso, premendolo contro la superficie dell’asse, aumenta la resistenza per
attrito al movimento. Per questa ragione è importante l’inclinazione. Sull’asse orizzontale tutto il peso del
sasso si scarica nel contatto e quindi si traduce in forza d’attrito. Sull’asse inclinato il peso si divide in due
parti: una che continua a premere il sasso contro di esso, generando la resistenza per attrito che lo trattiene, e
un’altra che invece lo spinge a muoversi verso il piano inclinato, agendo come forza di taglio. Aumentando
l’inclinazione, diminuisce la parte di peso che produce attrito e aumenta invece quella che tende a muovere il
sasso, fino a che la seconda prevale sulla prima e il sasso cade. La forza d’attrito e la resistenza interna dei
terreni sciolti o incoerenti, ossia formati da particelle che si trovano semplicemente a contatto l’una con
l’altra. Un materiale così sciolto, forma pendii con un valore massimo d’inclinazione chiamato angolo di
riposo, che varia generalmente tra 30° e 35°. Quest’angolo rappresenta l’acclività oltre la quale la forza
d’attrito diminuisce a tal punto da non riuscire più a vincere l’attrazione di gravità e, quindi, a trattenere della
cauta singoli elementari.
Le Grandi Frane
La gravità delle conseguenze di una frana dipende solo in parte dalle sue dimensioni. In aree poco popolate
può capitare che il crollo di un intero versante avvenga senza testimoni, mentre un piccolo smottamento in
una zona urbanizzata può provocare centinaia di vittime.
Il grande disastro è il risultato di una sfortunata combinazione di elementi, ma non sempre si tratta di fatalità:
spesso gioca un ruolo importante l’errore umano, anche quando la frana ha avuto cause del tutto naturali.
È questo il caso per esempio di terribili lahar formatisi durante le eruzione dei vulcani Nevado del Ruiz e
Pinatubo, che avvennero rispettivamente in Colombia nel 1985 e nelle Filippine nel 1991. Il Nevado de Ruiz
diede i primi segnali di attività nel 1984, dopo quasi quattrocento anni di quiete. Temendo il peggio, le
autorità colombiane iniziarono a predisporre un piano di emergenza, che prevedeva tra le altre cose che si
potessero verificare colate di fango per fusione dei ghiacci e delle nevi poste alla sommità del vulcano. Il 3
novembre del 1985 iniziò l’eruzione e le acque di fusione dei nevai, mischiandosi alle ceneri che
costituivano i versanti, formarono un immenso lahar, un fiume di fango che percorse decine di chilometri
incanalato nel canyon Lagunillas e raggiunse e seppellì la cittadina di Armero, uccidendo 22.000 persone.
Cosa non aveva funzionato nel piano di emergenza? Il pericolo che si formasse un lahar in seguito a
un'eruzione era stato previsto, ma fu fatto un grosso errore nella valutazione della velocità con la quale si
sarebbe mossa la colata di fango. Si ipotizza che sarebbe stata più lenta e per questa ragione non si realizzò
in maniera tempestiva l'evacuazione dei centri abitati a rischio, provocando in maniera indiretta la morte di
decine di migliaia di persone.
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Non sempre una grande frana coincide con una calamità naturale per l’uomo. Questa enorme frana di rocce
e di detriti vulcanici staccatasi delle pareti del Monte Rainier nel 1963, nello stato di Washington, non ha
avuto praticamente testimoni.
Un'altra grande frana causata da fenomeni naturali fu quella che si verificò in Perù nel 1970, in seguito al
violento terremoto che si scatenò domenica 31 maggio. Erano da poco passate le 15.00, quando al largo delle
coste peruviane si verificò uno dei sismi più forti mai registrati in Sudamerica. Le vittime del terremoto
furono 66.000 e gran parte di loro perse la vita a causa dei crolli degli edifici. Ma per gli abitanti di Yungay e
Ranrahirca, due piccoli centri situati ai piedi della Cordillera Blanca, nel nord del paese, il destino aveva
riservato un destino più terribile. In seguito alle scosse sismiche, dal fianco occidentale del Monte
Huarascan, una cima innevata alta 6768 metri, si staccò un'enorme frana di neve e roccia.Una parte di essa
investì un lago montano mischiandosi alle sue acque. Il fenomeno ebbe conseguenze disastrose: l’acqua del
lago rese fluida la massa franante, trasformandola in un gigantesco e inarrestabile fiume di fango e roccia che
raggiunse velocemente la valle e investì in pieno due centri abitati, Yungay e Ranrahirca, cancellandoli dalle
carte geografiche. La vallata fu sommersa dal fango fin quasi al suo sbocco nel Pacifico e ciò rese
estremamente difficile le operazioni di soccorso, perché gran parte dei villaggi rimasero completamente
isolati. Come conseguenza, molte delle vittime, inizialmente sopravvissute al terremoto e alla furiadel fiume
di fango, morirono per la mancanza di cibo e acqua.
Il lahar del vulcano Pinatubo si formò invece in seguito alle intense piogge che seguirono l'eruzione del 1991
e che saturarono la notevole quantità di ceneri depositatasi durante l'attività eruttiva (in alcune zone lo
spessore dell'accumulo raggiunse in poco tempo 200 m). Le vittime stavolta furono 400, ma i senza tetto
superarono il numero di 40.000.
L’enorme massa di ceneri emessa e accumulata sui fianchi dei vulcani durante la loro attività forma depositi
fortemente instabili, che alle prime piogge franano in pericolosissime colate di fango che vengono chiamate
"lahar" o radicali. In questo modo il deflusso delle acque ai torrenti e ai fiumi viene rallentato e diminuito,
con il risultato di attenuare gli effetti delle piene.
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In seguito alle fortissime scosse di un terremoto, il 31 maggio del
1970 dalle pareti del Monte Huarascan si staccò un’enorme frana
di neve e roccia, che raggiunse e investì alla velocità di 160 km/h i
villaggi di Yungay e Ranrahirca, sommergendoli completamente.
Nella foto gli scienziati osservano un Lahar nella zona del vulcano Pinatubo.
Altre grandi catastrofi sono state provocate con l’intervento diretto dell’uomo. Una delle più impressionanti
fu quella della diga sul Vaiont, avvenuta in Italia nel 1963. La diga, una delle più alte del mondo, fu
realizzata nel 1960 nelle Alpi venete, sul corso del torrente Vaiont, un affluente del fiume Piave. Si trattava
di un muro di calcestruzzo alto 261,60 metri che tratteneva un lago artificiale di 150 milioni di m3 d’acqua.
L’opera rientrava in un piano che prevedeva la realizzazione di un sistema di dighe di sbarramento, che
avrebbe dovuto rifornire il paese di energia idroelettrica. La notte tra il 9 e il 10 ottobre del 1963, dal
versante nord del monte Toc, franarono 270 milioni di m3 di roccia nel lago artificiale. Un’enorme ondata
d’acqua risalì per centinaia di metri il versante opposto, scavalcò la diga, si scaraventò nella stretta gola del
Vaiont e dilagò nella valle del Piave. Longarone, un paese che si trovava allo sbocco della gola, fu
letteralmente cancellato, mentre numerosi altri centri della valle furono devastati dall’onda di fango.
Si stima che le vittime siano state più di 2 mila, ma non è stato mai possibile stabilire il numero esatto. In un
primo momento si pensò che, sotto la spinta dell’acqua, la diga avesse ceduto. La diga resistette al violento
impatto della frana e ancora oggi rimane a testimonianza del disastro. L’errore dei progettisti non fu infatti
nella capacità di resistenza della diga, ma nel non aver valutato correttamente quale effetto avrebbe avuto la
creazione di un lago artificiale sulla stabilità dei versanti dell’invaso.
L’intera parete nord del monte Toc era, infatti, costituita da falde rocciose di strati di calcarei e argille poste a
franapoggio, appoggiate a loro volta su una superficie di rottura, anch’essa inclinata come il pendio. Già in
fase di progetto i rilievi geologici avevano messo in evidenza questa situazione di instabilità, che venne poi
verificata dall’osservazione e misurazione di movimenti delle masse rocciose. Ma nonostante le serie riserve
espresse da ingegneri e geologi, l’opera fu realizzata, concentrando gli studi e le verifiche di stabilità e
resistenza solo sull’impianto della diga.
Così si giunse, dopo tre anni dalla realizzazione dello sbarramento, all’autunno del 1963. I giorni che
precedettero la tragedia furono caratterizzati da un’intensa pioggia, che oltre a saturare le rocce dei versanti,
innalzò il livello del lago. Ciò determinò il forte indebolimento delle resistenze interne proprio ai piedi del
versante, causando il cedimento di tutta la parete. Oggi la valle del Vaiont non sarebbe più destinata alla
costruzione di un invaso. Al contrario, sarebbe con tutta probabilità messa sotto il controllo continuo degli
strumenti di monitoraggio, allo scopo di rilevare l’entità dei movimenti di versante in tempo per predisporre i
necessari interventi di evacuazione.
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Un altro esempio di catastrofe conseguente all’incuria del territorio od al suo sfruttamento da parte
dell’uomo è rappresentata dall’evento sviluppatosi il 5 maggio 1998 nei territori di Sarno, Siano, Bracigliano
e Quindici. I comuni interessati da questo evento sono posti tutti alle pendici di uno stesso rilievo, il Pizzo
d’Alvano, che presenta un perimetro di circa 47 km, lungo il quale in un intervallo di tempo di 12 ore si sono
verificati 143 distacchi di materiale; è questo il fenomeno di maggiore intensità (sia per il numero di frane
che per i volumi di materiale interessato) che la memoria storica abbia registrato.
I movimenti franosi si verificano in una determinata area per effetto della concomitanza di diversi fattori
sfavorevoli alla stabilità di un versante; appare quindi evidente che la determinazione ed il controllo di tali
fattori aiuta ad evitare il ripetersi degli eventi negativi che generano danno all’uomo.
I fattori da tenere sotto controllo sul territorio sono numerosissimi e riguardano diversi aspetti (naturali,
antropici, geologici, ecc.); alcuni di essi risultano caratteristici di un versante e rimangono invariati nel corso
del tempo, altri invece devono essere soggetti a controlli periodici o ancor meglio in continuo per la loro
rapida variabilità.
Alla prima categoria appartengono:
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fattori geologici ovvero riguardanti il tipo di roccia che costituisce l’area di interesse, sia in
affioramento che in profondità
fattori idrogeologici quali la permeabilità delle formazioni rocciose che condiziona il tipo di
circolazione idrica superficiale e sotterranea; quest’ultimo fattore risulta essere in assoluto uno dei
più importanti in quanto la circolazione delle acque sotterranee è collegata all’entità ed alla
distribuzione delle pressioni neutre che sono spesso causa dei fenomeni franosi
fattori morfologici ovvero le pendenze dei versanti dell’area di interesse che rivestono particolare
importanza, poiché la forza che permette il movimento della frana è quella di gravità, per cui tanto
più è inclinata la superficie topografica, tanto maggiore è l’instabilità (in quanto determina
l’aumento della sollecitazione al taglio applicata al versante) e la velocità con la quale il movimento
franoso si esplicherà
fattori strutturali quali la presenza o meno di fratture o faglie, superfici di stratificazione, scistosità
(orientazione degli strati di roccia dovuta all’effetto della pressione esercitata) e quant’altro possa
costituire una superficie di debolezza del deposito
fattori geotecnici ovvero quelli, misurabili in laboratorio mediante indagini accurate e specifiche per
ogni litologia, che ci danno indicazione delle resistenze alle sollecitazioni di taglio offerte dalle rocce
agli sforzi direzionali
Alla seconda categoria di fattori (che quelli cioè cambiano velocemente nel tempo) appartengono invece:
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fattori climatici e vegetazionali che svolgono un ruolo determinante nell’innesco dei fenomeni
franosi, soprattutto nei climi dove si alternano lunghe stagioni secche a periodi di intensa e/o
prolungata piovosità. Ciò può comportare sia variazioni di portata della rete drenante superficiale
con incrementi delle azioni erosive, sia innalzamenti delle superfici libere delle falde acquifere
sotterranee, con effetti particolarmente negativi, soprattutto quando le falde sono prossime alla
superficie topografica. Per quanto concerne poi la vegetazione, una estesa copertura boschiva
costituisce un naturale ostacolo all’azione degli agenti atmosferici.
fattori antropici ovvero legati all’azione dell’uomo che per le loro esigenze, impongono interventi in
tempi estremamente brevi, provocando alterazioni improvvise delle situazioni naturali raggiunte in
tempi molto lunghi. Le azioni antropiche, siano esse attive quali gli scavi, gli appesantimenti dei
versanti o i disboscamenti, siano esse passive, quali l’abbandono delle terre, svolgono un ruolo di
accelerazione dei processi morfogenetici, provocando reazioni fino alla rapida alterazione degli
equilibri naturali.
Tutte le azioni che turbano gli equilibri naturali di un versante, provocando lo spostamento di ammassi
rocciosi e/o di terreni sciolti sotto l’azione della gravità, costituiscono le cause dei fenomeni franosi. Secondo
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i diversi studiosi che si occupano del problema frane esse possono essere distinte in: cause strutturali o
predisponenti e cause occasionali o determinanti.
Le cause strutturali sono quelle connesse ai fattori geologici, morfologici, idrogeologici, quali la forma e le
dimensioni dei corpi geologici, i tipi litologici, la giacitura degli strati, lo strato di fratturazione, l’alterazione
delle rocce, la permeabilità, la pendenza dei versanti, ecc..
Le cause occasionali sono quelle che determinano in quel particolare momento l’alterazione degli equilibri
naturali, in conseguenza della sfavorevole combinazione di più fattori: le più frequenti sono legate all’azione
delle acque sia superficiali che profonde, nonché all’attività antropica.
Le alterazioni dell’equilibrio possono essere ricollegate essenzialmente a due categorie:
•
incremento degli sforzi tangenziali (di taglio) che possono essere causati da diversi fattori quali
sollecitazioni sismiche, aumenti di carico sul versante (dovuti a costruzione di rilevati stradali,
grandi opere in genere), aumento del peso specifico apparente del terreno (a seguito dell’aumento del
contenuto d’acqua), aumento dell’acclività del versante (dovuta o a fenomeni di scalzamento al
piede in occasione di eventi pluviometrici importanti che producono un aumento dell’azione erosiva
o ad interventi antropici come sbancamenti alla base del versante)
I casi di incremento degli sforzi di taglio si verificano principalmente durante lavori di scavo,
sbancamento o costruzione di edifici e rappresentano versioni diverse di uno stesso fenomeno, ossia il
cambiamento nella distribuzione dei pesi all’interno del pendio. Il peso delle masse situate nella
porzione alta del pendio, gioca a favore della rottura e del franamento, perché si traduce in gran parte
appunto in forze di taglio.
Quello invece delle masse poste alla base esercita un ruolo di contrasto e di stabilizzazione, del tutto
simile a quello svolto da un reggilibro da una fila di volumi.
Aumentare la acclività di un pendio, caricarne la sommità o asportarne del materiale alla base,
equivale a incrementare i pesi situati nella parte alta a discapito di quelli distribuiti in basso. Si
produce così quell’aumento delle forze di taglio che può portare al franamento.
•
decremento della resistenza al taglio che può invece dipendere da una diminuzione della coesione tra
le particelle (in seguito a fenomeni alterativi di tipo fisico, chimico o biologico), rammollimento del
materiale (per presenza d’acqua), aumento delle pressioni neutre (per eventi meteorici o per
particolari condizioni idrauliche al contorno che determinano una diminuzione delle pressioni
effettive e, quindi, della resistenza al taglio) o con l’insorgere di sollecitazioni di natura sismica.
Nei materiali coesivi la rottura avviene lungo superfici concave più o meno regolari (come quelle
lasciate da un cucchiaio). Nei materiali sciolti non si ha invece una vera e propria rottura, ma un
assestamento delle particelle, che tendono a ricostruire una superficie la cui inclinazione coincida con
l’angolo di riposo. Nel caso della saturazione in acqua, il meccanismo di rottura è più complesso, e
riguarda soprattutto la resistenza per attrito. Dato però che la saturazione è il motivo principale o la
concausa della maggior parte delle frane, è necessario un breve approfondimento.
Nelle rocce l’acqua ha un effetto destabilizzante minimo, limitato alla dissoluzione del cemento che
lega le particelle quando questo è di natura solubile. Nei terreni sciolti, invece, ha diversi effetti
secondo le condizioni di partenza. Quando è in piccole quantità, ossia quando non riempie
completamente gli spazi vuoti tra una particela e l’altra, crea un sottilissimo, ma tenace velo che
avviluppa le particelle.
Se queste ultime sono abbastanza piccole, come granelli di sabbia, limo o argilla, il velo le trattiene
insieme con una forza di natura elettrostatica notevole (dell’ordine di 25 t per ogni cm2 di superficie
di contatto).
Questo tipo di coesione è presente nei terreni umidi, ed è quella che permette per esempio di
costruire i castelli di sabbia. Nel caso invece in cui della semplice umidità si passi alla completa
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saturazione del terreno (in altre parole al completo riempimento degli spazi vuoti tra le particelle),
l’acqua elimina totalmente la coesione apparente e riduce in maniera sensibile la resistenza per
attrito.
La resistenza a taglio delle rocce e dei terreni è di solito la somma di coesione ed attrito, in forme e
in modi differenti secondo le condizioni in cui si trovano. Inoltre, uno stesso versante raramente si
presenta come un corpo omogeneo e compatto; infatti esso è attraversato da fratture, stratificazioni o
altre superfici di debolezza, lungo le quali agisce in pratica la sola forza d’attrito. Per questa ragione
l’acqua è il più importante agente destabilizzante per i versanti.
Con il termine frana si indicano tutti i fenomeni di caduta ed i movimenti di masse rocciose o di terreni
causati prevalentemente dalle forze di gravità. Classificare una frana non è un’impresa facile: infatti i
movimenti di versante possono essere classificati in molti modi ed ogni metodologia classificativa proposta
nel corso dei tempi ha una sua validità in relazione al riconoscimento, controllo, sistemazione del tipo di
versante.
Tra i fattori che sono stati utilizzati come criteri per l’identificazione e classificazione vi sono:
•
•
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•
il tipo di materiale interessato e proprietà meccaniche
il tipo di movimento
le cause del movimento
la durata e la ripetitività dei fenomeni.
Un carattere sicuramente distintivo e tenuto in grande
considerazione da molti studiosi, in quanto rilevabile con
buona approssimazione e con scarsi margini di incertezza
mediante osservazioni di superficie e l’analisi di foto aeree, è
rappresentato dal tipo di movimento.
Esso si riferisce al "movimento relativo tra corpo di frana e
terreno in posto", con possibilità di valutazioni della
distribuzione degli spostamenti nello spazio e della velocità del
movimento; inoltre è da tenere presente che al tipo di
movimento sono connesse anche le forme della superficie di
scorrimento e del cumulo di frana.
Al fine di potere meglio comprendere nel seguito la terminologia usata, si propone uno schema semplificato
con relativa nomenclatura della parti fondamentali di un movimento franoso. In generale si definisce nicchia
di distacco di una frana la zona del versante dalla quale si è verificato il distacco del materiale; essa si
presenta con caratteristica forma "a cucchiaio" ed ha una larghezza maggiore nella porzione a quota più alta.
Definiamo poi alveo o pendio di frana la porzione intermedia della frana in cui è avvenuto lo movimento del
materiale che ha permesso l'affioramento di
superfici pulite dovute al trascinamento del
materiale
per
effetto
della
gravità.
Si definisce infine cumulo l'insieme dei
materiali accumulatisi nella parte bassa del
versante che si presenta con forma convessa,
rilevata rispetto alla superficie topografica
preesistente.
Più in particolare poi, per meglio specificare le
diverse parti di frane complesse viene di
seguito proposto il grafico in cui sono
facilmente individuabili:
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1. coronamento: esso rappresenta la zona sommitale da cui ha inizio il movimento franoso; questa
zona, riscontrabile pressoché in tutti i tipi di frana, presenta una forma arcuata e rappresenta parte del
versante in posto prima della frana
2. scarpata principale: essa è rappresentata dalla prima parete verticale, procedendo verso il basso,
che identifica l’area quasi indisturbata circostante la parte sommitale della frana, provocata
dall’allontanamento del materiale di frana da quello non spostato; questa e il suo prolungamento al di
sotto al di sotto del materiale spostato costituiscono la superficie di rottura
3. testata o terrazzo di frana: essa rappresenta la prima zona di accumulo del materiale lungo il limite
tra il materiale spostato e la scarpata principale, presenta una morfologia relativamente pianeggiante
(terrazzo)
4. fessure trasversali: dovute alla movimentazione longitudinale del materiale ed alla progressiva
perdita di acqua dal terreno mobilitato, possono rappresentare un valido indizio per la valutazione
della quiescenza o della ripresa del fenomeno franoso
5. scarpata secondaria: essa è rappresentata da una ripida superficie che fraziona il materiale spostato
prodotta da movimenti differenziali all’interno dalla massa in frana
6. terrazzo di frana secondario: seconda zona di accumulo temporaneo del materiale nella zona di
trasporto del corpo di frana, presenta pendenze bassissime ed è a monte della zona di raccordo tra la
zona di distacco e quella di accumulo definitivo del materiale
7. zona delle fessure longitudinali: in questa zona, per effetto dell’inversione delle pendenze, si viene
a creare una zona depressa morfologicamente all’interno della quale ristagnano le acque di deflusso
superficiale e sotterraneo conseguenti l’evento con formazione di un laghetti effimeri; il materiale in
frana, per effetto della diversa velocità di mobilitazione, procede verso il basso determinando fratture
longitudinali tra i diversi lembi
8. zona delle fessure trasversali: situata al limite tra la zona di distacco e quella di accumulo, presenta
fessure da trazione dovute alla espansione del materiale e conseguente essiccamento che tende a
superare la zona di intersezione della superficie di rottura con la superficie topografica
9. zona dei rigonfiamenti trasversali e, a valle, delle fessure radiali: in questa zona, presente nella
porzione del cumulo di frana in movimento sulla sottostante superficie di rottura, si vengono a
generare delle fessure dovute al diverso comportamento dei materiali ad elasticità differente
interessati dal movimento. La zona dei rigonfiamenti è caratterizzata anche dalla evidente espulsione
delle acque di saturazione dalla massa in movimento per compressione e consolidazione del
materiale.
10. unghia del cumulo di frana: essa rappresenta la parte di materiale spostato che si trova a valle del
margine inferiore della superficie di rottura. Questo materiale in movimento tende ad ampliare la
propria larghezza sulla precedente superficie topografica via via che si sposta verso valle;
contemporaneamente tende a ridurre sia lo spessore che la velocità del materiale in movimento
11. fianco destro: in questo schema semplificato il movimento franoso è rappresentato come uno
spaccato di un versante in frana con facile individuazione del fianco destro della frana stessa che
viene sempre riferito a chi guarda la frana dal coronamento
La classificazione dei fenomeni franosi
La classificazione utilizzata dalla maggior parte degli studiosi
e dei geologi italiani è quella introdotta da Varnes la cui
definizione di movimento franoso è : movimento controllato
dalla gravità, superficiale o profondo, rapido o lento, in
roccia (bedrock) o in terra (engineering soils). Varnes ne
distingue cinque classi fondamentali di fenomeni, i cui
caratteri sono riportati di seguito:
crolli (falls) : caratterizzati dallo spostamento dei materiali in
caduta libera e dal successivo movimento, per salti e/o rimbalzi, dei frammenti di roccia. Generalmente si
verificano in versanti interessati da preesistenti discontinuità strutturali (faglie e piani di stratificazione) e
sono, di norma, improvvisi con velocità di caduta dei materiali elevata. La frana di crollo avviene in pareti di
roccia rapida, dalle quali si staccano blocchi di materiale che precipitano al piede della scarpata.
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Blocchi franati da una parete rocciosa durante il violento
terremoto che ha investito i Carpazi Orientali nel 1977.
ribaltamenti (topples): movimenti simili ai crolli e caratterizzati dal ribaltamento frontale del materiale che
ruota intorno ad un punto al di sotto del baricentro della massa. I materiali interessati sono delle rocce
lapidee che hanno subito un intenso processo di alterazione e/o che presentano delle superfici di discontinuità
(faglie o superfici di strato).
Le frane per ribaltamento si verificano generalmente nelle
zone dove le superfici di strato risultano essere sub-verticali
(a) o lungo le sponde dei corsi d’acqua per scalzamento al
piede (b)
scorrimenti (slides) : questi si verificano per superamento della resistenza di taglio dei materiali rocciosi
lungo una o più superfici di neoformazione, o preesistenti, oppure in corrispondenza di un livello meno
omogeneo e resistente. Tra gli scorrimenti si possono distinguere, in base alla forma della superficie di
scorrimento, due tipologie: scorrimenti di tipo rotazionale e scorrimenti di tipo traslativo. Lo scorrimento di
tipo rotazionale avviene in terreni o rocce dotati di coerenza e si sviluppa lungo una superficie generalmente
concava, che si produce al momento della rottura del materiale. Lo scorrimento traslazionale invece consiste
nel movimento di masse rocciose o di terreni, lungo una superficie preesistente inclinata nella stessa
direzione del pendio. Questa superficie è una zona di
discontinuità o comunque di debolezza meccanica e, in genere, è
rappresentata da una frattura, un piano di contatto tra strati di
rocce sedimentarie, di solito uno strato di roccia debole
compreso tra altri di rocce più resistenti o altro. L'assetto
inclinato nella direzione del pendio di questa superficie è
definito dai geologi a franapoggio, per distinguerlo da quello a
reggipoggio, nella quale la superficie ha un'inclinazione opposta
al declivio.
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Il fatto che un versante sia caratterizzato da una discontinuità a franapoggio piuttosto che a reggipoggio, è
decisivo per la sua stabilità, soprattutto se questo è costituito da rocce disposte a strati come lo sono gran
parte di quelle di natura sedimentaria.
Le superfici di rottura in un movimento del tipo scorrimento rotazionale risultano essere arcuate e possono
essere interessate da movimenti di rimobilitazione che determinano la formazione di scarpate e terrazzi di
frana secondari
Nella frana di slittamento o scivolamento il movimento delle
masse di roccia avviene lungo superfici di debolezza inclinate
come il pendio. Questa disposizione viene detta a franapoggio,
se invece le superfici sono inclinate nel senso opposto la loro
disposizione viene detta a reggipoggio.
espansioni laterali (lateral spreads): esse si innescano
prevalentemente quando una massa rocciosa lapidea e
fratturata è sovrapposta ad una roccia dal comportamento
molto plastico che, con il susseguirsi delle piogge, ne
provoca ed influenza il movimento.
Vista in sezione delle espansioni laterali; risulta essere
fattore predisponente di tipo geologico l’alternanza di uno
strato lapideo a comportamento rigido su uno strato di
materiale sciolto a comportamento plastico.
colamenti (flows): questi movimenti franosi si verificano nei
terreni sciolti e sono evidenziati da deformazioni di tipo plastico
del materiale presentando una velocità variabile da punto a punto
nell’area di frana. I terreni interessati da questo tipo di frana
sono: le zone alterate degli ammassi rocciosi, le coperture
eluviali, i sedimenti a prevalente componente arenacea, sabbiosa
(tipo piroclastiti), argillosa e/o limosa, i cumuli di precedenti
frane. Nelle rocce sciolte prevalentemente fini e sature i
colamenti assumono caratteri di colate, estremamente veloce, in
molti casi distruttive e catastrofiche. La loro principale
caratteristica è quella di costituire un insieme ad elevata viscosità,
la cui velocità è dipendente dalla pendenza del versante e dal
contenuto d’acqua della massa in movimento. In questi casi
spesso il materiale in frana segue l’andamento di preesistenti
solchi di erosione che ne costituiscono l’alveo; a valle, terminato
il preesistente impluvio (zona di raccolta naturale delle acque superficiali), il cumulo di frana si distribuisce a
ventaglio sulla porzione di raccordo tra il piede del versante e la successiva zona pianeggiante; Nella colata il
terreno viene fluidificato dall’acqua e si comporta come un liquido viscoso.
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frane complesse (complex) : fenomeni complessi il cui movimento risulta dalla combinazione di due o più
tipi di frane precedentemente descritte. Oltre a queste, che possiamo definire frane in senso stretto, esistono
altri movimenti di versante che hanno come agente di trasporto principale la gravità, ma che si manifestano
con modalità diverse da quelle di una frana come viene comunemente intesa. La loro caratteristica principale
consiste nel fatto che riguardano la sola coltre detritica di un versante, ossia il mantello di copertura
costituito da terreni sciolti o semisciolti prodotti dall’alterazione degli
ammassi rocciosi. Si distinguono in:
- colate di detrito ovvero flussi di terra, detriti rocciosi o fango misti
ad acqua, che si comportano nel loro movimento come liquidi viscosi.
Spesso si sviluppano lungo gli alvei dei torrenti di montagna, durante
piene che rendono mobili i sedimenti deposti lungo il corso d’acqua.
Un tipico particolare di colata è il lahar, un flusso di fango generato
dalla saturazione in acqua delle ceneri e dei lapilli che si depositano
sul fianco di un vulcano.
Vari tipi di frane complesse
movimenti lenti superficiali della coltre detritica. Tra essi riconosciamo il soliflusso ovvero lo scorrimento
verso valle della coltre detritica di un pendio, per effetto della saturazione in acqua, con velocità che vanno
da qualche millimetro a qualche metro ogni anno. Questo movimento si distingue dalle colate per la sua
lentezza e perché il terreno in movimento mantiene la sua consistenza, pur manifestando la presenza di
piccole colate, lobi e increspature del terreno; il soil creep che consiste nel lento "strisciare" della coltre
detritica per effetto di tutti quei fattori che producono piccoli spostamenti nelle sue particelle, come
contrazioni e dilatazioni termiche, formazione e scioglimento di ghiaccio o passaggio di animali. La maggior
parte di questi spostamenti, per effetto della forza di gravità, si traduce in una discesa lungo il pendio anche
minima; la somma di queste discese produce uno scorrimento complessivo della coltre detritica che può
raggiungere una velocità di qualche millimetro all’anno.
Circa il materiale interessato in ognuno dei movimenti precedentemente illustrati, è opportuno tener conto
delle condizioni geologiche e geotecniche del versante precedenti al movimento franoso, distinguendo tra:
•
•
•
ammasso roccioso (bedrock) ovvero una roccia compatta in posto con le proprie discontinuità
strutturali (faglie e piani di stratificazione); ovvero una roccia compatta in posto con le proprie
discontinuità strutturali (faglie e piani di stratificazione);
roccia (rock) cioè materiale naturale lapideo dotato di elevato grado di coesione anche dopo
prolungata immersione in acqua; cioè materiale naturale lapideo dotato di elevato grado di coesione
anche dopo prolungata immersione in acqua;
terra (engineering soil) comprendente qualsiasi aggregato di particelle solide, sciolte o poco
cementate, che possono essere separate con modeste sollecitazioni o mediante contatto con l’acqua;
le terre sono generalmente composte da varie specie minerali, rocce o composti inorganici
risedimentati o residuali. Queste in base alle loro dimensioni, vengono suddivise in detrito (depositi
incoerenti che contengono una proporzione significativa di materiale grossolano, debris) e terre s.s.
(materiale prevalentemente fine, earth).
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Soliflusso
Soil creep
Come difendersi dalle frane
Per affrontare correttamente il problema di prevenzione e difesa dalle frane, bisogna inquadrare questi
dissesti nel processo di modellamento generale della superficie terrestre.
Le forme del paesaggio sono il risultato dell’azione combinata di due tipi di forze: le forze endogene e quelle
esogene. Entrambe agiscono compensando reciprocamente i loro effetti o prevalendo localmente le une sulle
altre. Le forze endogene sono generate dall’interno del pianeta e provocano una lenta, ma continua
deformazione della crosta terrestre. Le forze esogene sono costituite dall’attività di demolizione esercitata
dagli agenti atmosferici come il vento, la pioggia e la neve, che con il contributo della forza di gravità,
producono un incessante lavorio di livellamento dei rilievi prodotti dalle forze endogene.
Vi sono zone nelle quali la superficie terrestre ha smesso di subire grosse deformazioni e che sono perciò
caratterizzate da paesaggi spinati dagli agenti atmosferici e quindi con pochi e blandi rilievi.
In altre parti del pianeta, invece, la crosta e in piena deformazione e il sollevamento dei rilievi avviene con
una velocità maggiore di quanto gli agenti esogeni possano eroderli. In zone la morfologia, cioè la forma
della superficie terrestre, è tormentata e irregolare ed è caratterizzata da una generale situazione di instabilità,
con ripidi pendi i e forti dislivelli. Se a questa naturale predisposizione al dissesto, si aggiungono condizioni
sfavorevoli, come la scadente qualità meccanica degli ammassi rocciosi o un clima che ne facilita il
disfacimento, si realizza una situazione nella quale i fenomeni di dissesto diventano, normali processi di
evoluzione della forma dei versanti.
Questa è solitamente la situazione delle regioni nelle quali il problema delle frane è più presente e che
pertanto necessitano di un adeguato sistema di protezione e prevenzione.
In queste zone non è realistico pensare di poter eliminare del tutto i fenomeni di dissesto, perché significa
cercare di impedire un normale processo evolutivo, che al massimo può essere rallentato o attenuato negli
effetti. Il provvedimento migliore da realizzare rimane dunque la prevenzione, che consiste nel pianificare un
utilizzo del territorio che tenga conto della sua natura evitando per esempio di insediare centri abitati o
strutture di valore in zone così a rischio.
Il primo passo dell’attività di prevenzione è lo studio del territorio. Questo studio viene effettuato dai geologi
che raccolgono, analizzano e confrontano dati che derivano dall’osservazione di immagini da satellite,
fotografie aeree, rilievi effettuati sul posto, misurazioni strumentali e documentazioni storiche. Quindi,
mediante l’incrocio dei dati, individuano le zone a rischio, per ognuna delle quali vengono infine decise le
modalità di intervento.
Una zona a rischio può essere costituita da un versante non ancora franato, ma che per qualche ragione è
probabile che possa cedere; da una frana incipiente, ossia che si è già manifestata con dei segni premonitori,
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ma non si è ancora sviluppata, o infine da una frana già avvenuta che bisogna stabilizzare. In ogni caso le
operazioni che si attuano devono raggiungere i seguenti obbiettivi:
•
definire le dimensioni del dissesto, potenziale o in atto;
•
predisporre dei sistemi di controllo che permettono di segnalare per tempo e seguire eventuali
movimenti del versante;
•
impedire che il dissesto si verifichi oppure attenuarne le conseguenze.
Capire la forma precisa di un corpo di frana è necessario per progettare gli interventi per la sua
stabilizzazione.
Le dimensioni possono essere ricostruite rilevando segni caratteristici, come crepe e rigonfiamenti del
terreno, ma morfologia precisa si ottiene soltanto effettuando sondaggi di tipo meccanico o geofisico con
particolari strumenti rilevatori. Questi ultimi vengono utilizzati anche nell’attività di controllo del
movimento, assieme a reti di rilevamento microsismiche e topografiche di precisione.
Controllare se un versante si muove serve sia per poter dare l’allarme per tempo, sia per verificare l’efficacia
degli interventi di stabilizzazione che sono stati effettuati. Gli strumenti rilevatori più comuni sono:
•
gli inclinometri, che misurano l’entità degli spostamenti orizzontali del terreno a diverse profondità;
•
gli estensimetri, che rilevano variazione nella distanza relativa tra parti di un corpo roccioso;
•
gli assestimetri, che misurano i cedimenti;
•
i piezometri, che forniscono il livello dell’acqua nel terreno e la sua pressione.
Le reti microsismiche sono costituite da sensori, detti geofoni, che avvertono le vibrazioni emesse dai corpi
rocciosi che si stanno fratturando.
Le reti di rilevamento topografico di precisione sono invece realizzate ponendo, in zone ritenute stabili, degli
strumenti che misurano la distanza di capisaldi posti sul versante che vuole controllare.
Per impedire invece che la frana si verifichi, si adottano interventi finalizzati alla stabilizzazione del
versante. Si distinguono in:
- opere per l’aumento delle forze resistenti;
- opere per la riduzione delle forze agenti;
Le opere per l’aumento delle forze resistenti migliorano la capacità della roccia o del terreno di reggere sotto
sforzo. Uno degli interventi principali è il drenaggio, cioè l’allontanamento dell’area di frana delle acque che
scorrono in superficie e di quelle che impregnano il versante. L’acqua, per la sua capacità di indebolire
sensibilmente la resistenza per attrito, è la causa più frequente delle frane.
Per questa ragione, il primo accorgimento che si adotta per evitare il cedimento di un versante o per
stabilizzare il corpo di una frana già avvenuta, consiste nell’evitare che si impregni di acqua. L’acqua
superficiale è raccolta è allontanata mediante canalette, cunette e fossi, mentre quella profonda è intercettata
con pozzi, gallerie, trincee e tubi drenanti scavati o inserite nel corpo della frana. L’aumento della resistenza
può essere ottenuto anche applicando alla base del pendio strutture di sostegno, come muri di calcestruzzo o
gabbioni. Oppure, se il versante è costituito da un ammasso roccioso suddiviso da stratificazioni o fratture, si
fissano i singoli blocchi o strati con chiodature, tirantature o imbullonature, ossia attraversandoli con aste, in
genere metalliche, che si ancora in profondità e trattengono il blocco o lo strato roccioso mediante una
piastra fissata alla loro sommità.
Un altro tipo di intervento consiste nell’iniettare all’interno di una roccia sconnessa o di un terreno delle
miscele consolidanti, costituite in genere da cementi o resine che riempiono gli spazi tra le fratture o i granuli
rinsaldando il materiale. Le opere per la riduzione delle forze agenti, ossia delle forze la cui azione tende a
rompere la roccia o il terreno, sono quelle che intervengono sulla forma del pendio per dargli un assetto più
stabile. In sostanza si tratta di ridurre la sua acclività e di alleggerirne la parte sommitale, effettuando degli
sbancamenti, degli stretti e suddividendo il versante in gradoni.
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Un tipo particolare di modifica del versante è il disgaggio, che consiste nel rimuovere da una scarpata i massi
di roccia più instabili. Altri tipi di intervento sono quelli per la stabilizzazione delle coltri detritiche soggette
a smottamenti, soliflusso e soil creep. Tra le opere più diffuse ci sono i rimboschimenti, per sfruttare l’effetto
consolidante degli apparati radicali degli alberi e la realizzazione di viminate, che oltre ad ancorare le coltre
di terreno al substrato, favoriscono la formazione di piccoli terrazzamenti che rallentano i fenomeno d
erosione.
Tra gli interventi di attenuazione e difesa degli effetti di un dissesto, vi sono la realizzazione di muri e reti
paramassi, barriere spesso dotate di sistemi elastici che assorbono l’urto dei blocchi di roccia crollati e la
realizzazione di argini per la deviazione e il contenimento di colate detritiche sul cui percorso si trovino
strutture o centri abitati. Esistono in fine altri tipi di opere che riguardano meno direttamente i fenomeni di
frana e che rientrano nelle attività di sistemazione dei bacini montani. Si tratta di interventi sulle sponde e
sugli alvei dei corsi d’acqua.
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