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ANNO LITURGICO
La Voce dei Berici
Domenica 19 giugno 2011
Parola di Dio Santissima Trinità
Dio ha mandato
il Figlio suo
Letture: Esodo 34,4-6.8-9; Salmo Dn 3,52-56; II Lettera di S. Paolo Ap. ai Corinzi 13,11-13; Giov. 3,16-18
io infatti ha tanto amato il
mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in
lui non vada perduto, ma abbia la
vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo
sia salvato per mezzo di lui. Chi crede
in lui non è condannato; ma chi non
crede è già stato condannato, perché
non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio.
D
l brano evangelico di Giovanni riporta
una piccola parte dell’ampio colloquio
notturno avvenuto tra Nicodemo e
Gesù. Nicodemo cerca la verità su Dio e
riconosce che Gesù viene da Lui. Le sue
domande al Maestro riguardano la comprensione di Dio e la strada per entrare
nel suo Regno. Gesù gli parla della «rinascita» che lo Spirito opera nell’uomo e
che consente di vedere, di credere e di
accogliere il Figlio che il Padre ha inviato.
Così si entra nel Regno e si vive eternamente con Dio! Il tono trinitario è riconoscibile nell’interezza del dialogo tra i
due. Nei pochi versetti della lettura evangelica odierna, Gesù parla a Nicodemo
dell’iniziativa di Dio Padre di «dare» il Figlio suo unigenito agli uomini. Il dono che
il Padre fa di suo Figlio e il dono che il Figlio fa di sé con il “darsi” sulla croce, raccontano l’unico amore, smisurato,
appassionato e fedele per gli uomini. È
volere di Dio salvare l’umanità intera, liberarla dal peso del male, renderle la felicità; per questo il Figlio è mandato.
Nessuna indifferenza è possibile! Tocca
all’uomo scegliere: credere nel Figlio, vivendo alla luce della sua parola e lasciandosi trasformare e plasmare dallo
Spirito; o non credere, condannandosi a
non vedere, non ascoltare, non rispondere al grande amore del Padre.
Nicoletta Fusaro
I
“La Santa Trinità”, Domenico Theotocopulos (El Greco), 1577, Olio su tela, (300 x
179 cm) Museo del Prado, Madrid
Conoscendo il Padre, il Figlio e lo Spirito intravediamo che Dio è un dialogo di amore.
Nella sua natura più nascosta (nessun uomo l'avrebbe scoperta, se Gesù non ce ne
avesse parlato) Dio è una realtà di comunione, quasi una famiglia. È questa l'originalità del crtitianesimo, ed è qui che l'uomo trova la spiegazione più vera di se stesso.
L'uomo sente insopprimibile la nostalgia della comunità, della solidarietà e del dialogo; ne ha bisogno per vivere e per crescere, ne ha bisogno più dell'aria che respira.
Ma è soltanto alla luce della Trinità che questa constatazione acquista un'insospettabile profondità: siamo fatti per incontrarci, per dialogare e amare, perché siamo «immagine di Dio». G.P.
Mons. Giuseppe Ruaro commenta su TvA il Vangelo della Domenica
sabato sera alle ore 20.30 e domenica alle ore 13.
I segni della liturgia
Il commento di don Gianluigi Pigato
Il dono della comunione
Durante le primissime udienze generali
tenute in Vaticano, Papa Benedetto
così si esprimeva: “Attraverso il ministero apostolico la Chiesa, comunità radunata dal Figlio di Dio venuto nella
carne, vivrà nel succedersi dei tempi
edificando e nutrendo la comunione in
Cristo e nello Spirito, alla quale tutti
sono chiamati e nella quale possono
fare esperienza della salvezza donata
dal Padre. (...) E così noi adesso (...) viviamo l’incontro con il Risorto, non solo
come una cosa del passato, ma nella
comunione presente della fede, della liturgia, della vita, della Chiesa. In questa
trasmissione dei beni della salvezza,
che fa della comunità cristiana l’attualizzazione permanente, nella forza dello
Spirito, della comunione originaria,
consiste la Tradizione apostolica della
Chiesa. Essa è detta così perché è nata
dalla testimonianza degli Apostoli e
della comunità dei discepoli al tempo
delle origini, è stata consegnata sotto la
guida dello Spirito Santo negli scritti
del Nuovo Testamento e nella vita sacramentale, nella vita della fede, e ad
essa - a questa Tradizione, che è tutta
la realtà sempre attuale del dono di
Gesù - la Chiesa continuamente si riferisce come al suo fondamento e alla sua
norma attraverso la successione ininterrotta del ministero apostolico.
(...)La Tradizione è il fiume della vita
nuova che viene dalle origini, da Cristo
fino a noi, e ci coinvolge nella storia di
Dio con l’umanità”.
La comunione nella Chiesa e fra le
Chiese. Allo scopo di rendere il discorso più concreto, fissiamo l’attenzione su tre ambiti in cui si visibilizza la
comunione del “Popolo adunato nel
nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”.
Nelle comunità del Nuovo Testamento la coscienza di appartenere all’unico popolo di Dio è sempre stata
vivissima. Sbaglieremmo se immaginassimo che le singole comunità si
siano riunite per motivi organizzativi,
giungendo progressivamente, e come
dall’esterno, alla consapevolezza di essere una sola Chiesa. La coscienza di
appartenere all’unico popolo di Dio non
è qualcosa di secondario, ma di nativo,
e costituiva la consapevolezza che in
ogni singola comunità si manifesta e
prende figura l’unica grande comunità.
Una duplice coscienza, dunque: la coscienza di appartenere all’unico popolo
di Dio, che a sua volta include la coscienza che la Chiesa locale è il farsi
presente, qui e concretamente, dell’unica Chiesa di Dio (cfr, 1 Ts 1,1 e 1
Cor 1,1). La conclusione è che si vive il
mistero della Chiesa di Dio inserendosi
nella Chiesa locale.
Ma l’appartenenza all’unica Chiesa e
la comunione fra le Chiese non è uniformità. Nessuna Chiesa nel Nuovo Testamento, neppure la Chiesa madre,
impone a tutte le Chiese la sua precisa
configurazione storica. La Chiesa di
Antiochia, per fare un esempio notissimo, vuole sì essere in comunione con
la Chiesa madre di Gerusalemme, ma
rifiuta di diventare una semplice copia
della Chiesa di Gerusalemme (At 15).
Le comunità primitive sentono forte
l’esigenza dell’unità, ma resistono alla
tentazione di appiattirsi in una uniformità che non lasci spazio alle originalità locali e culturali.
Si può dire che la comunione sia il
bene più perseguito nelle giovani
Chiese, ma è anche il bene più minacciato. Non solo minacciato nei rapporti
fra le Chiese, ma anche all’interno della
singola comunità. Nessuna comunione
del Nuovo Testamento che conosciamo, è immune da questa minaccia:
la Chiesa di Gerusalemme soffre la tentazione fra giudei ed ellenisti (At 6,16); nella Chiesa di Antiochia si sviluppa
uno scontro sulle condizioni per accettare i pagani nella comunità (At
15,1ss); a Corinto vi sono gruppi diversi
che rivaleggiano fra di loro (1 Cor 1,1112); nella comunità di Giovanni si deve
far fronte a un gruppo di eretici che negavano la reale umanità del Signore (1
Gv 4,1-6). Si comprende immediatamente che la comunione è un perenne
dono dello Spirito. Non si risolve il rischio della divisione ricorrendo semplicemente a nuove strutture e a richiami
dottrinali, ma approfondendo la conversione, la preghiera e l’ascolto della
Parola (cioè la vita del battesimo).
Resta emblematico il comportamento
degli apostoli (At 6,4): essi erano sì una
struttura (i sette diaconi), ma comprendono che la radice sta nella preghiera e nel ministero della Parola.
La presentazione dei doni
Dopo la liturgia alla mensa della
Parola, l’attenzione di tutta l’assemblea, anche visivamente, si rivolge alla seconda mensa
eucaristica: l’altare. Tutto ciò che
si svolge nella messa, da questo
momento fino allo scioglimento
dell’assemblea, ha come riferimento e centro di attenzione l’altare.
Durante l’ultima cena, Gesù ha
detto “fate questo in memoria di
me”. Il “questo” che Gesù ha comandato di fare e che la chiesa ha
capito di dover fare in memoria di
lui, si può ricondurre a quattro
gesti significativi: prese il pane e il
vino; rese grazie a Dio suo Padre;
spezzò il pane; diede ai discepoli il
pane da mangiare e il calice da
bere.
Queste quattro azioni formano
l’ossatura della liturgia eucaristica:
1) la preparazione dei doni simbolici del pane e vino; 2) la Preghiera
eucaristica in cui i simboli vengono
assunti nell’offerta di Gesù al
Padre; 3) la frazione del pane in
cui i doni vengono preparati per
essere offerti all’assemblea; 4) la
Comunione: accoglimento dei doni
da parte dell’assemblea.
Si realizza, in questo modo, un
doppio movimento - di andata e ritorno - che manifesta il “mistero
dello scambio”: dall’assemblea all’altare, per i doni; dall’altare all’as-
semblea, per la condivisione e la
comunione.
“È bene che i fedeli presentino
il pane e il vino; il sacerdote, o il
diacono, li riceve in un luogo opportuno e adatto e li depone sull’altare” (OGMR 73). L’importanza
che pane e vino arrivino dall’assemblea (e non siano già sull’altare), è spiegata dalla preghiera
che colui che presiede pronuncia
subito dopo: pane e vino, oltre che
frutti della terra (e quindi dono di
Dio), sono anche “frutti del lavoro
dell’uomo”. Nel pane e nel vino,
quindi, è la vita della comunità,
fatta di tante storie personali, di famiglie, di gruppi, di una settimana
vissuta, ad essere portata all’altare.
Questo non è l’offertorio, ma
una presentazione a Dio dei doni
per l’Eucaristia. Ce lo spiega ancora la preghiera liturgica: “Noi li
presentiamo a te perché diventino
per noi corpo e sangue di Cristo”.
In altre parole, noi mettiamo davanti a Dio il pane e il vino, ma la
destinazione del pane e del vino
siamo noi, è la Chiesa, non Dio!
L’unica offerta gradita a Dio è la
nostra vita come dice Paolo: “Vi
esorto dunque, fratelli, a offrire i
vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. (Rm
12,1).
don Pierangelo Ruaro
18 giugno:
S. Gregorio G. Barbarigo
21 giugno:
San Luigi Gonzaga
24 giugno:
Natività di S. G. Battista
Nel 1656 viene incaricato di coordinare i soccorsi agli appestati
dell'Urbe. Nel 1667 diventa vescovo di Bergamo, poi cardinale.
Educato alle armi dal padre, rinunciò a titolo ed eredità ed
entrò nel Collegio romano dei gesuiti, dedicandosi agli umili.
È l'unico santo, oltre la Madre del
Signore, del quale si celebra con
la nascita al cielo, anche la nascita
secondo la carne.