Nazzareno Tomassini: LA LOTTA PER ERETZ YISRAEL: STATI UNITI GRAN BRETAGNA EBREI E ARABI DALLA DICHIARAZIONE BALFOUR ALLA GUERRA DEI SEI GIORNI 1917-67 Tesi di Laurea in Scienze Politiche, Università di Urbino, 2002 SOMMARIO Introduzione PARTE PRIMA Dalle rivendicazioni sioniste alla nascita di Israele Capitolo 1 L’incompatibilità fra due diritti: yishuv e «comunità non ebree» in Palestina p. 2 1 Il nazionalismo arabo e la promessa britannica “ 6 1.1 La corrispondenza segreta tra Husayni e McMahon e la lettera del 24 ottobre 1915 “ 10 2 Le origini del sionismo e il riscatto internazionale con la Dichiarazione Balfour “ 17 2.1 La dimensione politico-diplomatica “ 21 2.2 La gestazione della Dichiarazione Balfour e il suo significato “ 27 2.3 La Dichiarazione Balfour e la promessa di McMahon: un parallelo “ 36 3 Il rapporto della Commissione King-Crane “ 39 3.1 La disputa sul sionismo “ 46 Capitolo 2 La Palestina sotto il Mandato britannico “ 50 1 La conferenza di San Remo e le sue conseguenze politiche “ 51 2 Il primo Libro bianco “ 56 3 I termini del Mandato britannico sulla Palestina “ 62 4 La disputa per il Muro del Pianto e i disordini del 1929 “ 64 4.1 La lettera di MacDonald “ 68 5 La ribellione araba “ 70 6 La Commissione Peel “ 73 7 Il Libro bianco del 1939 “ 80 8 Il «Programma Biltmore» “ 85 Capitolo 3 L’aspetto politico e umanitario degli ebrei nel dopoguerra p. 91 1 Il dissidio angloamericano sui 100 000 rifugiati ebrei in Europa “ 91 1.1 Roosevelt e Ibn Saud “ 92 1.2 La dichiarazione dello Yom Kippur “ 110 2 La Palestina nell’agenda delle Nazioni Unite “ 116 Capitolo 4 Gli Stati Uniti e la creazione dello Stato d’Israele “ 129 1 Truman e la Risoluzione 181 di spartizione della Palestina: dall’appoggio passivo all’intervento determinante per l’approvazione “ 129 2 Il ritiro del piano di spartizione e il ripiego del Dipartimento di Stato sull’iniziativa dell’Amministrazione fiduciaria “ 149 3 Il riconoscimento dello Stato d’Israele da parte della Casa Bianca “ 162 PARTE SECONDA La politica mediorientale di Washington da Truman a Johnson Capitolo 5 Diplomazia sterile e forza dei fatti “ 179 1 Il piano Bernadotte “ 180 2 Prove di espansionismo “ 190 Capitolo 6 Dal secondo mandato di Truman all’amministrazione Eisenhower: un ritorno graduale alla politica di neutralità “ 195 1 Nasser alla ricerca di armi “ 197 2 La crisi di Suez “ 205 3 Le conseguenze diplomatiche di Suez: il vuoto di potere in Medio Oriente presupposto per una nuova politica statunitense “ 213 Capitolo 7 La debole pausa durante la presidenza Kennedy “ 220 1 Un diverso approccio nei confronti di Nasser e in generale del nazionalismo arabo “ 222 2 Kennedy e Israele “ 226 Capitolo 8 Il trionfo del sionismo: Johnson e la conquista israeliana di Eretz Yisrael nella guerra dei Sei giorni p.234 1 Verso la guerra “ 238 1.1 La posizione dell’amministrazione americana di fronte alla crisi del maggio-giugno ’67 “ 244 2 Il capovolgimento della politica di Eisenhower adottata a Suez “ 252 3 Tra diplomazia e armi “ 255 3.1 La Risoluzione 242: analisi e interpretazione “ 255 3.2 Armi per Israele “ 270 3.3 ...e per la Giordania “ 280 Conclusioni Il linguaggio della forza: una “pace” dettata da Israele “ 283 La politica espansionista aggressiva nei confronti del popolo palestinese “ 283 Fonti e bibliografia “ 301 Documenti Testo del Mandato britannico sulla Palestina (24 luglio 1922) “ 314 La Dichiarazione Tripartita (25 maggio 1950) “ 319 La Risoluzione di Khartoum (1 settembre 1967) “ 320 Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza ONU (22 novembre 1967) “ 321 Risoluzione 338 del Consiglio di Sicurezza ONU (22 ottobre 1973) “ 323 Risoluzione 446 del Consiglio di Sicurezza ONU (22 marzo 1979) “ 324 Risoluzione 465 del Consiglio di Sicurezza ONU (1 marzo 1980) “ 326 Risoluzione 1397 del Consiglio di Sicurezza ONU (12 marzo 2002) “ 328 Appendice iconografica Capitolo 1 L’incompatibilità fra due diritti: yishuv e «comunità non ebree» in Palestina Con la conquista da parte della dinastia militare turca degli ottomani dell’Egitto e della Siria nel 1517, le popolazioni del Medio Oriente dettero l’obbedienza politica e religiosa al sultano e all’autoproclamato califfo, grazie a un discutibile diritto di conquista, piuttosto di aderire all’eredità tradizionale araba secondo la quale il Califfo, capo e guida politica e spirituale della comunità dei credenti (“umma”), doveva discendere o dalla tribù del Profeta, Qurayshita (alla quale appartengono la maggioranza dei musulmani, detti sunniti, da sunna, “consuetudine”, “tradizione”) o dalla sua famiglia (segue questa credenza, perlopiù in Iraq e in Iran, la minoranza musulmana degli sciiti, da shī‘a, “partito”, “fazione”). La fondamentale fedeltà dei musulmani arabi era verso l’Islam (“abbandono [sottomissione] alla volontà di Dio”), benché, con un differente linguaggio e una identità culturale distinta, essi fossero separati dai loro padroni turchi. Dal sedicesimo secolo, mentre sull’Europa si abbatterono numerosi e importanti mutamenti politici, religiosi e culturali, come la disintegrazione del sistema feudale, la Riforma (e la controriforma cattolica), il Rinascimento, la scoperta del Nuovo Mondo che diede il via alle colonizzazioni e l’uscita dai ristretti ambiti territoriali europei, e portarono alla centralizzazione del potere del nuovo Stato moderno europeo, il Medio Oriente ristagnò e lentamente declinò fino al XX secolo con il tracollo definitivo dell’impero ottomano durante la Prima guerra mondiale. Grandi progressi tecnici, economici, politici e militari, diedero la potenzialità al Vecchio continente, agli inizi del Novecento, di sfogare la propria forza fino all’autodistruzione. Già con le prime conquiste, nel nord Africa, in Spagna, Portogallo e in Sicilia, gli arabi avevano tessuto i rapporti con l’Europa occidentale, ma i principali beneficiari di questo scambio culturale di relazioni fra i due mondi furono gli europei. Gli arabi consideravano l’Europa come le «tenebre esterne della barbarie da cui l’assolato mondo islamico aveva poco da temere e ancora meno da imparare», un continente cristiano e quindi infedele, anche se con qualche attenuazione.1 Punto di svolta fu l’invasione della Francia di Napoleone, nel 1798, dell’Egitto. L’importanza della spedizione risiede nel fatto che questa fu la prima incursione armata di un Paese europeo nel Vicino Oriente dal tempo delle Crociate. Infatti, fino al XIX secolo, la penetrazione militare, oltre alla consolidata penetrazione commerciale, nel mondo musulmano e mediorientale si era limitata ai confini settentrionali dell’impero Austro-Ungarico e della Russia zarista, con l’avanzamento costante nei Balcani. Per di più, non furono gli egiziani e tantomeno gli ottomani a cacciare i francesi dall’Egitto, ma un’altra potenza europea rivale: la Gran Bretagna, nel 1801. La facilità con la quale l’esercito di Napoleone soggiogò le forze indigene e il primo impatto ravvicinato fra le due culture mise in forte crisi l’opinione, armai assodata, della superiorità del mondo Cfr. Bernard Lewis, Gli arabi nella storia, Roma – Bari, Laterza, 1998 (tit. or.: The Arabs in History, Oxford, Oxford University Press, 1993), p. 175. 1 islamico rispetto a quello occidentale. L’incontro fra la società tradizionale islamica e il nazionalismo occidentale secolarizzato, uno dei prodotti della Rivoluzione francese e dello Stato nazionale europeo, fece nascere le prime tensioni. Come avrebbero reagito i musulmani alla crescente influenza dei valori occidentali, formatisi con la Rivoluzione francese, di cui, uno su tutti, minava un punto cardine della società islamica: separazione fra Stato e Chiesa, liberalismo? L’idea europea di nazionalità, insieme al crescente risentimento arabo verso la dominazione turca e alla pressante diffidenza per l’Occidente estraneo e invadente (in una parola sola, il nazionalismo arabo), minò alla base il movimento panislamico e la fedeltà al califfo di Costantinopoli, simbolo dell’unità islamica, che riusciva a tenere unito il variegato mondo islamico.2 L’imperialismo europeo avanzava prepotentemente nel nord Africa, dove la Francia occupò l’Algeria nel 1830 e la Gran Bretagna Aden, situato in un punto strategico, nel 1839; ma fu quest’ultima potenza a occupare l’Egitto nel 1882, centro del mondo arabo, nonché islamico, dando una spinta al nascente movimento nazionalista. Il catalizzatore di questo processo fu la Rivoluzione dei giovani turchi nel 1908, con la matrice del nazionalismo turco, che, inevitabilmente, provocò una reazione nazionalista araba.3 Il nuovo gruppo al potere, il CUP (Committee of Union and Progress) riaprì il parlamento e reintrodusse la Costituzione e la libertà di stampa. Gli arabi, cosi come gli ebrei della Palestina, credevano che le promesse di progresso pronunciate dalla dirigenza indicassero una maggiore autonomia dei territori arabi e più ampi diritti civili. Allentando le redini della censura, nacquero giornali e partiti politici, di cui uno, fondato al Cairo, era denominato eloquentemente Partito del «L’introduzione di ideologie nazionaliste straniere [e liberali] e più in particolare il recupero di rispettati termini religiosi con un nuovo significato nazionalista, quindi implicitamente non religioso, non mancò di scatenare l’opposizione di coloro che giudicavano idee disgregatrici e distruttrici», vedi in Bernard Lewis, Le molte identità del Medio Oriente, Bologna, il Mulino, 2000 (tit. or.: The Multiple Identities of the Middle East, London Weidenfeld & Nicolson, 1998), p. 95. 3 Cfr. Bernard Lewis, Gli arabi nella storia, op. cit., pp. 177-178; 183-186. 2 decentramento ottomano, facendo trasparire in modo chiaro il suo obiettivo politico (maggior uso della lingua araba, più lavoro per gli arabi nelle loro province). Nel contempo però, i Giovani turchi intrapresero una politica di «turchificazione» per salvaguardare l’impero e la loro etnia, facendo diventare sempre più esasperante il clima antiarabo che si stava diffondendo nelle stanze del potere. Allo scoppio della Prima guerra mondiale prevaleva ancora il sentimento dell’appartenenza e dell’identità musulmana (lealtà alla famiglia, al villaggio e al Sultano-Califfo), il Panislamismo, ma un gruppo di intellettuali sollecitò una secessione (completa) araba dall’impero ottomano. 1 Il nazionalismo arabo e la promessa britannica L’iniziale presa di coscienza nazionale araba prese lo slancio dopo la Rivoluzione dei Giovani turchi nel 1908. Le aspirazioni prendevano la forma di società segrete che svolgevano apertamente attività patriottiche, richieste pressanti a Costantinopoli e una più generale propaganda in città come Il Cairo, Damasco e Beirut. Il promotore e la guida di questo dinamismo fu lo sceriffo Husayni, tradizionale custode dei due luoghi più sacri all’Islam, la Mecca e Medina, nella provincia dello Hegiāz.4 Le quattro città sante dell’islam sono, in ordine di crescente importanza, Hebron, Gerusalemme, Medina e La Mecca; le quattro città sante dell’ebraismo, sempre nello stesso ordine, sono Tiberiade, Safed, Hebron e Gerusalemme. Le ultime due sono in comune, e si trovano rispettivamente la prima nella Cisgiordania a circa trenta chilometri l’una a sud dell’altra. Gerusalemme, capitale dello Stato ebraico, è rivendicata politicamente per la parte orientale, sede di luoghi santi di tutte e tre le religioni monoteistiche, dall’Autorità palestinese come la futura capitale di uno Stato arabo in Palestina. Hebron è sacra agli ebrei perché è il luogo di nascita e nel 1010 a.C. vi venne unto Re Davide, capo della tribù di Giuda, alla guida della monarchia unita di Israele. Rimase capitale per otto anni prima che Davide la lasciasse per recarsi a conquistare Gerusalemme e di lì il Monte Moria (o Monte del Tempio). È ritenuta l’ubicazione di sepoltura dei patriarchi israeliti, ossia Abramo, Isacco, Giacobbe e le loro mogli. Per i musulmani è il luogo dove il profeta Abramo, fondatore del monoteismo (secondo questi, Abramo, pur essendo un semita, non era né ebreo né cristiano ma un hanīf, ossia un monoteista), il primo e il vero musulmano e l’antecedente di Maometto, trascorse la maggior parte dei suoi anni. Gerusalemme (il nome deriva da “Shalom” ossia pace, “Urusalin” in cananeo e “Yerushalaim” in ebraico che significa città della pace) è la Città Santa per eccellenza per gli ebrei, essendo la vecchia capitale del regno unito di Davide e il sito del primo Tempio di Salomone (955 a.C. e distrutto per mano dei babilonesi nel 586 a.C.), sede del Sancta Sanctorum, l’ambiente all’interno del quale veniva 4 Il movimento per l’emancipazione politica delle province arabe dell’impero portò al raduno di questi gruppi nel giugno 1913 a Parigi nel primo congresso arabo-siriano, per pubblicizzare le richieste in occidente, ossia: riforme radicali al fine di consentire agli arabi di esercitare i diritti politici e «rendant effective leur participation à l’administration centrale del l’Empire», senza reclamare la secessione; un regime decentralizzato; l’uso ufficiale della lingua araba, accanto al turco, nel custodita l’Arca dell’Alleanza, la più sacra e venerata reliquia religiosa, che custodiva le due tavole di pietra del Decalogo. Inoltre è il luogo del secondo Tempio voluto da Erode il Grande (iniziato nel 19 a.C. e completato il 27 d.C.) di cui rimane ancora oggi solo l’estrema parte del muro occidentale, denominato inizialmente come «Luogo del pianto» nel XIX secolo per lamentare la perdita del tempio e delle passate glorie di Israele; in seguito il nome fu cambiato in «Muro del pianto» e dopo la conquista israeliana della parte orientale della città, riunendola, avvenuta nel 1967, divenne semplicemente «Muro occidentale». Con l’avvento degli arabi nel VII secolo e del loro dominio incontrastato fino alla fine della Prima guerra mondiale, salvo un intervallo di ottantanove anni nel XII secolo dovuto alla conquista di Gerusalemme da parte dei crociati europei, la città (denominata al-Quds, “la Santa”) cambiò aspetto e nell’area dove erano sorti i due tempi ebraici, l’Haram al-Sharif (che significa il “sacro o nobile recinto,” chiamata anche Spianata delle Moschee), vennero edificati la Cupola della Roccia (in arabo Qubbat as-Sakhra) e più a sud, a qualche decina di metri, la moschea al-Aqsa (“la distante, la remota”). In particolare, la Cupola della Roccia sovrasta una lastra naturale di pietra calcarea, facendo della roccia, nota come sakhra, la terza reliquia per importanza dell’islam, dopo la Ka‘ba della Mecca e Medina (Yathrīb), la città del Profeta (al-Medinat al-Nabi). Da questo luogo, identificato dai musulmani come il centro esatto della terra e la porta per il cielo, Maometto, secondo una tradizione islamica maggioritaria, dopo un viaggio notturno partito dalla Ka‘ba della Mecca a cavallo del miracoloso cavallo alato Būrāq, era asceso in paradiso attraverso le sette sfere della rivelazione divina. In aggiunta, questa nuda roccia è venerata sia da musulmani sia da ebrei perché, secondo il Corano e la Bibbia, per i secondi si tratterebbe del luogo dove Abramo stava per immolare il figlio Isacco, mentre secondo la versione musulmana il figlio che Abramo intendeva immolare a Dio era Ismaele. È evidente la cruciale importanza religiosa e storica di questa piattaforma, dove sono racchiusi e, secondo alcune teorie e scavi archeologici, sovrapposti santuari dell’ebraismo e islamismo. Condivido pienamente il giudizio dell’Economist sull’arte dell’archeologia in Israele/Palestina: «Archaeology can seriously damage your health. If you’re working in a politically sensitive country, it can kill you. It establishes history, and the past is a powerful weapon in present disputes over rights and claims. …this biblical archaeology serves the Israelis too, appearing to justify claim to Israel» (in “The Economist”, Digging for Truth, 21 luglio 2001, p. 72). Per approfondimenti vedi Richard Andrews, Il Monte del Tempio, Milano, Sperling & Kupfer, 2001 (tit. or.: Blood on the Mountain, 1999); per il viaggio notturno di Maometto a Gerusalemme cfr. la sura diciassette e il relativo commento in Il Corano, introduzione, traduzione e commento di Alessandro Bausani, Milano, Rizzoli, 1996 (1988, 1° ed.), p. 201 e ss., p. 581 e ss.. parlamento ottomano e nelle province arabe; maggior possibilità per l’impiego di consiglieri non ottomani; un servizio militare regionale.5 La risposta della Sublime Porta fu deludente, spingendo i membri dell’élite politica araba verso l’idea della completa separazione, ed è proprio quello che accadde con la Prima guerra mondiale, dove si presentava l’opportunità propizia di staccarsi dal governo di Costantinopoli, ma diversamente questa lo era anche per gli ebrei. Nei primi mesi del 1914, il figlio dello Sceriffo Husayni, ‘Abdullah, fece tappa al Cairo prima di recarsi a Costantinopoli e partecipò a due colloqui riservati con l’Alto Commissario britannico in Egitto, Lord Kitchener. Nell’ultimo incontro, in particolare, vennero affrontati importanti temi politici.6 I problemi dell’interlocutore arabo non erano tanto, o meglio, non solo gli imminenti e crescenti dissidi fra lo Sceriffo e il capo politico (Vali) nominato dal governo turco, che rischiava di sfociare in una destituzione imminente del primo, quanto «the future of the other Arab provinces of the Ottoman Empire». Una profonda svolta nel rapporto tra gli arabi dell’impero e i turchi era vicina e Abdullah chiedeva apertamente l’appoggio britannico in un eventuale scontro con Costantinopoli. Il contesto storico non era favorevole, ancora, a una risposta positiva da parte di Kitchener, poiché la Gran Bretagna aderiva rigidamente dal 1840 alla “politica orientale” di sostegno all’impero ottomano («the sick man of europe») con il fine di scoraggiare le ambizioni degli altri Stati europei (Francia, Germania, Austria-Ungheria) e in primo luogo dell’impero russo. A Londra stava particolarmente a cuore la stabilità della regione dell’Hegiāz, nella penisola arabica, per assicurare la sicurezza e le 5 Vedi British Imperial Connexions to the Arab National Movement, 1912-1914; Lord Kitchener, the Emir Abdullah, Sir Mallet—the Case of Aziz Ali, 1914, in Volume X, Part II: The Last Years of Peace (British Documents on the Origin of the War, 1898-1914, GP Goop and Harold Temperly, eds. With the assistance of Lillian M. Penson, PhD, 1938), pps 824-838, o http://www.lib.byu.edu/~rdh/wwi/1914m/arabetuk.html. 6 Il primo il 5 febbraio, il secondo il 7 febbraio nell’appartamento privato di Abdullah. comodità durante il pellegrinaggio annuale alla Mecca, dove si radunavano i musulmani da ogni parte del mondo, con un interesse speciale per quelli provenienti dal continente indiano e dall’Egitto.7 Tuttavia, la politica estera britannica passò dal sostegno all’integrità dell’impero ottomano ai progetti per accelerarne la dissoluzione con lo scoppio della Grande Guerra e con l’entrata nel conflitto a fianco degli imperi centrali del governo di Costantinopoli. Nell’autunno del 1914 (tardo ottobre), Lord Kitchener, diventato ministro della Guerra nell’agosto precedente, fece comunicare a Husayni che se gli arabi avessero aiutato la causa alleata, come ricompensa veniva avanzata la promessa del Califfato, autorità spirituale e potente simbolo dell’unità islamica.8 L’interpretazione di Husayni dell’iniziativa britannica comprendeva anche, e soprattutto, un pieno appoggio militare e politico per concretizzare l’offerta, e ciò accelerò il sogno di un grande Stato arabo indipendente sotto la dinastia Hascemita, visto che il tempo per una grande rivolta araba anti-ottomana non era maturo, per il timore delle rappresaglie turche.9 Alla fine del maggio 1915, a Damasco, culla del movimento nazionalista arabo, alcuni gruppi compilarono il c.d. Programma di Damasco, che in sostanza invocava il riconoscimento di uno Stato arabo indipendente entro i confini, abbastanza vaghi, della Grande Siria. Husayni lo adottò come obiettivo ultimo delle aspirazioni del popolo arabo e della sua famiglia. In un possibile crollo dell’impero turco, si prevedeva una dura rivendicazione dei musulmani indiani per il possesso del Califfato, un problema in più da tenere in considerazione per il governo britannico. Brevemente, vengono ricordati i cinque pilastri dell’Islam (arkan al-Islam): la professione o testimonianza di fede (shahadah), la preghiera (Salat o Salah), l’elemosina rituale (Zakat), il digiuno nel mese di Ramadan (Sawm), il pellegrinaggio alla Mecca (Hajj) almeno una volta nella vita. 8 Vedi Michael J. Cohen, The Origins and Evolution of the Arab-Zionist Conflict, Berkeley – Los Angeles – Oxford, University of California Press, 1987, pp. 11, 12. In modo abbastanza più sfumato viene riportato nel libro di Morris, secondo cui «gli arabi dovevano aspettare e non fare niente contro gli ottomani [aiuto passivo e non attivo], né ostacolare l’impegno bellico britannico», Benny Morris, Vittime, Milano, Rizzoli, 2001 (tit. or.: Righteous victims, 1999), p. 93. 9 La dinastia Hascemita rivendica la diretta discendenza da Hāshim ibn ’Abd Manāf, appartenente alla tribù qurayshita e considerato il nonno di Maometto. Sicuramente è di grande valore presentare questa caratteristica per un pretendente califfo come lo era Husayni. 7 1.1 La corrispondenza segreta tra Husayni e McMahon e la lettera del 24 ottobre 1915 Nel 1915 la cosa certa era che, con il Programma di Damasco, una limitata (circoscritta) élite nazionalista araba, non avendo ancora avuto il modo per coinvolgere la massa della popolazione ancora lontana da una cultura e da un impegno attivo politico, avanzava formalmente e pubblicamente la richiesta della separazione dall’impero ottomano in favore di uno Stato arabo indipendente. Questa fu la base della prima lettera indirizzata da Husayni all’Alto commissario britannico per l’Egitto, Sir Henry McMahon, il 14 luglio 1915, contenente le già citate priorità: definire il territorio entro il quale sarebbe sorta l’entità araba, la ricerca di un accordo con il governo di Londra per la proclamazione di un Califfato arabo per l’intero Islam, ricordandosi del suggerimento avanzato da Kitchener nel tardo ottobre dell’anno passato. Erano chiaramente concessioni di vasta portata, che non potevano neanche essere prese in considerazione dal governo britannico, in un momento in cui un effettivo aiuto militare in guerra era poco più che una vaga promessa. In aggiunta, c’erano degli interessi strategici e le pretese, oltre che di Londra, della Francia in Libano e in Siria, che in una eventuale vittoria alleata sarebbero emerse nel dopoguerra. Il secco rifiuto di McMahon alle richieste arabe fu difficile da accettare. Ma fu il deterioramento delle posizioni militari alleate nella campagna dei Dardanelli che catalizzò soprattutto due elementi, i quali avrebbero portato a una risposta positiva alle domande di Husayni: l’urgenza di separare le forze arabe da quelle turche e la testimonianza di un disertore arabo, al-Faruqi che, in breve, riferì che gli arabi intendevano schierarsi dalla parte britannica, ma, in mancanza di un segno favorevole, sarebbero stati obbligati a combattere a fianco della Germania. Perciò, un interesse di guerra tangibile portò a un radicale cambiamento della politica verso gli arabi, rappresentato dalla lettera chiave di McMahon del 24 ottobre 1915 in risposta alle insistenze di Huseyni.10 Nel documento, anzitutto non vengono specificati i confini del territorio arabo e si rimanda al vago progetto individuato nella lettera di Husayni di luglio. Anzi, vengono rese esplicite le aree che non faranno parte dell’entità araba, dividendole in tre categorie ben distinte: in base alla popolazione, dove la Gran Bretagna considera escluse le regioni abitate non completamente da arabi; in base agli interessi dell’altra potenza europea, la Francia, che non rendeva libero di agire il governo britannico; in base ai vincoli internazionali (trattati, accordi) di cui Londra è parte con i capi arabi e non può pregiudicare i precedenti impegni. È di cruciale importanza riuscire a capire quali territori sono suscettibili di appartenere alla prima categoria. Il testo della lettera all’inizio afferma: «The two district of Mersina and Alexandretta and portions of Syria lying to the west of the districts of Damascus, Homs, Hama and Aleppo cannot be said to be purely Arab, and should be excluded from the limits demanded», e i diversi significati della parola “district” (in turco vilayet, adattamento della parola araba wilāyah) ci portano a differenti conclusioni. 10 Egualmente un interesse prettamente di guerra sarà motivo per emanare la Dichiarazione Balfour del 2 novembre 1917. Il testo della lettera si trova in Michael J. Cohen, The Origins and Evolution of the Arab-Zionist Conflict, pp. 139, 140; sul sito http://www.lib.byu.edu/~rdh/wwi/1916/mcmahon.html, The Husain-McMahon Letters (excerpt), oppure in The Israel-Arab Reader. A Documentary History of the Middle East Conflict, Laqueur Walter and Rubin Barry editors, Sixth Revised Edition, New York – London – Ringwood (Australia) – Toronto – Auckland, Penguin Books, 2001, pp. 11-12. In una prima ipotesi, questa può corrispondere a unità amministrativa e il distretto di Damasco equivale all’intera regione del distretto della Siria, dato che l’uso arabo del termine attribuiva frequentemente lo stesso nome al distretto o provincia e alla città capoluogo.11 Di conseguenza la linea che passa dal nord di Hama, per Homs, Damasco fino a giungere all’estremo sud con la città di Aqaba è quella indicata nella lettera, e chiaramente la Palestina12 è a ovest di questa linea e perciò esclusa dall’area promessa agli arabi, anche se non viene fatto nessun riferimento esplicito. Ma allora perché vengono citate, oltre a Damasco e alle città di Mersina, Alexandretta e Aleppo, i «distretti» di Homs, Hama? Appare più accettabile la spiegazione secondo la quale la parola “district” è intesa nel più ampio e generale significato, ossia di periferia, dintorni, vicinato. Secondo questa ipotesi, la regione a ovest di queste città corrisponde grossomodo al Libano e alla fascia costiera della Turchia meridionale. Inoltre, prendendo come base le stime della popolazione locale, divisa in differenti territori, dal rapporto della Commissione King-Crane13 del 1919, risulta che nella zona sotto l’Amministrazione militare francese, OETA14 occidentale che equivale a grandi linee al Libano attuale, i musulmani sono il 54,7%, i cristiani il 36,6%, i drusi 5,5%, gli ebrei il 1,4%, in sintonia con la condizione richiesta nella lettera di McMahon per separare quest’area dal futuro Stato arabo.15 Viceversa, la popolazione dell’OETA meridionale, sottoposta all’Amministrazione militare britannica e che comprende all’incirca la Palestina, era distribuita nel 79,6% di musulmani, 9,6% di 11 Cfr. Bernard Lewis, Le molte identità del Medio Oriente, op. cit., p. 77. Il nome Palestina (in ebraico significa terra dei filistei) nella sua forma corrente nasce nella cultura greca per poi transitare nel linguaggio amministrativo romano. Inizialmente il termine nasce come aggettivo, non come sostantivo, per indicare la parte meridionale della Siria («Siria Palestina») che in precedenza era stata parzialmente conquistata e colonizzata dai filistei, popolo da lungo tempo scomparso. Il nome ufficiale Palaestina è stato introdotto dai Romani dopo gli avvenimenti del 132-135 d.C. al posto del tradizionale Iudaea, proprio per questo respinto in ambienti ebraici. Ricomparve in Europa e divenne parte del linguaggio politico occidentale nel corso dell’Ottocento, senza diffondersi nella regione interessata. L’espressione, infine, venne adottata dalla Gran Bretagna quale denominazione del territorio sotto mandato costituito dai distretti più meridionali delle province ottomane di Damasco e Beirut e dal distretto separato di Gerusalemme. Cfr. Bernard Lewis, Le molte identità del Medio Oriente, op. cit., pp. 74-75. 13 Vedi http://www.cc.ukans.edu/~kansite/ww_one/docs/kncr.htm, oppure http://www.unu.edu/unupress/unuobooks/80859e/80859E05.htm. 14 Occupied Enemy Territory Administration. 15 L’area in questione «cannot be said to be purely Arab». 12 cristiani e 10% di ebrei: nel complesso una chiara e schiacciante maggioranza di arabi (musulmani e cristiani), quindi in grado di rientrare nella promessa britannica fatta a Husayni. Era inequivocabile che un’area doveva rimanere sotto l’esclusiva zona d’influenza anglo-francese, se non altro come ricompensa politica per gli sforzi fatti in guerra dalle due maggiori potenze europee, ma la Palestina non veniva menzionata e su questo punto si scatenò negli anni a venire una feroce disputa sulla interpretazione della lettera. Finora è stato esaminato il testo della lettera di McMahon, ma è più importate riuscire a capire le vere intenzioni (e i motivi) che hanno portato a impegnare Londra con gli arabi. I britannici, compreso McMahon, e i sionisti, sostenevano che la Palestina era a ovest di Damasco e delle altre città, e con ciò era implicitamente esclusa dal futuro predominio arabo. Secondo gli arabi, non essendo stata lasciata fuori esplicitamente e trovandosi non a ovest ma a sud-ovest di Damasco, doveva obbligatoriamente rientrare nell’ipotetico Stato arabo. Forse McMahon non si era espresso apertamente sulla Palestina per timore della suscettibilità dei francesi, dopo aver riservato il Libano e la costa siriana nordoccidentale, incluse parti della Turchia meridionale (Mersina e Adana) alla zona d’influenza «non araba», ma è ormai assodato che il Foreign Office di Londra «cercava di escludere la Palestina dalla futura entità araba indipendente».16 Un altro punto da capire riguarda la promessa dell’indipendenza araba, la sua sostanza e valore. Nella lettera del 24 ottobre 1915 è affermato che la Gran Bretagna «is prepared to recognize and support the independence of the Arabs in all the regions within the limits demanded by the Sherif of Mecca» dopo la guerra, e dichiarava che il governo di Sua Maestà avrebbe assicurato al nuovo Stato consigli e assistenza, in modo da divenire il solo Paese europeo intimamente legato con la regione mediorientale. 16 Vedi Benny Morris, Vittime, op. cit., p. 94. In poche parole, la volontà era sì di concedere l’indipendenza dei territori arabi dell’impero ottomano da Costantinopoli, ma un’indipendenza non piena secondo Londra e si prospettava una forma di autonomia, o protettorato, sotto la tutela di quest’ultima. Per la questione della Palestina, quasi certamente ci fu un errore di traduzione della parola vilayet nel redigere la lettera; ma il significato della promessa di uno Stato arabo indipendente, vago già nelle delimitazioni territoriali, deve essere considerato come un generico modo per trascinare la parte araba fuori dal campo turco, e di persuaderla a impegnarsi per la causa alleata. La Gran Bretagna si era impegnata e aveva accettato il principio dell’indipendenza araba, ma già dopo la Dichiarazione Balfour del 2 novembre 1917, che assegnava determinati diritti agli ebrei nella regione, le prime smentite pubbliche dell’inclusione della Palestina nell’area destinata al futuro Stato arabo vennero emesse, proprio quando la causa sionista stava diventando una questione diplomatica internazionale. Se la corrispondenza fra McMahon e Husayni poteva portare a intraprendere negoziati maggiormente impegnativi e approfonditi, ciò non accadde principalmente per due ragioni: la prima fu che l’auspicata grande rivolta degli arabi, proclamata il 10 giugno 1916 alla Mecca, non si materializzò come sperava la Gran Bretagna e si risolse nell’impiego di uno sparuto numero di arabi irregolari, quasi completamente beduini,17 abituati ad attività di guerriglia e senza contribuire efficacemente allo sforzo bellico; la seconda era che il contesto di avvenimenti e situazioni del 1915 già nel 1916, e più ancora negli anni seguenti, era mutato sensibilmente18 a causa del cosiddetto «accordo Sykes-Picot»19 (maggio 17 Vedi http://www.lib.byu.edu/~rdh/wwi/1917/27arts.html, The 27 Articles of T.E. Lawrence, The Arab Bulletin, 20 August 1917: «They [gli arabi] are meant to apply only to Bedu [bedouins]; townspeople or Syrians require totally different treatment». 18 Nel gennaio 1916, nell’ultima lettera della serie, McMahon mette in guardia Husayni dai possibili cambiamenti futuri della situazione attuale, vedi Michael J. Cohen, The Origins and Evolution of the Arab-Zionist Conflict, op. cit., p. 25. 19 I negoziati che portarono a questo accordo segreto fra le due principali potenze europee impegnate in guerra, erano una diretta conseguenza della corrispondenza fra McMahon e Husayni, perché Londra doveva contemperare i suoi impegni con gli arabi e le mire territoriali in Medio Oriente della Francia. In sostanza, si stabiliva che la zona a ovest delle famose quattro città (Damasco, Homs, Hama e Aleppo) rientrava nell’area del controllo diretto francese, fino al porto di Haifa escluso (riservato ai britannici), l’area delle province mesopotamiche di Baghdad e Bassora sotto il controllo diretto della 1916), della Dichiarazione Balfour (novembre 1917), delle crescenti pressioni della Francia circa le rivendicazioni territoriali in Siria e Libano, e anche per il diminuito interesse del governo di Londra rispetto all’ipotesi di concretizzare ulteriori concessioni agli arabi. Durante la Rivolta araba contro l’impero ottomano, la principale azione degli arabi, guidati da T.E. Lawrence, passato alla storia come «Lawrence d’Arabia», fu quella di sabotare la ferrovia dell’Hegiāz.20 Ma se il contributo arabo nella campagna militare del Medio Oriente, condotta con armi moderne, era stato modesto, bisogna dire che, durante l’invasione britannica della regione, i soldati non incontrarono alcuna seria resistenza o atteggiamento ostile da parte della popolazione locale, e questa sorta di neutralità araba trova le ragioni o nel timore di repressioni da parte degli ottomani, o nell’attesa di un’esaltante rivolta araba contro Costantinopoli, oppure di qualche vantaggio da Londra. 2 Le origini del sionismo21 e il riscatto internazionale con la Dichiarazione Balfour La rivoluzione francese, con l’enorme portata di principi e idee liberali che avrebbero condotto a un cambiamento radicale della convivenza civile in Europa, produsse come conseguenza positiva un’emancipazione politica di molte componenti del tessuto sociale. Anche gli ebrei ne trassero benefici, perché furono riconosciuti come cittadini con pieni diritti, e vennero rimosse le vecchie Gran Bretagna, con il rimanente territorio, destinato teoricamente a uno «Stato arabo indipendente o a una confederazione di Stati arabi indipendente», diviso a sua volta in due sfere d’influenze. L’indipendenza araba era certamente soggetta a una sorta di protettorato delle due potenze («the British and french government, as the protectors of the Arab state, …»). Il resto, vale a dire la Palestina da Acri a Gaza fino al fiume Giordano, era riservato a un astratto condominio francobritannico-russo (terza firmataria dell’accordo). Nella parte finale del documento si fa esplicito riferimento alle rivendicazioni territoriali dell’Italia in Turchia, formulate nell’articolo 9 del trattato segreto del 26 aprile 1915 tra Roma e gli Alleati, il prezzo dell’Italia per l’entrata in guerra, seguito da un altro trattato, sempre segreto, dell’aprile 1917. Per il testo dell’accordo Sykes-Picot vedi in Michael J. Cohen, The Origins and Evolution of the Arab-Zionist Conflict, pp. 141, 142, oppure su http://www.yale.edu/lawweb/avalon/sykes.htm, The Sykes-Picot Agreement: 1916. 20 La ferrovia dell’Hegiāz, costruita tra il 1900 e 1908, collegava il capoluogo del distretto della Siria, Damasco, alla Mecca e Medina. Fu costruita dal governo dei Giovani Turchi sia per unire territori arabi lontani da Costantinopoli, soprattutto per avere un controllo politico più saldo delle due città sacre dell’Islam, e in generale sul suo capo spirituale, lo Sceriffo Husayni. 21 Il termine “sionismo” fu coniato dallo scrittore viennese Nathan Birnbaum nel 1885 e prende il nome da “sion”, il nome cananeo della collina dove sorgeva l’antica Gerusalemme, sulla quale era situato il palazzo reale del Re David (1010-970 a.C.), centro del governo e del culto ebraico. Dopo la distruzione di Gerusalemme e del primo tempio da parte dei babilonesi e il conseguente esilio degli ebrei nel 586 a.C., sion divenne impressa nell’animo e nello spirito di ogni ebreo. Durante i secoli, specialmente nell’età contemporanea, acquistò la connotazione di patria ebraica e venne adottato nel diciannovesimo secolo per indicare la volontà politica di ricreare uno Stato ebraico in Palestina. restrizioni legali al vivere comune. In sostanza, l’innaturale condizione di minoranza oppressa della Diaspora, sempre osteggiata, discriminata ed emarginata politicamente, stava per essere lasciata da parte come una pagina oscura del passato, guardando al futuro con speranza e fiducia. Gli ebrei uscirono dai loro ghetti per partecipare alle scelte politiche su un piano di parità con tutti gli altri cittadini, con la volontà di assimilarsi e integrarsi in ogni Stato in cui si trovavano.22 Gli ebrei europei erano sparsi ovunque nel continente, ma la maggior parte di loro viveva nella Russia europea, nella cosiddetta «Regione degli insediamenti», tra Memel (oggi Klaipeda, porto lituano sul Baltico) a nord e la Crimea a sud. Il sionismo, vale a dire il movimento politico, culturale e religioso che ha come obiettivo il ritorno degli ebrei alla biblica terra dei Patriarchi, Eretz Yisrael, in un’unica sede nazionale per ricreare un’entità statale ebraica (uno Stato o un centro nazionale) dopo la Diaspora di quasi duemila anni fa,23 ebbe i suoi primi teorici nell’Ottocento, prima dello scoppio dei pogrom russi.24 Infatti, questi intellettuali prospettavano un ritorno a Sion non come sostituto all’emancipazione che godevano in Europa, ma piuttosto come un complemento e un progresso rispetto a esso. Ma questi richiami ebbero una risonanza modesta e rimasero senza risposta, proprio perché nessuno era ancora disposto a 22 Il termine ghetto deriva dal nome di una zona di Venezia dove era situata una fonderia, che in veneziano era chiamata gheto, propriamente «getto», “colata di metallo fuso”. Fin dall’antichità le comunità ebraiche manifestarono la tendenza a isolarsi in quartieri, soprattutto per salvaguardare l’individualità della loro fede e del culto. Ciò si ritorse loro contro, diventando la parola sinonimo di emarginazione sociale, politica e culturale. L’istituzione dei ghetti come dimore coatte degli ebrei risale a Venezia nel 1516. L’obbligo vigente nelle grandi e medie città di riunire tutti gli ebrei in un quartiere chiuso risale a una bolla del papa Paolo IV del 12 luglio 1555, l’anno della pace di Augusta. 23 Nel 70 d.C. il figlio dell’Imperatore romano Vespasiano, Tito, assediò Gerusalemme e la distrusse, e con essa il secondo Tempio, costruito da Erode il Grande, causando una catastrofe di dimensioni inimmaginabili, poiché non vi era più un luogo che rappresentasse il centro del popolo ebraico. La definitiva, e più radicale, Diaspora è datata nel 135 d.C., con la sconfitta della seconda rivolta giudaica da parte dei romani, che devastarono l’intero Paese, cambiando perfino il nome di Gerusalemme in Aelia Capitolina, in onore dell’imperatore Publio Elio Adriano (Aelia) e degli dei di Roma (Capitolina). Cfr. Dan Cohn-Sherbok e Lavinia Cohn-Sherbok, Breve storia dell’ebraismo, Milano, il Mulino, 2001 (tit. or.: A Short History of Judaism, Oxford, Oneworld, 1994), pag. 49-55; Paolo De Benedetti, Introduzione al giudaismo, Brescia, Morcelliana, 1999, pag. 24: «Proprio la perdita del territorio e delle istituzioni connesse fa’ si che raccontare la storia degli ebrei dall’età postbiblica alla metà del sec. XX significhi, in gran parte, raccontare non solo una storia di successive migrazioni, stanziamenti, espulsioni, persecuzioni, massacri, ma anche, in positivo, una storia di maestri e di scuole». 24 Rabbi Zvi Hirsch Kalischer (1795-1874), rabbi Yehuda Alkalai (1798-1878) e Moshes Hess (1812-1875), un ebreo tedesco che esercitò un’influenza intellettuale su Marx ed Engels. sacrificare la speranza dell’assimilazione nelle società occidentali per uno sconosciuto e incerto futuro in un’arretrata regione dell’impero ottomano. Più dell’80% degli ebrei risiedeva nell’impero russo, in condizioni nettamente differenti rispetto a quelle dei grandi Stati nazionali europei. Tuttavia, lo Zar Alessandro II promosse un vasto piano di riforme che cambiò notevolmente i rapporti economici, politici e sociali della popolazione, con l’intento di convertire la Russia verso la monarchia costituzionale sul modello occidentale. Ciò nonostante, queste innovazioni nel medio e lungo periodo, in un contesto di aspettative crescenti dove le aspirazioni degli individui sopravanzavano il progresso delle reali condizioni di vita, portarono alla nascita di gruppi radicali, che facevano appello alla rivoluzione, delusi dall’attesa di una trasformazione rapida e drastica che tardava ad arrivare.25 Queste frange della popolazione russa non rifuggivano dal terrorismo politico e nel marzo 1881 Alessandro II venne assassinato da un gruppo di estremisti (“Volontà del popolo” Narodnaja volja), e questa fu la scintilla iniziale dello scoppio di un’ondata antisemita nella regione, dove le violenze contro i sudditi di origine ebraica erano all’ordine del giorno. Ai pogrom seguì negli anni una serie di leggi e decreti che istituzionalizzarono la discriminazione degli ebrei, con restrizioni e angherie amministrative particolarmente dure e penose. All’indomani delle manifestazioni antisemite nell’impero russo, Leo Pinsker, medico ebreo russo, analizzò i fatti accaduti e giunse alla conclusione che gli ebrei non potevano più vivere, senza pericoli, in terre straniere: occorreva abbandonare l’Europa per una «terra promessa». L’antisemitismo non era Le grandi riforme della Russia zarista sotto la direzione di Alessandro II vengono inaugurate con l’emancipazione dei servi (19 febbraio 1861), poi fu riorganizzata l’amministrazione locale (1864), entrò in funzione un nuovo sistema giudiziario (1864) sullo stile di quelli dell’Europa occidentale, progressivo e liberale, e l’ultima riforma, di fondamentale importanza, fu l’introduzione del servizio militare universale obbligatorio e di breve durata (1874). Le quattro riforme del regno di Alessandro II, possono essere considerate, nel breve periodo, come altrettanti straordinari successi, specialmente se si pensa che furono l’opera di un governo conservatore e in un Paese relativamente arretrato e povero. Grazie a esse, la Russia compì un balzo immenso sulla via che doveva metterla al passo con il mondo occidentale in via d’industrializzazione. È indubbio che queste riforme avviarono una trasformazione sociale in profondità senza sconvolgimenti, senza violenza né crisi nell’immediato. Ma se le si guarda a distanza, e se ne osservano i risultati dopo qualche decennio, il giudizio deve farsi più prudente perché al successo iniziale seguirono gravi difficoltà. Vedi Marc Raeff, La Russia degli Zar, Roma – Bari, Laterza, 1992² (tit. or.: Comprendre l’ancien régime russe, Paris, Editions du Seuil, 1982), pp. 168-177. 25 più un anacronismo, un residuo dell’oscura età medioevale, ma avrebbe sempre reso insicuri gli ebrei negli altri Stati, «ospiti ovunque, padroni di casa in nessun luogo», 26 perciò la soluzione, avanzata nel suo libro Autoemancipazione: un avvertimento alla sua gente da parte di un ebreo russo, era quella di una rinascita nazionale e la riunione in una patria, non necessariamente la Palestina, nella quale colonizzare le terre gradualmente e ottenere lo status di nazione, riconosciuto dai “gentili”.27 Dopo i pogrom del 1881-1882 gli ebrei abbandonarono il sogno e la speranza dell’assimilazione, di una piena uguaglianza e integrazione con l’occidente, e dalla «Regione degli insediamenti» iniziarono a emigrare senza organizzazione né direttive. Molti vedevano negli Stati Uniti la «terra promessa» prospettata da Pinsker, una meta che entro il 1914 avrebbe raccolto due milioni e mezzo di emigranti, altri diressero la loro attenzione verso la Palestina. Questi rappresentavano un piccola minoranza degli ebrei dell’Europa orientale che avevano aderito al sionismo (3%), e appartenevano a società clandestine come Chovevei Zion (Coloro che amano Sion), movimenti come Chibbat Zion (Amore per Sion), gruppi come Bilu.28 Diedero inizio alla prima ‘aliyah29 (1882-1903), che portò in Palestina da 20 000 a 30 000 persone, e la loro attività, denominata «sionismo pratico», consisteva nel perseguire l’ideale sionista concretamente, giorno per giorno, colonizzando le terre gradualmente, in contrasto con il progetto politico-diplomatico di costituire uno Stato ebraico garantito e riconosciuto da un accordo internazionale.30 2.1 La dimensione politico-diplomatica del sionismo 26 Vedi Benny Morris, Vittime, op. cit., p. 29. In questa accezione, la parola viene usata con riferimento ai cristiani e in generale ai pagani, in contrapposizione agli ebrei. 28 Iniziali di Bet Ya‘akov Lekw ve-Nelkah: «Casa di Giacobbe, vieni camminiamo» (Isaia 2,5). 29 In ebraico la parola significa «salita» e indica le diverse ondate, in totale sei e prima della creazione dello Stato di Israele nel maggio 1948, dell’immigrazione ebraica in Palestina. Alla fondazione del nuovo Stato ebraico, la popolazione era di circa 710.000 abitanti. Vedi Dilip Hiro, Dictionary of the Middle East, New York, St. Martin’s Press, 1996, p. 12. 30 Tuttavia, all’ottavo Congresso sionista del 1907, Weizmann avanzò un nuovo termine, “sionismo sintetico”, con il quale i due movimenti di pensiero si potevano integrare, e rappresentare in effetti due aspetti della stessa medaglia. 27 Quest’ultimo aspetto venne portato alla ribalta da Theodor Herzl (1860-1904), scrittore e politico austro-ungherese. La sua conversione al sionismo fu catalizzata dall’affare Dreyfus, ebreo e capitano d’artiglieria dell’esercito francese, accusato di alto tradimento il 15 ottobre 1884, giudicato colpevole il 22 dicembre e condannato all’ergastolo da scontare presso l’isola del Diavolo.31 Ma fu anche una reazione all’imperante antisemitismo nella sua città natale,32 Vienna, dove proprio una visita nel settembre 1895 ispirò la stesura del famoso pamphlet programmatico: Der Judenstaat.33 Come i pogrom russi del 1881-1882 rappresentarono uno spartiacque nelle menti degli ebrei dell’Europa orientale, già poc’anzi ricordato, così l’ondata di antisemitismo conseguente all’affare Dreyfus lo fu per gli ebrei dell’Europa occidentale. Come si potevano tollerare le violenze subite dagli ebrei in uno degli Stati guida europei, la Francia, la patria della emancipazione politica e del progresso, la culla della democrazia e dei diritti individuali? Herzl giunse alla conclusione che in nessun luogo al mondo gli ebrei potevano stare sicuri, che l’antisemitismo ci sarebbe sempre stato, proponendo uno Stato ebraico come soluzione definitiva. Nel suo scritto, pubblicato nel 1896, egli tracciò una serie di incisive elaborazioni sul problema ebraico, sull’ineluttabilità, come rimedio, di uno Stato ebraico o in Argentina o in Palestina. Persino le potenze europee cristiane avrebbero goduto per questa scelta, perché potevano liberarsi una volta per tutte degli ebrei, facendo sì che l’antisemitismo divenisse funzionale al progetto di Herzl. Ma per trasformare «a portion of the globe large enough to satisfy the rightful requirements of a nation», questi necessitava dell’appoggio e della difesa di qualche potenza europea, la Germania, la Turchia oppure la Gran Bretagna. Herzl rifiutava la strategia dei piccoli passi, praticata dalle piccole comunità già in Palestina. L’impresa sionista su piccola scala già operante, caratterizzata dall’immigrazione sporadica e Malgrado le mobilitazioni e le prove in favore dell’ufficiale, la condanna venne definitivamente cancellata solo nel 1906. Vedi Michael J. Cohen, The Origins and Evolution of the Arab-Zionist Conflict, op. cit., pp. 34-35. 33 Per alcuni estratti del libro vedi Michael J. Cohen, The Origins and Evolution of the Arab-Zionist Conflict, op. cit., pp. 134-137. 31 32 dall’assenza dell’appoggio delle grandi potenze, non sarebbe mai riuscita a esercitare sulle autorità ottomane la pressione adatta a dar vita a uno Stato.34 Insomma, quello che era fondamentale per Herzl si riassumeva in un sostegno politico internazionale al suo piano di uno Stato ebraico o nella garanzia internazionale per una massiccia immigrazione in questa entità. Era necessario trovare capitali e chi li finanziava, ma le personalità illustri di ricchi ebrei erano riluttanti verso il progetto di Herzl e non lo sostennero economicamente per vari motivi.35 Questa delusione provocò lo spostamento della sua attenzione verso la massa ebrea, convocando per il 29-31 agosto 1897 a Basilea il primo Congresso sionista internazionale, con l’istituzione dell’Organizzazione sionista mondiale e una piattaforma programmatica per lanciare gli ambiziosi obiettivi, primo fra tutti la definizione di «casa» (o «dimora», Heimstätte) ebraica in Palestina.36 Quindi, avendo chiare le idee, il primo e principale interlocutore con il quale intavolare la discussioni al riguardo fu il Sultano ottomano Abdulhmid II, ma questi rifiutò di concedere benefici agli ebrei per non compromettere le già precarie relazioni con gli arabi, sebbene fosse allettante la (finta) proposta di concedere prestiti ebraici alle vuote casse dell’impero. Analoga risultò la reazione dell’imperatore tedesco, il Kaiser Guglielmo II, che non aveva di certo l’intenzione di rovinare i Un significativo passo del testo di Herzl su questo aspetto, dove è chiara l’opposizione al metodo e all’ideologia del sionismo («pratico») di costituire lentamente uno Stato ebraico basato sulla colonizzazione e sul lavoro delle terre, afferma: «In both countries [Argentina e Palestina] important experiments in colonization have been made, though on the mistaken principle of a gradual infiltration of Jews. An infiltration is bound to end badly. It continues till the inevitable moment when the native population feels itself threatened, and forces the Government to stop a further influx of Jews. Immigrations is consequently futile unless we have the sovereign right to continue such immigration [le ulteriori immigrazioni degli anni ’20 e ’30 saranno proprio basate sulla Dichiarazione di Balfour]». Cfr. Michael J. Cohen, The Origins and Evolution of the Arab-Zionist Conflict, op. cit., pp. 35, 39 e anche Benny Morris, Vittime, op. cit., pp. 36-37. 35 Un emigrazione di massa degli ebrei in un Palestina sotto il protettorato di una potenza europea avrebbe potuto aggravare l’ostilità della autorità turche verso l’impresa sionista e verso lo yishuv (“insediamento”, la comunità ebraica in Palestina prima della fondazione dello Stato di Israele nel maggio 1948), infiammare il (proto) nazionalismo arabo, provocare dei probabili scontri fra le colonie ebraiche e i pellegrini cristiani. 36 In nessun Congresso sionista fu utilizzato il termine “Stato” per indicare il fine ultimo di questo organismo, sebbene Herzl confidò nel suo diario subito dopo la chiusura del congresso: «at Basel I founded the Jewish State. If I said this out loud today, I would be answered by universal laughter. Perhaps in five years, and certainly in fifty, everyone will know it». Citato in Avi Shlaim, The Iron Wall. Israel and the Arab World, W. W. Norton & Company, 2001, p. 3 e cfr. Benny Morris, Vittime, op. cit., p. 36. Solamente nel maggio 1942, il Congresso straordinario sionista americano riunitosi a New York si pronunciò, per la prima volta e in modo ufficiale e pubblico, in favore di uno “Stato ebraico” nell’intera Palestina («Palestine be established as a Jewish Commonwealth», v. oltre). 34 rapporti con Costantinopoli, futura alleata in guerra. All’interno del movimento sionista, erano attive fazioni contrarie ai metodi di Herzl, fra cui spiccava il più numeroso gruppo russo con a capo il chimico Chaim Weizmann, ma non mancava largo appoggio per i suoi tentativi diplomatici. Falliti i tentativi di Costantinopoli e di Berlino, Herzl rivolse le speranze alla Gran Bretagna. Il ministro delle Colonie, Joseph Chamberlain, al ritorno dall’Africa orientale nell’aprile del 1903, propose per la prima volta qualcosa di concreto: il “piano ugandese”, che in realtà si riferiva a una striscia di territorio all’interno dell’odierno Kenya, rifiutando nel contempo di offrire la zona di al‘Arish, situata nella penisola del Sinai e nettamente favorita dai sionisti per la sua vicinanza alla Palestina, vista la risposta negativa al riguardo delle autorità egiziane. Il dibattito accese subito gli animi tra i sionisti: da una parte una «minoranza territoriale» (tra cui Herzl) era a favore della decisione britannica, forse anche accettata come una misura d’emergenza (temporanea) ai nuovi pogrom russi, più gravi di quelli degli anni ’80 del secolo precedente, per permettere agli ebrei di sottrarsi alle violenze; dall’altra vi era una maggioranza, in particolare i russi, che manifestava una chiara e categorica opposizione alla creazione di una patria ebraica in Uganda. Per questi attivisti esisteva solo la Palestina. In effetti, il settimo Congresso sionista riunitosi a Basilea nel luglio 1905, scartava ufficialmente qualsiasi proposta alternativa alla Palestina, e quest’ultima divenne l’obiettivo finale dell’attività sionista. Herzl era morto il 3 luglio 1904, nel pieno delle furiose discussioni sull’offerta di Londra, e non era riuscito nell’impresa di vincolare una grande potenza europea del tempo, tramite un accordo diplomatico, alla creazione delle condizioni adatte per formare un’entità statale ebraica riconosciuta internazionalmente, che avrebbe consentito l’immigrazione senza ostacoli. La valutazione del suo operato deve essere compiuta non solo sulla base dei successi mancati, seppur commessi agli obiettivi centrali del suo sforzo, ma anche in riferimento alle conseguenze positive del suo lavoro di sensibilizzazione della questione ebraica ad alto livello. I frutti si sarebbero visti qualche decennio dopo: Herzl aveva trasformato gli sforzi del sionismo intrapreso da pochi individui in un movimento politico centralmente organizzato, presente in diversi paesi.37 Si è già accennato alla seconda ondata di pogrom nell’impero russo che prese il via a Kišinev, capitale dell’odierna Repubblica della Moldavia durante la Pasqua ebraica (19-20 aprile) del 1903. Persecuzioni sempre più cruente si verificarono nel 1905 sulla scia della guerra russo-giapponese e della rivoluzione, dove il regime zarista abilmente incanalò il malcontento popolare nei confronti della monarchia sugli “stranieri” ebrei. I pogrom del 1903-1906 che si abbatterono sugli ebrei, in primis quello di Kišinev (Chisinau), segnarono un punto di svolta nella mente della vittime: se in precedenza i soprusi subiti venivano accettati in modo passivo, come una fatalità, ora alle violenze si rispondeva con l’azione e l’autodifesa, uno dei pilastri della nuova ideologia portata in Palestina con la seconda ‘aliyah (1904-1914) . Questo nuovo afflusso, composto prevalentemente da ebrei russi, diventò, più ancora della precedente, un’espressione di rivolta contro l’umiliazione e l’impotenza della vita nella Diaspora, e ne fecero le spese, soprattutto negli anni seguenti, gli arabi, considerati i nuovi “gentili”. Nelle parole di Herzl, il sionismo doveva far nascere un «nuovo ebreo» che avrebbe recuperato l’onore e il rispetto e si sarebbe scrollato di dosso la vergogna e il disprezzo che erano stati i marchi della Diaspora. Le nuove caratteristiche sarebbero state la fermezza, la fierezza e anche l’aggressività, e dovevano essere rappresentanti di un «ebraismo muscoloso».38 Dopo la morte di Herzl, il movimento sionista si concentrò nel consolidare gli sforzi della colonizzazione in Palestina, visto il ristagno politico fino alla vigilia della Prima guerra mondiale. Sarà proprio questo cataclisma ad aprire nuove possibilità non solo agli ebrei ma anche agli stessi arabi. 37 Vedi Benny Morris, Vittime, op. cit., p. 40: «Il sionismo sorse circa un quarto di secolo prima del nazionalismo arabo: un vantaggio iniziale in termini di consapevolezza politica e organizzazione che si sarebbe rivelato cruciale per i successi ebraici e gli insuccessi arabi negli scontri dei decenni seguenti». 38 Vedi Benny Morris, Vittime, op. cit., p. 34. 2.2 La gestazione della Dichiarazione Balfour e il suo significato Il terremoto politico al vertice del governo britannico, con l’assunzione della carica di Primo ministro il 7 dicembre 1916 da parte di Lloyd George, simpatizzante per la causa sionista, e di James Balfour come ministro degli Esteri, anch’egli pro-sionista, provocò un cambiamento di strategie sulle future mosse militari alleate in guerra. A differenza del precedente premier, Heberth Asquith, convinto sostenitore di un impegno militare prioritario concentrato sul fronte europeo, il Medio Oriente, con la nuova amministrazione governativa in carica, divenne un’area di tutt’altra importanza. Lloyd George era intenzionato a sfruttare la parte più debole degli imperi centrali, il «ventre molle», per prendere alle spalle l’impero austro-ungarico: la resa della Germania sarebbe stata una questione di tempo. In questo modo, la Palestina assumeva una posizione chiave di enorme rilevanza. Inoltre, l’accordo Sykes-Picot, con la sua spartizione territoriale del Medio Oriente ottomano, era considerato sproporzionato, nel senso che Londra aveva concesso troppi privilegi alla Francia, come il condominio, con la Russia zarista, della Palestina. Il nuovo premier britannico cercava di escludere i francesi dalla Terrasanta.39 Nel 1917, l’anno peggiore della guerra per gli Alleati con le varie rivoluzioni nell’impero russo seguite dalla umiliante sconfitta con l’esercito tedesco e dalla disonorevole imposizione di una pesante pace separata, solidi interessi di guerra e ragioni strategiche, cioè motivazioni analoghe a quelle che Vedi nota 19. La previsione nell’accordo di un’Amministrazione internazionale della Palestina fra Gran Bretagna, Francia e Russia è coerente con le affermazioni della maggior parte dei funzionari governativi di Londra, in quanto questi, a parte qualche voce dissonante contraria, sebbene eminente, ritenevano la Palestina non facente parte del territorio indipendente arabo, oggetto della promessa britannica nella lettera del 24 ottobre 1915, quantomeno perché violava gli interessi francesi nell’area («Great Britain is free to act without detriment to the interest of her ally, France», dalla lettera di McMahon a Husayni del 24 ottobre 1915, vedi sopra). A rigor di logica, entrambi i punti di vista possono essere validi e legittimi: i britannici (e i sionisti) possono rivendicare la continuità e la non contraddizione dell’accordo Sykes-Picot con la corrispondenza di Londra con Husayni, gli arabi possono contestare la rottura della promessa britannica con i contenuti dell’accordo Sykes-Picot. 39 avevano condotto il governo britannico ad assumere un atteggiamento conciliante con gli arabi nel 1915, spinsero Londra a cercare i primi contatti con esponenti del sionismo nel febbraio 1917. Portare l’Organizzazione sionista, sin allora ufficialmente neutrale,40 a schierarsi con gli Alleati, avrebbe prodotto vantaggi notevoli: avrebbe favorito un impegno più incisivo degli Stati Uniti nella lotta agli imperi centrali dato la presenza in America di una numerosa e influente comunità ebraica, ma soprattutto, interesse prettamente britannico, avrebbe dato a Londra la possibilità di districarsi dall’impegno con l’accordo Sykes-Picot. In effetti, una dichiarazione di buone intenzioni in favore degli ebrei, contrastava le rivendicazioni territoriali francesi in Palestina, perché questa veniva in appoggio al sionismo e si candidava a garante dell’autodeterminazione ebraica, legittimando la presenza inglese nella regione mediorientale. Parigi non sarebbe stata in grado di accusare la Gran Bretagna per aver rotto un accordo internazionale (peraltro segreto), con lo scopo di difendere strenuamente i suoi interessi di potenza imperialista. In aggiunta, il presidente americano Wilson sarebbe stato certamente soddisfatto dell’impegno di Londra per far ritornare nell’antica terra biblica della Palestina l’antico popolo ebreo, lasciando da parte le collaudate mire espansionistiche. Così, si promuoveva l’impresa sionista e si rendeva sempre più concreta la visione del recupero per gli ebrei della terra di Palestina, concepita nel nuovo ordine mondiale auspicato da Wilson. Il nuovo movimento politico sionista, strutturato e ben organizzato da Herzl, poteva influire sull’opinione pubblica internazionale, in un anno, il 1917, dominato dal timore che Mosca stesse per concludere una pace separata con la Germania, che gli ebrei dominassero il movimento rivoluzionario russo, ma soprattutto che gli Stati Uniti stessero negoziando una pace separata con l’impero L’Organizzazione sionista era presente in territorio alleato ma anche negli imperi centrali. Infatti, non bisogna dimenticare che molti ebrei erano o provenivano dalla Germania, Austria, Ungheria o Romania, e che diversi ambienti internazionali ebraici osteggiavano la Russia per il suo antisemitismo. C’era il potenziale rischio che Berlino battesse sul tempo la Gran Bretagna nell’accaparrarsi la simpatia dei sionisti con una dichiarazione in loro favore. 40 ottomano.41 D’altra parte, quando ancora gli Stati Uniti non erano ufficialmente entrati in guerra a fianco degli alleati,42 alcune personalità di origine ebraica dell’Amministrazione di Washington vicine al Presidente (consiglieri, assistenti, funzionari burocratici) erano apertamente schierate a favore del sionismo e possedevano un significativo potere di influenza sulle scelte politiche governative. In poche parole, l’opinione pubblica in questi due paesi chiave avrebbe giocato un ruolo decisivo sugli sviluppi futuri della guerra, e l’ascendente ebraico era un elemento da non sottovalutare. Così come al-Faruqi fu un elemento chiave per far cambiare agli inglesi atteggiamento nei confronti degli arabi nell’ottobre del 1915, Ronald Graham, capo del Dipartimento orientale del ministero degli Esteri inglese, mise in guardia la dirigenza del paese che i sionisti potevano essere attirati da una dichiarazione di simpatia tedesca se il governo di Londra non avesse preso provvedimento adeguati e celeri. Oltre a motivi prettamente militari, associati a progetti imperiali di lungo termine, furono determinanti forti ragioni interne. La fuga nell’occidente europeo degli ebrei russi dal regime zarista nel 1904-1905, a seguito dell’intensificazione della politica di discriminazione e di russificazione, provocò tensioni sociali e persino reazioni anti-semitiche nella libera e progredita Inghilterra. Molti erano dell’idea che, dando la concreta possibilità ai sionisti di guardare verso un focolare ebraico ben determinato, si sarebbero potuti evitare, o attenuare, molti problemi della società britannica, sempre tenendo conto anche dell’impatto religioso di un progetto per restaurare gli ebrei nella loro antica terra, la Palestina. Nel maggio 1917, ci fu una spaccatura politica fra i sionisti, aumentati di numero grazie alle decine di migliaia di immigrati russi, e la comunità ebraica britannica, formata essenzialmente da È molto interessante, per quest’ultimo aspetto, vedere Peter Grose, Israel in the Mind of America, New York, Alfred A. Knopf, 1983, pp. 60-62. Una pace separata fra gli Stati Uniti e Costantinopoli andava contro gli interessi e i disegni imperiali della Gran Bretagna sui territori mediorientali, così come minacciava le aspirazioni di liberazione dal giogo ottomano dei diversi gruppi nazionali, arabi, ebrei e armeni. 42 Lo faranno il 6 aprile 1917, dichiarando guerra alla sola Germania a seguito di quest’ultima di rinunciare alla guerra sottomarina illimitata, e cercando di arrivare a un pace separata con l’impero turco. 41 politici e personalità di grande spicco. Questi ultimi manifestavano la loro opposizione a ogni teoria che indicava gli ebrei come una nazionalità senza casa, avendo timore che un appoggio da parte del governo britannico alla creazione di un’entità nazionale ebraica in Palestina, avrebbe minato la condizione degli ebrei inglesi, i quali si sarebbero potuti sentire definitivamente marchiati come stranieri nelle loro terra nativa.43 Il contrasto degli ebrei non-sionisti fu di cruciale influenza sia sulle pretese dei sionisti inglesi sia sulla stesura della famosa risoluzione di Londra, sulla quale il consenso in generale era stato raggiunto. Il 18 luglio 1917, i sionisti, dopo un lungo dibattito interno, avevano ottenuto l’accordo nel sottoporre al governo il disegno di una richiesta modificata, nella quale si chiedeva il riconoscimento della (intera) Palestina come «the National Home of the Jews people and the right of the Jews people to build up its National life in Palestine under a protection».44 Certo è, che si può dedurre la forte incidenza della comunità sionista in Inghilterra, e in generale del sionismo internazionale come movimento politico organizzato e ben strutturato, dove questa si era spinta persino a suggerire i termini della dichiarazione al governo britannico. Alla fine, Londra adottò il progetto finale della dichiarazione il 31 ottobre, un testo di compromesso messo a punto da due sionisti, l’inglese Lord Milner e l’americano Leo Amery, passata al vaglio del ministro degli Esteri Balfour, che cercava di contemperare i desideri delle varie parti in gioco: si tentò di evitare, per quanto possibile, un’opposizione araba che sarebbe stata apertamente abbastanza dura, si concedeva una garanzia agli ebrei non-sionisti inglesi, si limitavano, con un gioco L’unica personalità politica all’interno del gabinetto britannico, capace di contrastare le richieste dei sionisti, fu l’ebreo Edwin Montagu, Segretario di Stato per l’India, il quale si chiedeva, in modo colorito, come avrebbe potuto rappresentare l’opinione del governo britannico nella sua imminente visita in India se lo stesso governo avesse dichiarato che il suo focolare nazionale era in un territorio turco. Vedi Michael J. Cohen, The Origins and Evolution of the Arab-Zionist Conflict, op. cit., p. 52. 44 L’originale domanda della comunità sionista inglese era a favore della ricostituzione della Palestina in uno Stato ebraico, un’espressione molto più diretta. Per il testo della formula sionista ufficiale del 18 luglio 1917 vedi Michael J. Cohen, The Origins and Evolution of the Arab-Zionist Conflict, op. cit., p. 143. 43 di parole e lasciando inalterato la sostanza delle affermazioni, gli obiettivi della comunità ebraica sionista in Palestina.45 Il seguente testo in inglese della Dichiarazione Balfour, indirizzato sotto la forma di una lettera al leader della Federazione sionista britannica Lord Lionel Walter Rothschild, viene riportato in forma integrale, per facilitare una migliore comprensione e analisi dei termini impiegati: «November 2nd, 1917 Dear Lord Rothschild, I have much pleasure in conveying to you on behalf of his Majesty’s Government, the following declaration of sympathy with Jewish Zionist aspiration which has been submitted to, and approved by, the Cabinet. “His Majesty’s Government view with favor the establishment in Palestine of a national home for the Jewish people, and will use their best endeavours to facilitate the achievement of this object, it being clearly understood that nothing shall be done which may prejudice the civil and religious rights of existing non-Jewish communities in Palestine, or the rights and political status enjoyed by the Jews in any other country.” I should be grateful if you would bring this declaration to knowledge of the Zionist Federation. Yours sincerely, Arthur James Balfour». La prima fondamentale modifica rispetto alla richiesta ufficiale della comunità ebraica inglese avanzata nel luglio precedente, dove era espressamente indicato il riconoscimento britannico della «Palestine as the national home of the Jewish people», riguarda l’inserimento della preposizione in che indica come solo una parte, peraltro non definita e soggetta ai futuri fattori politici e militari della regione, sarà oggetto dell’istituzione del focolare nazionale («national home») ebraico. Per quest’ultima espressione chiave rimane invariata la dizione, un eufemismo palese per «Commonwealth» o «State». «It was written by those to whom it was addressed» in http://www.russgranata.com/fraud.html, The Fraud of Zionism – Part I, dove vengono espresse ulteriori critiche sulla Dichiarazione Balfour. In aggiunta, la formulazione del linguaggio del Mandato britannico sulla Palestina, con cui si riconosce la legittimità internazionale della Dichiarazione, è del sionista e professore di giurisprudenza all’università di Harvard Felix Frankfurter. 45 Continuando con l’analisi letterale della Dichiarazione, si nota che gli impegni e le facilitazioni nel raggiungere gli obiettivi del sionismo da parte del governo di Londra sono condizionati al rispetto dei diritti civili e religiosi della popolazione indigena, non del tutto chiari. È stato sottolineato il fatto che la presenza araba in Palestina, inclusi gli ebrei palestinesi, venga ignorata nella Dichiarazione, usando in modo sprezzante il termine più generico di comunità non-ebraiche, e non vengono presi in esame i diritti politici di queste.46 L’ultima disposizione salvaguarda i diritti di tutti gli ebrei sparsi nel mondo, ed è chiaramente una concessione alle pressioni degli ebrei non-sionisti inglesi, come Edwin Montagu.47 Indubbiamente, la Dichiarazione di Balfour rappresenta un punto di svolta di grandissima rilevanza sia nella lunga storia del popolo ebreo sia, conseguentemente, nel futuro della Palestina. Questo scarno comunicato di poche righe, visto come «il più importante riconoscimento internazionale del sionismo», «la più importante presa di posizione internazionale»48 in favore degli ebrei, evidenzia come per la prima volta questi siano passati dalla condizione di minoranza oppressa, oggetto di discriminazione e di bruta violenza, a quella di un popolo soggetto di diritti di stabilimento in Palestina, sotto la tutela della maggior potenza coloniale di allora: la Gran Bretagna. L’obiettivo ultimo di Herzl, come detto precedentemente, era uno Stato ebraico riconosciuto internazionalmente dalle grandi potenze europee, essendo contrario alla colonizzazione strisciante della Palestina delle prime comunità di immigrati ebrei, che non avevano una precisa strategia. Nel suo libro egli considera questa immigrazione senza un fine politico «unless we have the sovereign right to continue such immigration», e si può ritenere che questo diritto venne rappresentato dalla 46 Il testo della Dichiarazione Balfour è stato a lungo studiato, preparato ed esaminato attentamente da sionisti americani e inglesi, prima di essere ratificato dal governo britannico il 31 ottobre ed emesso a nome del ministro degli Esteri della Corona, Arthur Balfour. Di conseguenza, l’esito di questo lavoro rispecchia la volontà dei suoi curatori e niente è lasciato al caso nel testo: ogni frase o parola vaga si riflette in un’intenzionale indeterminatezza. Vedi http://www.russgranata.com/fraud.html. 47 Vedi nota 43. 48 Cfr. Benny Morris, Vittime, op. cit., pp. 99, 101. Dichiarazione Balfour, nel momento in cui essa fu approvata e ratificata dalla Conferenza di pace di Parigi, che la incluse nel Mandato britannico sulla Palestina.49 La Grande Guerra era riuscita a concedere ai sionisti questa preziosissima dichiarazione sulla quale basare le successive ondate di immigrazioni, intervallate dalle sempre più frequenti agitazioni e rivolte arabe, dato che era ancora prematuro parlare di uno Stato ebraico e solo con la Seconda guerra mondiale essi sarebbero riusciti a realizzare, grazie anche a delle condizioni particolari come l’Olocausto, l’antica aspirazione di formare uno Stato ebraico nella “loro” antica terra. Il governo britannico, con all’interno ebrei o comunque simpatizzanti della causa sionista, tra i quali Lloyd George, Arthur Balfour e Herbert Samuel, aveva dato ai sionisti di tutto il mondo una grande e unica occasione che verrà sfruttata a dovere, contenendo, e alla fine sconfiggendo, l’opposizione araba. Ma con la Dichiarazione Balfour vennero gettati anche i semi di un conflitto tra i più difficili e complessi da risolvere, e che si protrae quotidianamente nei giorni nostri. Londra credeva, o sperava, che gli impegni assunti con la Dichiarazione di Balfour sia con gli ebrei (sostegno all’istituzione del focolare domestico), sia verso gli arabi autoctoni (difesa dei diritti civili e religiosi) fossero compatibili. A parere di chi scrive, gli impegni erano inconciliabili e già si poteva presupporre che un immigrazione continua sotto l’egida inglese, associata all’acquisto di terre, avrebbe portato a una situazione insostenibile e a un inevitabile scontro fra le due comunità. Uno Stato ebraico sarebbe potuto sorgere solo quando la popolazione ebraica fosse diventata numericamente superiore a quella araba, o addirittura prossima all’equilibrio. Nei due censimenti effettuati dai britannici nel 1922 e nel 1931, notiamo che la percentuale della popolazione ebraica affluita grazie alla Dichiarazione Balfour era 49 Vedi nota 34. passata dall’11,4% al 16,9%, e quella araba dal 78,3% al 73,5%; nel 1942 saranno rispettivamente 29,9% e 61,4% prima dell’arrivo dei sopravvissuti alla carneficina nazista.50 La Dichiarazione Balfour non solo è ambigua ma anche inevitabilmente vaga, non essendo specificato quale parte della Palestina (e i suoi confini) sarà riservata al “focolare nazionale” ebraico, o menzionato quale struttura sarà creata allo scopo di “facilitare” lo sviluppo e il progresso dei diritti della comunità ebraica.51 Evidentemente, si trattava di una dichiarazione programmatica o di intenti, e il suo unico ma fondamentale significato fu quello di aprire la Palestina alle nuove possibilità sioniste, trasformando lo status internazionale degli ebrei da stranieri del mondo in una comunità, ufficialmente riconosciuta, a cui venivano concessi per la prima volta certi diritti. 2.3 La Dichiarazione Balfour e la promessa di McMahon: un parallelo Entrambi i documenti furono emessi sotto la responsabilità del governo britannico e per reali interessi di guerra.52 L’intento era quello di mobilitare e guadagnare il sostegno di due quasi insignificanti alleati, ma preziosi nel contesto dell’evolversi del conflitto, in particolare modo le simpatie del movimento sionista, sparso in tutto il mondo, organizzato e influente. Nella Dichiarazione Balfour, il testo si focalizza sulla Palestina, sebbene in una indeterminata parte di essa; nella lettera di McMahon si fa riferimento a una promessa di “indipendenza” di un molto più indefinito territorio abitato principalmente da popolazioni arabe, con la disputa nel far rientrare o no il territorio della Palestina. Naturalmente, dopo essersi impegnata nella dichiarazione di simpatia verso gli ebrei, Londra era assai riluttante ad ammettere l’incompatibilità con la promessa araba, avvalorando, perciò, la sua insistenza sull’esclusione della Palestina. 50 Vedi http://www.unu.edu/unupress/unuobooks/80859e/80859E05.htm, oppure su http://domino.un.org/UNISPAL.N…/a682cabf739febaa052565e8006d907c!OpenDocument. 51 Vedi nota 45 o 46. 52 «On behalf of his Majesty’s Government» nella Dichiarazione Balfour, «in the name of the Government of Great Britain» nella lettera di McMahon a Husayni. Una differenza chiave fra i due documenti era che la corrispondenza McMahon-Husayni rimase segreta, non tanto per la paura britannica di rivelare il coinvolgimento con gli arabi, quanto per una prevedibile reazione negativa della popolazione musulmana dell’India viste le probabili rivendicazioni sul califfato qualora l’impero ottomano fosse uscito sconfitto dalla guerra.53 Al contrario, la Dichiarazione Balfour venne immediatamente largamente pubblicizzata, essendo ciò funzionale innanzitutto per mobilitare il sostegno ebraico internazionale a fianco degli alleati, ma anche per mettere al corrente le intenzioni del governo inglese del futuro della Palestina significativamente a Stati Uniti, Francia e Russia. Non fu divulgata solamente in Palestina, fino a dopo la conferenza di San Remo, dove l’amministrazione militare britannica aveva il timore che avrebbe potuto provocare dei disordini da parte degli arabi. Infine, mentre la promessa araba di McMahon non si è concretizzata in un accordo vincolante, pur rimanendo sempre un impegno generico del governo inglese preso durante lo sviluppo (svolgimento) della guerra, la Dichiarazione Balfour fu un atto unilaterale di intenti da parte del governo londinese, al quale venne seguita alla Conferenza di San Remo del 24 luglio 1920 la decisione di incorporarla nel testo del mandato britannico sulla Palestina, ratificato del Società delle Nazioni il 24 luglio 1922. In sostanza, si trattava ed era diventata la Dichiarazione, un obbligo internazionale sotto la salvaguardia della Società delle Nazioni, e ci si poteva appellare ogni qual volta si violavano i termini di attuazione. Tra i due impegni, incompatibili a mio avviso, ha prevalso quello in favore dei sionisti nel lungo termine, guidati a Parigi nel 1919 da Chaim Weizmann, il quale era riuscito persino a far inserire nel preambolo del mandato il riconoscimento dei diritti storici degli ebrei in Palestina.54 53 La Gran Bretagna pubblicò i testi della corrispondenza solo nel 1939 sotto insistente richiesta degli arabi, presenti a Londra alla conferenza sulla Palestina per sostituire il Libro bianco del 1922. 54 «Whereas recognition has thereby been given to the historical connexion of the Jewish people with Palestine and to the grounds for reconstituting their national home in that country». Resta il fatto che la Gran Bretagna aveva tradito l’alleato in guerra arabo, benché il suo contributo fosse poi marginale nel conflitto, non rispettando le legittime aspirazioni di un popolo e perpetuando il sistema coloniale delle potenze europee vincitrici sotto le sembianze del nuovo istituto del mandato internazionale, anche se bisogna ricordare l’anticipazione di certi principi della decolonizzazione là dove vengono affermate le priorità dei diritti dei popoli soggetti al mandato. 3 Il rapporto della Commissione King-Crane55 La commissione King-Crane presentò delle considerazioni molto interessanti per quanto riguarda la natura e la portata dei fatti al momento del crollo, ormai consumato nel 1919, dell’impero ottomano, e delle decisioni in merito alla Conferenza di Pace a Parigi fra i “quattro grandi”. Pochissimi autori dedicano un’analisi esauriente al documento, ed è per questo motivo se ne approfondisce lo studio. L’istituzione della Commissione, con poteri solo consultivi, nasce dalla proposta del presidente statunitense Woodrow Wilson nell’ambito della Conferenza parigina sulla pace nel marzo 1919, con il fine di testimoniare direttamente la situazione sul campo e di portare le richieste e i desideri delle popolazioni locali in relazione al futuro politico della regione. Il tutto è permeato dal principio di autodeterminazione (n° 5) proclamato da Wilson davanti al Congresso americano l’8 gennaio 1918, dove furono elencati i famosi “14 punti”, vale a dire una struttura generale sulla quale fissare il nuovo Per il testo del Mandato vedi The Israel-Arab Reader, op. cit. pp. 30-36, oppure su www.lib.byu.edu/rdh/wwi/1918p/sanremo.html. Cfr. anche Giampaolo Calchi Novati, La decolonizzazione, Torino, Loesher, 1983, p. 108. 55 Per il testo integrale vedi http://www.cc.ukans.edu/~kansite/ww_one/docs/kncr.htm, The King-Crane Commission Report, August 28, 1919. ordine internazionale e la futura pace, discostandosi nettamente dalla tradizionale politica di potenza europea.56 Gran Bretagna, Francia e Italia accettarono l’idea americana in linea di principio, un’antica e preziosa frase della (vecchia) diplomazia, che in questo caso si tramutò in un’opposizione all’atto pratico; soprattutto Parigi era fermamente contraria a questo strumento atto ad accertare le vere condizioni in questi territori.57 Di conseguenza, soltanto il governo di Washington nominò i suoi rappresentanti, che nel giugno arrivarono a Giaffa, in Palestina, per iniziare il lavoro di raccolta delle informazioni dalle varie realtà locali, con il fine di presentare ai lavori di Parigi un rapporto sulla Siria.58 L’accoglimento della delegazione americana in Medio Oriente, nella quattro zone in cui, dopo la guerra, il territorio della Siria era stato diviso, 59 è stato molto caloroso da parte della popolazione locale, e un motivo molto significativo è dato dal fatto che gli Stati Uniti erano rappresentati universalmente come una grande potenza che non avrebbe mai cercato ingrandimenti territoriali, testimoniato soprattutto dall’entrata in guerra senza mire imperialistiche e con la carica ideale di Per il testo del discorso dei “14 punti” vedi Giampaolo Calchi Novati, La decolonizzazione, op. cit., pp. 48-49, oppure sul sito http://www.seas.edu/nsarchive/coldwar/documents/episode-1/14_points.htm. In sostanza, le raccomandazioni contenute in questo documento programmatico, se risvegliarono l’attenzione dei popoli colonizzati, furono intese però come applicabili solo ai paesi europei. 57 Quasi certamente, la riluttanza a collaborare con le altre potenze vincitrici per concretizzare l’iniziativa di Wilson, è dovuta al fatto che la Francia era consapevole della forte avversione degli arabi in Siria e in Libano in un suo impegno come potenza mandataria. Vedi nota 65 più avanti. 58 Qui il nome di Siria indica il distretto amministrativo (vilayet) retta da un governatore (wali) residente a Damasco, che comprendeva la provincia di Beirut, con all’interno lo speciale sangiaccato del Libano, la provincia di Aleppo e lo speciale sangiaccato di Gerusalemme, il quale capo, dal 1887, dipendeva, più che da Damasco, direttamente da Costantinopoli. In termini attuali, si può dire che la Siria ottomana equivale grossomodo alla Siria contemporanea, alla Giordania, al Libano, a Israele, inclusi i “territori occupati”, oltre ad alcune aree dell’odierna Turchia meridionale (la Grande Siria). Inoltre cfr. Benny Morris, Vittime, op. cit., pp. 17-18 e Bernard Lewis, Le molte identità del Medio Oriente, op. cit., p. 77. Per approfondimenti sulla disputa circa l’interpretazione della lettera chiave di McMahon a Husayni del 24 ottobre 1915 (la promessa britannica) vedi Michael J. Cohen, The Origins and Evolution of the Arab-Zionist Conflict, op. cit., pp. 19, 20, 22. Bisogna ricordare che, oltre al territorio mediorientale dell’ex impero ottomano a cui si concentra esclusivamente lo studio, la commissione King-Crane ha lavorato anche su quelle regioni ottomane di lingua non araba, ossia la Turchia in senso stretto e l’Armenia. 59 L’OETA (Occupied Enemy Territory Administrations) meridionale sotto l’Amministrazione militare britannica (Gaza, Hebron, Betlemme, Giaffa, Nazareth, Gerusalemme, Nablus, Ramallah, Tel Aviv, Haifa, sono le città più importanti), l’OETA orientale sotto l’Amministrazione militare araba (Aleppo, Amman, Damasco, Hama, Homs), l’OETA occidentale sotto l’Amministrazione militare francese (Alessandretta [Antiochia o oggi Antakia], Beirut, Tebe, Sidone, Tiro, Tripoli), l’OETA settentrionale sotto l’Amministrazione sempre francese (Adana, Mersina, Tarso). 56 Wilson, i quali principi stavano a cuore ai popoli colonizzati, sfruttati e oppressi dalle potenze europei.60 Tutto ciò ha favorito indubbiamente la sincerità delle opinioni espresse e la buona riuscita del compito della commissione americana. Questo consisteva nel ricevere, nelle varie città e villaggi in cui la Commissione faceva tappa, gruppi politici, religiosi, economici e sociali, ma anche individui, autorità, e ottenere ogni petizione, richiesta, rimostranza, in modo da metterla nelle migliori condizioni per avanzare alla Conferenza di pace le precise volontà della maggioranza delle popolazione. Ovviamente il rapporto menziona le interferenze, soprattutto da parte delle Amministrazioni delle quattro zone, durante lo svolgimento del lavoro, ma anche pressioni e influenze esercitate dalla propaganda «which was entirely legitimate as well as natural and inevitable».61 La relazione della Commissione americana include, nella forma di un testo integrale, le richieste del primo Congresso arabo siriano riunitosi a Damasco significativamente il 2 luglio 1919, proprio mentre la delegazione si era fermata nella città per raccogliere le testimonianze.62 Ovviamente l’importanza di questo documento è elevata se si pensa che rappresenta la volontà della maggioranza della popolazione, araba (musulmana e cristiana), ma anche rappresentanti cristiani erano presenti e mancavano solo gli ebrei. Questo primo congresso richiedeva senza mezzi termini: la piena e assoluta indipendenza politica della Siria (la Grande Siria); una monarchia costituzionale sotto la guida dell’emiro Faisal, con In verità, gli Stati Uniti, con la guerra ispano-americana del 1898, guadagnarono Cuba, che subì un’incisiva egemonia statunitense fino all’instaurazione del regime rivoluzionario di Castro, con la deposizione dell’ultimo dittatore appoggiato da Washington, Fulgencio y Zaldivar Batista, nel gennaio 1959, e le Filippine, che furono sottoposte al regime coloniale fino all’indipendenza, dopo la Seconda guerra mondiale, il 12 giugno 1946. 61 Nella regione sottoposta al regime dell’Amministrazione militare britannica, la Palestina occidentale, i funzionari si comportavano come se il loro controllo dovesse rimanere in modo permanente, ad esempio costruivano strade, ferrovie, porti, e progettavano la crescita della città. D’altra parte, alcuni manifestavano il desiderio che fossero stati gli Stati Uniti a portare l’onere del mandato, concesso dalla nascente Società delle Nazioni. Si era coscienti che se la Francia non avesse rinunciato alla Siria come territorio sotto il suo mandato, questa avrebbe dovuto usare le maniere forti per ottenere il controllo, con il rischio abbastanza probabile di un'altra guerra e un altro bagno di sangue. Cfr. Confidential Appendix in http://raven.cc.ukans.edu/~kansite/ww_one/docs/postkc.htm. 62 Il testo della Risoluzione del primo Congresso arabo siriano, benché non integrale (mancano il quinto e il sesto punto del programma), è anche su Giampaolo Calchi Novati, La decolonizzazione, op. cit., pp. 51-52. 60 un ampio decentramento dei poteri e delle garanzie per i diritti delle minoranze (cristiani ed ebrei); la dura opposizione contro l’articolo 22 della Società delle Nazioni, base giuridica per costituire il regime dei mandati internazionali, insistendo sull’eguale trattamento con le altre nazionalità europee nate dal crollo dell’impero Austro-Ungarico (bulgari, serbi, greci, romeni), vale a dire la diretta concessione dell’indipendenza;63 l’assistenza tecnica ed economica da parte di una potenza esterna, gli Stati Uniti, per un massimo di venti anni, con, nell’eventualità che l’America non fosse in grado, per qualsiasi motivo, di accettare questa responsabilità, la possibilità di rivolgersi alla Gran Bretagna come seconda scelta, a condizione di non mettere a repentaglio la completa indipendenza e unità del paese; 64 la dura e netta intransigenza contro ogni diritto della Francia sul territorio siriano;65 la ferma opposizione contro le pretese del sionismo internazionale di creare uno Stato ebraico nella parte meridionale della Siria, la Palestina, contro l’immigrazione ebraica diretta nei territori arabi, considerata un grave pericolo per il popolo arabo e musulmano;66 la completa indipendenza della Mesopotamia (l’Iraq); la non separazione di nessuna parte o frazione del territorio della Siria, ossia la Palestina, il Libano, la zona litorale occidentale; infine, non ultimo per importanza, la protesta nei confronti di trattati, e il loro scontato annullamento, che avessero come oggetto la spartizione del paese siriano a vantaggio di altre potenze,67 e contro ogni impegno privato finalizzato alla creazione di uno Stato ebraico in Palestina. 63 Valgono le stesse considerazioni della nota 56. Questo punto del Programma è il quinto, ed è stato approvato da una larga maggioranza di delegati, mentre tutti gli altri punti ebbero il consenso unanime dei rappresentati, come viene riportato esplicitamente. 65 L’estrema avversione che gli arabi provavano nei confronti della Francia era dovuta a diversi elementi. La prima e maggiore accusa era diretta alla politica di colonizzazione, attuata in quasi tutti i suoi possedimenti nell’Africa subsahariana e settentrionale, nel sudest asiatico e in America centrale. A differenze degli inglesi che adottarono per le loro colonie l’indirect rule (governo indiretto), utilizzando le strutture di potere preesistenti, un metodo per controllare i sovrani o l’autorità tradizionale lasciando il più difficile compito di mantenere l’ordine tra la massa della popolazione (cooperazione con i sovrani locali), e promuovendo consigli legislativi locali che aiutassero a elaborare leggi locali adatte, Parigi scelse un sistema di governo centralizzato e autoritario con una capillare struttura di controllo, in cui l’obiettivo ultimo era l’assimilazione alla cultura e alla civiltà francese, e di questo, come è facile immaginarlo, gli arabi avevano una grande paura. Altro motivo del risentimento arabo fu l’intensa propaganda a favore di un “Grande Libano”, da Tripoli a Tiro, separato e indipendente dalla Siria sotto mandato francese, e il trattamento nettamente preferenziale verso i cristiani e i cattolici a discapito dei musulmani e altre sette. 66 Gli ebrei dovevano godere degli stessi diritti e avere le stesse responsabilità di ogni altro cittadino, all’interno di uno Stato arabo, secondo le regole della maggioranza (araba). 67 L’affermazione è chiaramente riconducibile al trattato segreto “Sykes-Picot”, con il quale la Siria diventava bottino di guerra da dividere fra la Gran Bretagna e la Francia, secondo dei confini ben stabiliti. 64 Questa richiesta si basa sulla condanna esplicita dei trattati segreti, come pratica usuale della vecchia diplomazia europea, presentata dal presidente americano Wilson come il primo dei suoi 14 punti, anche se non viene trattata la natura, segreta appunto, della corrispondenza con la quale l’Alto Commissario per l’Egitto Henry McMahon promise a Husayni, vagamente, la costituzione di uno Stato arabo indipendente dopo la Prima guerra mondiale.68 La risoluzione del Congresso siriano cita spesse volte il presidente americano, i suoi principi a favore dei popoli colonizzati, mettendo in evidenza i fatti, le aspirazioni delle popolazioni interessati, perseguendo la volontà e il «consenso dei governati», piuttosto che seguire gli intrighi diplomatici. Wilson ha incarnato per il Medio Oriente la voglia di riscatto dopo secoli di decadenza sotto il dominio turco.69 Tenendo presente le eterogenee volontà delle popolazioni interessate, e dopo la fine del lavoro che ha impegnato la delegazione americana dal 10 giugno fino al 21 luglio, le raccomandazioni espresse rispecchiano fedelmente il principio della maggioranza. Anzitutto è messo in chiaro, dopo aver insistito sulla necessità di una potenza che si assuma la responsabilità di avviare alla futura indipendenza il paese in questione, sotto l’egida della Società delle Nazioni, il fine precipuo di agire nell’interesse esclusivo delle popolazioni locali, garantendo la prosperità e lo sviluppo economico, 68 «Pubblici trattati di pace, pubblicamente conclusi, dopo i quali non vi saranno più accordi internazionali segreti di alcun genere, ma la diplomazia procederà sempre francamente e alla vista di tutti» pronunciò Wilson. Un dura accusa verso l’uso della diplomazia segreta, fonte di sfiducia, corruzione e conflitti, si trova nell’introduzione alla relazione della Commissione sul sito http://raven.cc.ukans.edu/~kansite/ww_one/docs/prekc.htm. 69 Cfr. Confidential Appendix in http://raven.cc.ukans.edu/~kansite/ww_one/docs/postkc.htm. Le ragioni per le quali la quasi totalità della popolazione musulmana della Siria (4/5 del totale) avanzò la richiesta di sostenere gli Stati Uniti come potenza mandataria, quantunque per assistere in campi economici e tecnici, erano le seguenti: la profonda fiducia in Wilson; la convinzione che l’America non fosse entrata in guerra per motivi egoistici e con secondi fini; gli Stati Uniti non erano una potenza coloniale di vecchio stampo, e cercano il benessere della persone e non lo sfruttamento del Paese, anche se ci sono, come ho già richiamato, gli esempi di Cuba e delle Filippine da tenere presente; la ricchezza del continente capace di sostenere e di fornire mezzi adatti a un rapido sviluppo economico del paese arabo, fonte principale per la stabilità e l’avanzamento politico della società, con l’obiettivo ultimo di ottenere l’indipendenza piena e reale nel più breve tempo possibile; l’opportunità di estendere il modello di istruzione americano a discapito di quello britannico e, soprattutto, francese; il giudizio che il Paese statunitense sarebbe stato imparziale e giusto nei rapporti fra le differenti sette della regione, mentre i francesi avrebbero favorito i cristiani, in special modo la Chiesa cattolica romana e gli inglesi gli arabi. Perfino molti funzionari britannici, fra i quali rientrava il generale Allenby, consideravano come migliore soluzione quella di affidare il mandato sull’intera Siria a Washington, con la rinuncia di Londra e Francia di tutte le rivendicazioni territoriali, evitando nel contempo i dissidi e i contrasti fra le due potenze europee. Per le divergenze fra il potere politico in Gran Bretagna, che appoggiava una linea di continuità verso la Dichiarazione Balfour, e la il potere dell’Amministrazione militare in Palestina, l’OETA, che seguiva una politica distensiva verso gli arabi, cfr. Benny Morris, Vittime, op. cit., pp. 117, 118, 124, 128, 129. sociale, politico, culturale, rifiutando i vecchi sistemi delle Amministrazioni coloniali che erano finalizzate all’esclusivo sfruttamento del paese sottomesso. La seconda raccomandazione riguarda l’unità della Siria, manifestata con la più larga percentuale delle petizioni (80,4%), allontanando la divisione del paese di parti come la Palestina o il Libano, avvalorato dal fatto che anche il Programma di Damasco afferma, al punto due, la volontà di aderire a un ampio principio di decentramento del nuovo Stato siriano, garantendo i diritti alle minoranze (religiose, etniche).70 Per quanto riguarda la potenza mandataria da designare, il suggerimento della commissione King-Crane è di designare un solo Stato, che presenti i requisiti necessari; d’altronde viene di conseguenza il consiglio per una Siria unita. La scelta scontata cadde sugli Stati Uniti, che avevano avuto più del 60% delle richieste per la prima scelta come Stato mandatario (3,05% per il mandato e 57% per l’assistenza).71 Come seconda scelta, la Commissione propose la Gran Bretagna, con grande esperienza nei rapporti con popoli meno sviluppati e dotata di grandi risorse (punto quinto del Congresso di Damasco). Anche attraverso i risultati dei sondaggi eseguiti, la scelta per «un’assistenza» britannica, nell’eventualità che la Conferenza parigina non concedesse a Washington il mandato, ottenne il 55,3% delle petizioni presentate alla Commissione. Viceversa, il 60,5% si espresse energicamente contro un mandato francese nei territori arabi. L’ultima presa di posizione del Rapporto riguarda la scelta dell’Emiro Faisal come Re dell’intera Siria (59%), all’interno di una struttura monarchica costituzionale (59,3%), adatta al popolo arabo per il loro tradizionale rispetto verso i capi, non vedendo migliore personalità adatta a rappresentare simbolicamente la forza del nuovo Stato. Figlio dello Sceriffo della Mecca Husayni, condusse la rivolta Già il Libano disponeva di un certa autonomia all’interno dell’impero ottomano. La maggioranza della popolazione si è espressa per «l’assistenza» di una potenza esterna perché l’aspirazione prioritaria era per la completa indipendenza («absolute independence»), che ricevette la seconda percentuale più alta delle petizioni: il 73,5%. Secondo punto cardine del programma di Damasco, dopo quello per l’unità della Siria, fu sostenuto genericamente da tutte le delegazioni musulmane. 70 71 araba contro gli imperi centrali ed entrò per primo trionfante a Damasco il 3 ottobre 1918, sotto esplicito ordine del Generale Allenby, «per evitare che l’occupazione “cristiana” adirasse la popolazione musulmana».72 3.1 La disputa sul sionismo Nell’affrontare l’acuto problema del sionismo, la relazione americana è chiara, sia per le premesse sia per le soluzioni che propose, come, d’altronde, è chiara la volontà della gente locale. L’opposizione al programma sionista, ovvero l’appoggio a una politica coerente con i diritti e i fini della Dichiarazione Balfour, raccolse il 72,3% delle richieste, la terza più alta percentuale dopo quelle in favore dell’unità della Siria e della sua completa indipendenza. 73 Addirittura, gli anti-sionisti arabi erano particolarmente forti in Palestina, sotto il controllo britannico, dove arrivarono all’85,3%.74 Non condivido affatto il giudizio che Morris dà della Commissione americana in relazione al sionismo, in quelle poche righe dedicate al compito svolto da questa.75 Avendo esaminato a lungo il documento, mi sento nella condizione di affermare che, nell’affrontare la complessa questione, i membri della Commissione siano stati guidati dall’equilibrio, dall’oggettività e soprattutto dalle condizioni reali che hanno trovato durante il loro lavoro. I fatti sono quelli che ho poc’anzi citato e la raccomandazione, nelle stesse parole del rapporto e con una incisiva e straordinaria preveggenza, si concentra su una «serious modification of the extreme Zionist program for Palestine of unlimited immigration of Jews, looking finally to making distinctly a Jewish State». Cfr. Benny Morris, Vittime, op. cit., p. 104. Per un’altra ragione dell’ordine britannico di lasciare entrare per primo a Damasco l’esercito arabo sotto la guida di Faisal, vedi Michael J. Cohen, The Origins and Evolution of the Arab-Zionist Conflict, op. cit., p. 27, dove questa mossa tattica è stata vista come un sostegno di Londra ai diritti e alle rivendicazioni arabe contro la Francia «by maintaining that the Arabs had indeed fulfilled their part of the agreement and earned the area of the four towns [Damasco, Homs, Hama e Aleppo] by conquest». 73 In sostanza, il programma sionista era a favore della costituzione di un focolare nazionale in Palestina («national home», in poche parole uno Stato ebraico nel prossimo futuro) e di un’estensiva immigrazione ebraica nel territorio, con la possibilità di acquistare terreni senza limitazioni, sotto la tutela di un mandato britannico in una separata Palestina; richiesta ovvia e scontata. 74 I punti sette, otto e dieci del Programma di Damasco manifestano chiaramente il fermo rifiuto ai propositi del sionismo. 75 Cfr. Benny Morris, Vittime, op. cit., p. 121: «si espressero [i membri della Commissione] in modo sprezzante sul movimento nazionalista ebraico». 72 Senza perifrasi, viene affermato che creare le condizioni adatte per istituire uno Stato ebraico (gradualmente) in Palestina minerebbe e abuserebbe dei diritti delle popolazioni locali visto che «the Zionist looked forward to a practically complete dispossession of the present non-Jewish inhabitants of Palestine, by various forms of purchase».76 I diritti storici e religiosi del popolo ebraico, rivendicati dai sionisti, non hanno nessun fondamento e non vengono considerati dalla Commissione nel suo esame. Secondo le raccomandazioni finali, il progetto di istituire, in un futuro prossimo, uno Stato ebraico («Jewish commonwealth») deve essere abbandonato e l’immigrazione diretta in Palestina assolutamente limitata; in pratica sconfessare la nuova politica di Londra, incarnata nella Dichiarazione Balfour durante la guerra, di sostenere e facilitare gli obiettivi dei sionisti. La Palestina deve essere incorporata nella Siria in quanto unico territorio sotto un’unica potenza mandataria. Tutte le esortazioni della delegazione americana furono ignorate da Gran Bretagna e Francia, ma soprattutto i sogni di un indipendenza araba, accarezzata dopo la guerra e ritenuta legittima con lo sforzo militare a fianco degli Alleati, seppur modesto, venivano cancellati in un sol colpo a causa del rifiuto americano di aderire alla nascente Società delle Nazioni e di avere quel giusto peso di responsabilità, indispensabile per la ricostruzione, non solo materiale, ma anche politica del dopoguerra. La lotta per avere l’approvazione del Senato del progetto di pace da lui stesso proposto il 14 febbraio 1919 e sottoscritto il 28 luglio, condusse Wilson a viaggiare, tenere discorsi e conferenze, in lungo e in largo per gli Stati dell’Unione, affrontando l’opposizione repubblicana e problemi fisici. Il 19 novembre 1919, il Senato americano respinse il trattato di pace originale (38-53) e anche il trattato 76 Al contrario della convinzione di Balfour, nella sua Dichiarazione, di far convivere allo stesso tempo sia le aspirazioni sioniste con i diritti dei popoli gentili, non ravvedendo nessuna contraddizione insita. comprendente le quattordici riserve del senatore Lodge (39-55), rendendo inevitabile il ritiro della delegazione americana dalla Conferenza di pace a Parigi nel mese successivo.77 Il rapporto della Commissione King-Crane perse enormemente di importanza, e questa circostanza diede il via libera, senza intralci, alla spartizione del Medio Oriente fra le due potenze coloniali europee, secondo il vecchio canone dell’imperialismo, con delimitazioni e confini disegnati sulla carta, senza tenere nella giusta importanza le richieste delle popolazioni, vale a dire l’intero lavoro del compito assegnato alla Commissione americana, che fu pubblicato solamente il 2 dicembre 1922, quando già molti avvenimenti in Medio Oriente erano accaduti. L’accordo per istituire la Società delle Nazioni e il trattato di pace concluso con gli Stati sconfitti nella guerra erano vincolate, ossia si ratificava l’intero trattato compreso dell’accordo per istituire la Società, altrimenti se respinta una, l’altra subiva automaticamente la medesima sorte. Alcune delle riserve applicate al trattato, le più significative, erano le seguenti: nel caso di ritiro dalla Società delle Nazioni (secondo l’art. 1), gli Stati Uniti sarebbero stati gli unici giudici nel valutare che i loro obblighi internazionali siano stati adempiuti; gli Stati Uniti non si assumeranno nessun impegno vincolante per salvaguardare l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualunque altro Stato (l’articolo chiave 10, poiché solo il Congresso ha il potere di dichiarare guerra); nessun mandato sarà accettato dagli Stati Uniti (art. 22), esigendo in tal caso la volontà del Congresso; gli Stati Uniti si riservano il diritto esclusivo di decidere quali questioni rientrano nella domestic jurisdiction; gli Stati Uniti non dovranno essere obbligati a sostenere e contribuire a qualunque spesa della Società delle Nazioni, ma solamente il Congresso ha il potere di stanziare determinati fondi; gli Stati Uniti si riservano il diritto di aumentare gli armamenti senza il consenso del Consiglio della SdN ogniqualvolta siano minacciati da un invasione o dal pericolo imminente di una guerra (cfr. art. 8). 77 Capitolo 4 Gli Stati Uniti e la creazione dello Stato d’Israele 1 Truman e la Risoluzione 181 di spartizione della Palestina: dall’appoggio passivo all’intervento determinante per l’approvazione Il presidente Truman aveva mantenuto il silenzio sulla questione palestinese dalla dichiarazione dello Yom Kippur dell’ottobre 1946, e continuò questo atteggiamento durante l’intera fase di elaborazione della commissione speciale dell’ONU. All’interno dell’Amministrazione americana vi erano punti di vista contrastanti su come e quale posizione politica aderire nei confronti dei progetti raccomandati dall’UNSCOP, e pronti al dibattito davanti all’Assemblea Generale, tenendo ben presente che la proposta di maggioranza era favorevole all’idea della spartizione, in coerenza con il contenuto sostanziale della dichiarazione di Truman del 4 ottobre 1946, universalmente ritenuta come un impegno verso quest’ultima. Il Dipartimento di Stato valutava positivamente la scelta per un proseguimento del controllo internazionale sulla Palestina sotto le vesti di un’Amministrazione fiduciaria; la Casa Bianca, con i diversi consiglieri filosionisti propendeva per la separazione politica in due Stati indipendenti. La battaglia burocratica ebbe luogo nelle nomine della delegazione statunitense, che avrebbe dovuto avere il compito di dibattere le soluzioni dell’UNSCOP ed esprimere l’atteggiamento americano in riguardo. Furono chiamati a questo compito Loy Henderson, capo della divisione del Dipartimento di Stato del Vicino Oriente, George Wadsworth, ambasciatore in Iraq, Turchia e Arabia Saudita (entrambi contrari a una spartizione della Palestina), Eleanor Roosevelt (sostenitrice delle Nazioni Unite), il vicesegretario di stato Robert Lovett, il repubblicano John Foster Dulles, il capo della delegazione e il vice rappresentate alle Nazioni Unite Herschel Johnson, Dean Rusk e l’ambasciatore americano alle Nazioni Unite Warren Austin. Infine, fu considerata una nomina chiave quella con cui Truman, sotto forte insistenza del consigliere David Niles, aveva designato il generale John Hilldring, fidato sostenitore di uno Stato ebraico e collegato direttamente con la Casa Bianca. Esisteva il ben fondato timore dei sionisti che il Dipartimento di Stato sarebbe riuscito a interferire e a far passare le sue tesi a detrimento delle loro aspirazioni. Nel frattempo, nel settembre, l’Assemblea Generale si era costituita in un Comitato ad hoc per occuparsi della questione palestinese, con un dibattito generale. La Lega Araba si espresse subito contro il piano di spartizione e l’Alto Comitato arabo palestinese lo condannò come una reiterata ingiustizia per la Palestina e un’evidente violazione dei diritti naturali degli arabi nel loro paese: «The case of the Arabs of Palestine was based on the principles of international justice; it was that of a people which desired to live in undisturbed possession of the country where Providence and history had placed it. The Arabs of Palestine could not understand why their right to live in freedom and peace, and to develop their country in accordance with their traditions, should be questioned and constantly submitted to investigation... The Zionists were conducting an aggressive campaign with the object of securing by force a country which was not theirs by birthright. Thus there was self-defence on one side and, on the other, aggression. The raison d'être of the United Nations was to assist self-defence against aggression... The struggle of the Arabs of Palestine against Zionism had nothing in common with anti-Semitism. The Arab world had been one of the rare havens of refuge for the Jews until the atmosphere of neighbourliness had been poisoned by the Balfour Declaration and by the aggressive spirit which the latter had engendered in the Jewish community... The solution lay in the Charter of the United Nations, in accordance with which the Arabs of Palestine, who constituted the majority were entitled to a free and independent State»78 L’Organizzazione sionista approvò il progetto maggioritario dell’UNSCOP anche se avrebbe preferito maggior territorio, e metteva in risalto sia la pericolosità dei confini proposti sia il non gradimento della soluzione approntata per Gerusalemme. In ogni modo, era consapevole della storica 78 Vedi http://www.un.org/Dept/dpa/qpal/dpr/DPR_pp_2.htm. opportunità che si presentava al sionismo mondiale e a tutto il popolo ebraico della Diaspora, e l’Agenzia ebraica affermò la sua posizione: «While hoping that nations would welcome displaced persons who wished to emigrate to countries other than Palestine, the Jewish Agency considered that it would be unjust to deny the right to go to the Jewish national home to those who wanted to do so. Recommendation... to the effect that any solution for Palestine could not be considered as a solution of the Jewish problem in general, was unintelligible ... The Jewish problem in general was none other than the age-old question of Jewish homelessness, for which there was but one solution - that provided for by the Balfour Declaration and the Mandate - the reconstitution of the Jewish national home in Palestine. ...the plan proposed by the minority of the Special Committee ... was unacceptable; though it called them States, it actually made provision only for semi-autonomous cantons or provinces. Palestine would be an Arab State with two Jewish enclaves. The Jews, who would be frozen in the position of a permanent minority in the federal State, would not even have control over their own fiscal policies or immigration; the latter, with many other matters of fundamental importance, would be left in the hands of the Arab majority». 79 La Gran Bretagna, potenza mandataria, aveva accettato i tre principi unanimi che erano stati stilati dalla commissione speciale dell’ONU, ma volle sottolineare la responsabilità internazionale nei confronti dei rifugiati europei, come per slegare questo problema dal futuro politico della Palestina: «With regard to... Jewish displaced persons, the United Kingdom was of the opinion that the entire problem of displaced persons in Europe, Jewish and non-Jewish alike, was an international responsibility and one demanding urgent attention... The United Kingdom Government was ready to assume the responsibility for giving effect to any plan on which agreement was reached by the Arabs and the Jews. If the Assembly were to recommend a policy which was not acceptable to the Jews and the Arabs, the United Kingdom Government would not feel able to implement it. It would then be necessary to provide for some alternative authority to implement it. It had been suggested that the United Kingdom should carry the full responsibility for the administration of Palestine and for enforcing changes proposed by the United Nations during an indefinite transitional period until independence was attained... The United Kingdom would in no case accept responsibility for enforcement, either alone or in the major role. ...the illegal immigration into Palestine undertaken with the connivance and assistance of some Governments ... was a question which aroused bitter feelings in Palestine; proposals for a change in the status quo should not lightly be put forward by those who had no responsibility for the consequences»80 Gli Stati Uniti vollero mantenere inizialmente un basso profilo sul dibattito alle Nazioni Unite, anzitutto per evitare di apparire come un garante della spartizione, ma Marshall, il 17 settembre, di fronte al Comitato ad hoc sulla Palestina, pronunciò un discorso che propendeva per la soluzione della spartizione, sebbene fosse alquanto vago: 79 80 Vedi http://www.un.org/Dept/dpa/qpal/dpr/DPR_pp_2.htm. Vedi http://www.un.org/Dept/dpa/qpal/dpr/DPR_pp_2.htm. «while the final decision of the Assembly must properly await the detailed consideration of the report, the Government of the United States gives great weight not only to the recommendations which have met with the unanimous approval of the Special Committee, but also to those which have been approved by the majority of that Committe».81 Era quasi impossibile, però, per il presidente americano non approvare il piano maggioritario dell’UNSCOP, perché altrimenti avrebbe sconfessato l’impegno assunto verso la spartizione con la dichiarazione del Yom Kippur nell’ottobre 1946 e si sarebbe suicidato politicamente per le elezioni presidenziali del 1948, perdendo gran parte dell’elettorato ebraico. Inoltre, sarebbe andato incontro alla volontà del Congresso, dei media, dello stesso partito democratico, e avrebbe irrimediabilmente compromesso il prestigio delle Nazioni Unite, nate appena da due anni e giunte al primo vero e complesso problema internazionale. Solo gli esperti funzionari del Dipartimento di Stato e il nuovo Segretario della Difesa, James Forrestal,82 erano maggiormente sensibili a non far irritare il mondo arabo per motivi di interesse nazionale, che preoccupati di guadagnare il consenso dei sionisti americani, necessario per ragioni di politica interna (i funzionari del Dipartimento di Stato non erano ovviamente assillati dalle scadenze elettorali come lo erano la Casa Bianca e i partiti). Con la ripresa delle intense pressioni organizzate dei sionisti americani e con l’afflusso di diverse lettere firmate da membri del Congresso che invocavano il pieno sostegno al rapporto di maggioranza dell’UNSCOP, ai primi di ottobre Truman diede istruzioni a Marshall di rendere pubblico e in modo chiaro l’appoggio americano, in linea di massima, alla spartizione della Palestina. L’annuncio ufficiale venne dato l’11 ottobre da Herschel Johnson davanti all’Assemblea Generale riunita come Comitato ad hoc sulla Palestina. Ecco alcuni passi scelti della dichiarazione: 81 Vedi Michael J. Cohen, Truman and Israel, op. cit., p. 154 e Fraser T. G., The USA and the Middle East Since World War 2, New York, St. Martin’s Press, 1989, p. 28. 82 James Forrestal raccomandò fino all’ultimo nel 1948 a Truman di non riconoscere lo Stato di Israele, in modo da non provocare l’ostilità del mondo arabo e trovare maggiori ostacoli per l’accesso americano al petrolio mediorientale. Vedi “The Economist”, The unblessed peacemakers, 6 ottobre 2001, p. 19. «The United States Delegation feels that the urgency of the problem is so great that the General Assembly must recommend a solution at this session. The degree of urgency has been brought to our attention by continued violence in Palestine by the context of the Special Committee's report, and by the statement of the delegate from the United Kingdom regarding the recommendations of the Committee and future British responsibilities in Palestine. … The United States Delegation supports the basic principles of the unanimous recommendations and the majority plan which provides for partition and immigration. It is of the opinion, however, that certain amendments and modifications would have to be made in the majority plan in order more accurately to give effect to the principles on which that plan is based. My delegation believes that certain geographical modifications must be made. For example, Jaffa should be included in the Arab State because it is predominantly an Arab city. … Any solution which this Committee recommends should not only be just, but also workable and of a nature to command the approval of world opinion. The United States Delegation desires to make certain observations on the carrying out of such recommendations as the General Assembly may make regarding the future government of Palestine. The General Assembly did not, by admitting this item to its agenda, undertake to assume responsibility for the administration of Palestine during the process of transition to independence. Responsibility for the government of Palestine now rests with the mandatory power. The General Assembly, however, would not fully discharge its obligation if it did not take carefully into account the problem of implementation. Both the majority report and the statement of the United Kingdom representative in this Committee raise the problem of carrying into effect the recommendations of the General Assembly. We note, for example, that the majority report indicates several points at which the majority thought the United Nations could be of assistance. It was suggested that the General Assembly approve certain steps involved in the transitional period, that the United Nations guarantee certain aspects of the settlement concerning Holy Places and minority rights, that the Economic and Social Council appoint three members of the Joint Economic Board, and that the United Nations accept responsibility as administering authority of the City of Jerusalem under an international trusteeship. … The recommendations reached by the GA will represent the collective opinion of the world. The problem has thus far defied solution because the parties primarily at interest have been unable to reach a basis of agreement. This is a problem in the solution of which world opinion can be most helpful».83 Non era certamente un assegno in bianco in favore della divisione politica della Palestina, perché si faceva esplicitamente riferimento alla necessità e al dovere di proporre emendamenti e modifiche territoriali al rapporto dell’UNSCOP, in modo da andare incontro alle rivendicazioni arabe e da mitigarne il risentimento.84 83 Per il testo della dichiarazione vedi http://www.yale.edu/lawweb/avalon/decade/decad164.htm, United States Position on Palestine Question, Statement by Herschel V. Johnson, United States Deputy Representative to the United Nations, October 11, 1947. 84 «Certain amendments and modifications would have to be made… certain geographical modifications must be made». Ad esempio, veniva prospettata l’assegnazione al futuro Stato arabo della città di Giaffa, proprio a causa della netta maggioranza araba, e la stessa sorte si prevedeva sarebbe toccata alla regione desertica del Negev, non menzionata nella dichiarazione, che la commissione speciale aveva destinato alla parte ebraica, ma era quasi completamente abitata da arabi beduini. Inoltre, è utile considerare come il governo statunitense abbia più volte insistito sul far apparire il piano di spartizione maggioritario dell’UNSCOP una soluzione delle Nazioni Unite (e non di Washington), senza utilizzare pressioni sulle altre delegazioni. Era questa la strategia del non intervento del Dipartimento di Stato che Truman, fino a un certo punto, assecondava. Subito dopo l’annuncio ufficiale della delegazione americana in seno all’ONU, un consiglio di emergenza sionista americano descrisse acutamente la situazione dei fatti, e si pronunciò, giustamente, in questi termini: «We had won a great victory, but under no circumstances should any of us believe or think we had won because of the devotion of the American Government to our cause. We had won because of the sheer pressure of political logistic that was applied by the Jewish leadership in the United States».85 Dopo aver chiarito la posizione della delegazione americana, in favore della spartizione della Palestina, il vero problema dei sionisti non era più quello di assicurare l’appoggio dell’Amministrazione Truman a uno Stato ebraico, ma riuscire a ottenere dalla Casa Bianca l’uso della sua influenza alle Nazioni Unite. Il 13 ottobre la delegazione sovietica, che già nel maggio precedente aveva alluso a un timido appoggio per il piano di spartizione, nel caso in cui una soluzione che mantenesse l’unita della territorio palestinese si rivelasse impraticabile, rese noto l’appoggio alla proposta di spartizione dell’UNSCOP in questi termini: «The essence of the question was the right of self-determination of hundreds of thousands of Jews and Arabs living in Palestine; the right of the Arabs as well as the Jews of Palestine to live in freedom and peace in a State of their own. It was necessary to take into consideration all the sufferings and needs of the Jewish people, 85 Vedi Michael J. Cohen, Truman and Israel, op. cit., pp. 158-159. whom none of the States of Western Europe has been able to help during their struggle against the Hitlerites and the allies of the Hitlerites for the defence of their rights and their existence. The Jewish people were therefore striving to create a State of their own and it would be unjust to deny them that right. The problem was urgent and could not be avoided by plunging back into the darkness of the ages. Every people - and that included the Jewish people - had full right to demand that their fate would not depend on the mercy or the good will of a particular State. The Members of the United Nations could help the Jewish people by acting in accordance with the principles of the Charter, which called for the guaranteeing to every people of their right to independence and self-determination».86 Quindi, appena due giorni dopo l’approvazione in linea di principio da parte degli Stati Uniti dell’idea della spartizione, Mosca seguì sulla stessa linea. Con la stessa posizione politica di entrambe le superpotenze riguardo alla questione palestinese, si poteva supporre che il Comitato ad hoc avrebbe deciso positivamente sulla proposta di maggioranza dell’UNSCOP. Malgrado tutto, furono istituiti due sottocomitati con il compito di elaborare i due piani dell’UNSCOP, con la possibilità di fare qualche modifica, e riferire il tutto davanti al Comitato ad hoc.87 Sotto la spinta del Dipartimento di Stato, il primo sottocomitato iniziò a lavorare sulla sistemazione di confini più favorevoli al futuro Stato arabo. Sulla questione del Negev, ci fu una proposta da parte della delegazione americana di giungere a un compromesso, raccomandando il trasferimento di gran parte della regione desertica allo Stato arabo palestinese (la parte meridionale, inclusa Aqaba), poiché la quasi totalità degli abitanti erano arabi beduini. Inoltre, si scongiurava in questo modo la discontinuità territoriale del mondo arabo. Viceversa, la proposta mise in grande allarme i leader sionisti, che ritenevano la posizione strategica del Negev indispensabile per il nuovo Stato ebraico in costruzione. Era assolutamente da evitare il mancato accesso al golfo di Aqaba, e da questo al Mar Rosso e all’Oceano Indiano. Grazie a Niles, personaggio chiave all’interno della Casa Bianca per i sionisti, si organizzò in fretta un incontro 86 Vedi http://www.un.org/Dept/dpa/qpal/dpr/DPR_pp_2.htm. Il sottocomitato n° 1 era composto da Canada, Cecoslovacchia, Guatemala, Polonia, Unione Sudafricana, Venezuela, Ungheria, Unione Sovietica, Stati Uniti, e doveva analizzare, facendo le dovute modificazioni, il piano di maggioranza dell’UNSCOP. Facevano parte del sottocomitato n° 2 Afghanistan, Colombia, Iraq, Libano, Pakistan, Arabia Saudita, Siria, Yemen con il compito di descrivere gli argomenti favorevoli a una Palestina unita (il piano di minoranza dell’UNSCOP). Venne creato anche un terzo sotto-comitato informale con l’intenzione di promuovere l’avvicinamento fra le posizioni arabe e sioniste ma con nessun risultato di rilievo. 87 segreto fra Truman e l’anziano e malato Chaim Weizmann il 19 novembre, pochi giorni prima della cruciali votazioni all’ONU, e quest’ultimo riuscì nell’impresa di persuadere il presidente americano all’idea di mantenere l’intero Negev nella parte ebraica. Truman trascrisse alla delegazione americana l’ordine di non presentare la proposta di trasferirlo agli arabi. La vicenda risultò in un vero e proprio successo dei sionisti, benché circoscritto e di breve durata. Truman ancora una volta, dopo aver ordinato ai primi di ottobre l’annuncio ufficiale in favore del piano di spartizione dell’UNSCOP, prevaleva sul Dipartimento di Stato. Tuttavia, ancora egli volle mantenere la politica di non esercitare pressioni sulle delegazioni di Stati piccoli e fortemente dipendenti dagli Stati Uniti. Certamente, gli intrighi diplomatici segreti avevano portato a decidere sul futuro politico di un territorio, senza tenere conto minimamente della volontà degli abitanti e contro i “quattordici punti” di Wilson. Si ritornava indietro di anni, fino alla Prima guerra mondiale e all’imposizione di confini geografici dall’alto, artificiali e di conseguenza forieri di futuri conflitti, come se dalle recenti lezioni della storia quasi nessuno avesse imparato. I rapporti di entrambi i sottocomitati furono presentati al Comitato ad hoc sulla Palestina il 24 novembre 1947. Il rapporto del sottocomitato n° 2, riguardante la raccomandazione per uno Stato palestinese unificato indipendente fu respinto. Il sottocomitato n° 1 sottopose un piano di spartizione significativamente cambiato dall’originale progetto dell’UNSCOP in questi ambiti: a) la proposta del periodo di transizione di due anni fu drasticamente ridotta; la Gran Bretagna avrebbe continuato a governare la Palestina fino al 1° agosto 1948, data del ritiro definitivo, ma non sarebbe stata responsabile per l’applicazione di qualunque decisione da parte dell’ONU; sarebbe seguito un periodo di transizione di due mesi, controllato da una commissione delle Nazioni Unite di cinque membri scelti dall’Assemblea Generale che doveva rispondere al Consiglio di Sicurezza; i due Stati avrebbero conseguito l’indipendenza il 1° ottobre 1948; b) la città araba di Giaffa, assegnata dall’UNSCOP al futuro Stato ebraico, avrebbe costituito un’enclave appartenente allo Stato arabo; c) il Negev, come sopra ricordato, rimaneva destinato alla parte ebraica. Il progetto di spartizione così modificato venne approvato dal Comitato ad hoc il 25 novembre 1947, contando su 25 voti favorevoli, 13 contrari, 17 astenuti e 2 assenti.88 In questa sessione era necessaria una maggioranza semplice per questo singolo voto, ma una volta davanti all’Assemblea Generale plenaria era essenziale una maggioranza di due terzi degli Stati partecipanti al voto decisivo. Solido contro la divisione politica della Palestina era il gruppo di cinque Stati arabi: Arabia Saudita, Egitto, Siria, Libano e Iraq. L’India era un caso speciale perché, se la numerosa popolazione musulmana si poteva identificare con la causa araba, il governo indù di Nuova Delhi era ugualmente riluttante ad accettare la spartizione come soluzione del problema, avendo proprio nell’estate precedente sofferto della separazione del territorio indiano con il Pakistan (occidentale e orientale) e il conseguente dramma dei massicci trasferimenti coatti. Due membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, la Francia e la Cina, si erano astenuti durante la votazione, perciò potevano essere oggetto di pressioni future. Ma l’esito della votazione del 25 novembre mise in evidenza il relativo ampio numero delle astensioni e la possibilità di concentrare gli sforzi delle lobbies ebraiche sugli Stati dell’America latina per accaparrarsi qualche voto per la loro causa, dato che ogni voto poteva essere cruciale. Si poteva supporre che alcuni di questi paesi avrebbero potuto seguire la posizione degli Stati Uniti, così come la Bielorussia, l’Ucraina e altri governi dell’Europa orientale influenzati dal comunismo sovietico (ad esempio la Cecoslovacchia e la Polonia) si erano comportati nella stessa maniera con Mosca. Comunque, la politica del Dipartimento di Stato, ancora appoggiata dal presidente americano, era di 88 In favore: Australia, Bolivia, Brasile, Bielorussia, Canada, Cile, Costa Rica, Cecoslovacchia, Danimarca, Repubblica Dominicana, Ecuador, Guatemala, Islanda, Nicaragua, Norvegia, Panama, Perù, Polonia, Svezia, Ucraina, Unione Sudafricana, Unione Sovietica, Stati Uniti, Uruguay, Venezuela. Contrari: Afghanistan, Cuba, Egitto, India, Iran, Iraq, Libano, Pakistan, Arabia Saudita, Siam, Siria, Turchia, Yemen. Astenuti: Argentina, Belgio, Cina, Colombia, El Salvador, Etiopia, Francia, Grecia, Haiti, Honduras, Liberia, Lussemburgo, Mexico, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Gran Bretagna, Jugoslavia. Assenti: Paraguay, Filippine. non esercitare pressioni o costrizioni sulle altre delegazioni affinché imitassero l’atteggiamento americano alle Nazioni Unite. Il giorno seguente, il 26 novembre, si svolse il dibattito generale davanti Assemblea Generale, al termine del quale si sarebbe dovuta svolgere la votazione decisiva. Ecco le posizioni di alcune delegazioni:89 a) Gran Bretagna: «It is with deep regret that my Government recognizes that an acceptable settlement has still not been found. I do not say that in any spirit of criticism. My Government would be the last to minimize the difficulty of the task, as it is the first to appreciate the efforts that have been made. The fact remains that we are obviously confronted with a failure to arrive at a settlement based upon consent. My delegation would have failed in its duty if it had not emphasized from the beginning of the session the consequent need for the General Assembly to consider the situation which is likely to arise upon the removal of the forces which at present ensure law and order in Palestine. Their departure will leave a gap, and it has been the most difficult part of the General Assembly's task to find means of filling this gap… I am... instructed to repeat explicitly that the United Kingdom Government cannot allow its troops and administration to be used in order to enforce decisions which are not accepted by both parties in Palestine» È importante mettere in rilievo come, per l’ennesima volta, il governo londinese ribadisce a chiare lettere il rifiuto di applicare la Risoluzione dell’Assemblea Generale a causa del mancato appoggio di entrambe le comunità. b) Stati a sostegno del piano di spartizione della Palestina: Polonia 89 Gli estratti selezionati sono presenti nel sito http://www.un.org/Dept/dpa/qpal/dpr/DPR_pp_2.htm, Official Records of the General Assembly, Second Session, Plenary Meetings, vol. II. Alla fine del dibattito generale 11 delegazioni dichiararono esplicitamente il proprio appoggio per la spartizione (Belgio, Brasile, Canada, Guatemala, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Polonia, Svezia, Unione Sovietica, Stati Uniti, Uruguay), 13 delegazioni si erano espresse contro la proposta (Colombia, Cuba, Egitto, Grecia, Haiti, Iran, Iraq, Libano, Pakistan, Filippine, Arabia Saudita, Siria, Yemen), la posizione della Francia era incerta, la Gran Bretagna aveva dichiarato la sua intenzione di astenersi, così come fecero la Cina e l’Etiopia. «What is the solution we want? The answer is simple. The Arab people of Palestine, as well as the Jewish people of Palestine, want national independence. They want a discontinuation of the Mandate and of the present situation, and the establishment of their national States. My delegation and my Government believed for a time, and hoped, that these national aspirations might find their expression in one Palestinian State in which both Arabs and Jews would be equal partners, free to develop their national life. The situation, however, is such that this aim cannot be achieved, at least not at the present stage. We therefore have to establish two States, an Arab State and a Jewish State, to provide for the national aspirations of the two communities which live in Palestine. There is no other way out, and anyone anxious to do justice to the national aspirations of both Jews and Arabs must support this proposal». Brasile «the matter involves substantial changes in the political status quo of an important region, changes which would radically affect juridical principles and vested interests. It is presented to us today, however, as a fait accompli, since the promise contained in the so-called Balfour Declaration and the subsequent creation of a mandate of the League of Nations with the express purpose of constituting a "Jewish national home", have resulted in the migration into Palestine of considerable numbers of individuals of the Jewish race, who have become permanently established there and have created large interests and have constituted a homeland which has rapidly developed to the point of presenting at this time the characteristics of a State». Stati Uniti «the proposal of partition with economic union which we are considering is genuinely a United Nations plan. It has been evolved as a result of a special session of the United Nations and the work of a United Nations Special Committee, in addition to the work of the present session of the General Assembly... Much has been said during the course of these debates on the desirability and necessity of presenting to the General Assembly a plan which would command the agreement of both the principal protagonists in this situation. I think there is no delegation here which does not know that no plan has ever been presented, either to this Assembly or to the Mandatory Government during its long years of tenure, or in any other place, which would meet with the acceptance of both the Arabs and the Jews. No such plan has ever been presented, and I do not believe that any such plan will ever be presented. If we are to effect through the United Nations a solution of this problem it cannot be done without the use of the knife. Neither the Jews nor the Arabs will ever be completely satisfied with anything we do, and it is just as well to bear that in mind. ...It is the sincere belief of the United States delegation that the partition plan recommended by the Ad Hoc Committee on the Palestinian Question, with all its imperfections admitted, provides for the people of Palestine in that land the best practicable means at the present time by which these high objectives may be obtained». Unione Sovietica «We may ask why it is that the overwhelming majority of the delegations represented in the General Assembly adopted this solution and not another. The only explanation... that can be given is that all the alternative solutions of the Palestinian problem were found to be unworkable and impractical. In stating this, I have in mind the project of creating a single independent Arab-Jewish State with equal rights for Arabs and Jews. The experience gained from the study of the Palestinian question, including the experience of the Special Committee, has shown that Jews and Arabs in Palestine do not wish or are unable to live together. The logical conclusion followed that, if these two peoples that inhabit Palestine, both of which have deeply rooted historical ties with the land, cannot live together within the boundaries of a single State, there is no alternative but to create, in place of one country, two States - an Arab and a Jewish one. It is, in the view of our delegation, the only workable solution». (c) Stati contrari al piano di spartizione: Filippine «The Philippine Government has come to the conclusion that it cannot give its support to any proposal for the political disunion and the territorial dismemberment of Palestine. We have assessed the legal arguments and found that they are not the decisive factors in shaping a just and practical solution. Whatever the weight we might choose to assign to the arguments of the one side or the other, it is clear to the Philippine Government that the rights conferred by mandatory power, even if subsequently confirmed by an international agreement, do not vitiate the primordial right of a people to determine the political future and to preserve the territorial integrity of its native land. We hold that the issue is primarily moral. The issue is whether the United Nations should accept responsibility for the enforcement of a policy which, not being mandatory under any specific provision of the Charter nor in accordance with its fundamental principles, is clearly repugnant to the valid nationalist aspirations of the people of Palestine. The Philippine Government believes that the United Nations ought not to accept any such responsibility». Libano «To judge by the press reports which reach us regularly every two or three days, I can well imagine to what pressure, to what manoeuvres your sense of justice, equity and democracy has been exposed during the last 36 hours. I can also imagine how you have resisted all these attempts in order to preserve what we hold dearest and most sacred in the United Nations, to keep intact the principles of the Charter, and to safeguard democracy and the democratic methods of our Organization. My friends, think of these democratic methods, of the freedom in voting which is sacred to each of our delegations. If we were to abandon this for the tyrannical system of tackling each delegation in hotel rooms, in bed, in corridors and ante-rooms, to threaten them with economic sanctions or to bribe them with promises in order to compel them to vote one way or another, think of what our Organization would become in the future. Should we be a democratic organization? Should we be an organization worthy of respect in the eyes of the world? At this supreme juncture, I beg you to think for a moment of the far-reaching consequences which might result from such manoeuvres, especially if we yielded to them». Colombia «The plan of partition was adopted by the Ad Hoc Committee by 25 votes to 13 with 17 abstentions. We hear and we read that the same vote in the General Assembly would be one short of the two-thirds majority required by our rules. However, in our view, there is no mistaking the fact that the plan has failed to find the support of 32 delegations. In other words, as it stands, it is really a minority proposal. It will remain a minority proposal in our minds. It will not lose that character even if it succeeds in securing the votes of three or four more delegations; and the scanty strength of the proposal becomes all the more evident if we consider the great international importance of the problem and the distinction that this solution enjoys of having the joint backing of the United States and the USSR. It would seem to all unprejudiced observers that, but for that all-powerful backing, the proposal would never have made its way to the General Assembly. Here it may eventually be adopted, but we submit that reluctant votes, recruited with irrelevant eleventh-hour appeals, will not improve its position in the opinion of the outside world... Under the circumstances, we suggest that the General Assembly would be well advised in postponing a decision». Pakistan «How is Palestine to be independent? What sort of independence? What is the solution that we are invited to endorse and to attempt to carry through? In effect, the proposal before the United Nations General Assembly says that we shall decide - not the people of Palestine, with no provision for the self-determination, no provision for the consent of the governed - what type of independence Palestine shall have. We shall call Palestine independent and sovereign, but Palestine shall belong to us and shall be, not the apple of our many and in different-direction-looking eyes, but shall become the apple of discord between East and West, lest, perchance, the unity which our name so wistfully proclaims may have a chance to establish itself. We shall first cut the body of Palestine into three parts of a Jewish State and three parts of an Arab State. We shall then have the Jaffa enclave; and Palestine's heart, Jerusalem, shall forever be an international city. That is the beginning of the shape Palestine shall have. Having cut Palestine up in that manner, we shall then put its bleeding body upon a cross forever. This is not going to be temporary; this is permanent. Palestine shall never belong to its people; it shall always be stretched upon the cross. What authority has the United Nations to do this? What legal authority, what juridical authority has it to do this, to make an independent State forever subject to United Nations administration?... Our vote today, if it does not endorse partition, does not rule out other solutions. Our vote, if it endorses partition, bars all peaceful solution. Let him who will shoulder that responsibility. My appeal to you is: do not shut out that possibility. The United Nations should seek and strive to unite and bring together rather than to divide and put asunder». A causa delle lunghe dichiarazioni a favore del piano di spartizione, al quale seguirono quelle degli oratori arabi, non si tenne la votazione finale e vennero sospesi i lavori dell’Assemblea Generale per due giorni, essendo il 27 il giorno del Ringraziamento. Il tempo era cruciale per persuadere alcuni Stati che si erano espressi il giorno prima o contro la spartizione o per l’astensione e rimanevano solamente quarantott’ore. Il 27 novembre la Casa Bianca annullava la politica passiva del Dipartimento di Stato nei confronti delle altre delegazioni all’ONU, ed entrò decisamente in campo per ottenere l’approvazione del piano di spartizione, con la parte preponderante svolta direttamente da Truman. D’altronde, i consiglieri del presidente americano erano convinti che, se il piano non fosse passato al vaglio dell’Assemblea Generale, sia l’ONU sia la politica di Truman mantenuta coerentemente per più di anno dalla dichiarazione dello Yom Kippur (4 ottobre 1946) avrebbero perso prestigio e credibilità. Gli obiettivi di questa intensa pressione erano primariamente quattro Stati: Filippine, Liberia, Haiti e Grecia, tutti più o meno influenzabili da Washington. Le Filippine, l’ex colonia statunitense, che si era dichiarata palesemente contraria la spartizione, sotto la minaccia di revocare il pacchetto di aiuti finanziari in attesa di essere definito dal Congresso americano, capovolsero repentinamente il proprio orientamento di voto. La Liberia, che il 25 novembre si era astenuta, era fortemente dipendente dall’esportazione della gomma che le grandi multinazionali americane richiedevano (ad es. la Firestone). Sotto il timore di un boicottaggio, fatto presente al governo e al presidente liberiano William Tubman, la delegazione a New York fu convinta verso un voto positivo. Haiti, anch’essa astenutasi ma con l’intenzione di opporsi al piano di spartizione durante le dichiarazioni di voto del 26, fu spinta a modificare la sua posizione per un voto favorevole. Infatti, venne espressa al presidente Dumarsais Estimé la volontà della Casa Bianca di un voto positivo da parte della sua delegazione. Solo con la Grecia, i tentativi dei sionisti e dei consiglieri di Truman non sortirono l’effetto desiderato, ossia di guadagnare un voto positivo vista l’astensione del 25. Forse, il governo di Atene non aveva il timore di perdere l’appoggio economico e militare degli Stati Uniti, concesso grazie alla “Dottrina Truman” del marzo 1947 e ratificato dal Congresso americano nel maggio seguente, e si espresse addirittura contro il piano di spartizione. La Francia, stretta dalla necessità di mantenere un ottimo rapporto con Washington, soprattutto per beneficiare del sostegno finanziario americano essenziale per la ripresa economica del dopoguerra, e ansiosa rispetto alla prospettiva di una reazione negativa degli Stati arabi nordafricani e dei suoi protettorati (Marocco e Tunisia), era combattuta da interessi concorrenti. Dalla precedente astensione, Parigi si spostò verso un appoggio al piano di spartizione, grazie alle pressioni dell’ex premier socialista, l’ebreo Léon Blum, che aveva presieduto il primo governo di coalizione del Fronte popolare dal giugno 1936 al giugno 1937. Questa campagna di intense pressioni fu promossa sia dalla Casa Bianca sia dalle organizzazioni sioniste, con metodi e strumenti, come la corruzione e le minacce verso le altre rappresentanze governative, alquanto criticabili.90 Il 29 novembre 1947, i 5691 Stati membri dell’Assemblea Generale partecipanti alla votazione si divisero su queste linee: 33 favorevoli (due più del necessario), 13 contrari, 10 astensioni.92 La storica Risoluzione n° 181 che raccomandava la spartizione della Palestina era approvata; la Palestina, che dopo il primo conflitto mondiale era stata separata dalla Siria dalle potenze vincitrici senza tenere conto della volontà della popolazione, era ulteriormente smembrata.93 Come esattamente trenta anni prima Balfour promise un riconoscimento internazionale per l’istituzione di un «focolare nazionale del popolo ebraico» in Palestina, aprendo di fatto la strada a una divisione e alla conseguente creazione di due Stati separati in futuro, così un organo dell’organizzazione mondiale maggiormente apprezzata sanzionò il diritto della comunità ebraica in Palestina a uno Stato ebraico. Non era stato facile ottenere la maggioranza necessaria alle Nazioni 90 Sono pienamente condivisili i contenuti della dichiarazione di voto della delegazione libanese del 26 novembre durante il dibattito finale davanti all’Assemblea Generale, più sopra riportati. 91 La delegazione della Thailandia (Siam dal 1856 al 1939 e dal 1945 fino al 1949) sembrava propensa ad astenersi, mentre durante la votazione nel Comitato ad hoc si era espressa contro il piano di spartizione. Al momento della votazione finale partì da New York senza partecipare al voto. 92 In favore: Australia, Belgio, Bolivia, Brasile, Bielorussia, Canada, Costa Rica, Cecoslovacchia, Danimarca, Repubblica Dominicana, Ecuador, Francia, Guatemala, Haiti, Islanda, Liberia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Nicaragua, Norvegia, Panama, Paraguay, Perù, Filippine, Polonia, Svezia, Ucraina, Unione Sudafricana, Unione Sovietica, Stati Uniti, Uruguay, Venezuela. Contrari: Afghanistan, Cuba, Egitto, Grecia, India, Iran, Iraq, Libano, Pakistan, Arabia Saudita, Siria, Turchia, Yemen. Astenuti: Argentina, Cile, Cina, Colombia, El Salvador, Etiopia, Honduras, Messico, Gran Bretagna, Jugoslavia. 93 Per la Risoluzione dell’Assemblea Generale vedi http://www.yale.edu/lawweb/avalon/un/res181.htm, oppure http://domino.un.org/unispal.nsf. Frase chiave all’inizio del testo, che sarà poi ripresa nella dichiarazione d’Indipendenza di Israele nel maggio del 1948, faceva appello agli «inhabitants of Palestine to take such steps as may be necessary on their part to put this plan into effect». Il territorio della Palestina fu diviso in 8 parti: tre furono assegnate allo Stato ebraico e tre allo Stato arabo. La settima, Giaffa, era un’enclave araba in territorio ebraico, e l’ottava parte era la città di Gerusalemme (inclusa Betlemme) amministrata dal Consiglio di amministrazione fiduciaria dell’ONU come un corpus separatum secondo un regime speciale internazionale. Unite: l’attività lobbistica, le pressioni, gli allettamenti e gli intrighi prima della votazione avevano messo a dura prova l’abilità diplomatica del movimento sionista. Per la prima volta si apriva la strada verso la realizzazione del sogno sionista. I sionisti e i loro alleati furono ovviamente soddisfatti dell’esito, mentre gli Stati arabi dichiararono di non sentirsi vincolati dalla raccomandazione dell’Assemblea Generale perché era considerata contraria alla Carta delle Nazioni Unite e perciò totalmente priva di validità legale. Gli arabi non comprendevano, come qualunque osservatore imparziale avrebbe ricavato, perché il 33% della popolazione avesse ottenuto circa il 56,47% del territorio (del quale aveva posseduto fino a quel momento solo il 9,38%), contro il 42,88% destinato alla maggioranza araba. 94 In altre parole, «i palestinesi non capivano perché si facesse pagare a loro il conto dell’Olocausto… non capivano perché fosse ingiusto che gli ebrei restassero minoranza in uno Stato palestinese unitario, e invece fosse giusto che quasi metà degli arabi palestinesi – la popolazione autoctona, che abitava il paese da secoli – diventasse dalla sera alla mattina una minoranza soggetta a un potere straniero».95 2 Il ritiro del piano di spartizione e il ripiego del Dipartimento di Stato sull’iniziativa dell’Amministrazione fiduciaria Ma, in sostanza, che cosa hanno voluto esprimere le Nazioni Unite con la ratifica della divisione politica del territorio palestinese? La maggioranza di un organo internazionale, un voto (positivo), esprime e verbalizza un principio, un concetto, un’idea, un convincimento che può o meno essere riscontrato nella realtà delle cose; letteralmente una vera e propria raccomandazione che attende di essere posta in esame sulla 94 95 I dati sono stati raccolti dal sito http://www.nad-plo.org/maps/hiscomp.html, The Palestinians’ Historic Compromise. Vedi Benny Morris, Vittime, op. cit., p. 238, dove la frase riportata appartiene a uno storico palestinese, Walid Khalidi. concretezza dei fatti. La storica Risoluzione ONU sulla spartizione della Palestina era stata presa a Flushing Meadows, sobborgo di New York, mentre l’oggetto di questa si situava a quasi 12 000 chilometri di distanza e la realtà era un’altra cosa, come lo fu l’atmosfera. Immediatamente, scoppiò una guerra civile tra le organizzazioni militari ebraiche e gli arabi palestinesi, sostenuti da uomini e materiale bellico dei paesi arabi limitrofi, e tutto ciò era inevitabile, anche se all’Assemblea Generale fosse risultato un voto negativo.96 Il Dipartimento di Stato aveva imposto il 14 novembre (reso pubblico solamente il 5 dicembre), quindi due settimane prima del voto finale all’ONU, in precauzione a qualsiasi esito, l’embargo sugli armamenti diretti nell’area mediorientale, ossia a entrambi i contendenti sul terreno, in modo da prendere una posizione di equidistanza fra le parti ed eludere accuse e critiche di partigianeria. Questa azione della burocrazia governativa, in sostanza, provocò i veementi attacchi dei sionisti, poiché andava tutto a svantaggio dello yishuv dato che gli arabi potevano fare affidamento sui rifornimenti militari direttamente dalla Gran Bretagna, più o meno alla luce del sole. Gli ebrei, o meglio, i sionisti di tutto il mondo e i loro leader, si erano rallegrati, avevano pianto per il conseguimento di una Risoluzione internazionale che sanciva il diritto riconosciuto a un nuovo Stato ebraico in Palestina, in una parte dell’antica e biblica terra dei Patriarchi, anche se esistevano sionisti che non erano soddisfatti del piano di spartizione e non gioivano.97 Con la decisa opposizione da parte della Gran Bretagna a qualsiasi tentativo da parte dell’ONU di applicare la decisione dell’organo internazionale, palesemente espressa in varie dichiarazioni 96 Yitzhak Sadeh, il padre della Haganah, poco prima del voto finale del 29 novembre 1947 disse: «if the vote is positive, the Arabs will make war on us, and if the vote is negative, then is we who will make war on the Arabs». Vedi Peter Grose, Israel in the Mind of America, op. cit., p. 256. 97 «Even among Jews there is dissatisfaction over the partition plan» (Rapporto della CIA, contraria alla spartizione). Begin, comandante dell’Irgun, braccio armato del movimento revisionista, commentò susseguentemente al passaggio della Risoluzione 181 sulla spartizione della Palestina: «the homeland has not been liberated, but mutilated… Eretz Israel will be restored to the people of Israel. All of it. And forever». Un’annunciatrice di una radio clandestina ebraica a Tel Aviv affermò: «a Jewish state without Jerusalem, without Hebron and Bethlehem, without the Gilead or the Bashan or the lands beyond the Jordan» (Gilead è una regione a est del fiume Giordano, corrispondente all’area nordoccidentale dell’odierna Giordania; Bashan è un territorio nell’attuale Siria). Vedi Peter Grose, Israel in the Mind of America, op. cit., rispettivamente pp. 259, 256. pubbliche, e con il desiderio di non contare ulteriori caduti in una causa che oramai era persa, vista la decisione di abbandonare la Palestina il 15 maggio 1948 (presa all’inizio di dicembre), era chiara a tutti che la violenza sarebbe stata la vera vincitrice di tutto il processo. Nell’Amministrazione americana, di fronte a uno svolgersi dei fatti abbastanza prevedibile, già nel dicembre 1947 si svilupparono opinioni differenti alla spartizione che era passata alle Nazioni Unite. Il Dipartimento di Stato aveva perso una battaglia importante all’ONU, ma ci si rese conto che a causa della guerra civile che infuriava in Palestina, la Risoluzione di spartizione non poteva essere attuata, eccetto con l’uso della forza, in poche parole imponendola alle parti. Forrestal volle combattere, durante l’inverno 1947-948, la sua battaglia personale contro il piano di spartizione rilevando l’incompatibilità degli interessi vitali degli Stati Uniti in Medio Oriente con l’appoggio a uno Stato ebraico. Questa crociata solitaria aveva lo scopo di persuadere la maggior parte dei membri del Congresso e altre personalità influenti alle sue idee, cercando di scardinare la questione palestinese dalla politica interna americana (potenti gruppi ebraici finanziatori dei partiti politici, preoccupazioni elettorali), ma gli valse soltanto l’etichettatura di strenuo oppositore della politica delle Nazioni Unite sulla Palestina e in generale contro le azioni dei sionisti.98 Si è ricordata la strenua opposizione da parte del presidente Truman alla prospettiva di impiegare contingenti militari statunitensi per la questione palestinese, della grande smobilitazione americana dopo la fine della guerra, e di altri teatri più a rischio che imponevano priorità, come l’Europa. Il colpo di Stato comunista contro il governo legittimo cecoslovacco il 29 febbraio 1948, l’inizio susseguente del blocco di Berlino e la divisione anche fisica dell’Europa orientale da quella occidentale dominata 98 «I said I would rather lose those states in a national election than run the risks which I felt might develop in our handling of the Palestine question. …[It] a most disastrous and regrettable fact that the foreign policy of this country was determined by the contributions a particular bloc of special interests might make to the party funds. …It was about time that somebody should pay some consideration to whether we might not lose the Unites States». Vedi Peter Grose, Israel in the Mind of America, op. cit., pp. 260-261. James V. Forrestal servì gli Stati Uniti come Segretario della Difesa dal settembre 1947 al 29 marzo 1949 dove si dimise dall’incarico. Morì due mesi dopo suicida, ufficialmente, vittima di una estrema depressione. da Mosca facevano temere uno scontro con Stalin, ancora militarmente forte sul terreno in Stati come la Germania e la Polonia. Inoltre, l’opinione pubblica americana rifiutava fermamente l’invio di altri militari in una probabile guerra. Il 19 gennaio 1948, si riunì alla Casa Bianca il nuovo Consiglio per la Sicurezza Nazionale (NSC) per avviare un riesame fondamentale della politica americana in Palestina e per cercare di proporre una evoluzione delle scelte alternative.99 Di cruciale importanza fu la relazione di George Kennan, capo del nuovo Policy Planning Staff (a cui era affidata la preparazione e la stesura dei documenti del NSC) , che affermava come gli Stati Uniti avessero ricevuto un durissimo colpo con l’approvazione del piano di spartizione all’ONU, che non poteva essere eseguito senza l’uso della forza, ma soprattutto sottolineava come gli interessi vitali americani nel Medio Oriente andassero esplicitamente contro un continuato appoggio alla spartizione, e raccomandava di non impegnarsi ulteriormente in favore della decisione dell’Assemblea Generale e di continuare l’embargo sugli armamenti diretti nella regione. Per il Dipartimento di Stato, il contenuto del resoconto di Kennan fu la base per un ripiego definitivo e un rinnegamento (minando l’autorità e la credibilità dell’ONU) della decisione degli Stati Uniti di sostenere la Risoluzione 181 fatta nel novembre 1947, non ritenendo la spartizione una soluzione pratica e riportando in auge la vecchia proposta dell’Amministrazione fiduciaria. Un memorandum del Dipartimento di Stato fu presentato a Truman il 21 febbraio contenente severi avvertimenti sulla situazione presente in Palestina: 99 Il Consiglio Nazionale per la Sicurezza, creato con la National Security Act del 26 luglio 1947, è il centro del sistema di coordinamento della politica estera americana, ma anche in affari domestici e militari, ed è composto, sotto la presidenza del capo della Casa Bianca, dal Segretario di Stato e della Difesa come membri chiave, dal vicepresidente degli Stati Uniti, il Segretario al Tesoro e il Consigliere speciale del Presidente, “una creatura del Presidente” con nessun’altra base di potere (il presidente Eisenhower istituì il 23 marzo del 1953 la figura dell’Assistente speciale al Presidente per gli affari della sicurezza nazionale, Kennedy mutò il nome in Consigliere speciale). Inoltre, svolgono la funzione di consigliere e partecipano alle riunioni il capo degli Stati Maggiori riuniti e il direttore della CIA. Strumento per promuovere la cooperazione fra i dipartimenti governativi e mezzo a disposizione del presidente americano per controllare e dominare la loro concorrenza, questo organo si è evoluto e mutato uniformandosi alle necessità, inclinazioni e stili di ogni Presidente. Durante il mandato presidenziale, Truman, con una non adeguata esperienza in politica estera, tanto da essere sovrastato dal Dipartimento di Stato e della Difesa, partecipò alla prima riunione il 26 settembre 1947, ma in seguito rimase assente per la maggior parte delle sessioni. Per approfondimenti vedi http://www.whitehouse.gov/nsc/history.html. «we are deeply involved… in a situation which has no direct relation to our national security, and where the motives of our involvement lie solely in past commitments of dubious wisdom and in our attachment to the UN itself. …If we do not effect a fairly radical reversal of the trend of our policy to date, we will end up either in the position of being ourselves militarily responsible for the protection of the Jewish population in Palestine against the declared hostility of the Arab world, or of sharing that responsibility with the Russians and thus assisting at their installation as one of the military powers of the area. In either case, the clarity and efficiency of a sound national policy for that area will be shattered».100 I funzionari del Dipartimento di Stato mostrarono al presidente americano, nella maniera più chiara possibile, la necessità di compiere un capovolgimento basilare dell’atteggiamento politico adottato nell’Assemblea Generale il 29 novembre, verso la proposta dell’Amministrazione fiduciaria. Truman approvò il punto di vista della burocrazia governativa «in principle», con la condizione, per comprensibili ragioni di politica interna, di non discostarsi dall’appoggio al piano di spartizione, e il 22 febbraio diede il via libera al testo della dichiarazione del rappresentante degli Stati Uniti all’ONU, Warren Austin, pronunciata il 24 davanti al Consiglio di Sicurezza. Sostanzialmente, il contenuto della nota del Dipartimento rendeva chiara l’opinione degli Stati Uniti secondo i quali non esisteva nessuna esplicita disposizione nello Statuto delle Nazioni Unite che autorizzasse l’uso della forza, sancito dal Consiglio di sicurezza, per imporre una raccomandazione dell’Assemblea Generale.101 In poche parole, Washington non avrebbe aiutato a imporre la spartizione (Risoluzione 181) con la forza, prioritaria preoccupazione del presidente Truman, e soprattutto non esisteva alcuna controproposta o ritiro dell’appoggio della spartizione da parte del Dipartimento di 100 Vedi Peter Grose, Israel in the Mind of America, op. cit., p. 258. Lo scoppio della guerra civile fra la comunità arabo-palestinese e lo yishuv, qualunque siano state le cause, o l’approvazione della Risoluzione 181 sulla spartizione o la sua applicazione, autorizzava il Consiglio di Sicurezza a usare tutti gli strumenti operativi d’intervento a sua disposizione, quindi anche la forza, per ripristinare e mantenere condizioni di pace e tranquillità (articolo 42 dello Statuto ONU). Non si trattava di imporre e attuare in modo coercitivo la decisione dell’Assemblea Generale ma di affrontare una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale (articolo 39) che poteva quasi certamente coinvolgere gli Stati (arabi) limitrofi. Il tutto avvalorato dal fatto che il territorio della Palestina è stato amministrato dalla Società delle Nazioni, tramite la Gran Bretagna, e di conseguenza, da chi ne ha rilevato l’eredità istituzionale, vale a dire le Nazioni Unite. 101 Stato. Si serabbe evitato, nel contempo, di concedere anche la più piccola possibilità all’Unione Sovietica di essere coinvolta, anche militarmente, nell’area mediorientale.102 Per quasi tre mesi dal voto decisivo dell’Assemblea Generale, i sionisti esercitarono pressioni di ridotta intensità sul presidente americano. Infatti, dopo essere riuscito a guadagnare la spartizione della Palestina all’ONU, con metodi più o meno leciti da parte dei consiglieri della Casa Bianca, Truman era talmente infastidito e irritato di ulteriori pressioni delle comunità ebraiche americane da non ammettere più incontri privati del genere, fino al marzo 1948, lasciando la questione palestinese nella mani del Segretario di Stato Marshall e delle Nazioni Unite, senza ulteriori intromissioni. La lotta politica fra il Dipartimento di Stato e i sionisti americani, tramite le forti pressioni esercitate da alcuni consiglieri chiave della Casa Bianca (ad es. Niles, Hilldring, e in ultimo Clifford) sul presidente Truman, si era sempre risolta sostanzialmente a favore dei secondi, come testimoniato dalla proposta Morrison-Grady, dall’assegnazione del Negev agli arabi e dall’atteggiamento passivo precedente alla votazione nell’Assemblea Generale del piano di spartizione; ma all’inizio di febbraio si era rimessa in funzione la macchina sionista, vista la preoccupante posizione della burocrazia governativa, che spingeva per una sostanziale inversione della politica americana all’ONU in favore di un’Amministrazione fiduciaria. Il 3 febbraio 1948 si riunirono a Washington eminenti ebrei americani ed emissari dell’Agenzia ebraica. Ne risultarono le seguenti istruzioni pratiche: premere sui meriti e sulla legittimità della decisione assunta dall’ONU il 29 novembre 1947, sottolineando la concordanza di questa con gli interessi nazionali americani nel lungo periodo (sfidando sullo stesso tema la propaganda di Forrestal); L’Unione Sovietica, come superpotenza uscita dal secondo conflitto mondiale, avrebbe rivendicato, giustamente, la sua responsabilità in ogni decisione del Consiglio di Sicurezza, anche in una ipotetica Risoluzione che autorizzasse l’uso di contingenti militari esclusivamente dell’ONU in qualsiasi parte del mondo, anche in Palestina (pertinenti sono gli articoli 43, 44, e 45, 46, 47, mai applicati, della Carta delle Nazioni Unite), con l’ovvia forte preoccupazione del governo statunitense, in un contesto, quale quello del 1947-1948, di rottura definitiva dell’alleanza di guerra fra i due paesi e di concreto pericolo di scontro militare in Europa. 102 esercitare un’intensa campagna di sensibilizzazione sui danni, in chiave elettorale, che un rifiuto ufficiale degli Stati Uniti al sostegno del piano di spartizione avesse potuto provocare. Inoltre, Weizmann era riuscito ad incontrare Truman, dopo un’attesa di circa un mese e mezzo e grazie al decisivo ed estremo intervento andato a buon fine da parte dell’amico d’infanzia Eddie Jacobson. Svoltosi nel più stretto riserbo, tanto da non essere comunicato neppure ad Dipartimento di Stato, il colloquio non espresse nuove informazioni o prese di posizione da parte di Truman non coerenti con le precedenti, ma proprio la contestualità temporale giocò un ruolo fondamentale che provocò uno dei più seri imbarazzi dell’Amministrazione Truman. Infatti, il giorno seguente a questa conversazione segreta, il 19 marzo, era in programma la dichiarazione di Warren Austin di fronte alla sessione del Consiglio di Sicurezza, sulle iniziative da adottare in merito al ritiro definitivo della Gran Bretagna dalla Palestina (15 maggio 1948). Ecco alcuni brani del discorso, preparato da Loy Henderson e Dean Rusk, che evidenziano in nuce la nuova politica che il governo statunitense si accingeva a intraprendere: «The plan proposed by the General Assembly was an integral plan which would not succeed unless each of its parts could be carried out. There seems to be general agreement that the plan cannot now be implemented by peaceful means. From what has been said in the Security Council and in consultations among the several members of the Security Council, it is clear that the Security Council is not prepared to go ahead with efforts to implement this plan in the existing situation. …The Security Council now has before it clear evidence that the Jews and Arabs of Palestine and the mandatory power cannot agree to implement the General Assembly plan of partition through peaceful means. The announced determination of the mandatory power to terminate the mandate on 15 May 1948, if carried out by the United Kingdom, would result, in the light of information now available, in chaos, heavy fighting and much loss of life in Palestine. The United Nations cannot permit such a result. …the Security Council is determined not to permit the situation in Palestine to threaten international peace and, further, that the Security Council should take further action by all means available to it to bring about the immediate cessation of violence and the restoration of peace and order in Palestine. Under the Charter, the Security Council has both an inescapable responsibility and full authority to take the steps necessary to bring about a cease-fire in Palestine and a halt to the incursions being made into that country. The powers of articles 39, 40, 41 and 42 are very great, and the Security Council should not hesitate to use them - all of them - if necessary to bring about peace. In addition, my Government believes that a temporary trusteeship for Palestine should be established under the Trusteeship Council of the United Nations to maintain the peace and to afford the Jews and Arabs of Palestine, who must live together, further opportunity to reach an agreement regarding the future government of that country. Such a United Nations trusteeship would, of course, be without prejudice to the character of the eventual political settlement, which we hope can be achieved without long delay. In our opinion, the Security Council should recommend the establishment of such a trusteeship to the General Assembly and to the mandatory power. This would require an immediate special session of the General Assembly, which the Security Council might call under the terms of the Charter [articolo 20]. Pending the meeting of the special session of the General Assembly, we believe that the Security Council should instruct the Palestine Commission to suspend its efforts to implement the proposed partition plan».103 In poche parole, il rappresentante americano affermava l’impossibilità di applicare la Risoluzione dell’Assemblea Generale sulla spartizione della Palestina con mezzi pacifici e avanzava la proposta di una temporanea Amministrazione fiduciaria, senza pregiudicare un eventuale accordo di compromesso fra le due comunità. Ma è di estrema importanza la volontà del governo americano di sospendere i tentativi da parte del Comitato sulla Palestina (istituito dalla Risoluzione 181) di applicare il piano di spartizione, in attesa che si riunisse nell’immediato, sotto la richiesta del Consiglio di Sicurezza (articolo 20, secondo l’articolo 27, par. 2, essendo la questione di natura procedurale e non sostanziale), una sessione speciale dell’Assemblea Generale. Ma come si arrivò allo scardinamento, se si può chiamare in questo modo, della politica americana sulla Palestina, ossia al passaggio dal grande sforzo e impegno per ottenere il piano di spartizione dall’ONU all’appoggio per una temporanea Amministrazione fiduciaria? Occorre fare un breve passo indietro. L’8 marzo, Truman si incontrò con Marshall e Lovett, e approvò oralmente la proposta del Dipartimento di Stato dell’Amministrazione fiduciaria, qualora il Consiglio di Sicurezza non potesse giungere a un accordo per concretizzare il piano di spartizione, e, il giorno seguente, diede il via libera all’abbozzo del discorso che Austin avrebbe presentato all’ONU. 104 Il 16 marzo, Marshall, timoroso di iniziative impreviste da parte dell’Unione Sovietica, e preoccupato dal peggioramento della situazione sul campo in Palestina, che poteva portare a un necessario intervento militare delle Nazioni Unite, 103 Vedi http://www.yale.edu/lawweb/avalon/decade/decad166.htm, United States Position on the Palestine Problem, Statement by Ambassador Warren R. Austin, United States Representative in the Security Council, March 19, 1948, (Excerpts) oppure Department of State Bulletin, March 29, 1948, pp. 402, 403. 104 Spiegel L. Steven, The Other Arab-Israeli Conflict. Making America’s Middle East Policy, from Truman to Reagan, op. cit., p. 33. incaricò Austin di annunciare il 19 davanti al Consiglio di Sicurezza il ritiro dell’appoggio americano al piano di spartizione, proponendo l’Amministrazione fiduciaria. Il 18 marzo, lo stesso giorno in cui Truman incontrò Weizmann, il Comitato delle Nazioni Unite sulla Palestina annunciò il suo fallimento nel comporre le divergenze tra arabi ed ebrei e concluse: « [to] reach an agreement between the interested parties regarding the future government of Palestine. …[to which end] A temporary trusteeship for Palestine should be established under the Trusteeship Council of the United Nations». 105 In questo modo, il Dipartimento di Stato valutava questa raccomandazione come il presupposto che avrebbe incontrato la clausola di Truman dell’8 marzo, vale a dire che il Consiglio di Sicurezza avrebbe dovuto sospendere gli sforzi circa la spartizione prima di ogni iniziativa americana sull’Amministrazione fiduciaria. Forte dello svolgersi dei fatti, e senza ulteriori consultazioni o conferme dalla Casa Bianca, Austin annunciò la proposta americana dell’Amministrazione fiduciaria, il cui discorso era stato approvato dal presidente il 9 marzo e che causò enormi ripercussioni politiche interne, con accuse e forti critiche dalla stampa sulla nuova politica. Perché ci fu una lacerante frattura fra il Dipartimento di Stato e la Casa Bianca su un documento che lo stesso Truman aveva approvato a grandi linee davanti al Segretario di Stato Marshall, anche se non fu messo al corrente fin nei piccoli dettagli? Le differenze e i contrasti non riguardavano di certo i contenuti della dichiarazione di Austin, ma la sfavorevole scelta del momento per la diffusione fatta dal Dipartimento di Stato e la mancanza di coordinamento con la Casa Bianca. Proprio il non aver avvertito in anticipo il presidente americano di questa mossa gettò in una grave crisi di fiducia le due istituzioni. Truman era assillato da quello che poteva aver pensato Weizmann, dopo le assicurazioni fatte il giorno precedente, ma il Dipartimento di Stato era completamente all’oscuro. Forse, i funzionari 105 Michael J. Cohen, Truman and Israel, op. cit., p. 190. governativi non avevano atteso un voto formale del Consiglio di Sicurezza che licenziasse il piano di spartizione, come ci si poteva attendere dalla condizione di Truman posta l’8 marzo, data l’impossibilità di attuarlo pacificamente. Tuttavia, la relazione dei cinque membri permanenti era abbastanza chiara in merito al fatto che il Consiglio di Sicurezza avrebbe sospeso il piano dell’Assemblea Generale.106 Uno dei più profondi contrasti fra il Dipartimento di Stato e la Casa Bianca era dato, senza ombra di dubbio, dall’incompatibilità politica della prima con i forti legami e interessi politici di Truman e del partito democratico. Il presidente americano, dopo essere stato investito da furenti attacchi sull’atteggiamento politico della Casa Bianca circa la questione palestinese, intraprese una mossa di ripiego, programmando per il 25 marzo 1948 una conferenza stampa in cui avrebbe rilasciato una dichiarazione ufficiale e pubblica, con il fine di rettificare il discorso che Austin aveva pronunciato al Consiglio di Sicurezza: «…This country vigorously supported the plan for partition with economic union recommended by the United Nations Special Committee on Palestine and by the General Assembly. We have explored every possibility consistent with the basic principles of the Charter for giving effect to that solution. Unfortunately, it has become clear that the partition plan cannot be carried out at this time by peaceful means. We could not undertake to impose this solution on the people of Palestine by the use of American troops, both on Charter grounds and as a matter of national policy. The United Kingdom has announced its firm intention to abandon its mandate in Palestine on May 15. Unless emergency action is taken, there will be no public authority in Palestine on that date capable of preserving law and order. Violence and bloodshed will descend upon the Holy Land. Large-scale fighting among the people of that country will be the inevitable result. Such fighting would infect the entire Middle East and could lead to consequences of the gravest sort involving the peace of this Nation and of the world. These dangers are imminent. Responsible governments in the United Nations cannot face this prospect without acting promptly to prevent it. The United States has proposed to the Security Council a temporary United Nations trusteeship for Palestine to provide a government to keep the peace. Such trusteeship was proposed only after we had exhausted every effort to find a way to carry out partition by peaceful means. Trusteeship is not proposed as a substitute for the partition plan but as an effort to fill the vacuum soon to be created by the termination of the mandate on May 15. The trusteeship does not prejudice the character of the final political settlement. It would establish the conditions of order which are essential to a peaceful solution. 106 La Risoluzione 42 del Consiglio di Sicurezza istituiva un gruppo formato dai cinque membri permanenti con lo scopo di consultare e informare il Consiglio in relazione alla tragica situazione della Palestina, e fare raccomandazioni «regarding the guidance and instruction which the Council might usefully give to the Palestine Commission with a view to implementing the resolution of the General Assembly. The Security Council requests the permanent members to report to it on the results of their consultations within ten days». Per il testo della Risoluzione vedi http://www.yale.edu/lawweb/avalon/un/scres042.htm, United Nations Security Council Resolution 42; March 5, 1948, oppure http://domino.un.org/unispal.nsf. If we are to avert tragedy in Palestine, an immediate truce must be reached between the Arabs and Jews of that country».107 Il testo fu preparato da Clifford, e, da questo momento in avanti, i consiglieri della Casa Bianca riguadagnarono il controllo della politica palestinese, a discapito degli esperti funzionari del Dipartimento di Stato, preparando la svolta del 14 maggio. Truman mise subito in chiaro che la proposta americana dell’Amministrazione fiduciaria non costituiva un surrogato del piano di spartizione, che rimaneva la soluzione politica finale prioritaria di convivenza civile fra le due comunità. Infatti, se facciamo un parallelo fra le due dichiarazione, notiamo che anche quella di Austin conteneva l’iniziativa di un’Amministrazione fiduciaria temporanea, ma poteva essere interpretata, come fecero prontamente i sionisti americani, come un completo abbandono del piano di spartizione per il quale essi si erano duramente battuti. Si poteva mettere in discussione quello che i sionisti, aiutati dalla Casa Bianca, erano riusciti a ottenere con i loro tradizionali metodi (pressioni, propaganda, minacce, raggiri, corruzione), e una delle ultime frasi del discorso di Austin sicuramente alimentava questo timore.108 Il presidente americano, dal canto suo, con il ritocco espresso il 25 marzo, manteneva esplicitamente ferma la Risoluzione del piano di spartizione votata dall’Assemblea Generale, e valutò come provvisorio e secondario il piano dell’Amministrazione fiduciaria, finalizzato a riempire il vuoto di potere con l’uscita di scena della Gran Bretagna, e alla ricerca di una tregua fra le parti che doveva stare nei binari di una divisione politica della Palestina, ormai decisa e ratificata dalla comunità internazionale e diventata un caposaldo per i futuri negoziati. 107 Vedi http://www.yale.edu/lawweb/avalon/decade/decad167.htm, United States Proposal for Temporary United Nations Trusteeship for Palestine, Statement by President Truman, March 25, 1948, oppure Department of State Bulletin, vol. 18, No. 457, April 4, 1948, p. 451. 108 «Pending the meeting of the special session of the General Assembly, we believe that the Security Council should instruct the Palestine Commission to suspend its effort to implement the proposed partition plan». 3 Il riconoscimento dello Stato d’Israele da parte della Casa Bianca L’episodio imbarazzante dell’iniziativa della diplomazia americana, con la correzione repentina fatta dal presidente americano, fece scendere paurosamente la sua popolarità, nel momento in cui diverse personalità del Partito democratico erano intenzionate a puntare su un altro candidato per la corsa presidenziale del novembre successivo. Truman aveva deciso di intraprendere la sfida elettorale proprio perché desiderava essere un Presidente eletto e non più nominato, e nel frattempo le pressioni sioniste stavano gradatamente aumentando. La proposta dell’Amministrazione fiduciaria riscosse poco entusiasmo all’ONU, in primo luogo a causa dell’opposizione di arabi, ebrei e di altri importanti Stati, ma soprattutto perché se gli Stati Uniti non erano disposti a impiegare truppe in Palestina per imporre il piano di spartizione,109 anche per l’Amministrazione fiduciaria era parsa più che chiara la necessità di un intervento militare esterno, sotto l’egida delle Nazioni Unite, per far osservare quest’altra opzione temporanea. I leader sionisti erano convinti che la sorte di un’entità statale ebraica in Palestina sarebbe stata decisa non dalle parole, ma dagli eventi sul terreno: gli ebrei stavano lottando per creare il loro Stato de facto e i dibattiti senza fine a New York apparivano più accademici e sempre meno attinenti con la realtà. Dalla fine di marzo gli equilibri militari, che avevano visto un vantaggio consistente dei combattenti arabi, sostenuti dai paesi vicini, mutarono a causa dell’invio clandestino dalla Cecoslovacchia e dagli Stati Uniti110 (nonostante fosse in vigore l’embargo, ma tramite i soliti metodi) di partite di armi pesanti a favore della comunità ebraica. Constatata la ferma volontà di Washington di non schierare i propri militari in Palestina, prendeva sempre più credito la proclamazione unilaterale dello Stato ebraico: perdevano 109 Discorso di Austin del 24 febbraio e dichiarazione di Truman del 25 marzo («we could not undertake to impose this solution on the people of Palestine by the use of American troops, both on the Charter grounds and as a matter of national policy»). 110 Vedi Peter Grose, Israel in the Mind of America, op. cit., pp. 279-280. immediatamente d’importanza le questioni della spartizione o del piano di Amministrazione fiduciaria, e il vero problema era se (e quando) il governo degli Stati Uniti lo avrebbe o meno riconosciuto. Gli sforzi dei sionisti si indirizzarono verso il vero fine, il riconoscimento americano, ossia mettere l’Amministrazione Truman di fronte ad un fait accompli, abbinato a un’effettiva difesa del territorio assegnato dall’Assemblea Generale allo yishuv.111 Il 1° aprile, il Consiglio di Sicurezza emanò due Risoluzioni: la n° 43 convocava l’Agenzia ebraica e l’Alto Comitato arabo con lo scopo di ordinare una tregua; la n° 44 richiedeva, in conformità con l’articolo 20 della Carta delle Nazioni Unite, di convocare una sessione speciale dell’Assemblea Generale per dibattere sul problema del futuro governo in Palestina, visto che l’evacuazione britannica era irreversibile.112 Infatti, con la fine di marzo, i combattimenti aumentarono d’intensità e le organizzazioni militari ebraiche passarono all’offensiva. Il 9 aprile, a Deir Yassin, villaggio della Giudea a circa cinque chilometri a ovest da Gerusalemme e situato nel territorio all’interno del quale era previsto un corpus separatum sottoposto a un regime internazionale, venne scritta una delle pagine più brutte nella storia del conflitto fra arabi ed ebrei: approssimativamente 250 abitanti arabi furono massacrati e trucidati da bande militari dell’Irgun, capeggiato dal futuro Primo ministro Menachem Begin, e del Lehi. 113 Questo fu il commento all’episodio di un esponente militare israeliano: «We suffered a reverse of a different nature on April 9 when combined Etzel [Irgun] and Stern Gang units mounted a deliberate and unprovoked attack on the Arab village of Deir Yassin on the western edge of Jerusalem. There was no reason for the attack. It was a quiet village, which had denied entry to the volunteer Ben Gurion, in risposta all’iniziativa di un’Amministrazione fiduciaria, si pronunciò in questi termini: «it is we who will decide the fate of Palestine. We cannot agree to any sort of trusteeship, permanent or temporary – the Jewish state exists because we defend it». Vedi Peter Grose, Israel in the Mind of America, op. cit., p. 275. 112 Per i testi delle Risoluzioni vedi rispettivamente http://www.yale.edu/lawweb/avalon/un/scres043.htm, United Nations Security Council Resolution 43; April 1, 1948 o http://domino.un.org/unispal.nsf; http://www.yale.edu/lawweb/avalon/un/scres044.htm, United Nations Security Council Resolution 44; 1 April 1948 o http://domino.un.org/unispal.nsf. 113 Israele ha avuto Primi ministri che furono responsabili di inauditi crimini di guerra e contro l’umanità: Menachem Begin (1977-1984; nel 1978 gli venne assegnato il Premio Nobel per la Pace, assieme con il leader egiziano Anwar Sadat, per i notevoli passi avanti nel processo di pace fra i due paesi, conclusosi nel marzo 1979 con la firma del trattato), e Ariel Sharon (2001- attuale) che autorizzò la milizia falangista libanese, alleata dello Stato ebraico, a compiere il massacro di rifugiati palestinesi nei campi profughi di Shatilla e Sabra, sobborghi di Beirut, nel settembre 1982. 111 Arab units from across the frontier and which had not been involved in any attacks on Jewish areas. The dissident groups chose it for strictly political reasons. It was a deliberate act of terrorism... Women and children had not been given time enough to evacuate the village, although warned to do so by loudspeaker, and there were many of them among the 254 persons reported by the Arab Higher Committee as killed. The event was a disaster in every way. The dissidents held the village for two days and then abandoned it. They earned the contempt of most Jews in Jerusalem, and an unequivocal public repudiation by the Jewish Agency. But they gave the Arabs a strong charge against us, and the words 'Deir Yassin' were used over and over again both to justify their own atrocities and to persuade Arab villagers to join the mass flight which was now taking place all over Palestine».114 Deir Yassin, oltre a essere un simbolo dell’aggressività ebraica, rimase un punto di riferimento nel conflitto fra le due comunità per il controllo della maggior parte della Palestina, poiché la tattica psicologica delle organizzazioni militari e terroristiche ebraiche ebbe effetto, con l’inizio dell’esodo palestinese, caratterizzato dalla massiccia fuga della popolazione civile o dall’espulsione forzata diretta. Certamente, essa agevolò il piano militare e politico dello yishuv, di spopolare le città e i villaggi rientranti nello Stato ebraico (e non solo) definito dalla Risoluzione 181 di arabi, ripopolandoli con la popolazione e gli immigrati ebrei. Circa 200 000 arabi non aspettarono altro tempo, visti gli efferati metodi ebraici che indubbiamente potevano essere interpretati come un esempio che poteva ripetersi, e scapparono dalle loro case e terreni.115 Deir Yassin diventò un catalizzatore dell’esodo arabo palestinese grazie alla «psicosi della fuga» rafforzata dal «fattore atrocità». 116 Il 17 aprile, significativamente dopo i fatti di Deir Yassin, il Consiglio di Sicurezza votò la Risoluzione 46 che, oltre a esigere dalle parti in conflitto di astenersi dall’importare o acquistare materiale bellico, richiedeva di «refrain, pending further consideration of the future Government of 114 Vedi http://www.un.org/Dept/dpa/qpal/dpr/DPR_pp_2.htm. Per ulteriori approfondimenti guarda http://www.palestineremembered.com/Jerusalem/Dayr-Yasin/. 115 Vedi Peter Grose, Israel in the Mind of America, op. cit., p. 281. 116 Pronta e immediata fu la risposta delle forze irregolari arabe il 13 aprile, dove un convoglio che trasportava infermieri e medici ebrei diretto a Gerusalemme cadde in una imboscata, e rimasero uccisi più di 70 persone. Vedi Benny Morris, Vittime, op. cit., pp. 267, 323. Palestine by the General Assembly, from any political activity which might prejudice the rights, claims, or position of either community».117 Le Nazioni Unite, e al loro interno la delegazione americana, dopo aver appoggiato il piano di spartizione con la Risoluzione 181 e la proposta di Amministrazione fiduciaria, ripiegarono ulteriormente per una “semplice” tregua provvisoria, decisa dalla Risoluzione 48 del Consiglio di Sicurezza in cui veniva istituita una commissione di armistizio con il precipuo compito «to assist the Security Council in supevising the implementation by the parties of its resolution 46».118 Per i sionisti e lo yishuv era solamente un’altra formula, l’ennesima, per ritardare la situazione senza via d’uscita della Palestina all’ONU, e la prima settimana di maggio i dibattiti all’interno del Consiglio esecutivo dell’Agenzia ebraica si svilupparono con la decisione di dichiarare unilateralmente l’indipendenza del nuovo Stato ebraico immediatamente con la partenza dei britannici, programmata per il 15 maggio. Questo stallo diplomatico andava tutto a svantaggio della comunità ebraica in Palestina, potendo potenzialmente sfociare in un mutamento del piano di spartizione o altro. L’8 maggio, in un incontro fra Lovett, Rusk, Moshe Shertok e Marshall, quest’ultimo mise in chiaro, dopo aver espresso forti dubbi sulla riuscita militare ebraica, che gli Stati Uniti non avrebbero fornito nessun tipo di aiuto militare e lasciava l’intera responsabilità, come la piena libertà di decidere qualsiasi azione, sulla spalle dei leader sionisti: un’anticipazione del “semaforo giallo” concesso da Lyndon Johnson a Israele nel ’67 («Israel will not be alone unless it decides to go alone»). Con l’impasse diplomatica a New York e l’evolversi dei fatti reali in Palestina favorevoli agli ebrei, gli Stati Uniti iniziarono a considerare seriamente l’eventualità di riconoscere il nuovo Stato ebraico: soprattutto la Casa Bianca, spinta dai consiglieri presidenziali filosionisti. 117 Vedi http://www.yale.edu/lawweb/avalon/un/scres046.htm, United Nations Security Council Resolution 46; April 17, 1948 o http://domino.un.org/unispal.nsf. 118 Vedi http://www.yale.edu/lawweb/avalon/un/scres048.htm, United Nations Security Council Resolution 48; April 23, 1948 o http://domino.un.org/unispal.nsf. Il momento decisivo e, per certi versi, paradossale fu l’incontro, il 12 maggio, fra Clark Clifford, David Niles, Matt Connelly e rappresentanti del Dipartimento di Stato, Marshall, Lovett, Fraser Wilkins, Robert McClintock, presieduto dal presidente americano (con l’assenza notevole, non a caso, di Loy Henderson). Clifford sostenne che la politica della diplomazia americana nel cercare un accordo fra arabi ed ebrei per una tregua temporanea fosse del tutto non realistica, e suggerì a Truman di riconoscere il nuovo Stato ebraico nella conferenza stampa del giorno seguente (13), già in programma, in modo da anticipare la medesima mossa da parte dell’Unione Sovietica.119 Per avvalorare maggiormente la tesi, il consigliere della Casa Bianca sottolineò la necessità che il riconoscimento fosse coerente con la politica palestinese adottata dagli Stati Uniti negli ultimi tre anni: una linea, questa, che avrebbe recuperato e salvato il prestigio della Nazioni Unite, e, quanto alle elezioni presidenziali del novembre prossimo, cosa assai sensibile per i funzionari del Dipartimento di Stato, avrebbe ripristinato la posizione del Presidente nei confronti dell’elettorato ebraico. In sostanza, quello che suggeriva Clifford era un riconoscimento in anticipo di uno Stato prima della sua costituzione e senza nessuna richiesta o domanda ufficiale in merito, cosa estremamente curiosa. In questi termini si pronunciò il vicesegretario di stato Robert Lovett, contrario soprattutto a collegare motivi di politica interna, come lo erano le elezioni presidenziali e il peso del voto ebraico, alle decisioni di politica internazionale; in aggiunta, un riconoscimento anticipato poteva solamente provocare gravissimi danni agli sforzi della delegazione americana nella sessione speciale dell’Assemblea Generale in corso. Il Segretario di Stato George Marshall reagì in questa maniera: «I remarked to the President that, speaking objectively, I could not help but think that the suggestions made by Mr. Clifford were wrong. I thought that to adopt these suggestions would have precisely the opposite effect from that intended. 119 Clifford aveva redatto il testo della dichiarazione che Truman avrebbe dovuto annunciare nella conferenza stampa del 13 maggio, in cui era affermata l’intenzione degli Stati Uniti di riconoscere sia lo Stato ebraico sia lo Stato arabo in Palestina, se e quando fossero stati dichiarati. Vedi Peter Grose, Israel in the Mind of America, op. cit., p. 290. …The transparent dodge to win a few votes would not in fact achieve this purpose. The great dignity of the office of President would be seriously diminished. The counsel offered by Mr. Clifford was based on domestic political considerations, while the problem which confronted us was international».120 Truman aveva constatato le posizioni più che mai ferme del Dipartimento di Stato e soprattutto di Marshall, contrarie al riconoscimento in anticipo del nuovo Stato ebraico, e fece cadere il suggerimento di Clifford. Infatti, per il presidente americano lo scopo della riunione era proprio quello di persuadere il generale alle idee dei suoi consiglieri (Clifford e Max Lowenthal), ma non essendo riuscito nell’impresa non voleva rompere politicamente con Marshall, elemento chiave, proprio a due mesi dalla Convention del Partito Democratico e a sei dalle elezioni presidenziali, nelle quali sembrava un sicuro perdente. Ma un elemento degno di nota scaturito da questa riunione politica di alto livello fu il seguente: il Dipartimento di Stato non aveva preso posizione sulla questione se il riconoscimento dello Stato ebraico dovesse essere rifiutato o meno dopo una richiesta ufficiale indirizzata al governo degli Stati Uniti. In questo modo, i consiglieri della Casa Bianca si misero subito all’opera, mettendosi in contatto con personalità ebraiche, tra le quali Chaim Weizmann, che però non ricopriva nessuna posizione ufficiale nello yishuv. Come seconda scelta, venne avvisato la mattina del 14 maggio Eliahu Epstein, il rappresentante dell’Agenzia ebraica a Washington, informandolo della possibilità che il nuovo Stato ebraico poteva essere riconosciuto dal presidente degli Stati Uniti, nella condizione che fosse arrivata un’appropriata richiesta ufficiale dai rappresentati del governo provvisorio in tal senso. Il testo arrivato alla Casa Bianca era il seguente: «MY DEAR MR. PRESIDENT: I have the honor to notify you that the state of Israel has been proclaimed as an independent republic within frontiers approved by the General Assembly of the United Nations in its Resolution of November 29, 1947, and that a provisional government has been charged to assume the rights and duties of government for preserving law and order within the boundaries of Israel, for defending the state against external aggression, and for discharging the obligations of Israel to the other nations of the world in accordance 120 Vedi Fraser T. G., The USA and the Middle East Since World War 2, op. cit., p. 47 e Peter Grose, Israel in the Mind of America, op. cit., p. 291. with international law. The Act of Independence will become effective at one minute after six o'clock on the evening of 14 May 1948, Washington time. With full knowledge of the deep bond of sympathy which has existed and has been strengthened over the past thirty years between the Government of the United States and the Jewish people of Palestine, I have been authorized by the provisional government of the new state to tender this message and to express the hope that your government will recognize and will welcome Israel into the community of nations. Very respectfully yours, ELIAHU EPSTEIN Agent, Provisional Government of Israel».121 Dopo aver ottenuto il tacito assenso di Marshall la mattina del 14, non esisteva più nessun ostacolo di fronte al riconoscimento ufficiale della Casa Bianca dello Stato ebraico. Il problema chiave, come lo era stato per la proposta dell’Amministrazione fiduciaria avanzata dal Dipartimento di Stato nel marzo precedente, era diventato la scelta del momento più opportuno per rendere pubblico l’importantissimo documento politico. Clifford, altamente sensibile della politica domestica, riteneva cruciale riconoscere il nuovo Stato il più presto possibile e precedere in questo l’Unione Sovietica, mentre le pressioni sioniste aumentavano repentinamente. Dal suo canto, Lovett protestò vivamente contro questa immotivata urgenza e chiese di prorogare di qualche giorno, giusto il tempo di informare i funzionari americani alle Nazioni Unite e i governi britannico e francese; inoltre, si stava svolgendo propri il pomeriggio del 14 la sessione speciale dell’Assemblea Generale, su insistenza del governo americano, per esaminare la situazione in Palestina con il fine di raggiungere una tregua temporanea.122 Alle 16:00 ora in Palestina (ore 10:00 di Washington), del 14 maggio 1948 (il 5° di Iyar, l’ottavo mese del calendario ebraico, 5708), Ben Gurion, fondatore del Mapai (acronimo di Mifleget Poalei Israel, Partito dei lavoratori di Israele) e capo dell’Agenzia ebraica (1935-1948) lesse davanti al 121 Vedi http://www.yale.edu/lawweb/avalon/decade/decad169.htm, Independence of Israel, Letter From the Agent of the Provisional Governmental of Israel to the President of the Unites States, May 14, 1948, o Department of State Bulletin of May 23, 1948, p. 673. Il testo della richiesta ufficiale di riconoscimento arrivò alla Casa Bianca attorno a mezzogiorno (ora di Washington) del 14 maggio (le 18:00 in Palestina). 122 In riguardo a questa frenetica situazione, Lovett scrisse: «my protest against the precipitate action and warnings as to consequences with the Arab world appear to have been outweighed by considerations unknow to me, but I can only conclude that the President’s political advisers, having failed last Wednesday afternoon [12 maggio] to make the President a father of the new state, have determined at least to make him the midwife». Vedi Michael J. Cohen, Truman and Israel, op. cit., p. 219. Consiglio nazionale provvisorio riunitosi a Tel Aviv l’atto di costituzione dello Stato di Israele. La proclamazione avvenne poco prima del ritiro delle ultime truppe britanniche dalla Palestina, esattamente dal porto di Haifa. Eccone alcuni stralci: «The land of Israel [Eretz Yisrael] was the birthplace of the Jewish people. …In the year 1897 the First Zionist Congress, inspired by Theodor Herzl's vision of the Jewish State, proclaimed the right of the Jewish people to national revival in their own country. This right was acknowledged by the Balfour Declaration of November 2, 1917, and re-affirmed by the Mandate of the League of Nations, which gave explicit international recognition to the historic connection of the Jewish people with Palestine and their right to reconstitute their National Home. The Nazi holocaust, which engulfed millions of Jews in Europe, proved anew the urgency of the re-establishment of the Jewish state, which would solve the problem of Jewish homelessness by opening the gates to all Jews and lifting the Jewish people to equality in the family of nations. The survivors of the European catastrophe, as well as Jews from other lands, proclaiming their right to a life of dignity, freedom and labor, and undeterred by hazards, hardships and obstacles, have tried unceasingly to enter Palestine. In the Second World War the Jewish people in Palestine made a full contribution in the struggle of the freedom-loving nations against the Nazi evil. The sacrifices of their soldiers and the efforts of their workers gained them title to rank with the peoples who founded the United Nations. On November 29, 1947, the General Assembly of the United Nations adopted a Resolution for the establishment of an independent Jewish State in Palestine, and called upon the inhabitants of the country to take such steps as may be necessary on their part to put the plan into effect. This recognition by the United Nations of the right of the Jewish people to establish their independent State may not be revoked. It is, moreover, the selfevident right of the Jewish people to be a nation, as all other nations, in its own sovereign State. ACCORDINGLY, WE, the members of the National Council, representing the Jewish people in Palestine and the Zionist movement of the world, met together in solemn assembly today, the day of the termination of the British mandate for Palestine, by virtue of the natural and historic right of the Jewish and of the Resolution of the General Assembly of the United Nations, HEREBY PROCLAIM the establishment of the Jewish State in Palestine, to be called ISRAEL. THE STATE OF ISRAEL will be open to the immigration of Jews from all countries of their dispersion; will promote the development of the country for the benefit of all its inhabitants; will be based on the precepts of liberty, justice and peace taught by the Hebrew Prophets; will uphold the full social and political equality of all its citizens, without distinction of race, creed or sex; will guarantee full freedom of conscience, worship, education and culture; will safeguard the sanctity and inviolability of the shrines and Holy Places of all religions; and will dedicate itself to the principles of the Charter of the United Nations. THE STATE OF ISRAEL will be ready to cooperate with the organs and representatives of the United Nations in the implementation of the Resolution of the Assembly of November 29, 1947, and will take steps to bring about the Economic Union over the whole of Palestine. We appeal to the United Nations to assist the Jewish people in the building of its State and to admit Israel into the family of nations. …Our call goes out the Jewish people all over the world to rally to our side in the task of immigration and development and to stand by us in the great struggle for the fulfillment of the dream of generations - the redemption of Israel».123 Vedi http://www.yale.edu/lawweb/avalon/mideast/israel.htm, Declaration of Israel’s Independence 1948. I 37 firmatari, membri del Consiglio di Stato provvisorio erano: David Ben-Gurion, Daniel Auster, Mordekhai Bentov, Yitzhak Ben-Zvi, Eliyahu Meir Berligne, Perez (Fritz) Bernstein, Rabbi Wolf Gold, Meir Grabovsky (Argov), Yitzchak 123 Nella dichiarazione d’Indipendenza israeliana ci sono alcuni passi che meritano di essere approfonditi. In primo luogo, come di consueto in vari documenti ufficiali sionisti e non, veniva ribadito il riconoscimento internazionale del legame storico del popolo ebraico con la Palestina. Poi, si cercava di legittimare il nuovo Stato e le esigenze dell’impresa sionista facendo riferimento all’Olocausto nazista e al sacrificio dei soldati ebrei nel Secondo conflitto mondiale.124 Era ripetuta la frase della Risoluzione di spartizione del novembre 1947, che chiedeva agli abitanti della Palestina di intraprendere le iniziative necessarie per attuare il piano, e si menzionarono il diritto naturale e storico del popolo ebraico di ricostituire uno Stato proprio. Inoltre, vi era un richiamo all’apertura delle porte del nuovo Stato d’Israele agli immigrati ebraici provenienti da ogni paese della Diaspora, alla piena uguaglianza sociale e politica a tutti i cittadini (quindi anche agli eventuali arabi che ricadevano entro i confini israeliani, determinati dall’Assemblea Generale dell’ONU, e nei territori sotto il controllo militare israeliano). Gruenbaum, Dr. Abraham Granott (Granovsky), Eliyahu Dobkin, Meir Vilner-Kovner, Zerah Warhaftig, Herzl Vardi, Rachel Cohen, Rabbi Kalman Kahana, Saadia Kobashi, Rabbi Yitzchak Meir Levin, Meir David Loewenstein, Zvi Lurie, Golda Meir (Myerson), Nachum Nir-Rafalkes, Zvi Segal, Rabbi Yehuda Leib Hacohen (Fishman), David Zvi Pinkas, Aharon Zisling, Moshe Kol (Kolodny), Eliezer Kaplan, Abraham Nissan (Katznelson), Pinhas Rosen (Felix Rosenblueth), Moshe David Remez, Berl Repetur, Mordekhai Shattner, Ben Zion Sternberg, Behor Shalom Shitrit, Moshe (Hayyim) Shapira, Moshe Sharett (Shertok). 124 Su questo tema è molto utile il libro dello storico Tom Segev da cui è tratto questo passaggio: «in realtà l’Olocausto segnò la sconfitta del sionismo, il suo fallimento. In sostanza non era riuscito a convincere la maggioranza degli ebrei d’Europa a recarsi in Palestina finché erano ancora in tempo. Poi, nel momento del bisogno, il movimento era stato troppo debole per aiutarli davvero. L’Olocausto affossò anche il sogno del pioniere sionista, il sogno di un ebreo diventato «nuovo» per scelta e ideologia e non sotto la spinta della necessità e della fuga. …con la loro [le vittime dell’Olocausto morte avevano sabotato il sogno sionista». Certamente, i leader della comunità ebraica in Palestina e il sionismo internazionale furono gravemente danneggiati dallo sterminio ebraico in Europa soprattutto a causa di due fattori: il primo, con l’ingente numero di morti massacrati, poteva far diventare sterile tutta la propaganda sionista della necessità di uno Stato ebraico per i milioni della Diaspora; il secondo era il fondato timore che la maggior parte dei superstiti voleva restare in Europa o in altri paesi, ma non ambivano la meta della Palestina. I capi dello yishuv, Ben Gurion in testa, avevano come priorità la costruzione dello Stato ebraico a scapito di tutto il resto, e secondariamente il salvataggio di vite umane dalla carneficina nazista. Vi era un profondo contrasto fra gli ebrei in Europa, vittime dell’Olocausto, e gli ebrei della Palestina. Vedi Tom Segev, Il settimo milione. Come l’Olocausto ha segnato la storia di Israele, op. cit., pp. 89-91, 94, 110-113. Vedi inoltre Zeev Sternhell, Nascita di Israele. Miti, storia, contraddizioni, Milano, Baldini&Castoldi, 1999 (tit. or.: The Founding Myths of Israel, Princeton, Princeton University Press, 1998), pp. 437-439, dove l’autore afferma che «il sionismo si basava su una negazione della diaspora». Particolare impegno ad assumersi da parte della nuova dirigenza degli obblighi derivanti dall’appartenenza alle Nazioni Unite, dove si esprime che lo Stato d’Israele «will dedicate itself to the principles of the Charter of the Unites Nations. …will be ready to cooperate with the organs and representatives in the implementation of the Resolution of the Assembly of November 29, 1947». Con un giudizio a posteriori, si vede inequivocabilmente la violazione da parte israeliana di numerose Risoluzioni, del Consiglio di Sicurezza come dell’Assemblea Generale, concernenti il ritiro dai territori occupati del ’67, gli insediamenti illegali di coloni in queste zone, ecc.., ma ha, in modo opportuno e nei tempi dovuti (a loro favorevoli), rivendicato il valore della Risoluzione 181. Tuttavia, senza andare troppo lontano nei tempi, basti pensare che il mediatore svedese Conte Folke Bernadotte, nominato il 20 maggio dai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza in virtù della Risoluzione 186125 dell’Assemblea Generale con il compito di esercitare «his good office with the local and community authorities in Palestine to… promote a peaceful adjustment of the future situation of Palestine» (in pratica, cercare una soluzione permanente attraverso negoziati con i belligeranti), è stato assassinato, secondo la versione ufficiale del governo di Tel Aviv, dall’organizzazione terroristica Lehi, che aveva stretti contatti con l’Haganah e, di conseguenza, con i leader dello yishuv.126 Infine, la proclamazione unilaterale dello Stato di Israele vìola gravemente la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza 46, per motivi espressi in precedenza («refrain, pending further consideration of the future Government of Palestine by the General Assembly, from any political activity which might prejudice the rights, claims, or position of either community»), poiché quest’ultimo, in situazioni di minaccia per la pace come lo era la Palestina nel 1948, detiene «la responsabilità principale del 125 Vedi http://www.yale.edu/lawweb/avalon/un/gres186.htm, U.N. General Assembly Resolution 186, Appointment and terms of reference of a Unites Nations Mediator in Palestine; May 14, 1948 oppure http://domino.un.org/unispal.nsf. 126 Non ha valore affermare che l’omicidio del Conte Bernadotte è stato compiuto da uno sparuto gruppo di terroristi ebraici, completamente estraneo dalle autorità ufficiali dello yishuv prima e dello Stato israeliano poi, visto che, per esempio, nell’eccidio di Deir Yassin, le organizzazioni terroristiche dell’Irgun e del Lehi ebbero «l’assistenza della Haganah», il futuro esercito israeliano (IDF). Vedi Benny Morris, Vittime, op. cit., p. 264. mantenimento della pace e della sicurezza internazionale» (art. 24, par. 1, e il corollario della norma sancita dall’art. 12, par. 1) e che «qualsiasi questione del genere per cui si renda necessaria un’azione deve essere deferita al Consiglio di Sicurezza da parte dell’Assemblea Generale» (art. 11, par. 2). In altre parole, l’esecuzione del piano di spartizione non era più invocabile dalle autorità ufficiali dello yishuv, perché la situazione sul campo in Palestina aveva tutti i presupposti per ricadere sotto il cap. VII della Carta dell’ONU, in cui il Consiglio di Sicurezza ha la competenza esclusiva, a discapito dell’Assemblea Generale che ha un incompetenza piena e assoluta in merito. Alle 18:11 di Washington del 14 maggio 1948 (00:11 del 15 maggio in Israele), appena dieci minuti dall’entrata in vigore della proclamazione d’Indipendenza di Ben Gurion, la Casa Bianca emise una dichiarazione stampa con cui veniva concesso il riconoscimento internazionale de facto al governo provvisorio del nuovo Stato di Israele in questi termini: «this Government has been informed that a Jewish state has been proclaimed in Palestine, and recognition has been requested by the provisional government thereof. The United States recognizes the provisional government as the de facto authority of the new State of Israel».127 Con questo atto, il governo statunitense approvò, in pratica, il sabotaggio israeliano verso gli sforzi per una tregua temporanea, danneggiando irrimediabilmente i tentativi che la delegazione americana stava facendo alla sessione speciale dell’Assemblea Generale, in corso proprio il 14 maggio; violò, come i leader della comunità ebraica in Palestina, la Risoluzione 46 del Consiglio di Sicurezza e quella n° 48. Alle Nazioni Unite, molti delegati rimasero sbalorditi della mossa presidenziale, e persino lo staff americano rimase ignaro quasi del tutto, perdendo in credibilità. Il 15 maggio 1948, iniziava la prima di una lunga serie di guerre fra israeliani e arabi: per i primi si trattava della guerra d’Indipendenza,128 i secondi la qualificarono come al-nāqba, “la catastrofe”, per Il riconoscimento de iure venne dato dal governo americano il 31 gennaio 1949, con l’instaurazione dell’Assemblea Costituente il 25 gennaio a seguito delle prime elezioni generali. In contemporanea venne riconosciuta, sempre di diritto, anche la Transgiordania, il principale cliente della Gran Bretagna nel Medio Oriente assieme all’Egitto. 127 identificare la perdita della maggior parte della Palestina e la (prima) diaspora palestinese verso i paesi arabi vicini. La Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale mutuava il principio della divisione politica del territorio mandatario della Palestina dal piano Peel del 1937, con due importanti modifiche: approssimativamente il Negev era assegnato allo Stato ebraico e la Galilea a quello arabo, anche se le raccomandazioni del piano Bernadotte129 del settembre 1948 tornavano, in sostanza, alle proposte del piano Peel; ma soprattutto non si faceva menzione, eufemisticamente, del «trasferimento di popolazioni». Di fatto, l’assenza di questa disposizione avallò il ricorso, quasi essenzialmente da parte ebraica, a una violenza sistematica per obbligare la popolazione civile araba alla deportazione dalle zone sotto il suo controllo. Nasceva, nel modo più tragico, il dramma di centinaia di migliaia di profughi arabopalestinesi, ancora oggi lontano dall’essere risolto: il maggiore ostacolo, forse, assieme alle colonie israeliane nei “territori occupati” e alla questione di Gerusalemme, nei negoziati fra le parti in causa.130 Vedi “The Economist”, Peace out of war, 20 ottobre 2001, pp. 13-14. Interessanti sono le prime righe dell’articolo che brevemente analizzano il fattore della guerra sulla storia di Israele e sull’impresa diplomatica per crearlo: «war has fashioned Israel. The wars against its unfriendly Arab neighbours of course, but also the world wars of the past century. The Balfour Declaration, a product of the first world war, pointed the way for a Jewish state in Palestine; the UN partition resolution at the end of the second world war divided the land; the Madrid conference, after the Gulf war, set the scene for Israeli-Palestinian talks». 129 Vedi http://www.yale.edu/lawweb/avalon/decade/decad170.htm, Conclusions From Progress Report of the United Nations Mediator on Palestine, September 16, 1948 oppure in U.N. doc. A/648 (part one, p. 29; part two, p. 23 and part three, p. 11), September 18, 1948; Department of State Bulletin of October 3, 1948, pp. 436-440. 130 La legalità e la legittimità del diritto dei palestinesi a rientrare in patria derivano dalla Risoluzione 194 dell’Assemblea Generale, votata l’undici dicembre 1948, ma anche da tutti i princìpi dei diritti umani e dai trattati internazionali consuetudinari. La Risoluzione stabilisce che «the refugees wishing to return to their homes and live at peace with their neighbours should be permitted to do so at the earliest practicable date, and that compensation should be paid for the property of those choosing not to return and for loss of or damage to property which, under principles of international law or in equity, should be made good by the Governments or authorities responsible; instructs the Conciliation Commission to facilitate the repatriation, resettlement and economic and social rehabilitation of the refugees and the payment of compensation». Per il testo vedi http://domino.un.org/unispal.nsf. 128 179 Capitolo 5 Diplomazia sterile e forza dei fatti Il contributo essenziale degli Stati Uniti alla nascita del nuovo Stato ebraico non deve essere interpretato come decisivo o determinante. L’Amministrazione americana, con il suo immediato riconoscimento de facto, il forte peso politico e il prestigio, concesse a Israele legittimità internazionale. Tuttavia, dopo l’istituzione del Mandato britannico e il diritto garantito alla comunità ebraica (yishuv) di far affluire una determinata quantità annuale di immigrati, si era arrivati a un punto critico per il futuro politico della Palestina, poiché era diventato maturo il momento in cui gli ebrei avrebbero rivendicato il possesso (e il diritto) di una parte del territorio mandatario in ambito internazionale. E questa pressione, prima demografica e poi politica, sarebbe potuta sfociare in una guerra fra i protagonisti, i quali erano del tutto consapevoli di questo eventuale sviluppo tragico. La dichiarazione d’Indipendenza del governo provvisorio israeliano poneva le diplomazie mondiali, che tentavano di scongiurare un imminente conflitto, di fronte a un “fatto compiuto”: la stessa tattica che poi impiegata abilmente dai governi israeliani nei primi anni di vita del nuovo Stato e, per altri aspetti, fino ai giorni nostri. Già dai primi mesi di lotta militare, intervallati da brevi tregue 180 avallate dalle Nazioni Unite, ci si rendeva sempre più conto che gli ebrei avrebbero mantenuto la loro indipendenza politica con la questione centrale riguardante la dimensione territoriale che avrebbero potuto controllare.1 Il fatto estremamente importante fu che, con l’invasione di cinque eserciti arabi in Palestina, Egitto, Transgiordania, Siria, Libano e Iraq, il 15 maggio 1948, i primi due Stati erano legati strettamente alla Gran Bretagna con accordi di protettorato o comunque che includevano una forte ingerenza in politica interna e soprattutto nella relazioni esterne. Si prospettava minacciosamente, in questo modo, una situazione impensabile e teorica che i due Stati anglosassoni legati da una special relationship, Stati Uniti e Gran Bretagna, avrebbero rifornito e aiutato due piccoli Stati nemici in un grave conflitto. 1 Il piano Bernadotte La politica di neutralità fra arabi ed ebrei che caratterizzò la condotta della Gran Bretagna nei confronti del problema palestinese, venuto alla ribalta proprio con la rinuncia unilaterale al Mandato nel febbraio 1947, necessitava di una svolta in favore di un’attiva presa di posizione, ora che la guerra metteva a rischio le relazioni dell’occidente con l’intero Medio Oriente. La nomina del mediatore 1 «Since 1948, cease-fires in the Arab-Israeli wars have been utilized to prepare for the next round of fighting. Exhausted troops have time to rest, equipment is repaired, ammunition supplies are replenished, and new firing positions and plans are drawn up, all under the cover of a diplomatic initiative and temporary halt to the fighting. The question following each episode is which side was more successful in taking advantage of the relative period of quiet». Vedi Gerald M. Steinberg, The End of the Pseudo Cease-Fire, The Internet Jerusalem Post, July, 18 2001, http://www.jpost.com/Edition/2001/07/18/News/News.30707.html. 181 Conte Folke Bernadotte con il compito di trovare una soluzione durevole al conflitto venne sfruttata a dovere dalle grandi potenze per imporre un accordo finale sotto le vesti un piano ONU, evitando eventuali critiche. D’altronde, era necessario un peso politico non indifferente, vale a dire un deciso sostegno al rapporto finale del mediatore delle Nazioni Unite da parte di Washington e Londra, perché tale piano fosse credibile e attuabile. Il Dipartimento di Stato ebbe contatti con il governo britannico durante l’estate del 1948 con lo scopo di presentare, sotto l’egida delle Nazioni Unite, un piano che avrebbe preso in considerazione le differenti situazioni di fatto e realtà militari in atto in Palestina, rispetto al contesto politico in cui era stata approvata la Risoluzione di spartizione del precedente novembre. Truman era impegnato ad affrontare la prima campagna elettorale presidenziale e, se il primo obiettivo era quello di conquistare il secondo mandato, questa volta popolare, rimase sempre al corrente degli sviluppi diplomatici che riguardavano l’area calda mediorientale, anche se non fin nei dettagli. Si stava delineando fra le burocrazie governative di Washington e Londra la convinzione della necessità di un drastico allontanamento dalla mappa geografica prodotta dalla Risoluzione 181 dell’ONU, proprio come il primo piano Bernadotte consegnato ai belligeranti il 27 giugno proponeva.2 2 Questo primo schema di proposte avanzate dal mediatore ONU Bernadotte, consisteva, in sostanza, in una federazione fra Giordania e Israele, con i secondi che dovevano rinunciare a favore dei primi sia dell’intero Negev e Gerusalemme, e, come contropartita, ricevere buona parte o l’intero territorio della Galilea, che verrà quasi completamente occupata militarmente dall’esercito israeliano nel luglio, dopo che con la fine della «prima tergua» seguirono le ostilità dei «dieci giorni» (8-18 luglio). Le reazioni delle autorità arabe ed ebree a queste iniziative furono categoricamente negative da entrambe le parti, e diventarono oggetto di scherno. Come potevano gli ebrei accettare la rinuncia di Gerusalemme e del Negev, per il quale avevano lottato duramente alle Nazioni Unite (soprattutto nelle stanze della Casa Bianca)? Come potevano gli arabi accettare lo schema e l’idea generale della spartizione, rimasta tale ed estranea dal loro orizzonte politico? 182 Il secondo piano venne reso pubblico il 16 settembre e, qui di seguito, se ne menzionano alcuni passi significativi: «SEVEN BASIC PREMISES Return to peace (1) Peace must return to Palestine and every feasible measure should be taken to ensure that hostilities will not be resumed and that harmonious relations between Arab and Jew will ultimately be restored. The Jewish State (2) A Jewish State called Israel exists in Palestine and there are no sound reasons for assuming that it will not continue to do so. Boundary determination (3) The boundaries of this new State must finally be fixed either by formal agreement between the parties concerned or failing that, by the United Nations. Continuous frontiers (4) Adherence to the principle of geographical homogeneity and integration, which should be the major objective of the boundary arrangements, should apply equally to Arab and Jewish territories, whose frontiers should not, therefore, be rigidly controlled by the territorial arrangements envisaged in the resolution of 29 November. Right of repatriation (5) The right of innocent people, uprooted from their homes by the present terror and ravages of war, to return to their homes, should be affirmed and made effective, with assurance of adequate compensation for the property of those who may choose not to return. Jerusalem (6) The City of Jerusalem, because of its religious and international significance and the complexity of interest involved, should be accorded special and separate treatment. International responsibility (7) International responsibility should be expressed where desirable and necessary in the form of inter-national guarantees, as a means of allaying existing fears, and particularly with regard to boundaries and human rights. The following conclusions, broadly outlined, would, in my view, considering all the circumstances, provide a reasonable, equitable and workable basis for settlement: … (b) The frontiers between the Arab and Jewish territories, in the absence of agreement between Arabs and Jews, should be established by the United Nations… with the following revisions in the boundaries broadly defined in the resolution of the General Assembly of 29 November in order to make them more equitable, workable and consistent with existing realities in Palestine. (i) The area known as the Negev… should be defined as Arab territory; … (iii) Galilee should be defined as Jewish territory. (c) The disposition of the territory of Palestine not included within the boundaries of the Jewish State should be left to the Governments of the Arab States in full consultation with Una cosa era certa per i leader israeliani: i futuri sviluppi politici sarebbero stati dipesi dell’esito dei combattimenti (strategia del “fatto compiuto”) vincolati direttamente alle decisioni del nuovo Stato ebraico, e non da estranei piani promossi o dall’ONU o dalle grandi potenze. 183 the Arab inhabitants of Palestine, with the recommendation, however, that in view of the historical connection and common interests of Transjordan and Palestine, there would be compelling reasons for merging the Arab territory of Palestine with the territory of Transjordan. … (e) The port of Haifa, including the oil refineries and terminal and without prejudice to their inclusion in the sovereign territory of the Jewish State or the administration of the city of Haifa, should be declared a free port. (f) The airport of Lydda should be declared a free airport. (g) The City of Jerusalem, which should be understood as covering the area defined in the resolution of the General Assembly of 29 November, should be treated separately and should be placed under effective United Nations control with maximum feasible local autonomy for its Arab and Jewish communities, with full safeguards for the protection of the Holy Places and sites and free access to them, and for religious freedom. (i) The right of the Arab refugees to return to their homes in Jewish controlled territory at the earliest possible date should be affirmed by the United Nations, and their repatriation, resettlement and economic and social rehabilitation, and payment of adequate compensation for the property of those choosing not to return, should be supervised and assisted by the United Nations conciliation commission. (j) It should also lend [the Palestine conciliation commission] its good offices, on the invitation of the parties, to any efforts toward exchanges of populations with a view to eliminating trouble some minority problems, and on the basis of adequate compensation for property owned».3 In poche parole, le conclusioni finali del rapporto di Bernadotte suggerivano l’assegnazione della Galilea allo Stato ebraico,4 il deserto del Negev annesso alla Transgiordania, la conferma di Gerusalemme sotto il controllo delle Nazioni Unite, ma soprattutto che l’ONU avrebbe imposto e garantito i nuovi confini, in mancanza di un accordo fra le parti. Accenni, ma egualmente importanti, riguardavano la conferma dell’esistenza del nuovo Stato ebraico d’Israele in Palestina, il diritto di ritorno per i civili costretti a fuggire dalle loro case (poi trasfuso nella Risoluzione 194 dell’Assemblea Generale dell’11 dicembre 1948 3 Vedi http://www.yale.edu/lawweb/avalon/decade/decad170.htm, Conclusions From Progress Report of the United Nations Mediator on Palestine, September 16, 1948 oppure in U.N. doc. A/648 (part one, p. 29; part two, p. 23 and part three, p. 11), September 18, 1948; Department of State Bulletin of October 3, 1948, pp. 436-440. 4 Ricordiamo che la maggior parte della Galilea era già stata conquistata e occupata militarmente dall’esercito israeliano nel luglio 1948, e che, secondo il piano di spartizione dell’Assemblea Generale, era stata assegnata allo Stato arabo. 184 con la determinante modifica della parola «at the earliest possible date» in «at the earliest practicable date»), e il richiamo alle parti di perseguire un accordo per uno scambio di popolazioni, una reminiscenza dell’idea di trasferimento contenuta nel piano Peel. A uno sguardo generale, il secondo piano Bernadotte era simile alla proposta che il Dipartimento di Stato tentava di avanzare davanti alle Nazioni Unite nel novembre 1947, prima dell’intervento decisivo di Weizmann sul presidente Truman (19 novembre), ma rassomigliava inoltre al piano Peel del 1937. La reazione israeliana fu subito chiara e si manifestò con l’uccisione del mediatore dell’ONU il 17 settembre a Gerusalemme, mentre la parte araba, ancora una volta, respinse l’iniziativa sulla base dell’illegalità dello Stato di Israele. Truman, per la sua opportunità politica, ribadì nella piattaforma politica del Partito Democratico (luglio 1948) il sostegno a rimanere fedelmente legato alle Risoluzione di spartizione dell’Assemblea Generale relativa ai confini di Israele, rifiutando di aderire al principio di omogeneità incluso nelle raccomandazioni di Bernadotte, e di fatto negando frontiere «more equitable, workable and consistent with existing realities in Palestine». Al contrario, e in modo stridente con le intenzioni del presidente americano, prima il Dipartimento di Stato e poi il governo di Londra trovavano il consenso per appoggiare le conclusioni finali del mediatore dell’ONU all’apertura annuale dei lavori dell’Assemblea Generale a Parigi. Il 21 settembre Marshall emise la seguente dichiarazione: 185 «The US considers that the conclusions contained in the final report of Count Bernadotte offer a generally fair basis for settlement of the Palestine question. My government is of the opinion that the conclusions are sound and strongly urges the parties and the General Assembly to accept them in their entirety as a the best possible basis for bringing to a distracted land».5 Il giorno successivo, il ministro degli Esteri britannico Bevin sostenne apertamente e per la prima volta, davanti alla Camera dei Comuni, la spartizione politica della Palestina delineata dal piano Bernadotte come soluzione permanente della questione palestinese, prendendo una ferma posizione politica al riguardo, con tutte le sue conseguenze. Com’era prevedibile, le parole di Marshall a sostegno del piano Bernadotte infiammarono una tempesta politica interna, con feroci critiche indirizzate a Truman a causa dell’incompatibilità di vedute nell’Amministrazione governativa: il Segretario di Stato aveva «energicamente» («strongly») esortato le parti in causa ad accettare le soluzioni proposte dal mediatore dell’ONU, il presidente americano aveva ribadito di non allontanarsi dalla Risoluzione 181, con i suoi ben definiti confini. Sembrerebbe una riedizione dello scontro politico fra il Dipartimento di Stato e la Casa Bianca sulla dichiarazione di Austin davanti al Consiglio di Sicurezza del 19 marzo precedente, che avanzò la proposta di Amministrazione fiduciaria come soluzione temporanea alla questione palestinese, provocando già le ire di Truman. Questa volta, il contesto temporale, a poco più di un mese dalle elezioni presidenziali, e politico, con la forte presenza di un nuovo Stato in Palestina che 5 Vedi Michael J. Cohen, Truman and Israel, op. cit., pp. 238-239 e Steven Spiegel L., The Other Arab-Israeli Conflict. Making America’s Middle East Policy, from Truman to Reagan, op. cit., p. 186 aveva sconvolto le previsioni delle diplomazie mondiali, in primis quella americana, cambiava bruscamente le carte in tavola. Inoltre, Truman aveva approvato in anticipo l’idea del Dipartimento di Stato di intraprendere con l’esecutivo londinese consultazioni per valutare uno scambio del Negev con la Galilea. Aveva Truman la forza necessaria per imporre la sua volontà per la seconda volta, mettendo in cattiva luce i rapporti all’interno dell’Amministrazione di fronte agli elettori, ma, nel contempo, conquistando il voto della comunità ebraica? Il governo israeliano, come detto, respinse immediatamente la proposta di un baratto del Negev con la Galilea e di qualsiasi revisione della Risoluzione 181: era riuscito a ottenere un territorio sotto l’egida delle Nazioni Unite, benché frazionato, ma questo doveva rappresentare la base di partenza per ulteriori espansioni nella regione, come leader sionisti avevano predetto a suo tempo, tra cui Ben Gurion. Questo fu il presupposto della crescente pressione degli ebrei americani su Truman allo scopo di sconfessare l’uscita pubblica di Marshall il 21 settembre. Ma un altro danno politico provocato dal discorso di quest’ultimo, fu l’opportunità (politica) che era scaturita per il candidato repubblicano, Thomas E. Dewey, di sfruttare a suo favore la situazione imbarazzante dell’avversario, rinnegando gli sforzi fra i due massimi partiti tesi per una linea politica bipartisan su Israele, che dovevano tenere fuori la questione palestinese dalla campagna elettorale.6 40. 6 Subito dopo il riconoscimento de facto dello Stato di Israele da parte dell’Amministrazione Truman, si svilupparono dibattiti durante i mesi estivi sui bisogni urgenti di questo: il 187 Alla concessione da parte di Dewey del pieno riconoscimento allo Stato ebraico con i confini sanzionati dalle Nazioni Unite e il sostegno al prestito americano, il 25 ottobre Truman manifestava in una dichiarazione rilasciata alla stampa l’appoggio per il piano di spartizione dell’Assemblea Generale, dichiarava che eventuali modifiche dovevano essere pienamente accettate dal governo israeliano e, infine, aggiungeva che il piano Bernadotte doveva essere considerato come una base di negoziazione, suscettibile di ulteriori e future modificazioni.7 Ma il presidente americano fece di più tre giorni dopo al Madison Square Garden di New York, a cinque giorni dalle elezioni presidenziali, quando espresse un chiaro e forte sostegno allo Stato ebraico in questi termini: «It is my desire to help build in Palestine a strong, prosperous, free, and independent democratic state. …It must be large enough, free enough, strong enough to make its people self-supporting and secure».8 Si trattava, senza ombra di dubbio, di una dichiarazione di enorme importanza, che avallava la politica militare di Israele, proprio mentre lo Stato ebraico aveva attaccato il 15 ottobre l’esercito egiziano per ottenere il controllo del Negev. Ancora una volta, si cercava di creare una nuova situazione sul campo che avrebbe delegittimato e reso obsoleto il piano Bernadotte, rendendo di fatto riconoscimento de iure, il sostegno finanziario per circa 100 miliardi di dollari, l’appoggio americano alla domanda (di ammissione) di Israele di fare parte delle Nazioni Unite. Sostanzialmente, sia il Partito democratico sia quello repubblicano erano favorevoli a queste richieste, mentre le opinioni differivano solamente per i tempi della loro messa in pratica. Ovviamente, un accordo bipartisan era l’ultima cosa che i sionisti americani e il governo israeliano volevano. 7 In contrasto con il contenuto del discorso di Marshall tenuto davanti all’Assemblea Generale, dove si sollecitava ebrei e arabi palestinesi ad accettare le raccomandazioni di Bernadotte «in their entirety». 8 Vedi Michael J. Cohen, Truman and Israel, op. cit., p. 254 e Steven Spiegel L., The Other ArabIsraeli Conflict. Making America’s Middle East Policy, from Truman to Reagan, op. cit., p. 43. 188 sterile l’azione delle Nazioni Unite, fino a un futuro ed eventuale ordine dell’Amministrazione americana. Con il discorso elettorale di New York, Truman riafferrava direttamente la condotta politica sul problema palestinese, ma paradossalmente la conquista del secondo mandato presidenziale alla Casa Bianca registrava una diminuzione del sostegno elettorale ebraico al Partito democratico.9 Come risposta alla ripresa dei combattimenti del 15 ottobre, questa volta fra l’esercito israeliano e quello egiziano, che manteneva il controllo sul Negev, il Consiglio di Sicurezza approvava significativamente il 4 novembre (dopo i risultati elettorali) una Risoluzione 61 che minacciava sanzioni contro lo Stato ebraico, reo di aver violato il “cessate il fuoco”, ribadendo con fermezza che «if the truce was subsequently repudiated or violated by either party or by both, the situation in Palestine could be reconsidered with a view to action under Chapter VII of the Charter of the United Nations», che riconosceva al Consiglio di Sicurezza, almeno in teoria, un ruolo centrale e la capacità operativa d’intervento.10 Inoltre, la Risoluzione si appellava «to withdraw those of their forces which have advanced beyond the positions held on 14 October», mantenendo di fatto il Negev in mani egiziane. Una chiara presa di posizione da parte dell’organo 9 La vittoria di Truman il 2 novembre 1948 sul candidato repubblicano Dewey fu uno dei più grandi sconvolgimenti della storia politica americana. Contro ogni benevola previsione, il presidente americano ottenne il 49,6% del voto popolare (a fronte del 45,1% di Dewey) e 303 del determinante voto elettorale (189). Truman perse i voti elettorali di Stati come New York, Pennsylvania, e Michigan dove era concentrata un’alta percentuale dell’elettorato ebraico, ma riuscì a tamponare le perdite aggiudicandosi la California (uno degli Stati chiave, con un alto numero di elettori considerata l’elevata popolazione), l’Ohio e l’Illinois. Vedi David Mauk and John Oakland, American Civilization. An introduction, London and New York, Routledge, Second Edition, 1997, p. 153. 189 “esecutivo” delle Nazioni Unite di estrema importanza, ma gli Stati Uniti possedevano la volontà politica di attuare misure per far indietreggiare l’esercito israeliano dall’iniziale conquista del Negev, peraltro assegnato dalla Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale agli ebrei, o addirittura per espellerlo da Giaffa e dalla Galilea, territori occupati destinati sempre dalla stessa Risoluzione all’identità politica araba? La linea del governo americano post-elettorale, lontana dalle dichiarazioni generali emesse per puri interessi elettorali, tornava in sintonia con il Foreign Office e con il piano Bernadotte: appoggiava, cioè, lo schema di spartizione territoriale del novembre 1947, ma implicava che, se Israele avesse voluto mantenere la conquista della Galilea, avrebbe dovuto avanzare “sue” concessioni territoriali, magari proprio su parti del Negev. Una flessibilità, imposta da un conflitto che si stava evolvendo e mutava la realtà del ‘47, che però implicava un qui pro quo alle parti in causa. Nel contempo, Truman non ebbe la volontà e la forza politica per intimare al governo israeliano di rispettare la volontà dell’ONU, espressa tramite le Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, e la prospettata soluzione secondo lo schema Bernadotte. Certamente, la politica tollerante unilateralmente accordata a una parte del conflitto diventò un elemento davvero prezioso e un vantaggio per lo Stato ebraico, adatta a continuare una politica dei fatti basata sulla guerra: un implicito sostegno americano a favore dei rapporti di forza. 10 Vedi http://www.yale.edu/lawweb/avalon/un/scres061.htm, United Nations Security Council 190 2 Prove di espansionismo Un’inversione di tendenza dell’Amministrazione americana nei confronti del comportamento di Israele si ebbe a seguito della violazione della frontiera internazionale fra Egitto e la Palestina mandataria da parte delle forze israeliane, il 28 dicembre, ritenuta dal leader Ben Gurion «un’operazione tattica».11 Come si è ricordato, questi due belligeranti potevano mettere in crisi le relazioni angloamericane e portare sul teatro dello scontro militare la Gran Bretagna, legata all’Egitto da un trattato difensivo del 1936. Premuto da Londra e dal cupo scenario che stava delineandosi in Medio Oriente, Truman lanciò un severo monito a Tel Aviv, con lo scopo di far ritirare immediatamente le forze armate israeliane dal territorio egiziano, e minacciò di riconsiderare l’intero atteggiamento americano verso il nuovo Stato ebraico. L’azione israeliana rendeva alquanto difficoltosa per Washington promuovere l’ingresso alle Nazioni Unite di quest’ultimo, poiché l’offensiva militare non permetteva di considerare Israele come un “peace-loving state”.12 I leader israeliani recepirono il monito di Washington come un ultimatum, consapevoli di aver superato il limite della politica di sostegno accordato dall’Amministrazione Truman al nuovo Stato ebraico. Quest’ultimo cedette alle Resolution 61; November 4, 1948. 11 Vedi Michael J. Cohen, Truman and Israel, op. cit., p. 265. 12 I requisiti basilari che deve ottemperare un Stato per essere ammesso alle Nazioni Unite sono, in base all’articolo 4 dello Statuto ONU: essere amante della pace, accettare gli obblighi della Carta ONU, essere capace e, soprattutto, disposto ad adempiere detti obblighi. È necessario rilevare che l’Assemblea Generale e il Consiglio di Sicurezza hanno il pieno potere discrezionale in ordine all’esistenza di questi requisiti («a giudizio dell’Organizzazione»). Lo Stato di Israele, secondo la procedura ammissione, è diventato parte delle Nazioni Unite con la decisione dell’Assemblea Generale l’11 maggio 1949 (Risoluzione 273 III) conformemente alla raccomandazione del Consiglio di Sicurezza del 4 marzo 1949 (Risoluzione 69). 191 forti pressioni americane e britanniche, e il 6 gennaio 1949 acconsentì a un immediato e incondizionato “cessate il fuoco” mediato dall’americano Ralph Bunche, sostituto di Bernadotte, seguìto dall’apertura di negoziati diretti fra Egitto e Israele allo scopo di giungere a un armistizio, come recitavano le Risoluzioni 62 e 66.13 Il governo israeliano siglò gli accordi di armistizio anzitutto con l’Egitto, forte e minaccioso grazie al potente esercito, il 24 febbraio 1949; con il Libano il 23 marzo; con la Transgiordania il 3 aprile; e con la Siria il 20 luglio.14 Fra la firma dell’armistizio con l’Egitto e quella con la Transgiordania, significativamente l’esercito israeliano completò l’occupazione del Negev senza scontrarsi con alcuna forza militare. La prima guerra araboisraeliana, o, secondo lo Stato ebraico, la guerra d’Indipendenza, veniva etichettata come una travolgente vittoria di Israele e un’umiliante disfatta araba. Lo Stato d’Israele, che grazie alla Risoluzione di spartizione del novembre 1947 aveva ottenuto il 55-56% della Palestina mandataria, conquistò territori destinati allo Stato arabo di un altro 21,47%, ratificati e legittimati dagli accordi di armistizio del 1949, per un totale di circa il 13 Vedi http://www.yale.edu/lawweb/avalon/un/scres062.htm, United Nations Security Council Resolution 62; November 16, 1948 e http://www.yale.edu/lawweb/avalon/un/scres066.htm, United Nations Security Council Resolution 66, December 29, 1948. La prima si allontanava sostanzialmente dalla Risoluzione 61, perdendo la forza insita, benché non veniva abrogata, e chiamava che «the parties directly involved in the conflict in Palestine, as a further provisional measure under Article 40 of the Charter, to seek agreement forthwith, by negotiations conducted either directly or through the Acting Mediator, with a view to the immediate establishment of the armistice». Nella seconda, i futuri negoziati erano vincolati dall’attuazione «without further delay resolution 61 (1948) of 4 November 1948 and the instructions issued by the Acting Mediator in accordance with sub-paragraph of the fifth paragraph of that resolution». 14 Non ci fu nessuna trattativa diretta fra Israele e Iraq né fu mai sottoscritto alcun armistizio separato. 192 78%. I restanti territori, la striscia costiera di Gaza e la Cisgiordania, il cuore della Palestina araba, furono rispettivamente amministrati dall’Egitto e annessi dalla Transgiordania. Già la lunga linea di confine fra la West Bank e Israele, stabilita con l’armistizio giordano, era tortuosa, ma, soprattutto, innaturale, con la numerosa popolazione nelle zone di confine, aumentata dall’ammasso dei primi profughi e dalle famiglie palestinesi divise da questa artificiale separazione. A uno sguardo politico generale, possiamo riassumere che se la questione palestinese aveva come base la Risoluzione di spartizione garantita dalle Nazioni Unite, per certi versi criticabile, con l’evolversi della situazione militare, nettamente favorevole all’esercito israeliano, gli Stati Uniti (ma non la Gran Bretagna!) erano riluttanti a imporre alle parti in conflitto una soluzione quantomeno equa e giusta. La giovane organizzazione internazionale veniva messa da parte lasciando il campo ai puri rapporti di forza, che nel gennaio risultarono vantaggiosi per Israele (nel gennaio Israele raccolse il frutti della sua superiorità militare). Nel novembre 1948, proprio davanti all’Assemblea Generale gli Stati Uniti appoggiavano l’idea di opporsi a qualsiasi riduzione del territorio dello Stato d’Israele senza il consenso di questo, ma, cosa di notevole importanza, se Tel Aviv voleva territori che erano stati assegnati agli arabi dall’ONU, avrebbe dovuto negoziarli (come poi fece, da una posizione di forza, legittimando la riduzione dell’ipotetico Stato arabo). Grazie all’implicito appoggio americano, il governo israeliano cercò strenuamente di giungere a uno stato de iure di non belligeranza, inevitabile prima 193 o poi, in posizione di forza, per guadagnare sul piano diplomatico i frutti delle azioni militari e dello status quo territoriale che si era creato. E per gli Stati sconfitti negoziare significò “cedere” sostanzialmente territori assegnati dall’ONU a uno Stato arabo, anche se, certamente, sia l’Egitto sia soprattutto la Transgiordania ottenevano il controllo del resto. Il gennaio 1949 fu uno spartiacque sia per Israele sia per la condotta politica di Stati Uniti e Gran Bretagna nei suoi confronti. Lo Stato ebraico aveva firmato accordi di “cessate il fuoco” con i paesi arabi limitrofi, presupposto per guadagnare ulteriori territori grazie ai futuri armistizi; il riconoscimento de iure sia da parte dell’ex potenza mandataria, la Gran Bretagna (il giorno 29)15, sia degli Stati Uniti (il 31, con inclusa l’approvazione del prestito finanziario); e infine Washington, con la decisiva rivalutazione in senso geopolitico dell’area mediorientale da parte del Dipartimento di Stato, e Londra concordarono sul vantaggio strategico che Israele era riuscita a costruirsi agli occhi degli occidentali, come baluardo per i loro interessi. Lo Stato d’Israele si era impiantato fermamente e stabilmente in Medio Oriente, riconosciuto dalle maggiori potenze dell’epoca, e aveva ottenuto e conquistato circa il 78% della Palestina mandataria. A questo stupefacente trionfo mancava però il controllo della Cisgiordania, ossia dei territori biblici della Giudea e Samaria, con la cruciale importanza di città come Gerusalemme Est, con 15 Al tempestivo riconoscimento de facto del nuovo governo provvisorio di Israele, seguirono rapidamente Guatemala, Uruguay e Nicaragua. Il 17 maggio era la volta dell’Unione Sovietica e, di seguito, Polonia, Cecoslovacchia, Iugoslavia, Sud Africa. 194 i principali luoghi sacri musulmani, ebraici e cristiani, Hebron e Nablus (Sichem). Durante la guerra d’Indipendenza israeliana, il problema principale per l’esercito di Tel Aviv era stato l’Egitto, anziché la Transgiordania, anche se, il 26 settembre 1948, il leader Ben Gurion propose al governo provvisorio di conquistare la Giudea (comprese città quali Hebron, Latrun, Ramallah, Gerusalemme Est, Betlemme e Gerico) ma per diverse ragioni l’esecutivo respinse di stretta misura l’iniziativa.16 Ora, per il nuovo Stato ebraico, provato dalla prima guerra araboisraeliana ma uscitone nel modo migliore, la priorità era per un rafforzamento della struttura politica, economica e, soprattutto, demografica, con l’afflusso di ebrei da ogni parte del mondo.17 Per quanto riguarda l’espansionismo israeliano, le occasioni propizie non sarebbero mancate di certo, con lo scopo principale di recuperare sotto la stella di Davide la West Bank del Giordano, simbolo oltreché territoriale, anche di profonde radici storiche e religiose. 16 «Ben Gurion avrebbe più volte incolpato quel voto (discolpando implicitamente se stesso) della “perdita” di Gerusalemme, uno smacco di cui intere generazioni si sarebbero rammaricate». Vedi Benny Morris, Vittime, op. cit., p. 308. 17 Nei primi anni di vita dello Stato ebraico, i leader israeliani erano consapevoli, a ragione, che una determinata consistenza demografica fosse indispensabile per la sopravvivenza del paese. Come preannunciato dalla Proclamazione d’Indipendenza il 14 maggio 1948 («The state of Israel will be open to the immigration of Jews from all countries of their dispersion… Our call goes out the Jewish people all over the world to rally to our side in the task of immigration and development and to stand by us in the great struggle for the fulfillment of the dream of generations - the redemption of Israel»), il 5 luglio del 1950 la Knesset, il parlamento unicamerale israeliano, approvò la cosiddetta “Legge del ritorno”, con la quale veniva garantito che «every Jew has the right to immigrate to the country» e otteneva il certificato d’immigrazione, tranne quelle persone che perseguono attività contro la nazione e il popolo ebraico o possono minacciare la salute pubblica o la sicurezza dello Stato. È specificato la retroattività di questa disposizione legislativa. Nel 1954 un’altra eccezione venne estesa agli ebrei con un passato criminale. Durante i primi venti anni di applicazione della legge, approssimativamente 1 290 800 ebrei della diaspora entrarono in Israele. 195 Per il testo della legge vedi The Israel-Arab Reader, op. cit., p. 87. Capitolo 8 Il trionfo del sionismo: Johnson e la conquista israeliana di Eretz Yisrael nella guerra dei Sei giorni L’occupazione militare e il controllo di vasti territori pronti da colonizzare, e l’unificazione di Gerusalemme come capitale eterna e indivisibile di Israele, rappresentano il punto culminante dei sogni, delle speranze del popolo ebraico, del sionismo, sia laico sia religioso. Saranno questi i frutti politici e territoriali che la presidenza di Johnson porterà allo Stato ebraico. È doveroso dire infatti, che mentre dal 1950 (con la Dichiarazione Tripartita) fino alla fine della Presidenza Kennedy, gli Stati Uniti erano riusciti ad acquisire una qualifica di attori imparziali e relativamente giusti fra i contendenti della disputa mediorientale, grazie soprattutto al significativo comportamento adottato da Eisenhower durante la crisi di Suez che aveva dato un forte segnale ai regimi arabi moderati circa la volontà americana di non schierarsi apertamente con nessuna parte, con l’assunzione dei poteri presidenziali da parte di Johnson abbiamo un punto di svolta dei rapporti che Washington intrattiene sia con Israele, sia con i paesi arabi.131 Durante gli anni della carica di Johnson come inquilino della Casa Bianca era scontato che la guerra in Vietnam occupasse la prima priorità della sua Amministrazione.132 Ci fu un maggior impegno Dal punto di vista israeliano, la guerra del ’67 fu giudicata come uno dei capitoli maggiormente positivi della Presidenza Johnson, pronunciato in modo significativo nelle parole del ministro degli Esteri Abba Eban: «we had involved them [gli americani] very deeply», in contrasto con la crisi di Suez del 1956 «when the United States refused to speak to us». Citato in George Lenczowski, American Presidents and the Middle East, op. cit., p. 113. 132 Durante la presidenza Nixon la disputa araboisraeliana era ritenuta da questi persino più pericolosa della conflitto americano in Vietnam. Cfr. Public Papers of the Presidents of the United States, Richard Nixon, 1971, Radio Address about Second Annual Foreign Policy. Report to the Congress. February 25, 1971, p. 285: «Vietnam is our most anguishing problem. It is not, however, the most dangerous. That grim distinction must go to the situation in the Middle East with its vastly greater potential for drawing Soviet policy and our own into a collision that could prove uncontrollable». Nelle sue memorie Nixon considerava il conflitto insanabile fra arabi e israeliani come un pericolo altamente potenziale: «…an international powder keg, that, when it exploded, might lead not only to another war between Israel and its neighbors, but 131 a gestire la crisi vietnamita, dove l’escalation militare, con l’invio di truppe direttamente impegnate in Indocina dopo la svolta politica (e militare poi) dell’estate 1964, assumeva livelli preoccupanti. Per quanto riguarda il capitolo mediorientale, la politica di Johnson non differiva sostanzialmente dalla precedente amministrazione. La condotta politica dell’Amministrazione americana dal 1964 fino alla crisi del maggio’67 si identificava nel rafforzare i regimi pro-statunitensi dell’area (coltivando le alleanze con l’Iran, la Turchia, Grecia e Pakistan, e con i regimi arabi conservatori e pro-occidentali, Arabia Saudita, Libia, Marocco, Libano, Tunisia e Giordania, importanti Paesi produttori di petrolio i primi due) minacciati dal panarabismo di Nasser, e nell’incrementare l’assistenza militare a Israele per bilanciare l’aiuto di Mosca verso i paesi arabi radicali. Più specificamente, la questione araboisraeliana non fu oggetto di nessuna nuova iniziativa capace di scardinare l’immobilismo determinatosi dopo la guerra di Suez nel 1956, soprattutto in seguito all’entrata della rivalità e della competizione bipolare nella regione, dove permaneva la debole e fragile situazione di ‘non pace, non guerra’. Soprattutto in questo periodo, Washington mostrò la volontà di evitare impegni e iniziative in ambito diplomatico. Nella primavera del 1964, Johnson ricevette Levi Eshkol. Fu la prima visita ufficiale a Washington di un Primo ministro di Israele, opportunamente programmata per le elezioni presidenziali del novembre successivo. Il governo israeliano cercava insistentemente di intavolare trattative per un accordo diretto di vendita di un’arma per lo più ritenuta offensiva: i carri armati. Johnson rassicurò il suo interlocutore: se non avesse trovato fonti europee (Germania, Gran Bretagna) gli Stati Uniti avrebbero sopperito alla necessità bellica direttamente. Un’altra preoccupazione per la burocrazia governativa statunitense restava la posizione della Giordania, ricettiva alle influenze sia del Cairo sia di Mosca. Quest’ultima già riforniva di materiale also to a direct confrontation between the United States and the Soviet Union». Vedi Richard Nixon, RN: The Memoirs of Richard Nixon, New York – London – Toronto – Sydney – Tokyo – Singapore, Simon & Schuster, 1978, 1990, p. 343. Inoltre, cfr. in Steven Spiegel L., The Other Arab-Israeli Conflict. Making America’s Middle East Policy, from Truman to Reagan, op. cit., p. 151, dove viene riportato nel dicembre 1968 il discorso di Eugene Rostow, sottosegretario di stato, alla biblioteca Johnson, e disse che il presidente americano «feels in many ways it’s [the Middle East] a more dangerous crisis than Vietnam, because it can involve a confrontation with the Russians, not the Chinese». l’Egitto, la Siria e l’Iraq e se fosse diventata partner militare di Re Hussein, il cui Stato confinava sulla lunga linea calda della West Bank, sarebbe diventato una minaccia reale per Israele, circondato totalmente da paesi arabi radicali.133 Alla fine, l’Amministrazione americana decise di aumentare la vendita di armi in favore di Amman, e, prudentemente, inviò il sottosegretario di Stato per gli affari politici, Averell Harriman, per informare il governo di Tel Aviv del provvedimento all’inizio del 1965. Con riluttanza Israele accettò la fornitura militare da parte degli Stati Uniti a un potenziale futuro nemico Stato arabo; ma quando non poté ottenere dall’Europa occidentale gli aerei e i tank tornò a esercitare forti pressioni per un impegno diretto degli Stati Uniti. Le discussioni su questo tema specifico si protrassero per diversi mesi, ma alla fine, nel febbraio 1966 (reso pubblico nel successivo maggio), l’accordo militare venne raggiunto: gli Stati Uniti avrebbero consegnato 48 bombardieri Skyhawk, ai quali andavano aggiunti i 170 carri armati dell’anno precedente. Fu un cambiamento radicale che portò Washington a procurare materiale bellico e assistenza a diversi Stati amici dell’area mediorientale in modo esponenziale, allo scopo di eguagliare l’aiuto militare sovietico ai Paesi arabi radicali. Durante l’Amministrazione Johnson, il costo di questa collaborazione esterna lievitò dai 44,2 milioni di dollari nel 1963 fino a toccare la quota di quasi un miliardo di dollari nel 1968.134 Si potrebbe osservare, in merito, che quando si alimenta il circolo vizioso della corsa alle armi, da entrambe le parti, senza mettere in moto proposte politiche credibili per la risoluzione delle controversie internazionali, allora l’altra strada, quella militare, prende il sopravvento sulle altre opzioni, fino a divenire pressoché inevitabile. 133 Fra Israele e la Giordania esisteva un disputa sulle risorse idriche. La seconda minacciava di dirottare le sorgenti di acqua situate all’interno del suo territorio in modo da ridurre l’approvvigionamento idrico di Israele. Anche questo fu un motivo che spinse il governo israeliano alla guerra nel giugno 1967, occupando l’intera West Bank e le alture del Golan, territori relativamente ricchi di acqua. 134 Vedi Steven Spiegel L., The Other Arab-Israeli Conflict. Making America’s Middle East Policy, from Truman to Reagan, op. cit., p. 135. Gli Stati Uniti incrementarono il sostegno economico agli avversari dell’Unione Sovietica e dei suoi clienti, ma il costo era minimo in comparazione alle somme che l’Indocina drenava alla casse statali americane. A mio parere, si è voluto mantenere lo status quo nella questione mediorientale fra arabi e israeliani distribuendo armi come deterrente, mentre la tragedia vietnamita iniziava ad attirare le preoccupazione dell’Amministrazione Johnson, senza riuscire a percepire che il Medio Oriente stava dirigendosi verso una seria crisi. 1 Verso la guerra Prima di arrivare ad analizzare la crisi che scoppiò nel maggio del 1967, occorre soffermarci principalmente su due fatti premonitori dei successivi sviluppi. Nel novembre 1966, Israele intraprese una massiccia e sproporzionata ritorsione militare in un villaggio della West Bank, Samu, in risposta all’uccisione di tre soldati durante l’ottobre precedente, provocata dalle infiltrazioni di palestinesi dalla Giordania. Furono distrutte 125 case e un reparto ospedaliero, e vennero ammazzati 18 soldati giordani.135 Le Nazioni Unite condannarono l’azione israeliana poiché essa era contraria agli obblighi previsti dagli accordi di armistizio del 1949, e fu considerata controproducente, visto che aumentava pericolosamente le tensioni ed esacerbava le rivalità con il mondo arabo. La strategia di eccessive rappresaglie del governo di Tel Aviv, iniziata nel febbraio 1955 con l’incursione su Gaza, venne utilizzata coerentemente ai primi dell’aprile successivo, quando una serie di incidenti di confine con la Siria provocò la dura risposta dell’esercito israeliano che abbatté sei aerei, di cui uno sopra i cieli di Damasco. Susseguentemente, dichiarazioni minacciose di un’imminente 135 Vedi Norman Finkelstein G., Image and Reality of the Israel-Palestine Conflict, op. cit., p. 124. guerra alla Siria furono rilasciate nel maggio 1967 da importanti esponenti israeliani, come il capo di stato maggiore dell’esercito generale Yitzak Rabin e il Primo ministro Eshkol. Certamente, questa escalation terroristica ai danni di Israele si può associare all’ascesa in Siria dell’ala più intransigente del partito Baath nel febbraio del 1966. Infatti, il governo siriano appoggiava gli attacchi contro Israele ed era la mente strategica di quasi tutte le operazioni terroristiche e delle incursioni in territorio israeliano, ma, per il timore di subire dure rappresaglie da parte dell’esercito di Gerusalemme nel suo territorio, molte di queste partivano dal Libano o dalla Giordania. Ma, cosa più importante, la situazione si deteriorò nel confine fra lo Stato ebraico e quello siriano, a causa della graduale presa di controllo delle zone demilitarizzate da parte israeliana. Secondo gli accordi del 1949, venivano create fra i due paesi delle aree nelle quali non potevano sostare apparecchiature o personale militare. L’occupazione israeliana armata e aggressiva, intrapresa grazie al principio di sfruttare ogni parte dell’antica terra di Israele, portò di conseguenza alla distruzione dei villaggi arabi in queste terre e all’espulsione degli abitanti. Le azioni dei siriani, che bombardavano dalle alture del Golan contro l’usurpazione violenta israeliana, erano strettamente collegate alle severe reazioni punitive, compresi gli attacchi aerei. Lo status quo delle zone demilitarizzate si alterò sempre in una direzione, a favore dello Stato ebraico, e dimostrò quali fossero le reali intenzioni del governo israeliano: anzitutto creare fatti sul terreno, e poi aggravare il tono di sfida nei confronti della Siria e del mondo arabo. Il leader di quest’ultimo, Nasser, si sentì quasi obbligato a rispondere concretamente e ad aumentare le tensioni con mosse avventate e assai discutibili sul piano politico. Infatti, la natura e le dimensioni delle azioni di rappresaglia israeliane contro la Siria e la Giordania avevano lasciato il presidente egiziano senza alcuna scelta eccetto quella di difendere la sua immagine e prestigio verso l’intero mondo arabo. Inoltre, egli doveva dimostrare l’operatività del patto militare di difesa che nel novembre del 1966 l’Egitto aveva stretto con la Siria, con la leadership del comando militare nelle mani dei generali del Cairo. A seguito di una erronea (voluta o in buona fede) notizia data dall’Unione Sovietica il 13 maggio alla Siria e all’Egitto, in cui si riportava la mobilitazione dell’esercito israeliano lungo il confine siriano, il primo gesto intimidatorio di Nasser fu quello di inviare truppe nella penisola del Sinai il giorno successivo. Si presume che le intenzioni egiziane non fossero dirette a un attacco preventivo ai danni di Israele, anche perché furono inviate solamente due divisioni.136 L’ulteriore passo avanti della crisi venne fatto il 16 maggio con la richiesta formale egiziana, indirizzata al Segretario Generale, di rimuovere completamente le forze ONU (UNEF I) 137 che stazionavano dal 1956 nel Sinai, in territorio egiziano, poiché Israele si era rifiutata in modo risoluto di permettere che ciò avvenisse entro i suoi confini nazionali.138 All’istanza di Nasser, il Segretario Generale dell’ONU U Thant rispose immediatamente (il 18 maggio) in modo positivo, dando ordine alla forza multinazionale di evacuare dal suolo egiziano. 136 Una divisione era formata approssimativamente da 12-20 000 uomini. Inoltre vedi “Egyptian President Gamal Abdel Nasser: Speech at UAR Advanced Air Headquarters (25 maggio 1967)” in The Israel-Arab Reader, op. cit., pp. 96-98: «peace, peace, international peace, international security. Why is it that no one spoke about peace, the UN and security when on 12 th May the Israeli premier and the Israeli commanders made theirs statements that they would occupy Damascus, overthrow the Syrian regime, strike vigorously at Syria, and occupy a part of Syria? …Talk of peace is heard only when Israel is in danger. But when Arab rights and the rights of the Palestinian people are lost, no one speaks about peace, rights, or anything like this. …The Jews threaten war. We tell them you are welcome, we are ready for war. …When we said that we were ready for the battle we meant that we would surely fight if Syria or any Arab state was subjected to aggression». 137 Durante la guerra di Suez, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite votò il 5 novembre 1956 una Risoluzione che creava, per la prima volta, un forza internazionale incaricata di operare per il mantenimento della pace (UNEF I). Richiamandosi alla sua Risoluzione n. 377/V (‘Uniting for Peace’) del 3 novembre 1950, emanata durante la crisi coreana e nel periodo più acuto della guerra fredda, l’Assemblea Generale ha il potere di raccomandare misure collettive in caso di rottura della pace, di un atto di aggressione o conflitto armato, per ovviare alla situazione di paralisi del Consiglio di Sicurezza, causata da un reiterato utilizzo del veto da parte dei membri permanenti. Parte della dottrina internazionalista è concorde nel definire la delibera illegittima, motivandola sull’incompetenza piena e assoluta dell’Assemblea Generale di decidere e di raccomandare sanzioni (ex art. 41) e/o misure implicanti l’uso della forza (ex art.42), per la ragione che «qualsiasi questione del genere per cui si renda necessaria un’azione deve essere deferita al Consiglio di Sicurezza…» (art. 11, par. 2). Vedi Benedetto Conforti, Le Nazioni Unite, op. cit., p. 211 è ss.. Quella del ’56, comunque, è stata l’unica operazione di rilievo svolta dall’Assemblea Generale in tema di mantenimento della pace. 138 Le forze di peace-keeping operation dell’ONU devono avere il consenso dello Stato, dove verranno in seguito dislocate. È una condizione che il più delle volte viene a mancare dall’inizio o durante le operazioni, in situazioni di guerre civili o di anarchia, dove un vero sovrano, come punto di riferimento, non esiste (es. le guerre civili in Congo nel 1960-1961, e in Somalia nel 1994). Con l’allontanamento della forze ONU dal Sinai, tutti (americani e israeliani) avevano il ben fondato timore che la successiva mossa di Nasser sarebbe stata la chiusura dello stretto di Tiran alla navigazione internazionale, con evidenti ripercussioni per i traffici militari e, più in generale, per l’economia dello Stato ebraico. Infatti, dopo alcuni giorni, forse per scandagliare le reazioni americane al suo precedente gesto (che non ci furono), il 22 maggio Nasser, con un discorso di poche parole, annunciava la chiusura alla navigazione sul golfo di Aqaba attraverso lo Stretto di Tiran, comprensivo del naviglio israeliano da e per il porto di Eilat, all’estremità settentrionale del golfo di Aqaba, facendo diventare la minaccia (peraltro scontata) un reale pericolo per la pace nel Medio Oriente. Per la prima volta, lo Stato ebraico doveva confrontarsi con un fatto compiuto imposto con la forza dall’Egitto, che portò un cambiamento dello status quo nella regione mediorientale a scapito di Israele. Quest’ultimo, fin dalle primissime colonizzazioni nel XIX secolo, era stato guidato dal principio del sionismo di creare fatti concreti sul terreno, soprattutto con un graduale sviluppo degli insediamenti fino alle prove di forza militare con i paesi limitrofi. Ora, l’identica arma veniva utilizzata da Nasser. L’obiettivo del presidente egiziano era impedire il traffico navale che trasportasse petrolio e materiale bellico, che poi sarebbero serviti per le ulteriori reazioni militari dell’esercito israeliano contro la Siria e la Giordania. Un’altra ragione del gesto fu il risoluto rifiuto da parte di Israele di onorare le risoluzioni ONU che si appellavano al riconoscimento e all’operatività del diritto dei rifugiati palestinesi espulsi nel 1948 di ritornare nelle loro case e terreni.139 Vedi “Egyptian President Gamal Abdel Nasser: Speech at UAR Advanced Air Headquarters (25 maggio 1967)” in The Israel-Arab Reader, op. cit., pp. 96-98. Alcuni passi in riferimento alle diverse risoluzioni delle Nazioni Unite ignorate da Israele: «…does peace mean ignoring the rights of the Palestinian people because of the passage of time? Does peace mean that we should concede our rights because of the passage of time? Nowadays they speak about a UN presence in the region for the sake of peace. Does UN presence in the region for peace mean that we should close our eyes to everything? The UN has adopted a number of resolutions in favor of the Palestinian people. Israel has implemented none of these resolutions. This brought no reaction from the UN». 139 Per Israele, l’apertura dello Stretto di Tiran ai traffici marittimi, fino al porto di Eilat nel golfo di Aqaba, unico sbocco sul Mar Rosso e quindi sull’oceano Indiano, rappresentava il solo guadagno concreto strappato dalla guerra di Suez nel 1956. Il “libero” e “innocente” passaggio su queste acque internazionali era affermato anche dagli Stati Uniti che, in un memorandum non ufficiale dell’11 febbraio 1957, si impegnarono verso Israele a mantenere questa situazione. Ora, una sua chiusura costituiva un atto di guerra, un evidente casus belli menzionato esplicitamente proprio in questo memorandum dall’allora Segretario di Stato John Foster Dulles, che sanciva il diritto dello Stato ebraico di usare la forza, in conformità all’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite, contro un arbitrario e forzato atto di chiusura dello stretto. Questa mossa azzardata del presidente egiziano, foriera di ulteriori guai, spinse il governo israeliano a ordinare la mobilitazione generale delle forze armate. 1.1 La posizione dell’amministrazione americana di fronte alle crisi del maggio-giugno ’67 L’atteggiamento americano di fronte alle crisi del maggio-giugno era ambivalente: da una parte Johnson non voleva un’altra guerra, trattenendo Israele dall’agire unilateralmente e preventivamente, e cercando di costruire un appoggio internazionale per fare pressioni ad un ritorno allo status quo (flotta multinazionale a tutela del diritto di navigazione su vie d’acqua internazionali da impiegare sul golfo di Aqaba, dichiarazioni pubbliche, ecc.); dall’altra, con conversazioni riservate della CIA e del Pentagono, la consapevolezza che la superiorità militare israeliana era schiacciante e che gli ambiti di manovra dell’Amministrazione americana era ristretti, si cercò di sfruttare la situazione per avere la possibilità concreta di rovesciare i regimi radicali arabi, soprattutto la guida del panarabismo socialista di Nasser. La definizione del comportamento degli Stati Uniti fu esplicitata pubblicamente il 23 maggio dal presidente Johnson: il risoluto impegno a favore e a garanzia dell’indipendenza politica e dell’integrità territoriale di tutti i Paesi dell’area, la ferma opposizione a ogni atto di aggressione. In sostanza, si trattava della politica americana mediorientale sviluppata fin dal 1950, con la Dichiarazione tripartita; ma essa aggiunse che il golfo di Aqaba era una via d’acqua internazionale, quindi aperta alla navigazione libera e innocente di ogni Stato, e che il blocco alle navi israeliane era illegale. Il 24 maggio si riunì il Consiglio Nazionale per la Sicurezza, e, in breve, fu deciso di lavorare attraverso le Nazioni Unite e nel contesto multilaterale, ossia di costituire nel più breve tempo possibile e con la massima partecipazione una flotta militare multinazionale che avrebbe riaperto lo stretto di Tiran. Bisognava presentare a Israele un’alternativa concreta e credibile se si voleva scongiurare una soluzione militare al problema. L’opinione pubblica e il Congresso appoggiavano un’azione multilaterale, e Johnson necessitava del più ampio sostegno nazionale proprio mentre la controversia sulla partecipazione americana nel conflitto asiatico infuriava. Il Presidente americano era consapevole che l’incidente nel Golfo del Tonchino140 nel 1964 aveva ampliato i suoi poteri sul problema del sud-est asiatico, proprio grazie ad una Risoluzione del Congresso, che conferiva al Presidente il potere di prendere iniziative in Vietnam ogni volta che lo avesse ritenuto necessario, ma successivamente fu accusato di aver abusato della autorità, conducendo l’America in una logorante guerra senza fine. Essenziale per la situazione mediorientale era, perciò, un forte sostegno a ogni decisione intrapresa dall’Amministrazione, e difficilmente il Congresso americano avrebbe avallato un’avventura militare unilaterale (un’altra, dopo l’impresa vietnamita), «even in support of Israel».141 Il 25 maggio Abba Eban, ministro degli Esteri israeliano, giunse a Washington per scandagliare gli umori americani e avere risposte concrete alla crisi in atto, memore della lezione di Suez del 1956, quando l’incursione militare congiunta di Israele, Francia e Gran Bretagna contro l’Egitto di Nasser, era stata decisa senza la benedizione degli Stati Uniti (anzi, con la loro netta disapprovazione). Il problema che agitava gli israeliani non era più il blocco dello Stretto di Tiran, ma un imminente attacco egiziano, secondo le informazioni riservate di cui disponeva Tel Aviv. Eban cercava insistentemente una dichiarazione ufficiale da parte dell’Amministrazione americana, con la quale dichiarare che un attacco contro Israele sarebbe stato giudicato come un attacco agli Stati Uniti, una richiesta abbastanza impegnativa per Washington (che infatti non accettò), e che avrebbe esposto palesemente la parte che Johnson sosteneva. Alla base di questa richiesta si situavano differenti interpretazioni dell’impegno statunitense assunto nel memorandum del 1957: secondo il punto di vista del governo israeliano, Dulles si era impegnato a usare la forza militare americana se fosse stata necessaria per riaprire lo stretto di Tiran; secondo l’Amministrazione Johnson, Dulles aveva solamente riconosciuto il diritto di Israele di rispondere militarmente in conformità con l’articolo 51 della Carta ONU. All’incontro del 26 maggio, Johnson reiterò a Eban la superiorità militare israeliana su qualsiasi coalizione araba, basata sulle elaborazioni dei servizi segreti della CIA e DIA (Defense Intelligence Agency), a prescindere dalla parte che avesse attaccato per prima.142 Disse di avere varie volte definito il blocco dello Stretto di Tiran illegittimo e che stava lavorando a un piano per il ripristino dello status quo. Aggiunse di non avere autorità ad asserire Nel 1964 gli Stati Uniti si trovarono di fronte una soluzione obbligata: rendere più efficace e consistente l’impegno americano nell’Indocina. Erano tormentati anche dal dubbio se continuare la politica di Kennedy di intervento indiretto o partecipare direttamente alle azioni militari. L’occasione favorevole arrivò il 2-3 agosto 1964 nelle acque internazionali del golfo del Tonchino, dove due navi americane vennero attaccate da torpediniere del Vietnam settentrionale. L’incidente (voluto e provocato dagli Americani, secondo alcuni) fu sfruttato a dovere dall’Amministrazione americana che riuscì a far approvare una Risoluzione quasi all’unanimità dal Senato e dalla Camera dei Rappresentanti. Johnson in questo modo godeva del massimo appoggio del Congresso, e di conseguenza dell’opinione pubblica americana, ottenendo un ampia legittimità per le sue successive decisioni politiche e militari. La svolta era consumata. 141 Vedi William Quandt B., Peace Process. American Diplomacy and the Arab-Israeli Conflict since 1967, op. cit., p. 28 142 Vedi Finkelstein Norman G., Image and Reality of the Israel-Palestine Conflict, op. cit., p. 135. La stima degli esperti militari americani della durata di un conflitto araboisraeliano era approssimativamente tra i sette e dieci giorni in favore di Israele. 140 che un attacco a Israele equivaleva a un attacco nei confronti degli Stati Uniti; la sua Amministrazione, per intraprendere qualsiasi iniziativa (in special modo in politica estera) doveva avere il necessario e indispensabile sostegno del Congresso. Infine, il presidente americano spiegò chiaramente all’interlocutore israeliano, utilizzando la famosa frase coniata dal Segretario di Stato Rusk, che «Israel will not be alone unless it decides to go alone», formulazione ambigua e soggetta a diverse interpretazioni, fra le quali quella di un consenso implicito se Israele avesse agito preventivamente, poiché gli Stati Uniti erano riluttanti o incapaci a usare la forza per riaprire lo stretto di Tiran (il ‘semaforo giallo’). Diversi esponenti del governo israeliano giudicarono la frase di Johnson non come una proibizione assoluta a iniziare il conflitto, insistendo sul fatto che un ipotetico attacco israeliano non avrebbe né sorpreso più di tanto, né sconvolto gli americani, i quali sapevano delle implicazioni del memorandum di Dulles del 1957. La paura di una ripetizione del trauma sofferto nel 1956-57, quando il presidente Eisenhower aveva difeso senza sconti il principio del ritiro incondizionato dell’esercito israeliano dalla penisola del Sinai, si stava dissolvendo. Certamente, era ormai assodato che se Israele avesse acceso la miccia mediorientale con un attacco preventivo, Washington non sarebbe corsa in aiuto del piccolo paese ebraico nell’eventualità che si trovasse in difficoltà. Ma gli Stati Uniti se ne sarebbero stati in disparte, senza fornire un adeguato sostegno politico in una probabile battaglia diplomatica nel dopoguerra? Un’altra via tentata per evitare l’opzione militare nella crisi mediorientale, fu quella di inviare l’ex ambasciatore in Siria Charles Yost al Cairo per trattare direttamente con Nasser. Il rappresentante americano avanzò l’idea di sottoporre alla Corte Internazionale di Giustizia la disputa sullo stretto di Tiran, ossia se il diritto di libero e innocuo passaggio di navi israeliane in queste acque fosse stato violato dall’azione unilaterale di Nasser. Il presidente egiziano si dimostrò propenso a questa proposta e concordò l’invio del vice-presidente Mohieddin nella speranza di trovare una sistemazione diplomatica in alternativa alla guerra o alla forza navale multinazionale. Il governo israeliano ritenne impossibile da accettare la prospettiva di dirimere la controversia con una sentenza di diritto internazionale, anche perché avrebbe richiesto del tempo, un fattore decisivo per lo scoppio del terzo conflitto araboisraeliano. A prescindere dal contenuto del memorandum bilaterale del 1957, il blocco dello stretto di Tiran non costituisce un attacco armato, e il diritto internazionale di autodifesa, menzionato dell’articolo 51 della Carta ONU (tassativamente «nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite»), non legittimava un inizio della ostilità contro l’Egitto o qualsiasi altro Stato arabo da parte di Israele. Oltre a questo tentativo, all’interno dell’amministrazione governativa si continuava a sostenere la carta della flotta militare multilaterale, sebbene Washington non riuscisse a catalizzare l’appoggio di molti Paesi all’iniziativa, mostrando sia agli israeliani sia agli arabi pericolosi segni di debolezza. Ovviamente, se la forza navale fosse apparsa concreta ed efficace agli occhi israeliani, quindi con il sostegno di paesi importanti e quasi subito impiegata nella regione, Tel Aviv avrebbe frenato un attacco unilaterale preventivo, avendo in mente la recente campagna del Sinai del ’56. La principale causa del fallimento del progetto della flotta navale si collegava peraltro alle divisioni all’interno dell’Amministrazione Johnson. Infatti, il Pentagono e i suoi esperti militari si opponevano a qualsiasi attività militare americana nell’area mediorientale, a un intervento unilaterale così come a un impegno nella flotta multinazionale. La preoccupazione era il Vietnam, poiché forze civili e militari sarebbero stato tolte dall’indispensabile teatro asiatico, mentre ricerche ottimistiche dei servizi segreti prospettavano una facile vittoria di Israele nell’eventualità di un conflitto regionale. Anche il Congresso era, per la maggior parte, contrario a ogni intervento militare. Tutti questi segni del governo statunitense, vale a dire azioni indecise e dichiarazioni prudenti, rivelavano, soprattutto agli israeliani, la passività, l’impotenza e il senso di ineluttabilità dell’Amministrazione nell’approccio alla crisi. Si cercava di evitare la guerra fra Israele e gli Stati arabi, ma allo stesso tempo si tentava di evitare con maggiore determinazione un coinvolgimento militare unilaterale di Washington. La ragione profonda era l’atmosfera politica creata dal Vietnam che inibiva ogni azione militare, anche se limitata. Un mutamento sostanziale del quadro militare arabo, un altro considerevole punto di svolta nella situazione mediorientale, si ebbe il 30 maggio, quando, premuto con insistenza dalla corrente principale del nazionalismo arabo interna, Re Hussein di Giordania sottoscrisse un Trattato di mutua difesa con Nasser, al Cairo, che consentiva di dirigere le operazioni belliche sotto il comando unificato egiziano e, conseguentemente, di inviare reparti militari in Giordania. L’escalation di tensioni e minacce stava arrivando al culmine e, per Israele, la situazione stava diventando insostenibile e inaccettabile. Israele, convinta di aver guadagnato il tacito assenso americano all’azione militare unilaterale, e di aver evitato il pericolo di un coinvolgimento della Corte Internazionale di Giustizia, anticipando probabilmente gli sviluppi politici che sarebbero scaturiti dall’incontro tra il vicepresidente egiziano e gli esponenti statunitensi (programmato per il 7 giugno a Washington), intraprese dunque un attacco preventivo contro Egitto, Giordania e Siria la mattina del 5 giugno. La frenetica attività diplomatica, durata per tutta la crisi di maggio-giugno nonostante le azioni sul terreno dei protagonisti, aveva fallito. Furono necessari appena sei giorni per trasformare in profondità il quadro politico-diplomatico e geografico della regione mediorientale. Il Medio Oriente non sarebbe stato mai più lo stesso. Israele aveva conquistato l’intera penisola del Sinai, la West Bank (Cisgiordania), la striscia di Gaza, le alture del Golan e la parte orientale di Gerusalemme (quella araba), inclusa la “Città Vecchia”. Subito, questi guadagni acquisirono lo status di “territori occupati”, sottoposti temporaneamente alla giurisdizione militare dall’esercito straniero israeliano, il quale era tenuto a rispettare la IV Convenzione di Ginevra per la protezione delle persone civili in tempo di guerra (12 agosto 1949), firmata e ratificata da Israele. L’esercito israeliano aveva conquistato un’area di circa tre volte e mezzo più grande d’Israele stesso (quella racchiusa nei confini di armistizio del 1949), abitata da oltre un milione di palestinesi: una vittoria strategica che permetteva allo Stato ebraico di disporre delle relativamente cospicue riserve idriche della West Bank, e addirittura del petrolio nel Sinai. Di questi “territori”, la Knesset decretò e legittimò, neanche un mese dopo la fine delle ostilità, l’annessione unilaterale (unificazione amministrazione) di Gerusalemme Est, nonostante il 4 luglio all’Assemblea Generale venisse votata la Risoluzione 2253 di forte condanna, con una maggioranza schiacciante.143 La stessa linea politica verrà attuata in riguardo alle alture del Golan, annesse formalmente il 14 dicembre 1981. 2 Il capovolgimento della politica di Eisenhower adottata a Suez La situazione che si presentava nell’immediato dopoguerra, sul fronte egiziano, era identica a quella del ’56, con l’importante differenza dell’Amministrazione Johnson, la quale, memore della soluzione di Eisenhower adottata a suo tempo, volle cambiare l’approccio strategico alla questione. Durante la crisi di Suez i leader arabi arrivarono all’affrettata conclusione che gli Stati Uniti non avrebbero tollerato mutamenti territoriali a favore di Israele. Johnson considerava un errore il ritiro forzato di Israele nel ’56 dalla penisola del Sinai, senza nessuna contropartita (a parte la promessa di truppe di peacekeeping dell’ONU); cercò, quindi, di creare una struttura per una composizione pacifica durevole, capace di produrre delle basi sicure dove, una volta preparati gli Stati arabi a negoziare con Israele, potevano essere possibili degli accordi di pace con lo scambio di territori. Questa condizione non significava, certo, l’indefinito controllo israeliano di territori appartenenti agli arabi. Le idee del presidente americano furono presentate con chiarezza nel discorso del 19 giugno 1967, nel quale egli affermò l’intenzione americana di non fare pressioni per il ritiro israeliano dai territori occupati senza pace. Era in sostanza ribadita la sua fondamentale concezione, ossia che con la nuova struttura di pace non si sarebbe più dovuti tornare alla condizione della fragile tregua del dopo Vedi la Risoluzione 2253 dell’Assemblea Generale in http://domino.un.org/unispal.nsf, dove vigorosamente si deplorano le misure adottate da Israele atte a cambiare lo status della città, si sottolinea che tali misure sono nulle e si richiama lo Stato ebraico «to rescind all measures already taken and to desist forthwith from taking any action which would alter the status of Jerusalem». Gli Stati Uniti si astennero al momento della votazione, affermando che la Città Santa non avrebbe dovuto essere mai più divisa, rinnegando il precedente impegno di Washington, espresso col piano di spartizione del novembre ’47, a favore del regime internazionale. 143 ’49 e alla frettolosa sistemazione del 1957 perché, dopo quasi venti anni, non si era riuscita a costruire la pace, ma anzi, la situazione era andata deteriorandosi sempre più. Johnson elencò le linee fondamentali per una soluzione globale del conflitto mediorientale: - il disimpegno e il ritiro della forze armate (in favore degli arabi) - il diritto riconosciuto all’esistenza nazionale, in pace e in sicurezza (in favore di Israele) - l’indipendenza politica e l’integrità territoriale con confini riconosciuti per tutti gli Stati della regione (in favore di Israele) - una giusta ed equa soluzione per il problema dei rifugiati (in favore degli arabi) - un libero e pacifico passaggio attraverso le vie d’acqua internazionali, il canale di Suez e golfo di Aqaba inclusi (in favore di Israele) - limitazioni alla corsa agli armamenti Questi principi furono incorporati in sostanza nella Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, eccetto il richiamo alla limitazione agli armamenti. Sul piano diplomatico, si osservi, Washington non condannò pubblicamente il comportamento di Israele, dando adito alle forti critiche del mondo arabo. Questo elemento, unito all’accusa di Nasser seconda la quale gli Stati Uniti avrebbero partecipato direttamente all’attacco aereo sferrato da Israele contro l’Egitto,144 provocò la rottura diplomatica di sei Stati arabi con Washington. Tuttavia, la mossa Nel discorso di dimissioni come presidente dell’Egitto, Nasser lanciò forti accuse su come si era sviluppata la guerra, e in particolare contro Stati Uniti e Gran Bretagna, affermando che «it became very clear from the first moment that there were other powers behind the enemy, they came to settle their accounts with the Arab national movement. …There is clear evidence of imperialist collusion with the enemy, an imperialist collusion, trying to benefit from the lesson of the open collusion of 1956, by resorting this time to abject and wicked concealment. Nevertheless, what is now established is that American and British aircraft carrier were off the shore of the enemy helping his war effort». Vedi “Egyptian President Gamal Abdel Nasser: Resignation Broadcast (June 9, 1967)” in The Israel-Arab Reader, op. cit., pp. 103-105. Quando la guerra scoppiò, il sostegno statunitense era chiaramente dalla parte di Israele, nonostante l’iniziale affermazione del Dipartimento di Stato per una neutralità ufficiale. È significativo su questo fatto che, alle minacce sovietiche di un intervento anche militare, causate dalla violazione israeliana del cessate il fuoco sul fronte siriano negli ultimi due giorni dei combattimenti, Johnson, come risposta, avrebbe dato disposizioni di mettere in stato di allerta la Sesta flotta nel Mediterraneo orientale, e non di fermare con determinazione Israele. 144 degli arabi rifletteva la loro convinzione che gli Stati Uniti non erano neutrali nel conflitto e che parteggiavano per Israele.145 L’interruzione delle relazioni diplomatiche fra gli Stati Uniti e parte del mondo arabo ebbero forti ripercussioni negli anni del dopoguerra. Una volta che i rappresentanti arabi chiave furono assenti da Washington, l’influenza politica dei loro Paesi ne risentì enormemente, e questo stallo diplomatico andò tutto a favore di Israele. L’Amministrazione americana non accusò apertamente Israele di aver intrapreso una guerra preventiva a danno dei paesi arabi, e Johnson spiego nelle sue memorie i motivi di questa presa di posizione: «…I did not accept the oversimplified charge of Israeli aggression. Arab actions in the weeks before the war started – forcing UN troops out, closing the Port of Aqaba, and assembling forces on the Israeli border – made that charge ridiculous».146 3 Tra diplomazia e armi 3.1 La Risoluzione 242: analisi e interpretazione Come conseguenza della guerra del giugno 1967, l’attenzione si concentrò dal campo di battaglia verso l’arena diplomatica. Anche l’Unione Sovietica interruppe le relazioni diplomatiche con Tel Aviv. Citato in Steven Spiegel L., The Other Arab-Israeli Conflict. Making America’s Middle East Policy, from Truman to Reagan, op. cit., p. 149. 145 146 Si radunò il 17 giugno la quinta sessione speciale di emergenza dell’Assemblea Generale su richiesta dell’Unione Sovietica vista l’impasse al Consiglio di Sicurezza, e nel complesso, il maggior punto di accordo unanime emerso fra tutte le delegazioni al Palazzo di Vetro, il principio che la conquista di territori per mezzo della guerra era inammissibile e contraria alla Carta dell’ONU.147 Anche perché, se fosse prevalso un qualsiasi timido compromesso sul tema, le Nazioni Unite avrebbero subito gravi conseguenze di credibilità e aperto con questo precedente un varco per l’uso della forza nelle controversie internazionali. Il fattore che divideva i rappresentanti governativi risiedeva nella questione se il ritiro delle forze militari israeliane dai territori occupati dovesse essere automatico o condizionato al riconoscimento del mondo arabo del diritto all'esistenza, alla pace e alla sicurezza di Israele. Inoltre, esistevano contrasti se il ritiro doveva essere per tutti i territori conquistati e in modo totale. L’Unione Sovietica condannò l’aggressione di Tel Aviv ed esigeva un ritiro immediato e incondizionato dai territori arabi. Gli Stati dell’America latina si pronunciarono a favore di un accordo globale che abbracciava tutte le questione rimaste insolute. Presentarono un progetto di Risoluzione che richiedeva urgentemente a Israele «to withdrawal all its forces from all the territories occupied by it as a result of the recent conflict». Più dura fu la proposta degli Stati non allineati che pretendevano, senza nessuna condizione, il ritiro immediato allo status quo ante del 5 giugno. Entrambe queste iniziative, come altre ce ne furono, non riuscirono a ottenere la maggioranza di dueterzi dell’Assemblea Generale. 148 La Gran Bretagna, per bocca del ministro degli Esteri George Brown, era contraria a ogni ingrandimento territoriale come esito delle operazioni belliche di giugno. 147 Il precedente di aggirare il Consiglio di Sicurezza in favore di un più ampio corpo internazionale fu la Risoluzione 377/V dell’Assemblea Generale (3 novembre 1950), emanata durante la crisi coreana e caldeggiata dagli Stati Uniti. Più tardi venne usata nel risolvere questione spinose come la crisi ungherese e di Suez nel 1956. 148 La delegazione israeliana votò contro il testo dei paesi non allineati e si astenne sul progetto degli Stati dell’America latina. Eban, nella dichiarazione del 19 giugno, difese strenuamente le ragioni dello Stato ebraico, affermando che il diritto di Israele alla pace, alla sicurezza, alla sovranità, allo sviluppo economico e alla libertà marittima era stato violentemente attaccato. 149 Questa aggressione, di cui il principale imputato era il presidente egiziano Nasser, era stata attuata con l’imposizione del blocco degli stretti di Tiran, un evidente atto di guerra che aveva obbligato Tel Aviv a un attacco preventivo e unilaterale: una reazione e non un’iniziativa. La mattina del 5 giugno, secondo il ministro degli Esteri israeliano, «when Egyptian forces moved by air and land against Israel’s western coast and southern territory, our country’s choice was plain. The choice was to live or perish, to defend the national existence or to forfeit it for all time». Infine, dopo aver accusato l’Unione Sovietica di svolgere la parte di provocatore nella disputa mediorientale e di elemento non costruttivo all’interno dell’ONU e soprattutto del Consiglio di Sicurezza, Eban delineò la visione di una pace futura e le condizioni israeliane: «In free negotiation with each of our neighbours we shall offer durable and just solutions redounding to our mutual advantage and honour. The Arab states can no longer be permitted to recognize Israel’s existence only for the purpose of plotting its elimination. They have come face to face with us in conflict. Let them now come face to face with us in peace».150 Era chiara la volontà del governo israeliano di insistere in negoziati indipendenti con tutte le parti coinvolte, senza l’ingerenza esterna di mediazioni da parte di altri Stati, essendo la parte forte uscita dalla guerra dei Sei giorni, con la quale i Paesi arabi avrebbero dovuto dialogare per riottenere i territori perduti. Soprattutto si cercava di inserire questo principio in un’eventuale risoluzione dell’ONU menzionando le trattative dirette, simbolo dell’accettazione araba della legittimità di Israele come Stato, ma senza successo.151 149 Per il testo vedi The Israel-Arab Reader, op. cit., pp. 105-110. Vedi The Israel-Arab Reader, op. cit., p. 110. 151 Solo con la guerra dello Yom Kippur nell’ottobre del ’73, il Consiglio di Sicurezza approverà la Risoluzione 338 (22 ottobre) richiamando esplicitamente l’idea di negoziati diretti: « [il Consiglio di Sicurezza] decides that, immediately and concurrently with the cease-fire, negotiations shall start between the parties concerned under appropriate auspices aimed at establishing a just and durable peace in the Middle East». 150 Infatti, il documento finale approvato al vertice della Lega Araba a Khartoum sancì i principi prioritari ai che gli Stati arabi erano tenuti a rispettare, ossia i famosi tre rifiuti a Israele, «no peace with Israel, no recognition of Israel, no negotiations with it».152 Nel frattempo, il 27 giugno una legge della Knesset autorizzava l’annessione unilaterale di Gerusalemme Est, inclusa la Città Vecchia con tutti i luoghi santi. Tale atto provocò una profonda preoccupazione e indignazione internazionale, proprio nel momento in cui alla Nazioni Unite si insisteva nell’affermare in modo unanime che nessun vantaggio avrebbe guadagnato uno Stato tramite l’uso della forza militare. L’azione non fu comunque riconosciuta da alcun membro della comunità internazionale. Il 12 luglio, dopo una sospensione, ripresero i dibattiti all’Assemblea Generale e l’asse Stati arabi-Unione Sovietica si rese conto che la richiesta di un ritiro immediato di Israele senza nessuna corrispondente azione dei primi non avrebbe avuto nessuna probabilità di successo nel guadagnare i necessari voti sia all’Assemblea Generale sia nel Consiglio di Sicurezza. Alla sessione regolare dell’Assemblea Generale, riunitasi il 21 settembre, non ci fu alcuna nuova notizia di sostanza che potesse sbloccare le posizioni dei principali attori: la responsabilità di trovare la Il testo della Risoluzione 338 è presente nella sezione “Documenti” di questo lavoro. 152 Per il testo delle Risoluzioni vedi http://www.yale.edu/lawweb/avalon/mideast/khartoum.htm, The Khartoum Resolutions; September 1, 1967, oppure nella sezione “Documenti” di questo lavoro. Sebbene la dichiarazione di Khartoum dimostrò che non erano maturi i tempi per un compromesso araboisraeliano, la conferenza fu una vittoria per i paesi arabi moderati, con in testa la Giordania di Re Hussein, che cercarono di conseguire un ritiro israeliano attraverso mezzi politici e non militari. Significativo è il seguente passaggio: «the Arab Heads of State have agreed to unite their political efforts at the international and diplomatic level to eliminate the effects of the aggression and to ensure the withdrawal of the aggressive Israeli forces from the Arab lands which have been occupied since the aggression of June 5». Il rifiuto alla pace con Israele era interpretato dai portavoce arabi non come un rigetto totale di uno stato di pace, il no ai negoziati diretti non come un rifiuto a colloqui attraverso terze parti, e il no al riconoscimento de iure non equivaleva al rifiuto dell’esistenza de facto di Israele come Stato. Inoltre, pur riconoscendo la potenzialità della risorsa petrolifera, che disponeva la maggior parte del mondo arabo, come arma politica di pressione nella disputa mediorientale, viene decisa la ripresa delle esportazioni del greggio. giusta formula per risolvere il conflitto araboisraeliano, ulteriormente complicato e aggravato dalla guerra di giugno, venne affidata al Consiglio di Sicurezza. Il rappresentate britannico alle Nazioni Unite Lord Hugh Caradon, che aveva migliori relazioni con il Cairo di quanto ne avessero gli Stati Uniti, sottopose un progetto di risoluzione nella speranza di raggiungere un accordo unanime sul testo, in modo da sostenere un forte segno politico internazionale per la soluzione mediorientale. Infatti, proprio così andarono le cose il 22 novembre con l’approvazione della Risoluzione 242, pietra miliare per un compromesso politico fra terra e pace, avendo la meglio sulle altre proposte sponsorizzate rispettivamente dai Paesi non allineati, dagli Stati dell’America latina, dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica. La struttura della Risoluzione 242 consiste in un preambolo dove vengono spiegate le ragioni e i motivi che hanno portato alle decisioni, le quali sono incorporate in quattro paragrafi operativi. Di seguito vengono analizzate alcune delle frasi più importanti, principi o decisioni, che hanno dato adito a differenti interpretazioni e contrasti fra le parti interessate. «The inadmissibility of the acquisition of territory by war». Questo importante principio cardine del diritto internazionale consuetudinario e delle Nazioni Unite intende significare che l’occupazione militare di uno o più territori, sebbene non condanni quella temporanea, non conduce all’acquisizione di un diritto di proprietà; non può portare al suddetto diritto persino quando il cambiamento viene sanzionato da un trattato internazionale come risultato della conquista.153 Inserito intenzionalmente nel preambolo, dove sono stabiliti gli obiettivi fondamentali (di fondo) della Risoluzione e alla luce del 153 La Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati (adottata il 23 maggio 1969 ed entrata in vigore il 27 gennaio 1980) nell’art. 52 (« coercion of a State by the threat or use of force») afferma che «a treaty is void [nullo] if its conclusion has been procured by the threat or use of force in violation of the principles of international law embodied in the Charter of the United Nations». Ma anche l’art. 2 par. 4 della Carta ONU sostiene questo principio. Per il testo integrale vedi http://www.greenpeace.org/~intlaw/vien-tr.html. quale tale documento deve essere interpretato, rafforza la disposizione operativa sul ritiro delle forze armate israeliane (vedi oltre). Il testo sovietico usa al posto della parola “acquisition” il più colorito ed efficace termine di “seizure” [conquista, cattura], mentre in quello statunitense lo stesso punto non compare. Il governo israeliano e i suoi sostenitori hanno sostenuto che l’uso della forza nel giugno 1967 fosse legittimo e non illegale come risposta a una minaccia alla sicurezza dello Stato ebraico, e conseguentemente il principio in esame si riferirebbe solo a una conquista territoriale come risultato di una guerra di aggressione, come disse l’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite Gideon Rafael. La questione è irrilevante poiché se anche l’operazione militare fosse stata un’azione difensiva conformemente all’art. 51 della Carta ONU, Israele deve cessare ogni attività «fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale». In altre parole, lo Stato ebraico è obbligato ad attenersi alle disposizioni della Risoluzione 242 senza tenere conto della natura difensiva o aggressiva della guerra. «Withdrawal of Israel armed forces from territories occupied in the recent conflict». Il primo paragrafo operativo fece nascere forti controversie sull’interpretazione esatta della disposizione fra il blocco filo-arabo e quello filo-israeliano. Lo strumento che ci viene in aiuto è la già citata Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati agli artt. 31-33.154 Partendo dall’analisi letterale, separata dall’intero documento, come del resto è evidenziato nell’art. 31 par. 1 di Vienna, notiamo come a seconda della lingua con cui è redatto il testo della Risoluzione si arrivi a conclusioni diverse. 154 Una premessa è obbligatorio eseguirla poiché le norme di diritto internazionale di questa convenzione dovrebbero essere applicate esclusivamente a trattati stipulati fra Stati (art. 1 «the present Convention applies to treaties between States») e all’art. 4 sanziona l’irretroattività della presente convenzione («… the Convention applies only to treaties which are concluded by States after the entry into force of the present Convention with regard to such States»). Tuttavia quest’ultima può essere utilizzata per analogia in riferimento alle Risoluzioni ONU che necessariamente non sono dei trattati ma degli atti di diritto internazionale adottati da un organo consiliare di una organizzazione. Molte norme di questa convenzione furono una codificazione dell’esistente diritto internazionale consuetudinario. Nella versione inglese, la deliberata omissione dell’articolo determinativo “the” rende la frase vaga e indefinita, lasciando aperta l’interpretazione sia per un ritiro israeliano da alcuni ma non necessariamente da tutti i territori occupati, sia per la possibilità implicita di un riferimento alla totalità di questi. La versione francese risolve ogni ambiguità del testo poiché esige che «retrait des forces armées israéliennes des territoires occupés lors du récent conflit», dove, senza ombra di dubbio, domanda un ritiro completo da tutti i territori occupati.155 Quindi, se accettiamo la versione francese del testo come la più precisa e accurata, se consideriamo le formulazioni inglese e francese non come incompatibili, se tutto questo è avvalorato anche dal testo spagnolo della Risoluzione («retiro de las fuerzas armadas israelíes de los territorios que ocuparon durante el reciente conflicto»), ma soprattutto se si collega la clausola dell’inammissibilità dell’acquisizione di territori con la guerra, si giunge ad affermare che la “clausola sul ritiro” si interpreti come un totale abbandono dei tutti i territori occupati. L’art. 33 par. 1 di Vienna rafforza questo punto di vista poiché respinge la preferenza di un testo originale (nel nostro caso in inglese) sugli altri egualmente ufficiali e autorevoli, e il par. 4 dispone che, salvo il caso in cui un testo determinato sia destinato a prevalere, «when a comparison of the authentic texts discloses a difference of meaning which the application of articles 31 and 32 does not remove, the meaning which best reconciles the texts, having regard to the object and purpose of the treaty, shall be adopted». Un altro metodo di interpretazione è il ricorso ai documenti ufficiali preparatori che hanno anticipato l’adozione della Risoluzione.156 Dai dibattimenti sia all’Assemblea Generale sia al Consiglio 155 Nel 1967 il Consiglio di Sicurezza utilizzava 5 lingue ufficiale per redigere i suoi documenti (inglese, francese, spagnolo, russo e cinese), delle quali inglese e francese erano anche le lingue di lavoro. Non esiste l’articolo determinativo nella lingua russa e cinese e, di conseguenza, non può esserci alcuna distinzione fra “withdrawal of Israel armed forces from territories” e “ withdrawal of Israel armed forces from the territories”. di Sicurezza, emerge con chiarezza che il principio di un completo ritiro, a prescindere dall’eventualità di condizionarlo ad alcune concessioni da parte del mondo arabo, è stato il comune denominatore di tutti i membri delle Nazioni Unite. Inoltre, non ci fu alcun rifiuto esplicito contro l’interpretazione di totale ritiro. «Secure and recognized boundaries». Dopo aver introdotta la richiesta della conclusione di ogni rivendicazione o stato di belligeranza, questa frase è stata citata come prova definitiva per affermare che a Israele non fosse richiesto il ritiro militare da tutti i territori arabi occupati. In breve, il pieno ritiro non era automatico o incondizionato né totale. Alla luce dell’analisi della “clausola del ritiro” che poc’anzi è stata fatta, non sembra che fino a quando Israele, in modo unilaterale, non si sente sicura nei suoi confini del 1949 abbia il diritto di rimandare indefinitamente il ritiro dai territori, senza svuotare la sostanza del preambolo della Risoluzione e della versione francese (e spagnola) della stessa. La difendibilità di una linea di confine è solo un aspetto della sicurezza. Infatti, parole come “secure” e “recognized” comportano che la sicurezza dei confini è il prodotto di un riconoscimento vincolante internazionalmente tramite accordo e di un’assenza di minacce e atti di forza, piuttosto di una situazione difendibile militarmente. In breve, questa espressione non giustifica il mantenimento da parte d’Israele di qualsiasi territorio occupato. L’art. 32 di Vienna afferma che «recourse may be had to supplementary means of interpretation, including the preparatory work of the treaty and the circumstances of its conclusion, in order to confirm the meaning resulting from the application of article 31, or to determine the meaning when the interpretation according to article 31 a) leaves the meaning ambiguous or obscure or b) leads to a result which is manifestly absurd or unreasonable». Secondo la comune dottrina internazionalista, non è ammesso valersi dei lavori preparatori se il testo di un documento è sufficientemente chiaro, nemmeno se questi lo contraddicono apertamente. I lavori preparatori devono generalmente confermare e rafforzare l’interpretazione ottenuta con gli altri metodi. 156 «Territorial integrity… territorial inviolability and political independence of every State in the area». Principio che conferma l’interpretazione della “clausola sul ritiro”, ma che sostenitori filoisraeliani hanno avanzato due contro argomenti. Il primo sostiene che l’integrità territoriale si applica solo dopo aver ridisegnato i confini secondo i canoni di sicurezza e di consenso fra le parti, ma è contraria al senso comune della Risoluzione. La seconda rivendicazione risiede nel fatto che nei territori occupati nessun Stato arabo ha un valido titolo legale internazionale. Circa la penisola del Sinai e le alture del Golan il ragionamento è infondato, poiché l’impero ottomano ha rinunciato formalmente all’Egitto (incluso la penisola del Sinai) nel 1923, mentre il trasferimento delle alture del Golan dalla Palestina mandataria alla Siria è avvenuto tramite un accordo franco-britannico del 1923 sanzionato dal Consiglio della Società delle Nazioni. Per quanto riguarda i territori della striscia di Gaza, della quale l’Egitto ha continuato ad amministrarla fino alla guerra dei Sei giorni ma mai annessa, e la Cisgiordania dove l’annessione ufficiale al regno hascemita (4 aprile 1950) risulta di dubbia validità legale, la situazione è complessa e coinvolge, inter alia, il piano di spartizione dell’Assemblea Generale dell’ONU e il principio di autodeterminazione dei popoli.157 «A just settlement of the refugee problem». Dure proteste da parte dell’intero mondo arabo per questa proposizione, in particolare perché tralasciava e ignorava il popolo palestinese e il diritto di avere uno Stato. Durante il discorso tenuto il 19 giugno 1967, il presidente americano Johnson mancò di qualificare i rifugiati nell’accenno che fece, e venne confluito esattamente nella Risoluzione 242 nell’identico modo. Senza essere maestri esoterici, la voluta mancata menzione dell’aggettivo L’incorporazione della West Bank da parte della Giordania è stata energicamente contrastata dalla Lega araba, e soltanto la Gran Bretagna e il Pakistan riconobbero de iure questo atto. 157 ‘palestinese’ può soltanto essere interpretata in una maniera: significa la non riconoscenza del problema palestinese, dell’identità nazionale di questo popolo e della sua aspirazione ad avere una propria terra, come sancisce il diritto internazionale di autodeterminazione. L’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP, nata il 29 maggio 1964) e il suo popolo venivano trattati solo come “profughi” e non come una “nazione” con dei diritti. Era sì, e continuava a essere, un problema umanitario (impegno per la costruzione di campi profughi, assistenza ai rifugiati) ma non politico, e i palestinesi venivano considerati come oggetti e non come soggetti che disponevano di qualche diritto fondamentale. Sicuramente un grave errore delle Nazioni Unite, ma soprattutto degli Stati Uniti. Per questi motivi, l’unico paese che pubblicamente respinse la Risoluzione 242 fu la Siria, e solo nel maggio 1974 venne accettata dal regime di Damasco assieme alla Risoluzione 338, sempre del Consiglio di Sicurezza. Come la Dichiarazione Balfour nel 1917 aveva fatto riferimento al rispetto dei diritti civili e religiosi ma non politici delle comunità non-ebraiche in Palestina non riconoscendo la popolazione indigena, così, cinquanta anni dopo e con gran parte della decolonizzazione già avvenuta, si cercava ostinatamente di soffocare le legittime aspirazioni di un popolo, che, proprio come conseguenza della guerra dei Sei giorni, accelererà la coscienza nazionale per resistere all’occupazione militare israeliana. «Designate a Special Representative… in order to promote agreement and assist efforts to achieve a peaceful and accepted settlement». Il terzo paragrafo operativo consente al Segretario Generale delle Nazioni Unite di nominare un Rappresentante speciale con l’obiettivo di stabilire, facilitare e mantenere i contatti con gli Stati interessati. In questo ambito, poiché Israele richiedeva insistentemente la formula di negoziati diretti con gli Stati arabi sconfitti in guerra, esisteva il timore che i “buoni uffici” si trasformassero in mediazione o addirittura in arbitrato, con un grado di ingerenza esterna inaccettabile per lo Stato ebraico. La prima versione della proposta britannica, secondo Eban, attribuiva al Rappresentante Speciale dell’ONU il potere di dettare un accordo, ma la formulazione del testo finale della Risoluzione 242 (“promote”, “assist”) spuntava la sua forza per limitarla a una missione di cooperazione, insufficiente per la risoluzione di un così grave problema. La Risoluzione 242 deve essere inserita in quegli atti dell’ONU che presentano diverse caratteristiche: il preambolo e i primi due paragrafi operativi descrivono principi e richieste necessarie sulle quali poter basare i termini di un accordo globale (secondo l’art. 37 ONU), i paragrafi operativi tre e quattro stabiliscono procedure o metodi di accomodamento (secondo l’art. 36). In pratica, anche se non esiste un’esplicita citazione al capitolo VII o VI della Carta ONU, è certo che la Risoluzione 242 ricada entro le disposizioni di quest’ultimo, trattandosi di raccomandazioni (ma anche di decisioni) per la soluzione pacifica delle controversie. Essere riusciti a premere per un testo finale votato all’unanimità nel quale la portata e la dimensione erano lasciati nel vago (nella versione inglese), rappresenta una delle più grandi vittorie diplomatiche a favore dello Stato ebraico. Secondo Eban, ciò dette a Israele la possibilità per una revisione territoriale («territorial revision») proprio perché il principio (o la clausola) sul ritiro non era applicabile a tutti i territori coinvolti, quindi il ritiro poteva non essere completo a discrezione del governo israeliano, appellandosi al diritto di Israele di avere «confini sicuri e riconosciuti». 158 Israele resistette a ogni sforzo per non far introdurre nella Risoluzione un completo ritiro delle proprie forze militari, e fece forti pressioni sul governo statunitense affinché non accettasse al Consiglio di Sicurezza un testo preciso in riguardo, perché era impensabile un ritorno alla vecchia linea 158 Vedi Norman Finkelstein G., Image and Reality of the Israel-Palestine Conflict, op. cit., p. 145. di armistizio (“Linea Verde”). In effetti, fin dall’inizio dei dibattiti alle Nazioni Unite, Washington aveva preferito dichiarazioni meno chiare sul ritiro israeliano.159 L’ambasciatore statunitense all’ONU Arthur Goldberg era consapevole che secondo la Risoluzione 242 Israele doveva ritirarsi da tutti i territori occupati, ma dichiarò che minori e reciproci aggiustamenti territoriali nella West Bank erano necessari per ragioni di sicurezza in cambio della pace. Washington appoggiava la posizione israeliana di una revisione territoriale. Nella “clausola sul ritiro”, Lord Caradon spiegò l’omissione dell’articolo determinativo «the» nel testo inglese come una necessità data dal fatto che i confini antecedenti al 5 giugno fossero irregolari, e il Segretario di Stato americano Dean Rusk riteneva che il lungo confine fra Israele e la West Bank andasse razionalizzato.160 Per ricapitolare l’interpretazione che qui viene prospettata, la risoluzione 242 nel suo complesso esige il ritiro totale da qualsiasi territorio posto sotto l’occupazione militare dell’esercito israeliano, poiché la “clausola del ritiro” è strettamente vincolata con il “principio di non ammissibilità della conquista territoriale per mezzo della guerra”, a prescindere della legittimità internazionale dell’attacco militare. L’ambiguità fra la forma inglese e quella delle altre lingue autentiche in ambito ONU, viene superata dal fatto che queste ultime chiarificano e precisano (e non contraddicono) la suddetta interpretazione sulla “clausola sul ritiro”. In aggiunta, i lavori preparatori avvalorano questo principio. Il riferimento ai confini sicuri e riconosciuti può essere interpretato in diversi modi, ma senza confutare il principio prioritario del pieno ritiro. Qualsiasi minore modificazione delle linee di confine 159 Il testo della proposta americana del 7 novembre 1967 afferma la necessità per un «withdrawal of forces from occupied territories». Un espressione alquanto generale, sebbene il ritiro fosse chiaramente riconducibile alle truppe israeliane, ma con il primario scopo di lasciare aperto la natura e l’estensione di questo. Vedi Sidney Bailey D., The Making of Resolution 242, Dordrecht – Boston – Lancaster, Martinus Nijhoff Publisher, 1985, pp. 146, 148. 160 Vedi Norman Finkelstein G., Image and Reality of the Israel-Palestine Conflict, op. cit., pp. 146-148. del 1949 a Gaza e nella West Bank deve essere raggiunta tramite negoziati diretti specifici che siano equilibrati e soprattutto reciproci, senza violare questo principio.161 La Risoluzione 242 è stata accettata dall’Egitto dopo diverse settimane, da Israele formalmente nel maggio 1968, anche se Golda Meir appoggiò la risoluzione pubblicamente nel maggio 1970, dalla Siria dopo più di sei anni (maggio 1974, un ritorno al tavolo delle trattative dal lontano 1949, con gli accordi di armistizio), e l’OLP la accettò solamente nel 1988 (14 dicembre). Molti addetti ai lavori hanno creduto che la Risoluzione 242, adottata all’unanimità con principi, decisioni e procedure allo scopo di giungere a una pace globale, terminava una questione che fino ad allora era ancora aperta, anzi, la ferita si era aperta e lacerata ulteriormente con la guerra dei Sei giorni. Le verità è che ogni decisione delle Nazioni Unite risulta essere spesso solo un primo passo per iniziare a risolvere problemi reali e complessi, e un’azione internazionale vigorosa è necessaria per convertire un accordo espresso con una formula verbale a New York in realtà. Per i diplomatici la Risoluzione 242 sembrava la fine di un processo, invece i tentativi di Jarring per facilitare un accordo ricevette un insufficiente sostegno da parte della grandi potenze, non all’altezza della grave questione su cui dovette impegnarsi. 161 Un giusta interpretazione della Risoluzione 242 è incorporata nel piano Rogers, Segretario di Stato americano durante la presidenza Nixon fino al settembre 1973, dove proprio nel punto riguardante la questione territoriale fra Israele e gli Stati arabi limitrofi dichiarò ufficialmente l’11 dicembre 1969: «noi riteniamo che se è vero che i confini politici riconosciuti debbono essere stabiliti e accettati dalle parti, tuttavia nessuna delle modificazione nelle linee di confine preesistenti dovrà recare il marchio della vittoria; ciascuna modificazione dovrà limitarsi alle rettifiche di poco conto richieste dalle esigenze di mutua sicurezza. Noi non tolleriamo l’espansionismo. Crediamo alla necessità del ritiro delle truppe conformemente alla risoluzione [242]. Ci sta altrettanto a cuore la sicurezza di Israele quanto la sicurezza degli Stati arabi». Citato in Henry Kissinger A., Gli Anni della Casa Bianca, SugarCo, 1980 (tit. or.: White House Years, Boston, Little, Brown and Company, 1979), p. 301. Questa iniziativa era stata ideata specificamente per risolvere la disputa fra Egitto e Israele, ma il 18 dicembre successivo fu avanzato un altro piano dal Dipartimento di Stato in linea con il precedente e indirizzato questa volta al fronte orientale, tra Israele e Giordania. Il 22 dicembre 1969 arrivò il netto e irrevocabile rifiuto da parte del governo di Tel Aviv. In questo caso, l’opposizione a cedere anche un minima parte del territorio illegalmente occupato della Cisgiordania, era più intenso: oltre a secondari problemi di sicurezza, la Samaria e la Giudea rappresenta per gli israeliani la biblica terra e culla dei Patriarchi; un aspetto, quello religioso, che sarà quasi impossibile estirpare dalla mente di gran parte della società ebraica. È significativo notare l’impressione che ebbe Nixon del Primo ministro laburista israeliano Golda Meir durante la visita di questa a Washington il 25 settembre 1969, appena due anni dopo la guerra dei Sei giorni: «in Israeli terms she was a “hawk”, and a hard-liner opposed to surrendering even an inch of the occupied territory Israel had won in the 1967». Vedi Richard Nixon M., RN. The Memoirs of Richard Nixon, op. cit., p. 478. Ogni errore può essere un fattore determinante per un futuro errore, e ancora oggi, dopo quasi 35 anni di distanza, la Risoluzione 242 per la maggior parte non è stata applicata. 3.2 Armi per Israele Nel tardo settembre 1967, gli Stati Uniti assicurarono agli israeliani che le consegne di aerei Skyhawks pattuiti nel 1966 sarebbero state eseguite senza ritardi, così come, nel tardo ottobre, la fornitura di attrezzature militari a cinque Stati arabi moderati e filo-occidentali ordinati prima dello scoppio della guerra dei Sei giorni. L’ondata di radicalismo arabo esplosa in seguito alla conquista di vasti territori da parte dell’esercito israeliano fornì all’Amministrazione americana il timore che Mosca, con la sua massiccia ricostruzione degli eserciti dei suoi clienti, poteva creare uno squilibrio di potere nell’area mediorientale. Nel campo degli aiuti militari che gli Stati Uniti potevano concedere a Israele, diversi fattori diedero a quest’ultimo e ai suoi sostenitori una più energica posizione di quella che poteva avere nell’arena diplomatica: L’impegno americano per un equilibrio di potere regionale (idea esplicitata poi con la “Dottrina Nixon” nel luglio 1969 e ufficialmente pronunciata davanti al Congresso nel febbraio 1970)162 significava che l’argomento per le armi era più potente (e impellente) di altri problemi, come quello delle disposizioni territoriale o su una sistemazione pacifica della questione mediorientale Con il cambiamento politico francese sulla regione, lo spostamento vicino alle posizioni arabe, e in sostanza la chiusura alle armi di Parigi, gli Stati Uniti rappresentavano l’unica meta che poteva rifornire gli arsenali israeliani di materiale altrettanto sofisticato 162 Vedi Public Papers of the Presidents of the United States, Richard Nixon 1970 “First Annual Report to the Congress on United States Foreign Policy for the 1970’s”, February 18, 1970, p. 118 e ss., p. 126 e ss.. È sempre stato più facile per i sostenitori americani dello Stato ebraico fare una campagna per l’assistenza materiale rispetto al sostegno diplomatico, particolarmente perché il Congresso è depositario del potere e della responsabilità, costituzionalmente garantite (Art. 1, sezione 8°), di assegnare i fondi finanziari (e Capitol Hill è notoriamente filoisraeliana) Una richiesta in tal senso (“arms issue”), fatta dal governo israeliano, allerta membri del campo pro-Israele e inizia la discussione. Possono sollecitare il sostegno del Congresso o di alcuni simpatizzanti del Pentagono, appellarsi direttamente al presidente americano ogni qual volta c’è un’opposizione dai vertici del Dipartimento di Stato e/o di Difesa. Sulle questioni diplomatiche (“diplomatic issue”), i fautori delle posizioni israeliani non riescono a venire a conoscenza delle iniziative del Dipartimento di Stato fino a quando è troppo tardi per incidere e influenzare il processo decisionale all’interno della struttura burocratica. Non rimane che reagire passivamente.163 Su questioni diplomatiche intricate, inoltre, il presidente ascoltava gli esperti di politica estera più che i gruppi d’interesse. L’atmosfera politica creata dalla guerra del Vietnam ha reso più favorevole la vendita di armamenti a Israele, poiché la politica di intervento delle forze militari americane in altri teatri, come lo era il Medio Oriente, fu totalmente scartata, a favore di una politica indiretta di sostegno alla sicurezza di Stati regionali cardini, ad esempio la stessa Israele, Iran, Giappone. Di notevole importanza fu il contributo che Israele, con la vittoria schiacciante nella guerra dei Sei giorni, dette alla sicurezza degli Stati Uniti; infatti, grazie all’esperienza del conflitto e alla cattura di attrezzature e apparecchiature sovietiche, fornì rilevanti informazioni militari che poi saranno 163 Una dimostrazione eloquente è stato proprio la presentazione pubblica del (primo) Piano Rogers il 9 dicembre 1969, dove il governo israeliano non ricevette nessuna parola, ufficiale o non ufficiale, in anticipo del discorso; neanche dai sostenitori del paese ebraico nel Congresso. Cfr. Seymour M. Hersh, The Price of Power. Kissinger in the Nixon White House, op. cit., p. 220. Un altro esempio riguarda la proposta di Rusk avanzata nell’ottobre 1968 al ministro degli Esteri egiziano, che conteneva sette punti per un possibile accordo di pace tra Israele ed Egitto ma «without apprising Jerusalem of the contents or even the existence of a plan». Vedi Steven Spiegel L., The Other Arab-Israeli Conflict. Making America’s Middle East Policy, from Truman to Reagan, op. cit., pp. 157-158. sfruttate dall’esercito americano in Indocina. Anche la chiusura del canale di Suez impedì il rifornimento militare di Mosca alla volta del Vietnam. Il nuovo equilibro delle forze interne della società americana fu messo alla prova con la richiesta israeliana di acquistare gli aerei Phantom. Il governo israeliano premeva sugli Stati Uniti per mantenere e incrementare la superiorità militare per neutralizzare qualsiasi attacco sferrato dai paesi arabi limitrofi, In particolare la sua attenzione era concentrata su un tipo di aereo offensivo, il cacciabombardiere F-4 Phantom dotato di alta tecnologia. Considerati gli eventi della guerra dei Sei giorni, era indispensabile per Tel Aviv garantire la sicurezza controllando i cieli. Il 7-8 gennaio 1968 ebbe luogo un incontro nel ranch del presidente Johnson in Texas con alcuni esponenti israeliani, tra cui il Primo ministro Eshkol e l’ambasciatore Avraham Harman. Scopo principale per il governo israeliano era la richiesta pressante ed esplicita di 50 F-4 Phantom, visto il repentino recupero da parte dell’Egitto (UAR) della sua temerarietà militare grazie all’enorme e rapido afflusso di materiale bellico sovietico. Priorità era la sicurezza di Israele e il deterrente militare andava certamente bene. La politica di Tel Aviv sostanzialmente era di perseguire negoziati diretti che avrebbero condotto, in un non determinato futuro, ai trattati di pace con tutti i paesi arabi limitrofi alla sue condizioni. Per fare ciò, Israele doveva assolutamente aumentare, o quantomeno mantenere, la sua posizione negoziale e aspettare, senza forzare i tempi, il riconoscimento internazionale dei suoi interlocutori per aprire la strada alla pace.164 Johnson indicò come condizione alla spedizione degli aerei, la mancata intesa con l’Unione Sovietica circa un accordo sulla limitazione degli armamenti nella regione e, per l’eventualità di onorare la promessa, diede ordine di mettere in produzione 50 Phantom. Privatamente fornì della Nell’intervento di apertura, Eshkol rivendica addirittura che «the Six-Day War blocked the taking over of the Middle East by the Soviet Union». Vedi FRUS, 1964-1968, Vol. XX, Arab-Israeli Dispute, 1967-1968, doc. 39, Memorandum of Conversation, National Archives and Records Administration, RG 59, Central Files 1967-69, POL ISR-US. Secret; Nodis. 164 rassicurazioni ancora più significative. Il comunicato ufficiale rilasciato alla fine dell’incontro testimoniava la stretto ed intimo rapporto fra i due Paesi, con l’impegno americano di mantenere la sicurezza di Israele sotto controllo e con la ferma dichiarazione di aumentare gli accordi nell’area. Mentre la Casa Bianca, con in testa il presidente Johnson, era favorevole alla vendita dei Phantom, la burocrazia governativa, comprese le sue varie agenzie, era nella quasi totalità contraria all’operazione: - Il Dipartimento di Stato, in special modo l’ufficio per il Vicino Oriente, considerava la risposta positiva di Johnson un ostacolo ai rapporti con gli Stati arabi (nel momento in cui alcuni di essi avevano rotto i rapporti diplomatici con gli USA, come conseguenza della guerra dei Sei giorni), protestando che questi costi politici non sarebbero stati compensati da nessun beneficio per gli Stati Uniti. Molti funzionari sottolineavano il fatto che Israele non aveva bisogno dei Phantom perché le sue forze militari erano già grandemente superiori a quelle arabe, e la dimostrazione erano stata data con il conflitto del giugno ’67. 165 Altri si opposero alle stime che Israele aveva fatto delle spedizioni di armi sovietiche agli arabi; diversi affermavano che avrebbero intralciato i negoziati diplomatici, già enormemente difficili avendo creato la guerra dei Sei giorni un abisso fra le parti. Alcuni funzionari diffidavano di Israele, che non cooperava con il mediatore ONU Jarring e aveva ritardato l’esplicita accettazione della Risoluzione 242. Infine, qualche funzionario voleva il ritiro totale dai territori occupati nel giugno del 1967 come condizione per ricevere i jet. - Il Dipartimento alla Difesa era convinto che l’accordo militare fra Israele e gli Stati Uniti fosse un fattore destabilizzante nell’equilibrio dei poteri regionali: il Paese ebraico non necessitava di armi di difesa (ricordiamo che il Phantom è un velivolo offensivo). Alcuni 165 Al contrario, si può supporre che il governo israeliano necessitava una maggiore forza militare per mantenere il controllo sui territori conquistati e su una popolazione ostile, e doveva tenersi pronto per una scontata reazione militare da parte dei Paesi arabi (anche se non si aspettava di certo una guerra a larga scala e a breve scadenza), tenuto conto soprattutto del fattore sovietico per il recupero della forza degli eserciti arabi. dirigenti erano dell’idea di negare o trattenere il pacchetto di aerei fino a che Israele non avesse aderito al trattato sulla non proliferazione nucleare,166 una questione assai importante per la politica estera americana. Tel Aviv era riluttante a firmare e a ratificare il trattato e alla fine non lo fece. - Anche la CIA non credeva che Israele avesse bisogno di armi da difesa e tantomeno quelle offensive: l’agenzia, tuttavia, non rifletteva una posizione politica ma soltanto amministrativa e burocratica. Nell’affrontare la quasi compatta opposizione della burocrazia governativa, i sostenitori di Israele usarono tutti i loro mezzi a disposizione per influenzare, convincere, fare pressioni al fine di spuntarla nel confronto politico interno. L’AIPAC167 (American Israel Public Affairs Committee) era molto attiva e riuscì ad avere dichiarazioni di appoggio alle vendita dei Phantom da entrambi i candidati presidenziali e dibattiti sulla questione in ogni convention di partito. Agli inizi del 1968, il governo israeliano inviò come ambasciatore a Washington Yitzhak Rabin, capo di Stato Maggiore delle forze israeliane durante la guerra dei Sei giorni nel giugno del 1967, credendo che un emissario con alle spalle un’ottima esperienza militare potesse meglio persuadere il governo americano a vendere i Phantom. La Casa Bianca aveva lasciato intendere che il Presidente 166 NPT, Nuclear Non-Proliferation Treaty, trattato multilaterale sottoscritto e ratificato da Stati Uniti, Regno Unito, Unione Sovietica e altri Stati, e firmato il 1° luglio 1968 per impedire la diffusione di armi nucleari e assicurare che i programmi nucleari pacifici di Stati che non hanno lo status di potenza atomica, passino alla produzione militare. Si trattava ovviamente di un trattato diseguale poiché sanciva l’egemonia permanente delle potenze nucleari. Il suo significato politico era evidente: gli Stati Uniti rinunciavano per sempre al riarmo atomico della Germania federale in cambio della condanna sovietica del riarmo atomico cinese. Infatti, sia la Francia di de Gaulle sia la Cina di Mao Tzetung rifiutarono di firmare il trattato ed entrambe causarono degli affetti politici, differenti nella misura: Parigi si distaccò dalla NATO (dissociazione organizzativa e non politica) , più formale e psicologico che sostanziale; Pechino si scontrò con i reparti dell’esercito sovietico sull’isola Ussuri nel marzo e agosto 1969. Pochi giorni dopo, precisamente nella notte fra il 20 e il 21 agosto, i carri armati del Patto di Varsavia invadevano e stroncavano nel sangue la “primavera di Praga”, facendo evaporare il clima di fiducia creato dalla firma del NPT. Solo con l’avvento della nuova Amministrazione di Nixon si potrà riallacciare, con il grande disegno della distensione (“détente”, “linkage”, “negotiation”, “structure of peace”) le file di un dialogo a tutto campo, a iniziare fra le due superpotenze, che produrrà enormi cambiamenti mondiali (politici e militari). Nel maggio del 1995, il trattato di non proliferazione nucleare divenne permanente. 167 L’indirizzo internet del sito dell’AIPAC è http://www.aipac.org/. esigeva una preventivo sostegno del Congresso per procedere all’autorizzazione della vendita, anche se nessuna azione del ramo legislativo era necessaria per la vendita di armi. Senza sorprese, sia alla Camera dei Rappresentanti sia al Senato la maggior parte dei politici americani si schierò dalla parte di Israele. Alla metà di luglio, una modifica alla legge, il Foreign Assistance Act, fu discussa alla Camera dei Rappresentanti e il deputato Lester Wolff di New York praticamente ordinò, con un emendamento, al presidente americano di vendere non meno di 50 Phantom a Israele. L’emendamento passò come parte del Foreign Aid Bill. Wolff aveva agito senza consultare l’AIPAC, i suoi colleghi al Congresso o i leader ebraici, sfidando l’autorità dei Johnson e obbligandolo persino nel numero degli aerei da consegnare. Al Senato, Frank Church escogitò un cambiamento all’emendamento che era stato votato alla Camera, indicando il sostegno congressuale alla vendita di aerei supersonici a Israele, senza specificare il numero. Questo secondo emendamento passò al Senato il 31 luglio 1968 come la versione del Foreign Aid Bill, e, con il sostegno dell’Amministrazione e dei filoisraeliani, la conferenza del comitato misto Camera-Senato approvò l’emendamento del senatore Church prima della sospensione per le convention dei partiti democratico e repubblicano. L’8 settembre 1968, i due candidati presidenziali, Humphrey e Nixon, rilasciarono dichiarazioni di sostegno alla vendita dei Phantom, ma il presidente Johnson, qualche giorno dopo, mise l’accento sulla ricerca di un accordo con l’Unione Sovietica sulla limitazione degli armamenti da inviare in Medio Oriente, senza fare nessun accenno agli aerei Phantom. Il New York Times riportò queste indiscrezioni creando apprensioni nella comunità ebraica in America, ma Johnson raffreddò gli animi, definendo l’articolo del giornale “completely inaccurate” (totalmente inesatto) e dichiarando che non aveva ancora deciso sulla questione; ma soggiunse che il comunicato ufficiale di gennaio era ancora operativo. Quando il Congresso fu riconvocato a metà settembre, la nuova versione del Foreign Assistance Act, con l’emendamento Church, venne approvata rapidamente da entrambe le Camere. Il 9 ottobre 1968, Johnson firmò la legge, prendendo nota del buon senso del Congresso americano e diede ordine al Segretario di Stato di iniziare i negoziati con la controparte israeliana che cominciarono appena cinque giorni dopo, il 14 ottobre. Coerentemente con la politica fissata nel gennaio precedente nel suo ranch, il presidente americano agì solo dopo che gli incontri fra Gromyko e Rusk avevano manifestato chiaramente l’intenzione sovietica di non ricercare, per ovvie ragioni di opportunità politica, un accordo sulla limitazione delle armi nell’area. I fattori che pesarono sulla decisione di Johnson furono: - Dopo l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di Varsavia (21 agosto 1968), era più difficile instaurare un proficuo dialogo persino ad alti livelli fra le due superpotenze - Entrambi i candidati alla presidenza americana e una larga maggioranza nel Congresso avevano appoggiato la richiesta israeliana per la vendita di Phantom da parte di Washington - La consapevolezza di Johnson che la scelta filoisraeliana sulla questione della armi, avrebbe dato al vicepresidente in carica e candidato alla presidenza Humphrey credito politico nei confronti della potente lobby ebraica in America, anche se Nixon annunciò dichiarazioni della stessa natura Nella soluzione di questo difficile problema, Johnson si comportò nello stesso modo in cui aveva affrontato la crisi del maggio-giugno 1967: era necessario il sostegno politico del Congresso. L’approvazione della vendita dei Phantom fu data al governo israeliano il 7 novembre e il contratto di fornitura venne firmato il 28 dicembre 1968 con l’annuncio che i primi aerei sarebbero arrivati nel tardi 1969. La burocrazia168 fece l’ultimo tentativo per ritardare l’operazione. Un funzionario del Dipartimento della Difesa, Paul Warnke, assistente al Segretario, pretendeva alcune condizioni alla vendita degli Phantom, ovvero l’impegno, tramite un accordo vincolante, per Israele di autorizzare la presenza di personale americano per supervisionare e monitorare ogni installazione militare finalizzata alla ricerca, allo sviluppo e alla produzione di ordigni nucleari, con il precipuo obiettivo di non introdurre armi atomiche nel Medio Oriente. La frase interpretata vagamente da Rabin, vale a dire che Israele non doveva essere il primo Paese a testare tali armi, necessitò l’intervento di Warnke con una lettera indirizzata sempre all’ambasciatore Rabin, nella quale veniva esposto chiaramente che la non introduzione di armi nucleari significava la non produzione di installazioni nucleari.169 Ma questo tentativo andò a vuoto. 3.3 …e per la Giordania Un non nuovo problema da affrontare per il governo americano riguardava la Giordania di Re Hussein, Paese arabo moderato, ma suscettibile di cambiamenti politici, proprio ora che doveva subire la seconda ondata di profughi dalla West Bank del fiume Giordano. Infatti, in seguito alla guerra dei Sei giorni, la Giordania si trovò nella condizione imbarazzante di recuperare le perdite militari volgendo lo sguardo a Washington, e allo stesso tempo resistere alle pressioni dell’Unione Sovietica che miravano a soppiantare le tradizionali fonti di armamenti occidentali, inclusa la Gran Bretagna. La preoccupazione era che la Giordania potesse rivolgersi a Mosca sia per l’appoggio diplomatico, sia per l’aiuto economico e militare di cui necessitava. Era urgente mantenere Re Hussein lontano dai Sovietici. 168 Secondo Kissinger, consigliere per la sicurezza nazionale e Segretario di Stato (dal settembre 1973) durante la presidenza Nixon, «la burocrazia, di cui è nota la capacità di tirare per le lunghe l’esecuzione delle direttive poco gradite, riesce a dimostrare una solerzia stupefacente nel mettere in atto le istruzioni che approva e di cui teme una revoca». Vedi Henry Kissinger, Gli Anni della Casa Bianca, op. cit., p. 302. 169 Cfr. William Quandt, Peace Process, op. cit., pp. 57-58, e Seymour M. Hersh, The Price of Power. Kissinger in the Nixon White House, op. cit., p. 214. Ai primi di dicembre 1967, l’ambasciatore statunitense ad Amman, Symmes Harrison M., informava il Dipartimento di Stato del pericolo di una missione sovietica, programmata per la fine del mese, che avrebbe potuto pregiudicare sia la possibilità di riprendere le relazioni militari fra i due paesi sia il generale sostegno verso il regno hascemita. Il 30 dicembre, Re Hussein inviò un messaggio orale al presidente Johnson nel quale, in sostanza, affermava che se gli Stati Uniti non avessero sopperito alla esigenze militari (e quindi, di conseguenza, politiche) del suo Paese, la frustrazione dei generali avrebbe reso reale la possibilità che la Giordania si rivolgesse alla potenza sovietica.170 Era di estrema importanza una chiara posizione in riguardo da parte del governo statunitense, almeno prima della riunione del vertice arabo programmato per il 17 gennaio 1968. Hussein propose l’invio del capo di Stato Maggiore, generale Khammash, a Washington per degli incontri con le autorità americane. Johnson rispose positivamente, affermando che gli Stati Uniti erano preparati «in principle» per riprendere le forniture militari.171 Un abbozzo di accordo proposto dal Dipartimento della Difesa al generale giordano provocò le fredda e deludente reazione di Hussein, poiché non si soddisfacevano pienamente le legittime richieste, militari e politiche di Amman. Dopo varie settimane di intense trattative, il 28 marzo 1968 le due parti firmarono un Memorandum of Understanding, in cui Washington si impegnava a fornire alla Giordania materiale bellico (18 aerei caccia F-104 e 100 carri armati) mostrando una certa flessibilità ad andare incontro ai bisogni del regno hascemita.172 170 Johnson Library, National Security File, Country File, Jordan, Vol. IV, Cables, 5/67-2/68. Sempre il 30 dicembre, in un colloquio fra Symmes e Hussein, questi sottolineò che «there is the seriously deteriorating morale of the Jordan army to be considered», e si oppose recisamente contro un’eventuale via libera del governo americano alla richiesta israeliana di aerei F-4 Phantom. Vedi FRUS, 1964-1968, Vol. XX, doc. 29, Telegram From the Embassy in Jordan to the Department of State, National Archives and Records Administration, RG 59, Central Files 1967-69, DEF 19-8 US-JORDAN. Secret; Immediate; Nodis. 171 FRUS, 1964-1968, Vol. XX, doc. 37, Telegram From the Department of State to the Embassy in Jordan, National Archives and Records Administration, RG 59, Central Files 1967-69, DEF 19-6 US-JORDAN. Secret; Immediate; Nodis. 172 Nella lettera trasmessa a Johnson agli inizi di marzo e mentre l’accordo per la vendita di armi era a buon punto, Re Hussein fece queste osservazioni: «I have become extremely disheartened by what appears to be lack of genuine interest in a just and durable peace by the Israelis. It is unfortunate that their victory should direct them to follow a very narrow and short-sighted approach. For though the Israelis have won a battle they seem unable to appreciate the fact that they have not won a war. This is manifested in their lack of clarity over the acceptance of the Security Council's resolution under the Infatti, il principale obiettivo della vendita era rafforzare la legittimità di Re Hussein (e del suo esercito) nei confronti del proprio popolo e verso l’intromissione di truppe irachene del Re Faisal.173 283 mandate of which Ambassador Jarring is pursuing his mission; in their arbitrary actions in defiance of a semi-unanimous United Nations resolution on Jerusalem; in their continuing actions aiming at major alterations in the city. …Israel has persisted in the use of brutal force and has constantly attacked our people on the East Bank of Jordan, inflicting heavy losses of life and property. Her ridiculous and totally incomprehensible excuse for doing all this is that I am not fulfilling my socalled duty of ensuring the safety and security of her forces which occupy a good portion of my country. Israel seems unwilling to understand that so long as she remains in such occupation she will be met by mounting resistance by the people under occupation and who are victims of her aggression». Vedi FRUS, 1964-1968, Vol. XX, doc. 99, Telegram From the Embassy in Jordan to the Department of State, National Archives and Records Administration, RG 59, Central Files 19671969, DEF 12-5 JORDAN. Secret; Priority; Exdis. 173 FRUS, 1964-1968, Vol. XX, doc. 125, Action Memorandum From the President's Special Assistant (Rostow) to President Johnson, Johnson Library, National Security File, Country File, Jordan, Vol. V, Memos, 3/68-1/69. Secret. Conclusioni Il linguaggio della forza: una “pace” dettata da Israele La politica espansionista aggressiva nei confronti del popolo palestinese Terra e aspirazioni territoriali sono sempre stati il cuore della lotta che ha visto confrontarsi a lungo ebrei e arabi in Palestina. Tuttavia, le cause del conflitto araboisraeliano appaiono più profonde della semplice disputa di territori.1 Con una valutazione a posteriori delle vicende che vanno dal 1917 al 1967, prima dello yishuv e poi dello Stato israeliano, possiamo giungere alla conclusione che il ruolo di occupante che Israele iniziò a svolgere con la sconvolgente vittoria nel giugno 1967, non era il frutto di una guerra intrapresa per difendere l’esistenza dello Stato ebraico (come, del resto, era convinto Eban: «the choice was to live or perish, to defend the national existence or to forfeit it for all time»),2 ma implicava una nuova fase delle ambizioni del sionismo. Queste erano iniziate con l’accettazione da parte dei leader della comunità ebraica in Palestina del piano di spartizione ONU del novembre 1947, un gesto 1 Nelle dichiarazioni finali alla Conferenza mondiale contro il razzismo tenutasi a Durban (Sudafrica, 31 agosto – 7 settembre) l'8 settembre 2001, il vice primo ministro e ministro degli Esteri belga, parlando in rappresentanza dell'Unione Europea, affermò che «the long-running tragedy was primarily a territorial dispute». Vedi http://www.un.org/WCAR/pressreleases/rd-d45.htm, Call to eradicate discrimination and intolerance marks conclusion of world conference against racism, 8 September 2001. 284 che esprimeva non tanto il sincero desiderio di raggiungere un compromesso razionale con il movimento nazionale arabo-palestinese, quanto una soluzione di ripiego di fronte a problemi contingenti più urgenti e impellenti (immigrazione, rafforzamento della struttura statale e dell’apparato di sicurezza). Ben Gurion era convinto che lo Stato ebraico dovesse essere inserito nelle cartine e nella storia, perché le frontiere, ancora oggi non permanenti e suscettibili di mutamenti, sarebbero state dettate dal potenziale militare piuttosto che dal diritto internazionale. Mentre agli occhi dell’opinione pubblica internazionale del tempo, la guerra che ha portato alla nascita di Israele era considerata giusta, o quantomeno moralmente accettabile, viste le sofferenze e persecuzioni che il popolo ebraico aveva subito durante la Seconda guerra mondiale, il conflitto del ’67 appariva in una luce completamente diversa. Vi era una differenza morale tra la conquista di territori strappati agli arabi con la guerra d’Indipendenza e quelli occupati (e in piccola parte annessi unilateralmente) durante la guerra dei Sei giorni: le motivazioni erano completamente differenti. Mentre le conquiste ottenute del 1949 rappresentavano la base e condizione essenziale (e inevitabile) per la fondazione del nuovo Stato ebraico, il tentativo di conservare e ampliare i territori esclusivi nella West Bank e a Gaza aveva un forte sapore di espansione imperiale. Per il sionismo, e per la sua ideologia di liberazione, era più che legittimo e giustificato dalla storia e dalla Bibbia (sinonimi per gli ebrei), cercare di riscattare l’intera area di Eretz Yisrael, conseguendo i diritti del popolo ebraico nella propria 2 Vedi pp. 256-257 e nota 19 del capitolo 8. 285 patria biblica. Proprio questo diritto storico sulla Palestina, abilmente sfruttato come propaganda e argomento di politica internazionale, fu invocato e rivendicato con il fine di assicurarsi un rifugio, considerate le condizioni che gli ebrei avevano dovuto sopportare all’inizio del XX secolo dopo i reiterati pogrom nell’impero russo. Fu l’abilità diplomatica di Chaim Weizmann che fece inserire nel testo del Mandato britannico il legame storico degli ebrei con la Palestina.3 La percezione che grazie alla vittoria schiacciante (per alcuni “troppo” schiacciante) riportata nel giugno ’67 si fosse “liberata” quasi l’intera Eretz Yisrael, fece rinascere tutte quelle forze nella società israeliana, soprattutto movimenti religiosi, che avevano lo scopo di colonizzare le nuove terre conquistate e persino annetterle allo Stato ebraico. Un influente movimento ideologico fondato immediatamente dopo la guerra, WLIM (Whole Land of Israel Movement), formato principalmente da militanti del Partito laburista al governo, proponeva la massima estensione territoriale della sovranità ebraica. Sul piano pratico ciò si traduceva in insediamenti come mezzo per determinare i futuri confini politici. Certo, era rischioso dare inizio a una politica di colonizzazione nella West Bank, cuore della Palestina araba, ma allo stesso tempo era un territorio intriso di memorie bibliche e gesta di eroi, che costituivano il centro di quella grande terra in cui i Patriarchi e le Matriarche, i Re, i Giudici e i Profeti erano vissuti e avevano agito. Ma cosa fare dei civili palestinesi che abitavano questa terre, soprattutto nella Cisgiordania (più di un milione nel 1967) e a Gaza? Diversamente dalla 3 «Recognition has thereby been given to the historical connexion of the Jewish people with 286 guerra d’Indipendenza israeliana dove furono espulsi e/o fuggirono 700-800 000 arabi, durante la guerra dei Sei giorni la maggior parte rimase nelle loro case (eccetto circa 300 000 palestinesi). Prevalse all’interno del governo laburista la scelta in favore di un «compromesso funzionale», volto a confiscare gradualmente territori arabi senza annettere la popolazione, sottoposta a un’occupazione militare.4 Questa politica non contraddiceva uno dei principi fondamentali del sionismo, che voleva mirare sempre a “più terra e meno arabi,” così da mantenere una schiacciante maggioranza ebrea dal punto di vista demografico.5 Un’altra idea funzionale al nuovo teatro geopolitico uscito dalla guerra dei Sei giorni, era il sostegno crescente della società israeliana al “trasferimento” dei palestinesi, soluzione non nuova, poiché era datata nel XIX secolo, che permetteva di risolvere le ambizioni territoriali sioniste e il problema demografico arabo. Questo concetto era sostenuto dai più importanti leader sionisti come David Ben Gurion, Theodor Herzl, Zeev Jabotinsky, Moshe Sharett, Chaim Weizmann; un eufemismo, tradotto in vari modi (“scambio di popolazione”, “risistemazione”, Palestine and to the grounds for reconstituting their national home in that country». 4 Vedi Zeev Sternhell, Nascita di Israele. Miti, storia, contraddizioni, Milano, Baldini&Castoldi, 1999 (tit. or.: The Founding Myths of Israel, Princeton, Princeton University Press, 1998), p. 452, dove l’alternativa era per un «compromesso territoriale» che prevedeva l’annessione di aree relativamente non popolate. Inoltre vedi Hersh Seymour M., The Price of Power. Kissinger in the Nixon White House, New York, Summit Books, 1983, p. 219: «the disposition of the issue of the West Bank required not only a political decision by Israel’s leaders but a religious and philosophical decision about Israel’s future territorial and ideological claim». 5 Vedi Nur Masalha, Imperial Israel and the Palestinians. The Politics of Expansion, op. cit., pp. 217, 226, 227. Oltre al prioritario dovere di colonizzare la terra d’Israele, i politici israeliano hanno una vera a propria ossessione per la “bomba” demografica araba sia nei territori occupati sia all’interno della Linea Verde. È sempre stato uno dei problemi maggiormente dibattuti quello del mantenimento del carattere ebraico-giudaico dello Stato. È strettamente collegato a questo problema l’idea di espulsione degli arabi, di creare sistematicamente condizioni di sofferenza tali 287 “emigrazione”, “rimpatrio”), che implicava un’organizzata rimozione della popolazione palestinese verso i limitrofi Paesi arabi, forzata o attuata volontariamente. In altri termini si trattava di una pulizia etnica o espulsione di massa. I politici di Tel Aviv non trovavano niente di immorale in questa proposta, e per giustificare (se non legittimare) il loro punto di vista fornirono dei precedenti simili, come ad esempio il trasferimento di greci e turchi, indiani e pakistani. La praticità di questa misura appariva dubbia, ma sia l’utilizzo di azioni militari nei territori occupati (prendendo come pretesto una guerra di “difesa” contro le organizzazioni terroristiche palestinesi) sia la deliberata creazione di disagi economici potevano fornire l’occasione per l’espulsione.6 Un altro importante elemento della politica israeliana nei confronti dei palestinesi residenti nei territori occupati dopo il 1967 è stato l’uso della forza, della coercizione e della violenza, per di più arbitraria, essenzialmente con l’obiettivo di stroncare qualsiasi resistenza palestinese nei confronti della politica territoriale aggressiva israeliana e continuare la confisca e la colonizzazione di terre arabe. Senza ombra di dubbio, la politica di colonizzazione intrapresa senza remore dall’esecutivo israeliano laburista nel 1967-68 poteva essere sostenuta solo con la repressione effettuata da un forte esercito (l’IDF). da indurre i palestinesi a emigrare “volontariamente” dai territori occupati, oppure sfruttare (future) situazioni di guerra con l’obiettivo di un obbligatorio “trasferimento”. 6 È condivisibile il giudizio secondo il quale il massacro di Deir Yassin non sia stato né una punizione né un deterrente, bensì uno strumento politico progettato per accelerare l’ondata di profughi palestinesi: logica e ragionevole conclusione della politica che punta all’annessione di territori arabi. 288 Nelle parole del leader revisionista Jabotinsky, pronunciate negli anni venti, si percepisce chiaramente la volontà di ignorare i legittimi diritti nazionali dei palestinesi e che un accordo con questi ultimi non era né desiderabile né necessario, mentre, al contrario, un confronto appariva inevitabile e naturale e sarebbe stato risolto con la creazione di un impenetrabile muro di ferro, vale a dire una aggressivo e compatto Stato ebraico sostenuto da un potente esercito: «Zionist colonisation, even the most restricted, must either be terminated or carried out in defiance of the will of the native population. This colonisation can, therefore, continue and develop only under the protection of a force independent of the local population – an iron wall which the native population cannot break through. This is, in toto, our policy [del sionismo revisionista] towards the Arabs. To formulate it any other way would be a hypocrisy.7 In sostanza, questo concetto del “muro di ferro” come presa di posizione nei confronti dei palestinesi, rimane tutt’ora un principio guida dell’attuale governo di unità nazionale capeggiato dall’ex generale Ariel Sharon e leader del Likud. Dopo un decennio dalla fine della guerra de Sei giorni, periodo di impasse diplomatica nel corso del quale nessun Stato arabo aveva allacciato relazioni ufficiali con Israele, permettendo a Tel Aviv di sfruttare il tempo per aumentare gli insediamenti permanenti illegali nei territori occupati secondo il principio del fatto compiuto, per la prima volta una coalizione di partiti di destra guidati da Menachem Begin a capo del Likud vinsero le elezioni generali. Coerentemente con il suo passato e le sue idee, la missione prioritaria del Primo ministro fu quella 7 Citato in Nur Masalha, Imperial Israel and the Palestinians. The Politics of Expansion, op. cit., p. 56. Vedi anche Avi Shlaim, The Iron Wall. Israel and the Arab World, op. cit., pp. 12-16. Durante gli anni venti del ‘900 il sionismo laburista aveva come obiettivi per la costruzione dello Stato ebraico l’immigrazione e la colonizzazione delle terre e dava una priorità secondaria alla creazione di un forte esercito, ma durante la seconda guerra mondiale i suoi leader e persino Ben 289 di cercare l’integrità territoriale di Eretz Yisrael sotto il dominio israeliano, tramite l’uso della forza. La permanenza della destra alla guida del paese durò, in sostanza, fino al 1992, con il ritorno al potere dei laburisti di Rabin. All’inizio di questo lungo periodo Begin diede inizio a una imponente campagna di colonizzazione nella West Bank (soprattutto), a Gaza e a Gerusalemme Est e annetté unilateralmente le alture del Golan (14 dicembre 1981). L’aumento del numero delle colonie e della popolazione fu intenzionalmente pianificato dal Likud in modo da rendere difficoltoso, o addirittura impossibile, per i futuri governi israeliani rimuovere (anche con la forza) gli insediamenti, in un qualsiasi ipotetico accordo con gli arabi, e nel contempo negare il territorio a un eventuale Stato palestinese. Il governo di Begin ha applicato alla West Bank e a Gaza la formula di un’annessione de facto, con una strisciante integrazione allo Stato d’Israele grazie a una continua politica di colonizzazione, alla sistematica confisca di terre arabe, al controllo delle risorse idriche, restringendo contemporaneamente la popolazione palestinese in città-enclave o bantustan, controllati a distanza dall’apparato militare israeliano. L’invasione israeliana del Libano (“Operazione pace per la Galilea”) intrapresa da Begin e Sharon per delegittimare l’OLP ha tratti sorprendentemente simili alla politica attuale del governo di Tel Aviv, attuata con incursioni militari nelle zone e città autonome palestinesi nel marzo e aprile 2002, per delegittimare Gurion si avvicinarono gradualmente e fecero propria l’idea di Jabotinsky secondo la quale una forte e potente struttura militare ebraica sarebbe stata un fattore chiave nella lotta per uno Stato. 290 e distruggere fisicamente l’Autorità palestinese, nata con gli accordi di Oslo (13 settembre 1993). Proprio in riferimento alla guerra del Libano, il biografo di Begin scrisse nel 1982 sulla rivista americana Foreign Affairs: «Begin and Sharon share the same dream: Sharon is the dream’s hatchet man. That dream is to annihilate the PLO, douse any vestiges of Palestinians nationalism, crush PLO allies and collaborators in the West Bank and eventually force the Palestinians there into Jordan and cripple, if not end, the Palestinian nationalist movement. That, for Sharon and Begin, was the ultimate purpose of the lebanese war».8 Insediamenti israeliani e diritto internazionale La politica portata avanti dal 1967 in poi da qualsiasi governo israeliano infrange diverse disposizioni di trattati di cui Israele è parte contraente. Il diritto internazionale umanitario stabilisce norme e regole che si devono applicare in tempo di guerra e occupazione militare da parte di una potenza straniera, e significativamente la quarta Convenzione di Ginevra per la protezione delle persone civili in tempo di guerra adottata il 12 agosto 1949, afferma all’articolo 49 par. 6 che «the Occupying Power shall not deport or transfer parts of its own civilian population into the territory it occupies».9 Con questa disposizione si è voluto impedire pratiche adottate nel periodo della Seconda guerra mondiale, quando porzioni di popolazione (con la forza o volontariamente) furono trasferite in territori per ragioni politiche e razziali. Inoltre, l’obiettivo di questa clausola non riguarda (solo) il fatto che il volontario trasferimento di coloni non deve implicare la deportazione dei residenti locali, ma 8 Citato in Nur Masalha, Imperial Israel and the Palestinians. The Politics of Expansion, op. cit., p. 83. 291 il fine principale è di proteggere la popolazione nativa dei territori contro un’altra popolazione straniera che si insedia sulla stessa terra, con tutti i danni che possono derivare da tale colonizzazione, ad esempio lo sfruttamento delle risorse naturali (acqua, terra, ecc.), restrizioni alla sviluppo economico locale, trasformazione demografica dei territori. Durante la presidenza Carter, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU approvò la Risoluzione 446 (22 marzo 1979), che, oltre a riaffermare l’applicazione della quarta Convenzione di Ginevra del 1949 ai territori occupati da Israele dal 1967, decideva la non validità legale della politica di colonizzazione poiché «constitute a serious obstruction to achieving a comprehensive, just and lasting peace in the Middle East». Essa qualificava Israele come “potenza occupante” e lo richiamava «to rescind its previous measures and to desist from taking any action which would result in changing the legal status and geographical nature and materially affecting the demographic composition».10 Quasi un anno dopo, il 1 marzo, lo stesso organo delle Nazione Unite, adottò la Risoluzione 465, con il voto favorevole degli Stati Uniti, che si esprimeva in termini simili alla 446.11 9 Il testo della 4° Convenzione di Ginevra si può trovare nel sito delle Croce Rossa internazionale all’indirizzo http://www.icrc.org/eng. 10 Per il testo della Risoluzione 446 vedi http://domino.un.org/unispal.nsf, oppure nella sezione “Documenti” di questo lavoro. Nella votazione gli Stati Uniti si astennero, insieme a Gran Bretagna e Norvegia. 11 Per il testo della Risoluzione 465 vedi http://domino.un.org/unispal.nsf, oppure nella sezione “Documenti” di questo lavoro. Ecco alcuni passi: «Strongly deploring the refusal by Israel to cooperate with the Commission and regretting its formal rejection of resolutions 446… Deploring the decision of the Government of Israel to officially support Israeli settlement in the Palestinian and other Arab territories occupied since 1967… Determines that all measures taken by Israel to change the physical character, demographic composition, institutional structure or status of the Palestinian and other Arab territories occupied since 1967, including Jerusalem, or any part thereof, have no legal validity and that Israel's policy and practices of settling parts of its population and new immigrants in those territories constitute a flagrant violation of the Fourth Geneva Convention relative to the Protection of Civilian Persons in Time of War and also 292 La nuova Corte Internazionale criminale permanente, che inizierà a funzionare dal prossimo primo luglio 2002, visto che è stata superata la soglia di 60 ratifiche, afferma all'articolo 8 par. 2b (viii) che «the transfer, directly or indirectly, by the Occupying Power of parts of its own civilian population into the territory it occupies, or the deportation or transfer of all or parts of the population of the occupied territory within or outside this territory» è un crimine di guerra, alla pari di torture, deportazioni, uccisioni deliberate e ingiustificate, attacchi contro la popolazione civile.12 Naturalmente, Israele (assieme agli Stati Uniti) ha firmato lo Statuto il 31 dicembre 2000, ma ha esplicitamente espresso la propria volontà di non ratificarlo (sempre assieme agli Stati Uniti) poiché la Corte avrà giurisdizione sui crimini commessi dai cittadini di Stati che hanno ratificato il trattato, o che si trovino nei territori degli stessi Stati, un fatto che lede la piena sovranità di Israele. La vittoria nel 1967 ha risvegliato forze già presenti nella società israeliana inclini a non ricercare un onesto compromesso con il popolo palestinese e i suoi rappresentanti, determinati ad affermare la nozione che gli ebrei sono il popolo eletto e gli arabi minacciano con la loro presenza in Eretz Yisrael, il processo di redenzione messianico. Sulla base della Torah13 ogni ebreo deve onorare il constitute a serious obstruction to achieving a comprehensive, just and lasting peace in the Middle East». 12 Il testo integrale della Corte Internazionale criminale permanente è presente su http://www.un.org/law/icc/index.html. Possono essere giudicati solo individui (non Stati, riservati esclusivamente al lavoro della Corte Internazionale di Giustizia), a prescindere dallo status militare o civile oppure dalla posizione ufficiale che si ricopre (ministro, Capo del governo, Presidente, ecc.). Vengono perseguiti crimini di guerra, crimini contro l'umanità e genocidio. 13 Voce ebraica che significa “legge”, “dottrina”, e con la quale nel giudaismo si indica il Pentateuco, nome dato ai primi cinque libri della Bibbia (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio). 293 comandamento (“mitzvah”) divino di colonizzare Eretz Yisrael a ogni costo, anche tramite la guerra; così come c’è la proibizione di cedere qualsiasi porzione, anche minima, della biblica terra d’Israele. La destra, gli estremisti radicali come il Partito nazionale religioso (Mafdal), Moledet, Tzomet, i diversi movimenti tra i quali annoveriamo Gush Emunim (“Blocco della fedeltà”, fondato nel 1974) e il Kach (di chiari contenuti razzisti), considerano più che mai la guerra come processo purgativo, un segno di prova, di forza e un mezzo necessario attraverso il quale è esercitata la volontà divina. Di fatto, proprio l’incessante, pianificato e sistematico aumento degli insediamenti israeliani nei territori occupati si può paragonare, senza esagerazione, a una strisciante campagna militare nei confronti del popolo palestinese.14 L’atteggiamento politico di Washington nei confronti della concreta e incessante politica del fatto compiuto tramite lo sviluppo delle colonie, incentivata e promossa finanziariamente da ogni governo israeliano, è stata ambigua e contradditoria nel complesso. L’Amministrazione Carter rimase fedelmente attaccata all’illegalità degli insediamenti, in primo luogo perché violavano la quarta Convenzione di Ginevra. Al contrario, il presidente Reagan si distaccò da questa linea politica e proclamò 14 Il Rabbino Shlomo Aviner sostenne nel 1982: «even if there is a peace, we must instigate wars of liberation in order to conquer additional parts of the Land of Israel». Citato in Nur Masalha, Imperial Israel and the Palestinians. The Politics of Expansion, op. cit., p. 114. Per molti leader estremisti votati alla politica espansionista territoriale e figure religiose, il conflitto ideologico con gli arabi-palestinesi ha le sue radici nell’ordine biblico concernente gli Amaleciti (I Samuele 15,23). I palestinesi sono gli Amaleciti di oggi che profanano la terra d’Israele. Questa frase biblica è stata interpretata da diversi rabbini per giustificare non solo l’espulsione dei palestinesi locali ma anche l’uccisione di civili arabi in caso di guerra. Dalla narrazione biblica, principalmente in libri come Esodo, Deuteronomio e Giosuè la pulizia etnica non solo viene presentata legittima ma anche come una richiesta divina («il Signore degli eserciti»). 294 la loro legalità, in contrasto con la precedente politica americana, mentre tutte le successive amministrazioni non presero alcuna posizione sull’argomento, sebbene considerarono la politica di colonizzazione come un «ostacolo alla pace» o più semplicemente «di nessun aiuto» per risolvere pacificamente la questione araboisraeliana. Nel 1990-91, con lo smembramento dell’Unione Sovietica, ci fu immigrazione di massa di ebrei russi verso il piccolo Stato ebraico che mise in apprensione la comunità palestinese per la minaccia, sempre più potenziale, dell’applicazione del concetto del trasferimento dai territori occupati. Con l’accordo di Oslo, anch’esso una conseguenza della guerra del Golfo del 1991, la dirigenza della OLP riconobbe ufficialmente lo Stato d’Israele (e viceversa), accettando dolorosamente un futuro Stato palestinese pari al 22% della Palestina mandataria e la fine della lotta armata. Iniziava un vero processo di pace tra le due parti, ma graduale, rimandando problemi fondamentali e spinosi come la questione degli insediamenti, la sovranità su Gerusalemme o il problema dei profughi alle trattative finali permanenti. Questo intervallo di tempo diede la possibilità ai governi israeliani di aumentare notevolmente gli insediamenti illegali. In altre parole, mentre la diplomazia discuteva la varie fasi applicazione dell’accordo programmatico di Oslo, la popolazione dei coloni israeliani raddoppiava: nella West Bank e a Gaza nel 1972 la popolazione dei coloni era 1500, nel 1983 29090, nel 1992 109784 e alla fine del 2001 213672, con la tendenza ad aumentare; a Gerusalemme Est nel 1972 i coloni erano 6900, nel 1992 141000 e nel 2000 170400; nelle alture del 295 Golan attualmente vivono 17000 coloni.15 Queste trattative non basate sulla buona fede e la lealtà hanno portato il popolo palestinese a sollevarsi contro la forza dei fatti nel settembre 2000, con l’intifada al-Aqsa. Uno studio eseguito dall’organizzazione israeliana per i diritti umani nei territori occupati, B’Tselem, intitolato «Land Grab: Israel’s Settlement Policy in the West Bank» (maggio 2002), rivela che, mentre solo il 1.7% della West Bank è coperto dalle costruzioni di insediamenti, la totale area “controllata” da Israele arriva fino al 41,9%, poiché i confini municipali nei progetti nazionali (inclusi le aree già edificate) equivalgono al 6,8% e le terre che ricadono sotto la giurisdizione dei consigli locali e regionali (terre riservate) corrispondono al 35,1%.16 Questi fatti avvalorano la tesi dell’annessione di fatto dei territori occupati da parte di Israele, inasprendo la frustrazione dei palestinesi e la paura di fronte a questa politica espansionistica, visto che Israele non ha mai definito in modo permanente i suoi confini, sempre suscettibili di cambiamento in una sola direzione. Gli insediamenti, inoltre, sono indispensabili per i leader politici israeliani al potere, poiché senza di essi non potrebbero mantenere un esercito straniero nei territori occupati. Israele ha creato nei territori occupati palestinesi un regime di separazione basato sulla discriminazione, applicando due sistemi separati di legislazione nella stessa area e fondando i diritti della popolazione in base alla loro cittadinanza (e nazionalità), dove il complesso delle leggi israeliane viene applicato ai coloni e 15 I dati sono disponibili in http://www.fmep.org/, Foundation for Middle East Peace. 296 agli insediamenti, mentre la popolazione civile palestinese resta sottoposta alla legislazione militare.17 Sotto tale regime, Israele persevera nella confisca di terre palestinesi per costruire incessantemente nuovi insediamenti, isole esclusive per soli ebrei, cosi come lo sono le strade che li collegano. Contemporaneamente, Israele proibisce di usufruire di queste terre e usa gli insediamenti, la loro sicurezza e altri pretesti, per giustificare le numerose violazioni dei diritti umani dei palestinesi come il diritto all’abitazione, o il diritto alla libertà di movimento. Il risultato dopo 35 anni di occupazione militare, abbinata a una sistematica politica del fatto compiuto da parte di tutti i governi israeliani che si sono succeduti, è il drastico cambiamento della mappa della West Bank che impedisce fisicamente, a causa della mancanza di una significativa contiguità territoriale, la reale possibilità di istituire uno Stato palestinese indipendente, come parte del più ampio diritto di autodeterminazione. I coloni beneficiano di tutti i diritti di cui dispongono i cittadini israeliani che risiedono all’interno della Linea Verde, e in diversi casi sono destinatari anche di privilegi maggiori. Infatti, non dobbiamo dimenticare il grande sforzo compiuto dai governi israeliani (anche per un guadagno elettorale) nella politica di colonizzazione, in termini finanziari, legali e burocratici, trasformando le colonie in enclave civili permanenti, in un area soggetta al controllo militare, in cui lo status di colono è prioritario e separato. Ed è proprio su tali governi che ricade la principale responsabilità per la violazione dei diritti umani dei palestinesi, perché 16 Il testo integrale del Rapporto si trova in http://www.btselem.org/. sistema politico che richiama alla mente il regime dell’apartheid in Sudafrica. 17 Un 297 hanno sempre fornito il sostegno politico, economico e organizzativo e incoraggiato la loro continua crescita. Grande responsabilità politica risiede anche sugli Stati Uniti, gli alleati informali di Tel Aviv e gli unici al giorno d’oggi, che possono imporre, tramite pressioni o minacce di sospendere (o ipoteticamente bloccare) aiuti finanziari, privati e pubblici, e militari, una vera politica, che porti verso una giusta pace per entrambe le parti.18 Soprattutto a causa dell’uso sconsiderato e irresponsabile del potere di veto in seno al Consiglio di Sicurezza per bloccare risoluzioni di condanna aperta alla politica di Israele o, più recentemente, per impedire la formazione e l’invio di osservatori internazionali ONU (e non una forza multinazionale) nei territori occupati.19 Washington non riconosce (in buona o in mala fede) che la violenza palestinese e il terrorismo all’interno della Linea Verde contro i civili inermi e 18 Ricordiamo la forte pressione del presidente americano Eisenhower, abbinata e sostenuta con misure concrete di influenza, per ottenere da Ben Gurion l’incondizionato ritiro delle truppe israeliane dalla penisola del Sinai nel marzo 1957, in seguito alla crisi di Suez. Ogni leader politico israeliano è fedele al principio secondo il quale «non si abbandona mai una posizione o un territorio a meno che non si sia costretti da una forza superiore», citato in Zeev Sternhell, Nascita di Israele. Miti, storia, contraddizioni, op. cit., p. 442. Israele riceve dagli Stati Unti annualmente circa 3 miliardi di dollari di aiuti economici e militari per mantenere la sicurezza e il diritto di esistere. In realtà, l’assistenza americana viene utilizzata per sostenere la politica militare nei territori occupati. I maggiori aiuti degli Stati Uniti iniziarono proprio dopo la guerra dei Sei giorni. Per approfondimenti vedi http://www.fpif.org/ e http://www.wrmea.com/html/us_aid_to_israel.htm. 19 La prassi di opporsi alle risoluzioni che in qualche modo ostacolano gli interessi d’Israele è iniziata sotto l’Amministrazione Nixon. Qui di seguito vengono riportate le date nelle quali la rappresentanza diplomatica americana al Consiglio di Sicurezza ha esercitato il veto: 10 settembre 1972, 24 luglio 1973, 5 dicembre 1975, 23 gennaio 1976, 24 marzo 1976, 29 giugno 1976, 28 aprile 1980, 19 gennaio 1982, 1 aprile 1982, 20 aprile 1982, 8 giugno 1982, 25 giugno 1982, 6 agosto 1982, 1 agosto 1983, 6 settembre 1984, 11 marzo 1985, 12 settembre 1985, 17 gennaio 1986, 29 gennaio 1986, 6 febbraio 1986, 15 gennaio 1988, 29 gennaio 1988, 14 aprile 1988, 6 maggio 1988, 14 dicembre 1988, 17 febbraio 1989, 8 giugno 1989, 6 novembre 1989, 30 maggio 1990, 17 maggio 1995, 7 marzo 1997, 21 marzo 1997, 26 marzo 2001, 14 dicembre 2001. Il totale dei veti fino alla fine del 2001 è di 34, ed è degno di nota che gli Stati Uniti sono stati i soli a 298 innocenti, è una diretta conseguenza di 35 anni di occupazione, la più lunga occupazione militare straniera dopo quella giapponese in Corea, e dell’ostinata negazione dei diritti fondamentali del popolo palestinese e dell’irreversibile politica territoriale aggressiva israeliana. La Risoluzione 247 approvata dal Senato americano («Expressing solidarity with Israel in its fight against terrorism») il 2 maggio 2002 con la schiacciante maggioranza di 94 voti favorevoli contro 2, mette sullo stesso piano il terrorismo che portò l’attacco alle Twin Towers di New York, con il “terrorismo” palestinese che resiste all’occupazione militare israeliana, senza percepire le macroscopiche differenze di fondo.20 Esiste da sempre un’enorme asimmetria di potere fra la dominante maggioranza israeliana e la controparte palestinese, politicamente controllata e economicamente dipendente, che non deve essere ignorata. Non può e non deve essere lasciata all’attuale governo Sharon la carte blanche alla politica militare nei territori occupati, ma la comunità internazionale, con in prima linea gli Stati Uniti, l’Unione Europea, la Russia e le Nazioni Unite, è obbligata a riportare giustizia votare in modo negativo in tutti i progetti di risoluzione. Per i testi di questi ultimi vedi: http://domino.un.org/unispal.nsf. 20 Sempre il 2 maggio 2002, la stessa Risoluzione di solidarietà a Israele contro il terrorismo è stata approvata dalla Camera dei Rappresentanti con il risultato dell’enorme maggioranza a favore di 352 (194 repubblicani, 157 democratici, 1 indipendente) contro 21 (4 repubblicani e 17 democratici). Per il testo della Risoluzione vedi http://www.aipac.org/documents/solidaritytext.html. Vengono riportate alcune parti criticabili: «the United States and Israel are now engaged in a common struggle against terrorism and are on the frontlines of a conflict thrust upon them against their will… the Senate stands in solidarity with Israel, a frontline state in the war against terrorism, as it takes necessary steps to provide security to its people by dismantling the terrorist infrastructure in the Palestinian areas; remains committed to Israel's right to self-defense; will continue to assist Israel in strengthening its homeland defenses; …demands that the Palestinian Authority fulfill its commitment to dismantle the terrorist infrastructure in the Palestinian areas». 299 lungo le direttive della recente Risoluzione 139721 (12 marzo 2002) del Consiglio di Sicurezza proposta dalla delegazione americana, una pace obbligata dalla presenza di due Stati, Israele e Palestina, in una coesistenza pacifica fianco a fianco. È più che necessario istituire una forza multinazionale ONU nei territori occupati, capace di garantire il “cessate i fuoco”, proteggere la popolazione palestinese dall’arbitrarietà del regime militare israeliano, impedire l’entrata degli attentatori suicidi sia nel territorio israeliano ma anche contro i coloni, vigilare la ricostruzione delle basilari istituzioni di uno Stato palestinese, ma soprattutto monitorare il graduale smantellamento di quasi tutti gli insediamenti. Un lavoro complesso che richiederebbe molto tempo, forse anni; una soluzione sperimentata positivamente in Bosnia e nel Kosovo, la cui applicabilità spetta alla forte volontà politica in primis degli Stati Uniti. Le chiavi per la praticità di questo piano dipenderà in buona misura anche dalla società civile israeliana, se vincerà il desiderio di pace o se prevarrà una scelta ideologicamente incompatibile con il compromesso a ogni costo.22 Se invece vincerà (ancora una volta) l’inerzia, trionferà lo status quo, a tutto vantaggio di Israele, che si tradurrà nella continuazione dell’occupazione militare israeliana, la confisca di terre arabe, l’espansione degli insediamenti, la repressione. In una sola parola: alla politica territoriale aggressiva si contrapporrà 21 Per il testo vedi nella sezione “Documenti” di questo lavoro, o http://domino.un.org/unispal.nsf, dove, per la prima volta da parte del Consiglio di Sicurezza, si afferma «a vision of a region where two States, Israel and Palestine, live side by side within secure and recognized borders». 300 come conseguenza naturale la resistenza palestinese, la violenza di gruppi radicali in aumento, gli attacchi suicidi. Questa è la storia della lotta per Eretz Yisrael che inesorabilmente continua nei giorni nostri a uccidere israeliani e palestinesi, è la vera guerra santa ebraica che si combatte in Israele/Palestina, perché come disse il rabbino capo Tzvi Yehuda Kook (1865-1935), figura di primo piano del sionismo religioso che considerava sacra la riconquista della patria ancestrale da parte del movimento laburista, «the Land was chosen before the people».23 22 «In effetti la pace rappresenta un pericolo mortale per il sionismo di sangue e terra, un sionismo che non può immaginare la volontaria restituzione di nemmeno un metro del territorio sacro della terra di Israele». Citato in Zeev Sternhell, Nascita di Israele. Miti, storia, contraddizioni, p. 457. 23 Citato in Nur Masalha, Imperial Israel and the Palestinians. The Politics of Expansion, op. cit., p. 106. 301 Fonti e bibliografia Documenti ufficiali Public Papers of the Presidents of the United States: Richard M. 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