1.5 - Aristotele
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Aristotele fu allievo di Platone e da lui poi si staccò, ma in realtà conservando tracce evidenti del pensiero del
maestro.
Egli afferma, come punto di partenza della sua ricerca filosofica, che la realtà vera è quella che noi
percepiamo con i nostri sensi, fatta di cose ben individuate, che egli poi definirà sinoli di materia e forma, cioè la
realtà fatta di individui, per cui nel linguaggio aristotelico individuo è la matitache ho in mano, il tavolo su cui
lavoro, la pietra che calpesto, così come la persona che mi sta di fronte; la realtà, cioè, è costituita di cose
individuate, ciascuna delle quali ha caratteristiche sue proprie, quindi siamo proprio agli antipodi del primo
Platone, il quale diceva che la realtà vera ha dimensioni ideali, non materiali: qui abbiamo esattamente il
contrario.
A questo punto Aristotele, partendo dal mondo concreto, si pone il problema del senso del mondo e, quindi, il
senso di ciascun individuo e la sua sarà una filosofia che progressivamente si complica e, nel percorso di
ricerca, è costretta ad affrontare contraddizioni sempre nuove. Questo perché nel momento in cui Platone
afferma che l’Essere è una sola realtà ed è Bene ci chiede uno sforzo di tipo religioso, di ascesi, perché ci vuole
un certo coraggio per dire che l’Essere è Bene quando ti piove addosso… ; tuttavia, accettato il postulato di
partenza, il discorso è poi più facile dal punto di vista logico, perché hai un principio unico su cui lavorare.
Quando, invece, affermi come punto di partenza che la realtà sono gli individui...: vogliamo provare a contare gli
individui, nel significato aristotelico del termine? Quanti fili d’erba, quanti alberi, quante pietre, quanti granelli di
sabbia, quanti uomini… .
Dobbiamo cercare qual è la radice ultima di queste cose. E’ una bella impresa e il problema della ricerca si
prospetta esattamente all’opposto di quello di Platone che, dal principio unico, doveva spiegare perché ciascuno
di noi esiste come realtà distinta, mentre Aristotele deve partire da ciascuno di noi per arrivare ad una
spiegazione che valga per tutti, arrivare ad un comune denominatore che tutti li giustifichi perché, in quanto
filosofo, Aristotele crede anch’egli che il mondo abbia un senso ed è per questo che fa la sua ricerca.
Questa dimensione di progressiva complicazione determina nella filosofia di Aristotele, per certi versi, un
processo analogo a quello che succederà alla scienza.
La scienza occidentale nasce quando riuscirà a ribellarsi, nel secolo XVI, a quell’Aristotele che, senza sua
colpa, era diventato il fondamento della verità religiosa della Chiesa e perciò utilizzato, in quanto tale, come verità
cristallizzata, imposta come ortodossia da cui non si poteva uscire se non come eretici.
La scienza comincerà le sue indagini e, queste, con Bacone, ma soprattutto con Galilei, porteranno alla
misurazione della realtà fisica, concreta, materiale del mondo e tutto ciò porterà ad una progressiva espansione
e complicazione della ricerca scientifica per cui nasceranno le scienze come specializzazioni: ci saranno la fisica,
la chimica, la biologia, la botanica, la sociologia, …, ognuna di esse con un suo campo specifico che in certi
momenti dello sviluppo della storia della scienza verrà difeso coi denti da intrusioni operate da altre discipline per
arrivare poi al ventesimo secolo quando, con la relatività e con la fisica quantistica, il controllo della situazione
sfuggirà di mano in tutti i sensi: quando la scienza sarà costretta a riconoscere che noi non potremo mai
misurare in modo definitivo proprio quel mondo da cui essa era partita come realtà su cui fondarsi. Svaniscono,
cioè, quelle dimensioni di concretezza ritenute per secoli come l’unico criterio di certezza per cui vero è soltanto
ciò che è misurabile e scopriamo che quel “vero” lì, se noi spingiamo la misurazione oltre una certa soglia, se
vogliamo sapere dove va esattamente l’ultimo elettrone dell’ultimo atomo che compone la matita con cui scrivo,
noi non riusciremo mai a saperlo.
La scienza, che è arrivata a ridimensionare radicalmente la manifestazione dataci dai nostri sensi di quella
realtà che era il suo presupposto di partenza, ha finito per porre alla radice di quella realtà, che pure continua ad
affermare come l’unica a noi accessibile, una dimensione di pura intuizione: i quanti di energia, che non sono né
prevedibili nel loro emergere né misurabili nel loro essere come entità di energia ben definita. Con ciò essa ha
percorso nella sua secolare ricerca una traiettoria per certi versi analoga a quella di Aristotele, che concluderà la
sua ricerca affermando che questo mondo di individui ha come suo fondamento due principi assolutamente
immateriali: la materia e la forma, che Aristotele identifica poi come potenza e atto.
In altre parole, come la scienza oggi sta riscoprendo la dimensione immateriale o, per lo meno, è arrivata a
scoprire che la radice di quella realtà materiale sfugge ai parametri che da secoli sono stati usati per definire la
dimensione materiale, analogo sarà, guarda caso, il percorso di Aristotele che riscoprirà Dio: in questo senso si
diceva poco fa che le radici di Platone riemergeranno in lui, perchè egli inizia la ricerca come materialista e, alla
fine, trova Dio.
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Possiamo capire perché la Chiesa abbia poi divorziato da Platone per sposare Aristotele: da un lato, con il suo
percorso di ricerca che dalla dimensione di materialità giunge ad individuare come causa ultima del mondo due
principi assolutamente immateriali che, in un certo senso, si sintetizzano poi in un Dio che comunque sfugge in
ogni modo alla ricerca umana, bene esprime quanto di meglio abbia saputo fare l’uomo privo della rivelazione
divina e, dall’altro, proprio per il tipo di percorso della sua ricerca filosofica e in quanto è vissuto alcuni secoli
prima di Cristo, ha lasciato aperti gli spazi perchè la chiesa cristiana potesse poi fare tutti i “distinguo” che la
teologia avrà nel frattempo definito come ortodossia.
Alla domanda del perchè la Chiesa abbia aspettato oltre mille anni prima di operare la conversione dalla
filosofia platonica a quella aristotelica si possono dare diverse risposte.
Nei primi secoli il cristianesimo, come nuova religione che si stava espandendo come messaggio di salvezza
soprattutto nelle classi più umili e diseredate, non si poneva in alcun modo il problema di una propria dottrina
filosofica e, per la minoranza cristiana costituita dalle alte gerarchie ecclesiastiche e dai convertiti provenienti da
classi elevate, che avevano tale esigenza, c’erano già, pronte e strutturate, la filosofia platonica e neoplatonica
che si prestavano in modo perfetto a tale scopo: ne fanno fede gli scritti di S. Agostino e dei Padri della Chiesa.
Nei secoli successi, e siamo nell’alto medioevo, il livello culturale medio nell’area europea si abbassa e le
opere dei grandi scrittori e filosofi del passato, soprattutto quelle di Aristotele, diventano introvabili e a mala pena
la paziente opera dei monaci amanuensi riesce a garantire un minimo di conoscenza delle opere già possedute
tra cui, quelle di Platone, risultano meglio conservate proprio in quanto da secoli utilizzate come discorso
filosofico di base da parte delle alte gerarchie ecclesiastiche.
Nel tredicesimo secolo la cultura cristiana latina riscopre le opere di Aristotele grazie agli arabi che, nei secoli
precedenti, erano venuti in contatto con il pensiero del filosofo greco e lo avevano tradotto e commentato, ma si
trattava di un Aristotele “riveduto e corretto” dai filosofi arabi che avevano cercato di utilizzarlo all’interno del loro
rigido sistema religioso monoteista. Per avere in Europa le opere originali del filosofo greco occorrerà attendere il
quindicesimo secolo quando, con la caduta di Costantinopoli, si avrà la conseguente fuga di coloro che non
volevano affrontare la convivenza con gli Ottomani e che si trasferirono in occidente portando con sè, tra le cose
più preziose, i manoscritti che riproducevano gli originali delle opere del filosofo greco.
Quando, nel tredicesimo secolo, Tommaso d’Aquino propose di utilizzare il pensiero di Aristotele come
fondamento filosofico su cui, in posizione dominante, porre la teologia cristiana fu ancora criticato dalle autorità
accademiche religiose della università di Parigi dove egli, come appartenente all’ordine dei Domenicani, era
titolare di una cattedra di insegnamento, perchè ancora forte era l’influenza del pensiero platonico anche se
ormai piegato e costretto su una dimensione di problemi, come ad esempio la questione degli universali, che
rivelavano come secoli di discussioni teologiche avessero finito con il far perdere la genuina dimensione
esoterica di Platone.
Resta comunque come osservazione fondamentale il fatto che con Cusano, e siamo nella seconda metà del
quindicesimo secolo, avremo nella chiesa cattolica l’ultimo sostenitore di una visione neoplatonica. Dopo di lui
chiunque ci proverà verrà perseguitato e messo a tacere sotto l’accusa di eresia.
Come ulteriore elemento da prendere in considerazione si può aggiungere che la diffusione della cultura
presso i laici avrebbe, prima o poi, messo la Chiesa che fosse rimasta fedele al pensiero neoplatonico di fronte
alle contestazioni di chi, giustamente critico nei confronti di una gerarchia ecclesiastica che era tutto meno che
esempio di una vita religiosa coerente con i principi evangelici, avrebbe anche potuto osservare che i pontefici e
la corrotta curia romana non potevano in alcun modo pretendere di essere i depositari della verità rivelata, dal
momento che essi stessi utilizzavano un pensiero filosofico che, ben prima di Cristo, aveva già delineato in modo
corretto il senso del mondo e la funzione, in esso, dell’essere umano.
Avendo, invece, come pensiero filosofico di base il razionalismo aristotelico mediato dalla versione araba, il
discorso era ben diverso. In questo caso, tuttavia, per i limiti propri dell’epoca di S. Tommaso che con la sua
Summa Theologiae verrà dalla chiesa cattolica utilizzato come fondamento della propria ortodossia, non si
tratterà dell’autentico pensiero aristotelico che, invece, costituisce un interessante percorso di ricerca di Dio
partendo dal mondo, in ciò delineando e prefigurando il futuro percorso della scienza occidentale.
Il fatto che, poi, tale percorso sarà capace di approdare ad una conclusione che è straordinariamente vicina
alla visione pitagorico-platonica è una tesi che cercheremo di evidenziare.
Torniamo al nostro Aristotele che vede gli individui come unica realtà e si chiede quali siano le radici di questi
esseri individuali: da qui ha origine la teoria delle quattro cause, per cui ciascun individuo, per esempio la matita
che sto usando, è fatto di una causa materiale, di una causa formale, di una causa finale e di una causa
efficiente; la causa materiale è costituita dalla gomma, dall’acciaio, dalla plastica, dalla grafite, cioè dai materiali
di cui è composta la matita o portamine; la causa formale è il fatto che ha una certa struttura geometrica, in
questo caso potremmo parlare di un cilindro con un tronco di cono, la causa finale è un oggetto che è stato
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voluto, pensato e costruito per fare una certa cosa, per scrivere; e poi c’è la causa efficiente nella quale sono
compresi, dal progettista all’ultimo degli operai, coloro ai quali si deve la sua produzione.
Tutto bene, ma questa teoria delle quattro cause come si concilia con un oggetto della natura come un albero?
Ecco le complicazioni a cui porta il pensiero di Aristotele: nell’albero possiamo individuare una causa materiale e
una causa formale, la causa efficiente diventa un problema, non parliamo della causa finale: perché esiste
l’albero? Che senso ha l’albero? Saremmo tentati di dire che quell’albero è nato lì per caso.
Quando Aristotele arriverà a concludere che Dio e la materia sono gli elementi che spiegano il mondo e Dio,
come atto puro, prevale sulla materia che è potenza pura, in quel momento ecco che potrà anche spiegarci
perché l’albero è nato lì: è un momento della spinta evolutiva della materia verso Dio, che è un bellissimo
discorso, è portatore di una dimensione religiosa affascinante, che vedremo più avanti di recuperare meglio, però
in effetti passiamo attraverso tutta una serie di complicazioni perché queste quattro cause emergono da un limbo
a sua volta misterioso.
Intanto, come ulteriore osservazione, quando parliamo di causa materiale noi abbiamo distinto gomma acciaio,
grafite, plastica: la causa materiale si è ulteriormente trasformata in altre quattro, ed ecco perché poi Aristotele
arriverà a parlare di materia come pura dimensione intuitiva: la materia è la dimensione di pura intuizione che sta
alla base del ferro, del calcio, del rame, del bronzo, che non devono essere intesi come elementi previsti ed
elencati nella tavola di Mendeleev perchè lì Aristotele non c’è già più: in altre parole la materia di cui parlava
Aristotele risulta essere una non realtà materiale, è una pura intuizione, è quella dimensione di “concretezza” che
sta alla radice dell’albero, della pietra, dell’osso, dell’acqua, che sembrano così diversi l’uno dall’altro: l’albero
brucia, la pietra no, l’acqua scorre, si muove da tutte le parti, la pietra sta sempre ferma, e tutto questo è
espressione della materia come principio unico che è alla radice di tutto.
Aristotele partendo da una dimensione di concretezza, spingendo la sua analisi oltre le contraddizioni, è
arrivato alla conclusione che la radice vera e ultima della concretezza può essere trovata solo su un piano
puramente intuitivo.
La grandezza di Aristotele sta proprio in questo, nel non essersi mai arreso di fronte alle difficoltà e alle
contraddizioni a cui il suo tipo di ricerca lo aveva portato e procedendo nella sua ricerca sono riemerse le radici
platonizzanti della sua filosofia, per cui la materia come principio base finirà per avere una dimensione di pura
intuizione.
Nessuno di noi con i propri sensi percepirà mai la materia, così come la intendono i fisici, di cui è fatta la
matita con cui sto scrivendo: in questo oggetto che pesa pochi grammi è condensata una energia enorme,
capace di demolire la più grande città del pianeta. Quando il fisico ci dice che la materia è energia ci sta parlando
di una realtà che possiamo solo intuire. Che la materia sia energia concentrata è ormai una cosa ovvia e, per
quanto le prospettive della ricerca scientifica siano in questo senso affascinanti, è forse una fortuna che, oggi,
l’uomo non disponga ancora della tecnologia per liberare l’energia condensata, per esempio, in una pietra perchè
il livello di autocontrollo che mediamente l’essere umano è in grado di garantire è piuttosto basso. Siamo ancora
lontani dalla capacità di smaterializzare un qualunque elemento naturale per poterne utilizzare l’energia totale
perchè, per il momento, tutto ciò che siamo capaci di fare è di utilizzare una percentuale più o meno
soddisfacente dell’energia che si libera trasformando sul piano fisico-chimico le sostanze di origine organica e gli
elementi naturali di struttura atomica più semplice o più complessa. In altre parole, come con la stufa riduciamo
la legna in cenere utilizzando l’ossigeno come comburente ottenendo, da questa trasformazione, della energia
residuale che utilizziamo, ancora solo in parte, per scaldarci e per cucinare, così facciamo con i derivati del
petrolio utilizzati come combustibile per i motori dei nostri mezzi di trasporto.
Con le pile atomiche riusciamo a spaccare il nucleo dell’uranio arricchito ottenendo dei sottoprodotti che
costituiscono poi, a loro volta, dei problemi in quanto radioattivi e, contemporaneamente, otteniamo dell’energia
residuale che con gli opportuni scambiatori di calore si trasforma in vapore che aziona le turbine da cui otteniamo
l’energia elettrica. La ricerca attuale sta tentando di trasformare, “fondendoli” tra loro, gli atomi di idrogeno in elio,
anche qui potendo poi utilizzare una energia residuale; ma siamo solo ai primi tentativi di intervento sui nuclei
atomici della materia, nel senso che siamo solo capaci di spezzare gli atomi più voluminosi o di compattare gli
atomi più semplici: siamo sempre quindi sul piano delle trasformazioni nell’ambito della realtà materiale e ben
lontani dalla vera e propria smaterializzazione in energia pura.
Da questo punto di vista le forme di vita organica, sotto qualunque aspetto si esamini il problema, in quanto
organismi capaci di assimilare prodotti di livello evolutivo inferiore, sono estremamente più efficienti delle
macchine finora utilizzate e prodotte dall’uomo. E una prova dell’enorme divario esistente tra la realtà vivente
della natura e i risultati della tecnologia e della scienza umana è data dalla difficoltà che la scienza ancora
incontra nell’ammettere che negli animali superiori e soprattutto nell’uomo si realizza un raffinato processo di
smaterializzazione di energia che, dal cibo materialmente consistente che viene assimilato, si trasforma, oltre
che in nuove cellule dell’organismo vivente, in pensieri, emozioni, sentimenti, progetti, ...: una realtà materiale
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che si smaterializza non in termini immediati e quindi in forma esplosiva, ma capace comunque di una potenza
incredibile, dal momento che il pensiero dell’uomo è poi, a sua volta, capace di cambiare la faccia del pianeta.
Torniamo alle quattro cause di Aristotele, quattro cause che diventano infinite perché si intersecano tra di loro
con in più la distinzione tra realtà naturale e realtà artificiale prodotta e costruita dall’uomo. Si complica
ulteriormente nel momento in cui, riflettendo, dobbiamo riconoscere che, come esseri umani, abbiamo le ossa, la
carne, i capelli, le unghie: materiali diversi, dal sangue che è liquido alle cartilagini fino alle ossa e ai denti che
sono ben consistenti. A questo punto Aristotele propone un altro modo di spiegare questo individuo: spuntano le
categorie e tra queste ce n’è una fondamentale, la categoria di sostanza: è la categoria più importante ed è la più
immateriale di tutte, per cui ciascuno di noi è costituito da carne, ossa, sangue, capelli, unghie,... ma, soprattutto,
siamo esseri umani: la sostanza uomo, che in noi si manifesta attraverso tutti questi materiali, diventa la
caratteristica fondamentale che ci qualifica, per cui noi siamo uomini e non cani: con il cane condividiamo il fatto
di avere dei peli, della carne, delle ossa, del sangue, però noi siamo esseri umani e quello è un cane.
La sostanza diventa qualificante, però la dimensione uomo che mi differenzia dalla dimensione cane non è più
così materiale, non è più così individuabile: è oggetto di intuizione, di scoperta razionale, ma non posso più
misurarla, descriverla ed evidenziarla concretamente e, senza rendersene conto, Aristotele ricade in quello
stesso tipo di problema che aveva rimproverato a Platone quando si era staccato da lui. Quel Platone da lui
definito come un poeta e non più filosofo, nel momento in cui affermava che l’albero concreto partecipa dell’idea
di albero ed è vero nella misura in cui è partecipe della realtà dell’idea. Usando un’espressione moderna,
Aristotele rimprovera a Platone di non essere uno studioso serio della natura perchè sta proponendo una
spiegazione della realtà che non si può più toccare con mano, non si può più misurare concretamente. Se ci
pensiamo bene un Aristotele che ci spiega che noi e il cane abbiamo in comune l’idea di sostanza che però in noi
è sostanza uomo e in esso è sostanza cane, se da un lato fa un discorso più concreto di Platone perchè propone
un raffronto tra due realtà materialmente ben individuate, dall’altra pone come elemento fondamentale di
distinzione tra le due specie “qualcosa” di molto meno concreto, tant’è vero che accettiamo tranquillamente il
discorso da un lato di chi definisce quello che dovrebbe essere un uomo come una bestia e il discorso di chi
mette in luce, nel cane, comportamenti che sono più simili a quelli che caratterizzano la specie umana che non
quella puramente animale.
A questo punto la categoria sostanza, che è diventata a sua volta un problema dal momento che la si ritrova
nell’uomo, nel cane, come nella pietra, si complica ulteriormente dal momento che su di essa, come categoria
fondamentale, si innestano altre nove categorie, che costituiscono ulteriori determinazioni come la quantità, la
qualità,... per cui io posso essere sostanza uomo ma bianco e, per esempio, alto 1,67 metri, pesare chilogrammi
sessanta, posso essere uno che in questo momento sta seduto o sta camminando, posso essere simpatico o
antipatico: tutte categorie che poi Aristotele definirà accidenti, accidenti nel senso che non sono fondamentali per
essere uomini, perché io posso essere bianco come posso essere nero, e sempre uomo sono, quindi sono puri
accidenti questi e però servono per individuare questo individuo qui rispetto a un altro.
Abbiamo una ulteriore complicazione nel momento in cui questa sostanza uomo, definitasi in un preciso
individuo, può essere vista in una fotografia vecchia di decenni e sorge il problema del dover spiegare com’è che
questa stessa sostanza ha subìto questi cambiamenti così radicali. In altre parole Aristotele si trova ad affrontare
il problema del divenire e allora introduce il discorso della potenza e dell’atto, per cui nel momento in cui quel
preciso individuo nasce è un uomo in potenza, in realtà è ancora un neonato: già partecipe della sostanza uomo,
non è ancora tale e l’atto sarà l’essere uomo. Però, poi, questa stessa realtà diventa qualcosa che sfugge da
tutte le parti perché quand’è che quell’individuo è un uomo: quando ha 20 anni, 40, 80, se ci arriva? A
novantacinque, quando si trascinerà come un essere che non ha più praticamente nulla della vitalità, energia,
forza, velocità, prestanza che aveva quando aveva 30 anni? Quand’è che l’atto uomo si realizza? Allora
l’individuo neonato è potenza di diventare l’”atto uomo” che però, in realtà, non esiste come atto definitivo e ben
individuabile perché quanto più l’atto uomo si viene realizzando tanto più si evidenzia il suo essere
potenzialmente un vecchio, e il vecchio è in potenza un cadavere e ogni potenza richiama un atto, per cui il
novantacinquenne richiama come atto il cadavere perché non ha più molto che lo separi da questa realtà che lui
sarà.
A questo punto se l’atto, come arriverà a dire Aristotele, è ciò che dà senso alla potenza ecco il terribile
traguardo a cui porta la filosofia aristotelica: se è l’atto che dà senso alla potenza, ogni essere vivente nel
momento in cui nasce è potenzialmente un cadavere e il cadavere come atto è ciò che dà senso alla vita. A
questo punto la ricerca aristotelica diventa assolutamente incapace di spiegare la realtà, se non recuperando la
dimensione religiosa che vedremo tra poco.
In realtà il problema è ulteriormente complicato dal fatto che tra tutti quei discorsi, che siamo venuti con una
disinvoltura estrema tagliando e semplificando perché non abbiamo la possibilità di vederli in modo approfondito,
Aristotele arriva a stabilire come fondamentale il principio di non contraddizione per cui è impossibile che una
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cosa sia e non sia al tempo stesso. Con ciò Aristotele è diventato il padre della logica occidentale ed è in fondo il
responsabile della nostra attuale incapacità a intuire quella che è la dimensione taoista, shintoista, eraclitea,
quella che abbiamo chiamato metalogica o super-logica, che ci permetterebbe di superare con un salto solo,
immediato, le contraddizioni della vita: la vita è potenzialmente morte e se l’atto a cui noi dobbiamo giungere è la
morte è essa che spiega la vita. Ma, attenzione, in un simile contesto la realtà morte, la realtà cadavere è a sua
volta potenzialmente vita perché qualunque cadavere nel momento in cui viene sepolto nella terra si ritrasforma
in principi base su cui rinascerà tutta una serie incalcolabile di nuove forme di vita e a questo punto tutto si
capovolge, per cui la realtà della morte come atto diventa potenzialmente nuova vita in una dimensione,
contraddittoria secondo la logica occidentale, di compresenza di ogni cosa e del suo opposto come momenti di
Dio che è costituito di due facce opposte complementari: è la dimensione eraclitea, shintoista, taoista, esoterica
che con Aristotele ci viene preclusa; ci viene definitivamente preclusa e non per niente la Chiesa, preferendo al
pensiero platonico quello di Aristotele, già reinterpretato dagli arabi alla luce della loro dottrina religiosa, perderà
proprio questa dimensione che invece in Platone c’è sempre. Con il pensiero aristotelico male interpretato e
irrigidito da una ortodossia cristiana che diventerà nei secoli successivi sempre più intollerante nei confronti di chi
non si allinea alle posizioni sostenute dai teologi di Roma, la ricerca filosofica si conclude in un vicolo cieco dove
solo la fede in Dio può salvarci, ma è un Dio che diventa assolutamente inaccessibile nella sua dimensione
ultima.
Nella dimensione platonico-eraclito-pitagorica, invece, noi abbiamo un’intuizione di Dio nel quale noi siamo un
ciclico, eterno infinito immergersi e riemergere dallo spazio-tempo, in un continuo processo di crescita di
consapevolezza, di “inDiazione”, per cui il Paradiso diventa questa crescita di coscienza, questo nostro
progressivo scoprirci sempre più potentemente momenti di Dio. Tutto ciò è oggi, per l’ortodossia cattolica, una
dimensione religiosa ereticale o addirittura non cristiana, mentre invece era ciò che caratterizzava il cristianesimo
alle sue origini: basta andare a rileggere i Padri della Chiesa avendo un minimo di conoscenza esoterica.
La caratteristica fondamentale, che costituisce il limite e al tempo stesso il pregio di Aristotele è quello di
essere stato capace di superare la “contraddizione” per cui il mondo è fatto di cose concrete, le cose che
abbiamo sotto gli occhi e che costituiscono la realtà che possiamo manipolare, misurare, su cui possiamo
contare.
La realtà degli individui, innegabile sul piano concreto, rischia di trasformarsi, filosoficamente parlando, in una
contraddizione irrisolvibile perchè, se con la ricerca filosofica si vuole appurare il senso del mondo, l’esistenza
degli individui, irriducibilmente diversi tra loro, comporta necessariamente come unica prospettiva la conclusione
che il mondo non ha senso, dal momento che esso diventa la scena di un teatro nella quale c’è la lotta mai
conclusa per mangiare o essere mangiati. E trovare il senso di questa lotta mai finita diventa impossibile se si
rimane ancorati alla concretezza che costituisce, appunto, gli individui.
Aristotele, se pure ha i piedi saldamente ancorati sul piano della concretezza, è tuttavia un credente e non può,
non vuole pensare che il mondo sia una casuale manifestazione di principi inconciliabili, perennemente in lotta
tra loro. Egli riesce a non affondare nell’oceano dell’incalcolabile numero degli individui in lotta tra loro perchè,
indagando sui principi di cui sono costituiti, giunge alla conclusione che tutto ciò che esiste è costituito
dall’intersecarsi di due dimensioni di non-realtà, di due concetti limite, per esprimerci con un termine moderno:
materia e forma, potenza e atto. Qualunque cosa esista al mondo, dal granello di sabbia alla galassia, dal filo
d’erba all’essere umano, qualunque cosa esista è costituito, in ultima analisi, da materia e forma.
Non abbiamo la possibilità, dato lo spazio che qui ci siamo dati, di seguire passo passo il percorso di analisi
che porta Aristotele, partito dalla multiforme e contradditoria realtà degli individui, alla conclusione che tutto ciò
che esiste è il risultato dell’intersecarsi dei due principi che, al limite, non appartengono più alla dimensione di
realtà da cui si è partiti, ma risultano essere pure intuizioni. I due principi nella loro dimensione più assoluta si
escludono a vicenda, ma nella dialettica realtà del divenire sono sempre compresenti sotto forma di un equilibrio
dinamico mai uguale a se stesso.
Questi due principi costituiscono quindi, con il loro vicendevole intersecarsi, ogni realtà individuata del mondo
concreto e qui possiamo aprire una brevissima parentesi per osservare che, sul piano esoterico, il principio
materiale può venire simbolizzato con un segmento orizzontale e il principio spirituale (o formale) con un
segmento verticale: dal loro incrociarsi nasce il mondo come dimensione della nostra percezione sensoriale, per
cui il simbolo cristiano della croce era già preesistente e ad esso era giunto anche Aristotele con la sua analisi
filosofica. Analogamente, e in modo ancora più preciso, nei Veda, che è uno dei più antichi testi scritti di cui
disponga per il momento l’umanità, si pone, proprio nel punto in cui si sovrappongono spirito e materia il dio
Krishna crocifisso: questo per significare che nella realtà del mondo la Vita è una, e continuamente si
autosacrifica perché il mondo esista. Qualunque essere vivente uccide per vivere, in altre parole il principio vitale
si autopropone come vittima sacrificale perché il mondo esista; in fondo è il modo religioso di esprimere ciò che
anche la scienza della seconda metà del diciannovesimo secolo è giunta a riconoscere affermando che tutto si
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trasforma ma che in realtà nulla si crea e nulla si distrugge. La realtà è energia che è sempre uguale a se stessa,
pur continuamente assumendo forme diverse: sul piano biologico questo assumere forme diverse è il mangiare e
l’essere mangiati.
Ma Aristotele, da buon credente, non si ferma davanti a quella che risulta “l’ultima contraddizione” a cui è
giunto il suo percorso di ricerca: affermando che il mondo è il risultato della interazione dei due principi che nella
loro forma estrema sono pure intuizioni, ma che risultano tra loro inconciliabili, si pone ancora il problema di una
loro possibile sintesi.
Platone era giunto ad affermare che tutto è Bene, anche il suo principio opposto che, come Male, è per l’uomo
comune realtà in sè ma che, per il filosofo, risulta essere un bene non ancora riconosciuto come tale.
Aristotele risolve la dicotomia tra Materia e Forma, che è poi la dicotomia tra Potenza ed Atto, affermando la
supremazia dell’atto sulla potenza, la quale esiste e si pone come tale solo in quanto l’atto è, sul piano logico, la
premessa indispensabile senza la quale la potenza non potrebbe essere nè intuita nè pensata nè, quindi,
verificata come verità concreta e, in questo senso, l’Atto puro si identifica in Dio.
Che cosa vuol dire Atto puro? Aristotele dirà che è pensiero di pensiero: proviamo a riflettere un attimo su
cosa significa pensiero di pensiero. Quando noi diciamo che stiamo pensando, in realtà, significa che nella
nostra mente stiamo elaborando astrazioni di cose e avvenimenti molto concreti: stiamo pensando al fatto che
domattina dobbiamo andare a comprare il giornale, che domattina vogliamo alzarci ad una certa ora; pensare
vuol dire, cioè, sintetizzare su un piano di non realtà materiale quella che è una realtà materiale; pensiero di
pensiero nel linguaggio aristotelico indica il “distillato” del pensiero, che non ha più alcun riferimento alla realtà
materiale: in altre parole è un attimo di intuizione, che ci sfugge immediatamente nel senso che non possiamo
“descriverlo” perchè noi non possiamo pensare se non riferendoci al concreto.
Nel momento in cui Aristotele afferma la superiorità e la “primogenitura” dell’Atto sulla Potenza lo fa in quanto
ha già portato la sua analisi al limite estremo. Se, infatti, fossimo ancora su un piano di realtà concreta il
problema risulterebbe irrisolvibile. Il classico esempio che viene utilizzato per esprimere questa difficoltà è il porsi
il problema del fatto se sia nato prima l’uovo o la gallina. In altre parole, qual è l’atto fondamentale: l’essere
dell’uovo o l’essere della gallina? In realtà è un modo per porre in evidenza le contraddizioni a cui il discorso di
Aristotele può portare nel momento in cui si rimane ancorati a quella realtà concreta che, all’inizio della sua
ricerca filosofica, poneva Aristotele agli antipodi rispetto al pensiero platonico.
L’uovo può essere un atto, ma se l’uovo come atto non ha più nessuna dimensione potenziale è come dire che
le galline fan le uova perché qualcun altro le mangi, ma se le galline fan le uova perché nascano dei pulcini e
ritornino ad essere galline, l’uovo non è un atto ma è potenza, a questo punto l’atto diventa la gallina, però,
inevitabilmente, torna il discorso già fatto in precedenza: un uomo è tale, come realtà in atto, a 30 anni, a 50 o a
95?
Qualunque atto che appartiene al mondo, e che viene da noi percepito come realtà vivente, convive a sua
volta con una potenza che lo costituisce, appunto, come realtà vivente: una potenza che, gli piaccia o no, sta
giorno per giorno trasformandosi sempre più da potenza ad atto e cioè l’essere cadavere. Ed è qui la dimensione
di contraddizione per cui non c’è la possibilità di rispondere se sia concettualmente più importante l’uovo o la
gallina, perché, se seguiamo Aristotele fino in fondo, scopriremo che solo arrivando ai due concetti limite di
potenza pura e atto puro possiamo stabilire un principio di unificazione, per cui si potrà concludere che, dati i due
concetti limite, materia e forma, come potenza pura e atto puro, ecco che è l’Atto puro che spiega il mondo, per
cui Dio è ciò che spiega l’esserci del mondo come tensione, come divenire.
In estrema sintesi, Aristotele dà un senso al divenire del mondo: tutta la realtà del mondo è un tendere verso
Dio. Con ciò Aristotele conclude la sua ricerca filosofica con il recupero di una dimensione religiosa affascinante
e, insieme, filosoficamente evoluta.
Secondo Aristotele, Dio non ha voluto niente, perché l’atto puro non può volere, volere è avere in sé stesso
innestata la dimensione di potenza, se voglio è perché intendo raggiungere qualcosa che non ho, quindi Dio
come atto puro non può volere niente e non può avere creato il mondo. Il fatto che poi la ortodossia cristiana
faccia creare il mondo a Dio è perché ha preferito una dimensione di Dio che non ha la profondità filosofica della
dimensione dell’atto puro di Aristotele, per cui quell’Aristotele che la chiesa cristiana definisce come volonteroso
ricercatore di Dio che non ha potuto disporre della verità rivelata di cui la Chiesa si autodefinisce detentrice in
esclusiva, in realtà, come filosofo, è giunto con la ragione a mettere a fuoco una dimensione divina che è
superiore al Dio antropomorfo della attuale ortodossia cristiana, in cui Dio crea, vuole, giudica.
In realtà, un Dio che crea, giudica…è un Dio che ci è più vicino, che possiamo in qualche modo pensare; certo
è un Dio di cui abbiamo bisogno, ma nel momento di massima intuizione filosofica non può essere un Dio che ci
soddisfa fino in fondo perché, in questo senso, solo la intuizione aristotelica dell’atto puro ci proietta su un piano
superiore.
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In che senso è opportuno cercare di spingere la nostra fede su un piano filosoficamente più evoluto come la
intuizione aristotelica di Dio come Atto puro, rinunciando al dio antropomorfo della attuale ortodossia cristiana? Ci
guadagnamo nel senso che intendeva Rubbia quando, a chi gli chiedeva come mai in Italia c’era una così
brillante tradizione di fisici di prestigio internazionale, rispondeva: “Noi a scuola siamo molto esigenti nei confronti
dei nostri allievi migliori, così come ai cavalli da corsa, se sono veramente validi, si mette la greppia in alto, più
del normale, in modo che siano costretti fin da puledri a tirare su quanto più possibile il collo perchè poi, quando
correranno, saranno più abituati a tenere il collo dritto e respireranno meglio, riempiranno più velocemente i loro
polmoni e correranno più veloci.”
Cercando di avere la capacità di accettare come Dio, nei momenti di maggiore potenza di consapevolezza, un
Dio come atto puro, rinunciando al Dio “chioccia” che ci protegge, che ci giudica, che è il Dio dell’ortodossia, noi
non facciamo un atto di ribellione sacrilega, ma stiamo ponendo le basi per accelerare la nostra evoluzione, cioè
stiamo ponendo le basi per spingere la nostra evoluzione dalla dimensione di pura umanità a quella di essenze
angeliche che si avvicinano ad una dimensione di Dio che non deve più farsi antropomorficamente intuire come
presenza paterna o giurisdizionale.
Ecco il fascino del pensiero di Aristotele: una filosofia materialista che si conclude con la scoperta di Dio e con
il riconoscere nel mondo delle cose materiali una tensione verso la perfezione divina.
La filosofia di Aristotele è il percorso di nascita di una sensibilità religiosa partendo da una dimensione di
materialismo. Ci mancava, perché è relativamente facile trovare il maestro che ti propone come dimensione vera
quella spirituale; in realtà l’uomo è anche e prima di tutto un essere che vive la sua dimensione di concretezza e
ha bisogno di sentirsi accettato come un essere che vive su questa terra, con i suoi problemi molto concreti e
prosaici.
Aristotele testimonia che testimonia che si può partire tranquillamente di lì, ma se poi siamo esseri umani, e
prima o poi nessuno può esimersi dall’esserlo, un bel giorno ci chiederemo il senso del nostro pranzo, ci
chiederemo il senso dei soldi che maneggiamo, dell’automobile che abbiamo comprato, della serie di automobili
che nella nostra vita abbiamo consumato, ci chiediamo il senso di tutto questo e lì iniziamo quel percorso
religioso che prima o poi, grazie alla ragione di cui l’uomo dispone, ci porterà inevitabilmente a Dio. Questa è la
grande testimonianza che ci porta Aristotele: Dio prima o poi è alla fine della nostra ricerca. Che si sia dei premi
Nobel, che si sia degli illustri sconosciuti, non cambia niente: prima o poi arriveremo a Dio per il fatto stesso che
ci poniamo il problema del senso della nostra vita, del senso del mondo.
Riprendiamo ancora una volta, in sintesi, il discorso già delineato, dal momento che stiamo parlando in questa
sede con persone che non necessariamente hanno già in precedenza accostato il pensiero di Aristotele: egli ha
affermato che la realtà, quella vera, quella su cui merita concentrare il proprio studio come filosofi, ricercatori e
scienziati, che a quell’epoca si identificavano in una figura sola, è quella costituita dagli individui concreti, individui
intendendo non soltanto le persone, ma gli oggetti, le cose concrete; questo tipo di realtà deve essere analizzata
utilizzando come strumento di base il principio di non contraddizione.
Con queste premesse Aristotele è veramente il fondatore non solo di quel tipo di ricerca che sarà poi la
caratteristica dell’occidente, la ricerca scientifica, precisa, analitica, fondata su una rigorosa serie di dati, ma è
anche il fondatore della logica dell’occidente, basata sul principio di non contraddizione, da lui sintetizzato in
questi termini: una cosa non può contemporaneamente avere o non avere una determinata caratteristica, o ce
l’ha o non ce l’ha. E questo suo modo di impostare il discorso finirà poi per caratterizzare, come abbiamo detto,
tutta la nostra cultura, arrivando fino a Cartesio che è un filosofo, matematico, scienziato, studioso tipico
dell’Occidente, ma proprio perché portatore di questa dimensione tipicamente aristotelica Cartesio è, oggi,
irrimediabilmente datato: fino all’Ottocento era osannato come studioso che simbolicamente sintetizzava, al
meglio, la dimensione scientifica, la concretezza positivista e, come tale, Cartesio era un vanto della cultura
occidentale. Oggi Cartesio rivela i suoi limiti di fronte a una scienza per la quale lo stesso evento se considerato
in una certa ottica è chiamato elettrone, se lo consideriamo in un’altra ottica è un fotone ( F. Capra - Il Tao della fisica Adelphi, Milano 1989 - pagg.173-185, 210-211).
Il principio di non contraddizione di Aristotele è venuto meno perchè irrigidisce la realtà in modo inaccettabile e
oggi uno scienziato serio avrebbe parecchi motivi per essere cauto di fronte alla possibile domanda se gli animali
abbiano coscienza o no, in altre parole, se un animale sappia di soffrire o no. Oggi c’è una sensibilità diversa. E’
chiaro che quando parliamo di un animale che sa di soffrire non parliamo di un’ameba, parliamo di un cagnolino,
parliamo di animali di livello superiore, per cui ci vuole un certo coraggio a dire che gli animali non hanno
sensazioni, dal momento che tutti abbiamo sperimentato che se ci rivolgiamo al cane con un certo tono di voce lo
vediamo allontanarsi con la coda tra le gambe, se cambiamo il tono di voce lo vediamo scodinzolare:
dimostrandosi, con ciò, evidentemente capace di cogliere dimensioni opposte su un piano puramente emotivo.
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Cartesio, in quanto erede del principio di non contraddizione di Aristotele, arriverà a dire che gli animali sono
automi, giustificando secoli e secoli di totale insensibilità di comportamento dell’uomo nei confronti degli animali,
definiti come macchine prive di consapevolezza.
Il principio di non contraddizione di Aristotele ha un’importanza eccezionale perché costituisce una
caratteristica fondamentale della nostra cultura occidentale odierna ma è proprio ciò che rende noi occidentali
così lontani e incapaci di comprendere culture alternative come lo Shintoismo e il Taoismo nelle quali vale invece
esattamente il contrario, per cui in ogni fenomeno, proprio nella sua fase di massima affermazione, comincia a
svilupparsi al suo interno il seme dell’energia di tipo opposto.
Per noi occidentali, per esempio, è particolarmente difficile, nel momento in cui siamo affascinati dalla
fantasmagoria dei fuochi artificiali, essere consapevoli, proprio in quel momento, del fatto che il fenomeno che ci
colpisce è reso possibile ed è esaltato dallo sfondo scuro del cielo contro il quale i fuochi si stagliano, per cui la
luce e i colori esistono, per la nostra percezione, solo in quanto emergono da quel “nulla” che è il buio della notte.
La nostra costituzionale difficoltà a coniugare questa dimensione di complementarietà degli opposti ha le sue
radici nel fatto che il pensiero di Aristotele è stato per tanti secoli cristallizzato in una ortodossia religiosa, quella
cristiana, che ci ha reso più difficile cogliere che, invece, lo stesso Aristotele che proclama il principio di non
contraddizione ha saputo riconoscere che il mondo degli individui concretamente reali ha le sue radici ultime su
dimensioni puramente intuitive come la materia e la forma, la potenza e l’atto.
In altre parole, Aristotele è stato il primo a rimettere in discussione il principio di non contraddizione: questo
principio è, infatti, basilare nel momento in cui, con un rigore che sarà proprio della scienza, egli ci invita ad
analizzare la realtà dei fatti, degli individui che costituiscono la realtà del mondo arrivando a definire quello che
sarà il metodo scientifico, per cui si procede con cautela, con metodo, facendo ogni tanto dei riassunti,
verificando ciò che è stato detto fino a quel momento, verificando di non essere usciti dal seminato rispetto alle
premesse. Ma, dal momento che la sua ricerca pone in evidenza una sempre crescente dimensione di
complicazioni e contraddizioni, sarà proprio lui a terminare la sua analisi approdando ad una conclusione che
capovolge il principio di non contraddizione, nel senso che egli arriva a dire che la realtà vera è fatta di individui,
di cose concrete, ma in ultima analisi qualunque cosa concreta, dal filo d’erba alla galassia è costituita di due
principi assolutamente immateriali: la materia e la forma. La materia che è denominatore comune a qualsiasi
realtà individuata del mondo e la forma che è l’elemento puramente ideale, senza il quale il mondo non potrebbe
essere nè percepito nè pensato.
Tra questi due elementi Aristotele concluderà sulla supremazia dell’elemento formale, sempre tenendo
presente, ancora, che la materia come elemento basilare è immateriale, in quanto è un vero e proprio concetto
limite.
Apparentemente curioso, ma per niente casuale, è il fatto che la scienza moderna, che si staccherà dalla
filosofia per iniziare la sua ricerca autonoma da un lato ribellandosi alla rigidità di un Aristotele suo malgrado
diventato elemento fondamentale della ortodossia cristiana e, dall’altro, ribadendo l’aristotelico principio di non
contraddizione, concluderà nel ventesimo secolo con l’affermazione che alla base della realtà del mondo si
devono riconoscere i principi della relatività e della indeterminazione, che sono esattamente l’opposto del
principio di non contraddizione. Una considerazione a cui, a modo suo, Aristotele era finito per giungere.
In altre parole Aristotele, nel momento in cui è giunto ad una conclusione che stravolgeva le sue premesse di
partenza, ha poi soltanto anticipato ciò che succederà alla scienza che, ancora nell’Ottocento, giurava sulla
assoluta irriducibilità degli elementi naturali elencati in base al peso atomico nella tavola di Mendeleev: in essa è
elencato un centinaio di atomi diversi definiti come irriducibili gli uni agli altri, per cui gli atomi di carbonio non
sono gli atomi di alluminio e non potranno mai esserlo e mai diventarlo. Oggi, invece, la scienza riconosce che
alla base di questi elementi materiali c’è un solo, unico elemento: l’energia, che è in ultima analisi l’essenza degli
atomi, per cui, sul piano teorico, è ammessa come possibile la trasmutazione degli elementi.
L’intuizione di Aristotele che, come filosofo, ha avuto il “coraggio” di giungere a una conclusione che era
contraddittoria sulla base dei principi di partenza che egli stesso aveva individuato, in realtà ha anticipato un
analogo percorso che poi la scienza dovrà a sua volta superare.
Ma, allora, Aristotele è tornato a Platone? No, perché Aristotele nel momento in cui ha fatto il suo percorso di
ricerca ha fondato un modo originale di studiare la realtà, ben diverso da quello di Platone e poi perché la sua
analisi giunge alla conclusione che il mondo resta diviso in due: il mondo della forma, dell’atto puro, di Dio e la
dimensione della materia, come potenza pura, che sono eternamente irriducibili per cui, se vogliamo, Aristotele si
situa in una dimensione di tipo gnostico, in una dimensione filosofica in cui l’Essere in realtà è costituito di due
esseri contrapposti che eternamente risultano separati.
E’ vero che Aristotele definisce la forma, l’atto puro come elemento predominante, ma è una predominanza
relativa, perché a Dio, atto puro, autosufficiente che si disinteressa del mondo proprio perché Egli è perfetto si
contrappone la realtà del mondo.
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Quella di Dio è, quindi, una “perfezione finita” perchè “fuori” di Dio c’è la materia, la dimensione di pura
potenza che tende a Dio e qui possiamo riprendere un discorso che abbiamo già accennato altre volte.
Quando Tommaso d’Aquino, nel tredicesimo secolo, si farà sostenitore della opportunità di sostituire al
pensiero platonico quello di Aristotele come fondamento della filosofia cristiana, lo potrà fare perchè la chiesa
cristiana, che ha nel corso dei secoli perso il messaggio più genuino, esoterico, dei Vangeli si riconoscerà più
facilmente nel dualismo aristotelico che non nel monismo platonico. Anzi, l’attuale ortodossia cristiana ci parla di
un Satana che, se pure verrà alla fine dei tempi rinchiuso nell’Inferno, anche quando sarà là rinchiuso, per
sempre incatenato, rimarrà eternamente opposto a Dio, nemico di Dio, quindi in fondo la visione cristiana ha
esasperato il discorso di Aristotele portandolo dove il filosofo greco non è affatto giunto.
Qui, infatti, si può sottolineare che, pur risultando migliore il pensiero platonico come sostrato filosofico per una
religione come quella cristiana, che potrebbe così tornare alle sue origini ripulendosi di tante incrostazioni che,
sedimentatesi nei secoli, le rendono oggi praticamente impossibile operare in buona fede nella direzione
dell’ecumenismo, il pensiero di Aristotele avrebbe comunque potuto offrire alla chiesa cristiana un principio che
poteva essere sviluppato in termini veramente positivi dalla Chiesa: è la materia che tende a Dio, perchè essa è
priva della sua perfezione, per cui il peccato originale a questo punto non sarebbe più una colpa dei singoli
individui, ma un limite del principio materiale che ci costituisce, per cui non sarebbe più una colpa che
singolarmente ci condanna e, inoltre, è la materia stessa che ci sospinge verso quella meta che il cristianesimo
ha chiamato redenzione.
Ancora pochi decenni fa si poteva vedere accanto ai cimiteri cristiani un piccolo recinto nel quale venivano
sepolti i bambini morti senza battesimo: se la Chiesa, invece di irrigidirlo e strumentalizzarlo, avesse rispettato il
pensiero aristotelico, avrebbe potuto trarre da esso una concezione più aperta e serena sulla natura umana: una
concezione nella quale l’unione anima-corpo avrebbe nel corpo non l’elemento soltanto negativo della coppia
perchè, indispensabile per consentire esperienza e consapevolezza di livello più concreto evidentemente
necessari alle attuali capacità dell’anima, fornirebbe anche una spinta di base verso la perfezione divina, in ciò
assecondando le pulsioni superiori dell’anima.
In tale contesto l’opera salvifica di Gesù Cristo diventerebbe, “semplicemente”, l’avere rivelato ai semplici e
agli umili la esoterica consapevolezza che siamo tutti figli di Dio e, come tali, avviati sulla strada della evoluzione
che ha come meta la perfezione divina attraverso un percorso che vede nel corpo il nostro migliore alleato e non
un ostacolo da annullare.
Ne avrebbe guadagnato la religione cristiana che si sarebbe caratterizzata per un ottimismo di fondo che le
avrebbe impedito di cadere nella vergognosa abiezione dei processi, delle torture e delle condanne del tribunale
dell’inquisizione. Ci avrebbe, al tempo stesso, guadagnato il pensiero di Aristotele che sarebbe stato, come
poteva essere, spinta decisiva verso un più positivo approccio allo studio del mondo concreto, invece di trovarsi
cristallizzato in una ortodossia mortificante.
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