7. ANDRÉ BAZIN Teatro e cinema1 Se per la critica è diventato relativamente comune rimarcare le affinità fra il cinema e il romanzo, il «teatro filmato» è ancora spesso considerato come un’eresia. Fino a che è stato difeso ed esemplificato soprattutto dalle dichiarazioni e dall’opera di Marcel Pagnol, si poteva ritenere che i suoi rari successi fossero dovuti a malintesi risultanti da congiunture eccezionali. Il teatro filmato restava legato al ricordo retrospettivamente comico del «Film d’arte» o all’irrisorio sfruttamento dei successi di boulevard secondo lo «stile» Berthomieu.2 Ancora durante la guerra, il fallimento della riduzione per lo schermo di un dramma eccellente come Le voyageur sans bagages, il cui soggetto avrebbe potuto passare per cinematografico, dava alla critica del «teatro filmato» argomenti apparentemente decisivi. Si è dovuti arrivare alla serie dei recenti successi che vanno da Piccole volpi [1941] a Macbeth [1948], passando per Enrico V [1944], Amleto [1948] e I parenti terribili [1948], per dimostrare che il cinema era in grado di adattare validamente le più diverse opere drammatiche. In verità il pregiudizio contro il «teatro filmato» non avrebbe da invocare forse tanti argomenti storici quanti si può credere se ci si fondasse solo sugli adattamenti da opere teatrali riconosciuti come tali. Bisognerebbe, in particolare, riprendere in considerazione la storia del cinema non più in funzione dei titoli ma delle strutture drammatiche della sceneggiatura e della regia. Un po’ di storia Mentre condannava senz’appello il «teatro filmato», la critica infatti prodigava i suoi elogi a forme cinematografiche in cui una più attenta analisi avrebbe dovuto rivelare delle metamorfosi dell’arte drammatica. Accecata dall’eresia del «Film d’Arte» e dei suoi seguaci, la dogana lasciava passare sotto l’etichetta «cinema puro» i veri aspetti del teatro cinematografico, a cominciare dalla commedia americana. A guardar da vicino, questa non è meno «teatrale» dell’adattamento di una qualche pièce de boulevard o di Broadway. Edificata sull’effetto comico di una battuta o di una situazione, spesso non ricorreva ad alcun artificio propriamente cinematografico; la maggior parte delle scene sono in interni e il découpage usa quasi unicamente il campo e il controcampo per valorizzare il dialogo. Bisognerebbe qui diffondersi sui retroscena sociologici che hanno permesso il brillante sviluppo della commedia americana per una decina d’anni. Ritengo che essi non infirmino minimamente un virtuale rapporto fra il teatro e il cinema. Il cinema ha in qualche modo dispensato il teatro da una reale esistenza preliminare. Non ce n’era più bisogno, poiché gli scrittori in grado di scrivere drammi potevano venderli direttamente per lo schermo. Ma questo è un fenomeno del tutto accidentale, storicamente in rapporto con una congiuntura economica e sociologica precisa e, sembra, in via di sparizione. Da quindici anni vediamo, parallelamente al declino di un certo tipo di commedia americana, moltiplicarsi gli adattamenti del teatro comico che ha riportato successo a Broadway. Nel campo del dramma psicologico e di costume un Wyler non esita a riprendere puramente e semplicemente il dramma di Lillian Hellman Piccole volpi e a portarlo «in cinema» in una scenografia quasi teatrale. In America infatti non c’è mai stato alcun pregiudizio contro il teatro filmato. Ma le condizioni della produzione hollywoodiana non si sono presentate, almeno fino al 1940, allo stesso modo che in Europa. Si trattava piuttosto di 1 Da André Bazin, Il cinema e le altre arti (1951), in Che cos’è il cinema?, Garzanti, Milano 1973, pp. 142-90. 2 Incomprensibile eccezione del cinema parlato solo l’indimenticabile Jean de la Lune. un teatro «cinematografico» che si limitava a generi ben precisi e che aveva, almeno durante la prima decade del parlato, ben poco da prendere dal palcoscenico. La crisi di soggetti di cui soffre oggi Hollywood l’ha già spinta a ricorrere più spesso al teatro scritto. Ma, nella commedia americana, il teatro, invisibile, era virtualmente presente.3 È vero che in Europa, e specialmente in Francia, non potremmo invocare un successo paragonabile a quello della commedia americana. Eccezion fatta per il caso particolarissimo e che meriterebbe uno studio speciale, di Marcel Pagnol, l’apporto del teatro di boulevard al cinema è stato disastroso. Ma il teatro filmato non comincia con il parlato: risaliamo un po’ più su e precisamente all’epoca in cui il «Film d’Arte» accentra già l’attenzione sul proprio fallimento. Allora trionfava Méliès, che ha visto in fondo nel cinema solo un perfezionamento del meraviglioso teatrale; il trucco è per lui il prolungamento della prestidigitazione. La maggior parte dei grandi comici francesi e americani viene dal music-hall o dal boulevard. Basta guardare Max Linder per capire quanto della sua arte egli deve alla sua esperienza teatrale. Come la maggior parte dei comici dell’epoca, recita deliberatamente «al pubblico», strizza l’occhio alla sala, la prende a testimone dei suoi imbarazzi, non esita dinanzi all’«a parte». Quanto a Charlot, anche indipendentemente dal suo debito verso il mimo inglese, è evidente che la sua arte consiste in una messa a punto, grazie al cinema, della tecnica della comicità da music-hall. Qui, il cinema supera il teatro, ma continuandolo e quasi sbarazzandolo delle sue imperfezioni. L’economia della gag teatrale è subordinata alla distanza tra la scena e la sala, e soprattutto alla durata delle risate che spingono l’attore a prolungare l’effetto fino alla loro estinzione. La scena lo incita dunque, persino lo costringe, all’iperbole. Solo lo schermo poteva permettere a Charlot di raggiungere quella perfetta matematica della situazione e del gesto, in cui il massimo di chiarezza si esprime nel minimo tempo. […] Del resto quando ci si riporta alla storia dei personaggi, delle situazioni e dei procedimenti della farsa classica, è impossibile non vedere come il cinema comico non rappresenti altro che la sua improvvisa e sfavillante rinascita. Genere in via d’estinzione dopo il XVII secolo, la farsa «in carne ed ossa» non si ritrova quasi più che, estremamente specializzata e trasformata, al circo e in certe forme di music-hall. Cioè proprio dove i produttori di film comici, soprattutto ad Hollywood, sono andati a reclutare i loro attori. Ma la logica del genere e dei mezzi cinematografici ha esteso immediatamente il repertorio della loro tecnica: permettendo i Max Linder, i Buster Keaton, i Laurel e Hardy, i Chaplin; fra il 1905 e il 1920, la farsa ha raggiunto uno splendore unico nella sua storia. Intendo proprio la farsa di cui si è perpetuata la tradizione da Plauto e Terenzio e persino dalla Commedia dell’Arte con i suoi temi e le sue tecniche. Prenderò un solo esempio: il tema classico della tinozza del bucato si ritrova spontaneamente in un vecchio Max Linder (1912 o 1913) in cui si può vedere il brillante Don Giovanni, seduttore di una tintora, obbligato a sprofondarsi in una tinozza piena di tinta per sfuggire alla vendetta del marito becco. In un caso simile non si tratta certo né di influenze né di reminiscenze, ma del riallacciamento 3 Nel suo libro di memorie sui suoi cinquant’anni di cinema, Il pubblico non ha mai torto, Adolphe Zukor, creatore dello star-system, mostra anche come in America più ancora che in Francia forse, il cinema ai suoi inizi impiegasse la sua coscienza nascente a tentare di saccheggiare il teatro. Il fatto è che allora la celebrità e la gloria in materia di spettacolo erano sul palcoscenico, Zukor, avendo capito che l’avvenire commerciale del cinema dipendeva dalla qualità dei soggetti e dal prestigio degli interpreti, acquistò quanto più poteva diritti per adattamenti drammatici e corruppe le notorietà del teatro d’allora. Le sue paghe relativamente elevate per l’epoca peraltro non sempre avevano ragione delle loro reticenze a compromettersi in questa industria fieraiola e disprezzata. Ma ben presto, a partire da queste origini teatrali, si sviluppò il fenomeno particolarissimo della «star», il pubblico fece la sua scelta fra le celebrità del teatro e gli eletti acquistarono rapidamente una gloria senza paragone con quella del palcoscenico. Parallelamente, le trame teatrali degli inizi venivano abbandonate per lasciare il posto a storie adeguate alla mitologia che andava costituendosi. Ma l’imitazione del teatro era servita da trampolino. spontaneo di un genere alla sua tradizione. Il testo, il testo! Vediamo da queste brevi citazioni che i rapporti del teatro e del cinema sono più antichi e più intimi di quel che non si pensi generalmente, e soprattutto che non si limitano a quello che viene ordinariamente e in senso peggiorativo definito come «teatro filmato». Vediamo inoltre che l’influsso, così inconscio come inconfessato, del repertorio e delle tradizioni teatrali, e stato decisivo per determinati generi cinematografici, ritenuti come esemplari per purezza e «specificità». [...] Da qualunque parte la si affronti, l’opera teatrale, classica o contemporanea, è irrevocabilmente difesa dal suo testo. Per «adattarlo» bisognerebbe rinunciare all’opera originale per sostituirla con un’altra, forse superiore, ma che non è più l’opera teatrale. Operazione fatalmente limitata, del resto, agli autori minori viventi, poiché i capolavori consacrati dal tempo ci impongono come un postulato il rispetto del testo. Tutto ciò è confermato dall’esperienza degli ultimi dieci anni. Se il problema del teatro filmato ritrova una singolare attualità estetica, lo deve ad opere come Hamlet, Henry V, Macbeth, per il repertorio classico, e, per i contemporanei, a dei film come The Little foxes di Lillian Hellman e Wyler, I parenti terribili, Occupati d’Amelia, Rope... Jean Cocteau aveva preparato prima della guerra un «adattamento» dei Parents terribles [1938]. Riprendendo nel 1946 il suo progetto, vi ha rinunciato e si è deciso a conservare integralmente il testo. Vedremo più avanti che ha praticamente conservato persino la scenografia teatrale. Americana, inglese, o francese, che riguardi opere classiche o moderne, l’evoluzione del teatro filmato è sempre la stessa: la caratterizza una fedeltà sempre più imperiosa alla cosa scritta, come se le diverse esperienze del cinema parlato si unissero su questo punto. In altri tempi, la prima preoccupazione del cineasta sembrava quella di camuffare l’origine teatrale del modello, di adattarlo, di dissolverlo nel cinema. Ora non solo sembra rinunciarvi, ma tende a sottolinearne sistematicamente il carattere teatrale. Né può essere altrimenti dal momento che si vuoi rispettare l’essenziale del testo. Concepito in funzione delle virtualità del teatro, il testo le porta già tutte in sé. Determina dei modi ed uno stile di rappresentazione; è già. in potenza, il teatro. Non si può decidere allo stesso tempo di essergli fedeli e di sviarlo dall’espressione alla quale tende. Nascondete questo teatro che non posso vedere! Ne troveremo la conferma in un esempio preso dal repertorio classico: una pellicola che infierisce forse ancora adesso nelle scuole e nei licei francesi e che pretende di essere un tentativo di insegnamento della letteratura attraverso il cinema. Si tratta del Medico per forza portato sullo schermo, con l’aiuto di un professore di buona volontà, da un regista di cui taceremo il nome. Questo film ha già un voluminoso archivio di lettere, elogiative quanto deprimenti, di professori e di presidi di liceo entusiasti delle sue doti. In realtà il film non è altro che un’inverosimile sintesi di tutti gli errori suscettibili di snaturare il cinema come il teatro, e Molière per giunta. La prima scena, quella delle fascine, ambientata in una foresta vera, inizia con una carrellata interminabile lungo il sottobosco, visibilmente destinata a far apprezzare gli effetti del sole sotto i rami, prima di scoprire due personaggi clowneschi occupati senza dubbio a cogliere funghi : il disgraziato Sganarello e sua moglie i cui costumi di teatro hanno qui l’aria di un travestimento grottesco. La scenografia realistica continua per tutto il film, per quanto possibile: l’arrivo di Sganarello per il consulto dà occasione di mostrare un piccolo maniero di campagna del XVII secolo. Che dire del découpage: nella prima scena si passa dal «semitotale» al «primo piano», naturalmente cambiando di inquadratura ad ogni battuta. Si sente che se il testo non avesse dato, suo malgrado, una certa misura al film, il regista avrebbe reso «la progressione del dialogo» con un montaggio sul tipo di quello di Abel Gance. Così com’è, il découpage permette agli allievi di non perdere niente, coi «campi» e «controcampi» in primo piano, della mimica degli attori della Comédie Française, che, come c’è da aspettarsi, ci riporta ai bei tempi del «Film d’Arte». Se per cinema si intende la libertà dell’azione in rapporto allo spazio, e la libertà del punto di vista in rapporto all’azione, portare sullo schermo un’opera teatrale significherà dare alla scenografia l’ampiezza e la realtà che il palcoscenico non poteva materialmente offrirle. Significherà inoltre liberare lo spettatore dalla costrizione della sua poltrona e valorizzare col cambiamento di inquadratura la recitazione dell’attore. Dinanzi ad una «messa in scena» simile bisogna convenire che tutte le accuse contro il teatro filmato sono valide. Ma il fatto è che appunto non si tratta di messa in scena. L’operazione è consistita soltanto nell’iniettare a forza del «cinema» nel teatro. Il dramma originale, e a più forte ragione il testo, vi si trovano fatalmente spaesati. Il tempo dell’azione teatrale non è evidentemente lo stesso di quello dello schermo, e il primato drammatico della parola è sfasato in rapporto al supplemento di drammatizzazione dato alla scena dalla macchina da presa. Infine e soprattutto, una certa artificiosità, una trasposizione troppo spinta della scenografia teatrale è rigorosamente incompatibile con il realismo congenito al cinema. Il testo di Molière assume il suo senso solo in una foresta di tela dipinta, e lo stesso si può dire della recitazione degli attori. Le luci della ribalta non sono quelle di un sole d’autunno. Al limite, la scena delle fascine potrebbe essere recitata davanti ad un sipario, non esiste più ai piedi di un albero. Il fallimento di questo film illustra abbastanza bene quella che si può considerare come la maggiore eresia del teatro filmato: la preoccupazione di «fare cinema». Più o meno è questo il problema delle riduzioni cinematografiche abituali delle opere teatrali di successo. Se l’azione si svolge sulla Costa Azzurra, gli amanti invece di chiacchierare sotto un pergolato si baceranno al volante di un’auto americana sulla strada della Corniche, con in «trasparente», sul fondo, le rocce del Cap d’Antibes. Quanto al découpage, in Les Gueux au Paradis per esempio, i contratti equivalenti di Raimu e Fernandel ci valgono un ugual numero di primi piani a beneficio dell’uno e dell’altro. I pregiudizi del pubblico del resto non fanno che confermare quelli dei cineasti. Il pubblico non pensa gran che sul cinema, ma lo identifica alla grandiosità della scenografia, alla possibilità di mostrare un ambiente naturale e di far muovere l’azione. Se non si aggiungesse all’opera teatrale un minimo di cinema, si considererebbe derubato. Il cinema deve necessariamente «essere più ricco» del teatro. Gli attori non possono essere che celebri e tutto quello che somiglia alla miseria o all’avarizia dei mezzi materiali è, si scrive, un fattore negativo. Il regista e il produttore che accettassero di andare contro i pregiudizi del pubblico su questi punti dovrebbero avere un certo coraggio. Soprattutto se anche loro non hanno fede nell’impresa. Al fondo dell’eresia del teatro filmato sta un complesso ambivalente del cinema di fronte al teatro: complesso d’inferiorità riguardo ad un’arte più antica e più letteraria, che il cinema risolve con la «superiorità» tecnica dei suoi mezzi, confusa con una superiorità estetica. Teatro in conserva o surteatro? Si vuole la controprova di questi errori? Ci viene fornita senza ambiguità da due successi come Enrico V e I parenti terribili. Quando il regista del Medico per forza cominciava il suo film con una carrellata nella foresta, aveva l’ingenua e forse inconscia speranza di farci inghiottire poi la disgraziata scena delle fascine, come una pillola zuccherata. Tentava di costruirvi intorno un po’ di realtà, di prepararci una scaletta per salire sul palcoscenico. I suoi goffi espedienti ottenevano disgraziatamente l’effetto contrario: di accusare definitivamente l’irrealtà dei personaggi e del testo. Vediamo ora come Laurence Olivier ha saputo risolvere nel suo Enrico V la dialettica del realismo cinematografico e della convenzione teatrale. Anche questo film comincia con una carrellata, ma che ci porta fin dentro il teatro: il cortile della locanda elisabettiana [in realtà il teatro Globe]. Non pretende di farci dimenticare la convenzione teatrale ma, al contrario, la denuncia. Il film non è direttamente e immediatamente Enrico V, ma è la rappresentazione di Enrico V. Ciò è evidente, giacché questa rappresentazione non si propone di essere attuale, come a teatro, ma di svolgersi ai tempi stessi di Shakespeare. Difatti ci vengono mostrati gli spettatori e le quinte. Non c’è dunque possibilità di errore, per godere dello spettacolo non è richiesto l’alto di fede dello spettatore davanti al sipario che si alza. Non ci troviamo veramente di fronte ad un’opera di teatro, ma ad un film storico sul teatro elisabettiano, cioè ad un genere cinematografico perfettamente lecito e a cui siamo più che abituati. Ciononostante godiamo del dramma, il nostro piacere non ha niente a che fare con quello che ci potrebbe procurare un documentario storico, è esattamente il piacere stesso di una rappresentazione di Shakespeare. La strategia estetica di Laurence Olivier non era infatti che un espediente per eludere il miracolo del sipario. Facendo del teatro cinema, denunciando in precedenza per mezzo del cinema la recitazione e le convenzioni teatrali invece di cercare di camuffarle, ha eliminato l’ipotesi del realismo che si opponeva all’illusione teatrale. Una volta assicuratesi queste assise psicologiche nella complicità dello spettatore, Laurence Olivier poteva permettersi sia la deformazione pittorica della scenografia sia il realismo della battaglia di Azincourt; e Shakespeare lo invitava a farlo, col suo esplicito appello all’immaginazione del pubblico: anche in questo caso il pretesto era perfetto. Lo sviluppo cinematografico, difficile da far accettare se il film fosse stato solo la rappresentazione dell’Enrico V, trovava il suo alibi nella stessa opera teatrale. Restava naturalmente da mantenere l’impegno preso. Sappiamo che lo è stato. Diciamo solo che il colore, che si finirà forse per considerare come un elemento essenzialmente non realista, contribuisce a rendere accettabile il trapasso all’immaginario e, nell’immaginario stesso, a permettere la continuità dalle miniature alla ricostituzione «realistica» di Azincourt. In nessun momento Enrico V è veramente «teatro filmato»; il film si situa in qualche modo da una parte e dall’altra della rappresentazione teatrale, al di qua e al di là del palcoscenico. Shakespeare comunque resta prigioniero e così il teatro, accerchiati da tutti i lati dal cinema. Il moderno teatro di boulevard non sembra ricorrere con altrettanta evidenza alle convenzioni sceniche. Il «Teatro Libero» e le teorie di Antoine hanno perfino potuto far credere un tempo all’esistenza di un teatro «realista», a una specie di pre-cinema.4 4 Un commento a questo proposito non sarà forse superfluo. Riconosciamo prima di tutto che in seno al teatro, il melodramma e il dramma si sforzarono effettivamente di introdurre una rivoluzione realista: l’ideale stendhaliano dello spettatore preso nel gioco che tira un colpo di pistola sul traditore (Orson Welles a Broadway farà mitragliare le poltrone di platea). Un secolo dopo, Antoine porterà alle estreme conseguenze il concetto di realismo della messa in scena. Non è per caso che Antoine ha fatto più tardi del cinema. Così che se si guarda la storia da un punto di vista generale, si può convenire che un vasto tentativo di «teatro-cinema» ha preceduto quello del «cinema-teatro». Dumas figlio e Antoine hanno preceduto Marcel Pagnol. Si potrebbe anche affermare che la grande ripresa del teatro dopo Antoine è stata assai facilitata dall’ esistenza del cinema, che ha deviato su di se l’eresia del realismo così che le teorie di Antoine si sono limitate a compiere il salutare effetto di una reazione contro il simbolismo. L’azione svolta dal Vieux Colombier nella rivoluzione del Théâtre Libre (lasciando il realismo al Grand Guignol), per cui si è arrivati al punto di riaffermare il valore delle convenzioni sceniche, non sarebbe forse stata possibile senza il concorso del cinema. Concorso esemplare, che rendeva in ogni caso Un’illusione di cui nessuno oggi può essere più vittima. Se esiste un realismo teatrale, non è altro che un sistema di convenzioni più segrete, meno esplicite, ma altrettanto rigorose. La «tranche de vie» non esiste a teatro. O, almeno, il solo fatto di essere esposta sulla scena la separa dalla vita, per farne un fenomeno in vitro, che ancora partecipa parzialmente della natura, ma che è già profondamente modificato dalle condizioni dell’osservazione. Antoine può anche mettere dei veri quarti di carne sulla scena, ma non può certo come il cinema farvi sfilare un gregge. Per portare sulla scena un albero, bisogna tagliargli le radici e in ogni caso si deve rinunciare a mostrare realmente la foresta. Così che il suo albero appartiene ancora alla tradizione del fondale elisabettiano e non è in fin dei conti che un elemento indicatore. Ricordate queste verità poco contestabili, si dovrà ammettere che la riduzione cinematografica di un «melodramma» come I parenti terribili non suscita problemi tanto diversi da quelli della riduzione di un’opera classica. Quello che viene qui chiamato realismo non porta affatto il dramma sullo stesso livello del cinema, non abolisce la ribalta. Semplicemente, il sistema di convenzioni a cui obbedisce la messa in scena, e quindi il testo, resta in un certo senso di primo grado. Le convenzioni tragiche, con il loro corteo di inverosimiglianze materiali e di alessandrini, non sono che maschere e coturni che accusano e sottolineano la convenzione fondamentale del fatto teatrale. È quello di cui si è ben reso conto Jean Cocteau portando sullo schermo Les parents terribles. Se anche il dramma è apparentemente dei più «realisti», Coctcau cineasta ha capito che non bisognava aggiungere niente alla scenografia, che il cinema non doveva servire a moltiplicarla, ma ad intensificarla. Se la stanza diviene un appartamento, questo sarà sentito, grazie allo schermo e alla tecnica della macchina da presa, come ancora più esiguo della stanza sulla scena. L’essenziale era in questo caso il fatto drammatico della segregazione e della coabitazione; il minimo raggio di sole, una qualunque luce che non fosse quella elettrica avrebbero distrutto quella fragile e fatale simbiosi. Così gli abitanti del «carrozzone» ai completo possono andare all’ altro capo di Parigi, da Madeleine; ma noi li lasciamo alla porta del loro appartamento per ritrovarli sulla soglia dell’altro. Non si tratta più in questo caso dell’ellissi di montaggio ormai classica, ma di un fatto positivo della regia, a cui il cinema non obbligava affatto Cocteau, e che supera per ciò stesso le possibilità di espressione del teatro; in teatro infatti, non essendoci altro modo di far spostare i personaggi, non si poteva ottenere lo stesso effetto. Cento altri esempi potrebbero confermare che la macchina da presa rispetta la natura della scenografia teatrale e si sforza soltanto di accrescerne l’ efficacia, guardandosi sempre dal modificare il suo rapporto con il personaggio. Non tutte le inevitabili imposizioni del teatro sono indispensabili. L’obbligo di mostrare sul palcoscenico ogni ambiente successivamente e di abbassare il sipario fra l’uno e l’altro è incontestabilmente una servitù inutile. La vera unità di tempo e di luogo viene introdotta dalla macchina da presa grazie alla sua mobilita. Ci voleva il cinema perché il progetto teatrale si potesse infine esprimere liberamente e perché Les parents terribles divenisse evidentemente una tragedia dell’appartamento, in cui una porta che si socchiude può assumere maggior significato di un monologo su un letto. Cocteau non tradisce la sua opera, resta fedele allo spirito del dramma, rispettandone tanto meglio le servitù essenziali in quanto sa discernerle dalle contingenze accidentali. Il cinema agisce solo come un rivelatore che fa apparire completamente certi dettagli che la scena lasciava in bianco. Risolto il problema della scenografia, restava il più difficile: quello del découpage. E qui Cocteau ha dato prova della più ingegnosa immaginazione. La nozione di «piano» arriva al punto di dissolversi. Sussiste solo l’ «inquadratura», cristallizzazione passeggera d’una realtà di cui non si cessa di sentire intorno la presenza. Cocteau ama irrimediabilmente derisorio il realismo drammatico. Nessuno potrebbe oggi sostenere che il più borghese dei drammi da boulevard non partecipi di tutte le convenzioni teatrali. ripetere di aver pensato il suo film in 16 mm. «Pensato» solamente, poiché avrebbe certo avuto notevoli difficoltà a realizzarlo così in formato ridotto. Ciò che conta è che lo spettatore prova la sensazione di una presenza totale dell’avvenimento, non più come in Welles (o in Renoir), con la profondità di campo, ma per virtù di una rapidità diabolica dello sguardo che per la prima volta ci sembra sposare il ritmo puro dell’attenzione. Senza dubbio ogni buon découpage ne tiene conto. Il tradizionale «campo controcampo» divide il dialogo secondo una sintassi elementare dell’interesse. Un primo piano del telefono che suona nel momento più patetico equivale ad una concentrazione dell’attenzione. Ma ci sembra che il découpage sia di solito un compromesso fra tre sistemi di analisi possibili della realtà: 1) un’analisi puramente logica e descrittiva (l’arma del delitto vicino al cadavere); 2) un’analisi psicologica interna al film, cioè conforme al punto di vista di uno dei protagonisti di una data situazione (il bicchiere di latte - forse avvelenato - che deve bere Ingrid Bergman in Suspicion, o l’anello al dito di Teresa Wright in L’ombra del dubbio); 3) infine un’analisi psicologica in funzione dell’interesse dello spettatore; interesse spontaneo o provocato dal regista proprio grazie a questa analisi: il pomo della porta che gira all’insaputa del criminale che si crede solo («attento!» gridano i ragazzi a Guignol che sta per essere sorpreso dal poliziotto). Questi tre punti di vista, la cui combinazione costituisce la sintesi dell’avvenimento cinematografico nella maggior parte dei film, sono sentiti come unici. In realtà essi implicano un’eterogeneità psicologica e una discontinuità materiale. Le stesse in fondo che si concede il romanziere tradizionale e che valsero a François Mauriac i ben noti fulmini di Jean-Paul Sartre. L’importanza della profondità di campo e dell’inquadratura fissa in Orson Welles o in William Wyler deriva proprio da questo rifiuto dello spezzettamento arbitrario a cui essi sostituiscono un’immagine uniformemente leggibile che costringe lo spettatore a fare da se stesso una scelta. Pur restando tecnicamente fedele al découpage classico (il suo film comporta persino un maggior numero di inquadrature della media), Cocteau gli conferisce un significato originale utilizzando praticamente solo inquadrature della terza categoria; cioè: il punto di vista dello spettatore e quello solo; di uno spettatore straordinariamente perspicace e messo in grado di vedere tutto. L’analisi logica e descrittiva, così come il punto di vista del personaggio, sono praticamente eliminati; resta quello del testimone. Si realizza finalmente la «macchina da presa soggettiva», ma all’inverso, non come in La donna del lago grazie ad una puerile identificazione dello spettatore col personaggio tramite il movimento della macchina da presa, ma al contrario per la spietata esteriorità del testimone. La macchina da presa finalmente è lo spettatore e nient’altro che lo spettatore. Il dramma ridiventa pienamente spettacolo. Cocteau ha detto che il cinema era un avvenimento visto dal buco della serratura. Della serratura resta qui l’impressione della violazione di domicilio, la quasi-oscenità del «vedere». Prendiamo un esempio assai significativo di questo partito preso dell’esteriorità: una delle ultime immagini del film, quando Yvonne de Bray avvelenata si allontana camminando all’indietro verso la sua stanza, guardando il gruppo affaccendato intorno a Madeleine felice. Una carrellata all’indietro permette alla macchina da presa di accompagnarla. Ma questo movimento di macchina non si confonde mai, per quanto la tentazione fosse grande, con il punto di vista soggettivo di «Sofia». L’effetto della carrellata sarebbe certamente più violento se fossimo al posto dell’attore e vedessimo con i suoi occhi. Ma Cocteau si è ben guardato da un simile controsenso, conserva Yvonne de Bray «come esca» e indietreggia, un po’ in ritirata, dietro di lei. L’oggetto dell’inquadratura non è ciò che lei guarda, e nemmeno lo sguardo; è: guardarla guardare. Al di sopra della sua spalla, certo; ed è questo un privilegio cinematografico, ma che Cocteau si affretta a restituire al teatro. Cocteau si riallacciava così al principio stesso dei rapporti fra lo spettatore e il palcoscenico. Mentre il cinema gli permetteva di cogliere il dramma da molteplici punti di vista, egli sceglieva deliberatamente di non servirsi che di quello dello spettatore, solo denominatore comune al palcoscenico e allo schermo. Così Cocteau conserva alla sua opera l’essenziale del suo carattere teatrale. Invece di tentare, al seguito di tanti altri, di dissolverla nel cinema, utilizza al contrario le risorse della macchina da presa per denunciare, sottolineare, confermare le strutture sceniche e i loro corollari psicologici. L’apporto specifico del cinema potrebbe essere definito in questo caso solo come un sovrappiù di teatralità. In ciò è d’accordo con Laurence Olivier, Orson Welles, Wyler e Dudley Nichols, come è confermato dall’analisi di Macbeth, di Amleto, di Piccole volpi e del Lutto si addice ad Elettra, per non parlare di un film come Occupati d’Amelia in cui Claude AutantLara attua sul vaudeville un’operazione paragonabile a quella di Laurence Olivier su Enrico V. Tutti i successi così caratteristici di questi ultimi quindici anni servono ad illustrare un paradosso: il rispetto del testo e delle strutture teatrali. Non si tratta più di «adattare» un soggetto. Si tratta di mettere in scena per mezzo del cinema un’opera di teatro. Dal «teatro in conserva» ingenuo o impudente a questi recenti successi, il problema del teatro filmato è stato rinnovato radicalmente. Abbiamo cercato di capire in che modo. Ancor più ambiziosi, arriveremo a dire perché? 2 Il leit-motiv dei contemporanei del teatro filmato, il loro argomento ultimo e apparentemente inespugnabile resta il piacere insostituibile che si attribuisce alla presenza fisica dell’attore. «Quel che vi è di specificamente teatrale,» scrive Henri Gouhier in L’Essence du Théâtre, «è l’impossibilità di staccare l’azione dall’attore». E inoltre: «Il palcoscenico accoglie tutte le illusioni tranne quella della presenza; l’attore vi compare sotto il suo travestimento con un’altra anima e un’altra voce, ma è là e, con la sua presenza, lo spazio ritrova la propria esigenza e la durata il proprio spessore». In altri termini, e inversamente: il cinema accoglie tutte le realtà fuor che quella della presenza fisica dell’attore. Se è vero che in questa consiste l’essenza del fenomeno teatrale, il cinema non potrebbe in alcun modo pretendervi. Se la scrittura, lo stile, la costruzione drammatica sono, come debbono essere, concepiti rigorosamente per ricevere anima ed esistenza dell’attore in carne ed ossa, l’impresa di sostituire all’uomo il suo riflesso o la sua ombra appare radicalmente vana. L’argomento è irrefutabile, nessuna sostituzione dei valori è possibile se il fenomeno teatrale ha le sue radici al di là dell’estetica e della psicologia, sul piano dell’ontologia addirittura. I successi di Laurence Olivier, di Welles o di Cocteau non possono allora che essere contestati (ma ci vuole della malafede) o inspiegabili: una sfida all’estetica e al filosofo. Così non ci se ne può dar ragione altrimenti che rimettendo in questione questo luogo comune della critica teatrale: «l’insostituibile presenza dell’attore». La nozione di presenza Si imporrebbe anzitutto una prima serie di osservazioni per quel che riguarda il contenuto del concetto di «presenza», giacché ci sembra sia proprio questa nozione, quale poteva essere intesa prima della comparsa della fotografia, che il cinema viene appunto a mettere in causa. L’immagine fotografica, e particolarmente cinematografica, può essere assimilata alle altre immagini e, come quelle, distinta dall’esistenza dell’oggetto? La presenza si definisce naturalmente in rapporto al tempo e allo spazio. «Essere in presenza» di qualcuno significa riconoscere che è nostro contemporaneo e constatare che rimane nella zona accessibile naturalmente ai nostri sensi (cioè alla vista e, nella radio, all’udito). Fino all’apparizione della fotografia e poi del cinema, le arti plastiche, soprattutto nel ritratto, erano il solo intermediario possibile fra la presenza concreta e l’assenza. La giustificazione era data dalla rassomiglianza, che eccita l’immaginazione e aiuta la memoria. Ma la fotografia è tutt’altra cosa. Non è affatto l’immagine di un oggetto o di un essere, ma molto più esattamente la sua traccia. La sua genesi automatica la distingue radicalmente dalle altre tecniche di riproduzione. Il fotografo procede, con l’intermediario dell’obiettivo, ad una vera presa d’impronta luminosa: a un calco. Come tale, porta con sé qualcosa di più che la rassomiglianza, una specie di identità (la carta d’identità è concepibile solo nell’era della fotografia). Ma la fotografia è una tecnica inferma nella misura in cui la sua istantaneità la obbliga a cogliere il tempo solo di taglio. Il cinema realizza lo strano paradosso di ricalcarsi sul tempo dell’oggetto e di prendere oltre a ciò l’impronta della sua durata. Il XIX secolo, con le sue tecniche oggettive di riproduzione visive e sonore, ha fatto apparire una nuova categoria di immagini; i loro rapporti con la realtà donde esse procedono esigerebbero di essere rigorosamente definiti. Anche se i problemi estetici che ne derivano direttamente non potrebbero essere posti convenientemente senza questa operazione filosofica antecedente, è piuttosto imprudente trattare antichi fatti estetici come se le categorie che essi interessano non fossero state per nulla modificate dall’apparizione di fenomeni assolutamente nuovi. Il senso comune - forse miglior filosofo in queste materie - l’ha ben capito quando ha creato un’espressione per significare la presenza di un attore aggiungendo al manifesto: «in carne e ossa». Per esso infatti il termine di «presenza» si presta oggi all’equivoco e un pleonasma non è mai di troppo al tempo del cinematografo. In tal modo non è mai così sicuro che non ci sia nessun intermediario concepibile fra la presenza e l’assenza. È sempre sul piano dell’ontologia che l’efficacia del cinema prende origine. È falso dire che lo schermo sia assolutamente impotente a metterci «in presenza» dell’attore. Lo fa alla maniera di uno specchio (di cui si ammetterà che restituisce la presenza di quello che vi riflette), ma di uno specchio dal riflesso differito, la cui foglia di stagno trattenga l’immagine. 5 È vero che a teatro Molière può agonizzare sulla scena, e noi avere il privilegio di vivere nel tempo biografico dell’attore; ma nel film Manolete assistiamo all’autentica morte del celebre torero, e se la nostra emozione non è altrettanto forte come quella che avremmo provato se fossimo stati nell’arena in quel momento storico, tuttavia è della stessa natura. Quanto perdiamo di testimonianza diretta, non lo riguadagnamo forse grazie all’artificiosa prossimità che permette l’ingrandimento della macchina da presa? Tutto si svolge come se nel parametro tempo-spazio, che definisce la presenza, il cinema non ci restituisse effettivamente che una durata indebolita, diminuita ma non ridotta a zero, mentre la moltiplicazione del fattore spaziale ristabilirebbe l’equilibrio dell’equazione psicologica. Non potremmo comunque opporre il cinema e il teatro su questa sola nozione di presenza, senza renderci prima conto di quel che sussiste sullo schermo e che filosofi ed esteti non hanno ancora potuto chiarire. Non tenteremo qui l’impresa, poiché neppure nell’accezione classica, attribuita a questo concetto da Henri Gouhier, e da altri, la «presenza» ci sembra in ultima analisi racchiudere l’essenza ultima del teatro. Opposizione e identificazione Un’introspezione sincera dei piaceri teatrali e cinematografici, in quel che essi hanno di meno intellettuale, di più diretto, ci costringe a riconoscere nella gioia che ci lascia il palcoscenico, abbassato il sipario, un non so che di maggiormente tonico e, confessiamolo, di più nobile - o forse bisognerebbe dire di più morale - della soddisfazione che segue un buon film. Sembrerebbe che se ne tragga una migliore 5 La televisione viene naturalmente ad aggiungere una varietà nuova alle «pseudo-presenze» derivanti dalle tecniche scientifiche di riproduzione inaugurate dalla fotografia. Sul piccolo schermo, nelle trasmissioni «in diretta», l’attore è stavolta anche temporalmente e spazialmente presente. Ma la relazione di reciprocità attore-spettatore è interrotta in un senso. Lo spettatore vede senza essere visto: non c’è movimento di ritorno. Il teatro televisivo sembrerebbe dunque partecipare sia del teatro che del cinema. Del teatro per la presenza dell’attore rispetto allo spettatore, ma del cinema per la non-presenza dei secondo rispetto al primo. Tuttavia questa non-presenza non è vera e propria assenza, poiché l’attore di televisione ha coscienza dei milioni di occhi e di orecchie virtualmente rappresentati dalla telecamera. Questa presenza astratta viene rivelata in particolare quando l’attore si inceppa sul suo testo. Questo incidente, già penoso in teatro, è intollerabile in TV, dato che lo spettatore che non ci può far niente prende coscienza della solitudine contronatura dell’attore. Sul palcoscenico, nelle stesse circostanze, si crea una certa complicità con la sala che viene in aiuto dell’attore in difficoltà. Questo rapporto di ritorno è impossibile in TV. coscienza. In un certo senso, per lo spettatore, è come se tutto il teatro fosse corneilliano. Da questo punto di vista, si potrebbe dire che ai migliori film «manca qualche cosa». È come se un inevitabile abbassamento di corrente, un misterioso corto circuito estetico ci privasse al cinema di una certa tensione decisamente propria del palcoscenico. Per quanto sottile, questa differenza esiste, persino fra una cattiva interpretazione filodrammatica e la più brillante interpretazione cinematografica di Laurence Olivier. Constatazione che non ha niente di banale; e la sopravvivenza del teatro dopo cinquant’anni di cinema e dopo le profezie di Marcel Pagnol ne fornisce già una prova sperimentale sufficiente. All’origine del disincantamento che segue il film si potrebbe certamente individuare un processo di spersonalizzazione dello spettatore. Come scriveva nel 1937 Rosenkrantz in Esprit, in un articolo profondamente originale per la sua epoca, «i personaggi dello schermo risultano naturalmente degli oggetti di opposizione mentale, in quanto la loro presenza effettiva dà loro una realtà oggettiva, così che a trasferirli in oggetti di un mondo immaginario deve intervenire la volontà attiva dello spettatore, la volontà di far astrazione dalla loro realtà fisica. Tale astrazione è frutto di un processo dell’intelligenza che non si può richiedere che ad individui pienamente coscienti». Lo spettatore di cinema tende ad identificarsi con il protagonista per un processo psicologico che ha per conseguenza di costituire la sala in «folla» e di uniformare le emozioni: «Come in algebra, se due grandezze sono rispettivamente uguali ad una terza, sono uguali anche fra di loro, si potrebbe dire: se due individui si identificano ad un terzo, essi si identificano l’uno con l’altro». Prendiamo l’esempio abbastanza significativo delle girls sul palcoscenico o sullo schermo. Sullo schermo la loro apparizione soddisfa delle aspirazioni sessuali inconsce; e quando il protagonista viene a contatto con loro soddisfa il desiderio dello spettatore nella misura in cui questi si è identificato con il protagonista. Sulla scena, le girls destano i sensi dello spettatore come lo farebbe la realtà. Non si produce perciò l’identificazione con il protagonista, il quale diviene oggetto di gelosia e di invidia. Insomma, Tarzan non è concepibile che al cinema. Il cinema placa lo spettatore, il teatro lo eccita. Il teatro, anche quando fa appello agli istinti più bassi, impedisce fino ad un certo punto la formazione di una mentalità di folla,6 ostacola la rappresentazione collettiva nel senso psicologico, in quanto esige una coscienza individuale attiva, mentre il film non chiede che un’adesione passiva. Queste considerazioni gettano una nuova luce sul problema dell’attore. Lo fanno discendere dall’ontologia alla psicologia. È nella misura in cui il cinema favorisce un tale processo di identificazione che si oppone al teatro. Così posto, il problema non sarebbe più radicalmente insolubile, giacché è noto che il cinema dispone di procedimenti di messa in scena che favoriscono la passività o al contrario eccitano più o meno la coscienza. Inversamente, il teatro può cercare di attenuare l’opposizione psicologica fra lo spettatore e il protagonista. Teatro e cinema non sarebbero dunque più separati da un abisso estetico insuperabile, ma tenderebbero solamente a suscitare due atteggiamenti mentali su cui i registi mantengono un vasto controllo. Ad un’analisi più accurata, il piacere teatrale non si opporrebbe solo a quello del cinema, ma anche a quello del romanzo. Il lettore del romanzo, fisicamente solitario come lo è, psicologicamente, lo spettatore delle sale cinematografiche, si identifica con i personaggi,7 ed infatti prova anch’esso, dopo una lunga lettura, la medesima ebbrezza di una strana intimità con gli eroi. Incontestabilmente nel piacere del romanzo, come del cinema, c’è una compiacenza in se stessi, una concessione alla solitudine, una specie di tradimento dell’azione tramite il rifiuto di una responsabilità sociale. L’analisi del fenomeno d’altronde può essere facilmente ripresa da un punto di vista psicanalitico. Non è significativo che lo psichiatra abbia ripreso il termine aristotelico di catharsis? Le ricerche pedagogiche moderne relative allo «psicodramma» sembrano aprire degli orizzonti fecondi sul processo catartico del teatro. Si utilizza infatti 6 Folla e solitudine non sono antinomici: il pubblico di un cinema costituisce una folla di individui solitari. Folla deve essere qui intesa come il contrario di una comunità organica, volontariamente scelta. 7 Cfr. Cl.E. Magny, L’Age du roman américain (Ed. du Scuil). l’ambiguità ancora esistente nel bambino fra le nozioni di recitazione e di realtà per portare il soggetto a liberarsi, nell’improvvisazione teatrale, delle rimozioni di cui soffre. Questa tecnica porta a creare una specie di teatro impreciso, in cui la recitazione è seria e l’attore è anche spettatore. L’azione che vi si svolge non è ancora scissa dalla ribalta, che è evidentemente il simbolo architettonico della cesura che ci separa dalla scena. Noi deleghiamo Edipo ad agire in vece nostra dall’altra parte di quel muro di fuoco, quella ardente frontiera del reale e dell’immaginario che autorizza i mostri dionisiaci e ci protegge da loro.8 Le sacre belve non usciranno da quella gabbia 9 di luce, fuori della quale essi sono ai nostri occhi incongrui e sacrileghi (la specie di rispetto inquietante che ancora circonda di un’aureola l’attore truccato quando andiamo a visitarlo nel suo camerino, come una fosforescenza). Che non si obietti che il teatro non sempre ha avuto una ribalta. Essa non è che un simbolo, prima del quale ce ne sono stati altri, fin dal coturno e la maschera. Nel XVII secolo, l’accesso dei marchesini al palcoscenico non negava la ribalta, ma la confermava piuttosto con una specie di violazione privilegiata, così come oggi a Broadway, quando Orson Welies sparpaglia degli attori nella sala per tirare dei colpi di pistola sul pubblico, non annienta affatto la ribalta, passa semplicemente dall’altra parte. Le regole del gioco sono fatte per essere violate, ci si aspetta che certi giocatori barino.10 In rapporto all’obiezione della presenza, e a quella sola, il teatro e il cinema non sarebbero dunque essenzialmente opposti. Entrano in causa piuttosto le due modalità psicologiche dello spettacolo. Il teatro si costruisce sulla coscienza reciproca della presenza dello spettatore e dell’attore, ma ai fini della recitazione. Esso agisce in noi attraverso la partecipazione ludica11 ad un’azione, attraverso la ribalta e come sotto la protezione della sua censura. Al cinema, al contrario, restiamo dei contemplatori solitari, nascosti in una camera oscura, attraverso delle persiane socchiuse, di uno spettacolo che ci ignora e che partecipa dell’universo. Niente viene ad opporsi alla nostra immaginaria identificazione al mondo che si agita davanti a noi, che diviene il Mondo. Non è più sul fenomeno dell’attore, in quanto persona fisicamente presente che si ha interesse a concentrare l’analisi, ma sull’insieme delle condizioni della «recitazione teatrale» che strappa allo spettatore la sua partecipazione attiva. Vedremo che si tratta allora molto meno dell’attore e della sua «presenza» che dell’uomo e della scenografia. Il retro della scenografia12 Non c’è teatro che dell’uomo, ma il dramma cinematografico può fare a meno di attori. Una porta che sbatte, una foglia al vento, le onde che lambiscono una spiaggia possono raggiungere il massimo potere drammatico. Alcuni dei capolavori del cinema si servono dell’uomo solo come accessorio: come una comparsa, o un contrappunto della natura che costituisce il vero personaggio centrale. Anche se in Nanook [Nanook of the 8 Cfr. P.A. Touchard, Dionysos (Ed. du Seuil). Nell’originale si legge page, pagina, probabile refuso per cage, gabbia. (n.d.t.). 10 Un ultimo esempio prova che la presenza costituisce il teatro solo nei limiti in cui si tratta di recitazione. Ognuno ha sperimentato a sue spese o a quelle degli altri la penosa situazione che consiste nell’essere osservati a propria insaputa o semplicemente suo malgrado. Gli innamorati che si baciano sulle panchine sono uno spettacolo per i passanti che però non ci fanno caso. La mia portinaia, che ha il senso della parola giusta, dice guardandoli che «si è al cinema». Ognuno si è qualche volta trovato nell’obbligo impellente di compiere davanti a un testimone un’azione ridicola. Ci prende allora una rabbiosa vergogna che è tutto il contrario deIl’esibizionismo teatrale. Colui che guarda dal buco della serratura non è a teatro; Cocteau ha appunto dimostrato in Le sang d’un poète che era già al cinema. Eppure si tratta proprio di spettacoli, i protagonisti sono davanti a noi in carne ed ossa, ma una delle due parti non sa niente o lo subisce suo malgrado: «Non è recitazione». 11 Si tenga presente che in questo paragrafo, come altrove, si è tradotto, restrittivamente, l’originale jeu (gioco, finzione, recitazione) con «recitazione». (n.d.t.) 12 Abbiamo tradotto, a seconda dei casi, décor con «ambiente» o «scenografia»; il termine francese racchiude entrambi i sensi, si riferisce cioè sia a uno spazio esterno non ricostruito che a quello interno, ricostruito o no in teatro di posa o sul palcoscenico. (n.d.t.) 9 North, di Robert Flaherty, 1922] o Man of Aran [stesso regista, 1934] soggetto del film è la lotta dell’uomo e della natura, non ci potrebbe essere paragone possibile con un’azione teatrale, in quanto il punto d’appoggio della leva drammatica non è nell’uomo, ma nelle cose. Come ha detto, credo, Jean-Paul Sartre, a teatro il dramma parte dall’attore, al cinema va dall’ambiente all’uomo. Tale inversione dei poli drammatici è di un’importanza decisiva e interessa l’essenza stessa della regia. In ciò bisogna vedere una delle conseguenze del realismo fotografico. Certo, se il cinema utilizza la natura, è perché può farlo: la macchina da presa offre ai regisi tutte le risorse del microscopio e del telescopio. Le ultime fibre di una corda che sta per cedere come tutt’un esercito che prende d’assalto una collina, sono avvenimenti ormai alla nostra portata. Le cause e gli effetti drammatici non hanno per l’occhio della macchina da presa dei limiti materiali. Essa libera il dramma da ogni contingenza di tempo e di spazio. Ma questa liberazione dai poteri drammatici tangibili ancora non è che una causa estetica secondaria che non spiegherebbe radicalmente il ribaltamento dei valori fra l’uomo e l’ambiente. Può capitare infatti che i cinema si privi volontariamente dei ricorsi possibili all’ambiente e alla natura - ne abbiamo visto l’esempio in I parenti terribili - mentre il teatro, al contrario, si serve di un meccanismo complesso per dare allo spettatore l’illusione dell’ubiquità. La passione di Giovanna d’Arco [1928] di Carl Dreyer, tutta composta di primi piani con una scenografia quasi invisibile (e d’altronde teatrale) di Jean Hugo, è forse meno cinematografica di Ombre rosse? È quindi evidente che la quantità. non ha a che fare con il problema, più di quanto non abbia a che fare una certa somiglianza con le scenografie teatrali. Lo scenografo non potrà concepire in modo sensibilmente diverso la stanza di La Dame aux Camélias per il palcoscenico e per lo schermo. È vero che al cinema avremo forse dei primi piani dei fazzoletto macchiato di sangue. Ma un’abile regia teatrale saprà, anch’essa, servirsi della tosse e del fazzoletto. Tutti i primi piani di I parenti terribili sono, infatti, ripresi dal teatro ove la nostra attenzione li isolava spontaneamente. Se la regia cinematografica non si distinguesse da quella teatrale che in quanto autorizza una maggior vicinanza della scenografia e un suo sfruttamento più razionale, non ci sarebbe veramente più nessuna ragione di continuare a fare del teatro, e Pagnol sarebbe un profeta; giacché vediamo bene che i pochi metri quadrati della scenografia di Vilar per La Danse de Mort costituiscono per il dramma un apporto simile a quello rappresentato dall’isola ove fu girato il film, peraltro eccellente, di Marcel Cravenne. Il problema infatti non consiste nella scenografia in se stessa, ma nella sua natura e funzione. Dobbiamo a questo punto chiarire una nozione specificamente teatrale: quella del luogo drammatico. Non potrebbe esistere teatro senza architettura, sia esso il vestibolo della cattedrale, le arene di Nimes, il palazzo dei papi, il palco da fiera, l’emiciclo, quasi opera di un Bérard13 in delirio, del teatro di Vicenza, o l’anfiteatro rococò di una sala dei boulevard. Gioco o celebrazione, il teatro non può per essenza confondersi con la natura, sotto pena di dissolversi in essa e di cessare di esistere. Fondato sulla coscienza reciproca dei partecipanti presenti, esso ha bisogno di opporsi al resto del mondo come la recitazione alla realtà, la complicità all’indifferenza, la liturgia alla volgarità dell’utile. Il costume, la maschera o il trucco, lo stile del linguaggio, la ribalta concorrono più o meno a questa distinzione, ma il segno più evidente ne è il palcoscenico, la cui architettura ha variato senza cessare però di definire uno spazio privilegiato, realmente o virtualmente distinto dalla natura. È in rapporto a questo luogo drammatico localizzato che esiste la scenografia; essa contribuisce semplicemente, e più o meno, a distinguerlo, a specificarlo. Ma, quale che sia, la scenografia costituisce le pareti di quella scatola a tre lati, aperta sulla sala, che è il palcoscenico. Quelle false prospettive, quelle facciate, quei boschetti hanno un rovescio fatto di tele, di chiodi e di legno. Nessuno ignora che l’attore che si «ritira nei suoi appartamenti» - dalla parte del cortile o dalla parte del giardino - va in realtà o 13 Christian Bérard, noto scenografo francese, particolarmente famoso per i contributi di prim’ordine dati ad alcuni film di Jean Cocteau (La belle et la bête, in particolare). (n.d.t.:.) togliersi il trucco nel suo camerino; quei pochi metri di luce e di illusione sono circondati di meccanismi e di quinte i cui labirinti nascosti, ma conosciuti, non impacciano affatto il piacere dello spettatore che sta al gioco. La scenografia teatrale, in quanto non è che un elemento dell’architettura scenica, è dunque un luogo materialmente chiuso, limitato, circoscritto, le cui sole «aperture» sono quelle a cui acconsente la nostra immaginazione. Le sue apparenze sono rivolte verso l’interno, verso il pubblico e la ribalta; essa esiste tramite il suo rovescio e la sua assenza di al di là, come la pittura tramite la cornice.14) Come il quadro non si confonde con il paesaggio che rappresenta, e non è neppure una finestra su di un muro, il palcoscenico e la scenografia in cui si svolge l’azione sono un microcosmo estetico inserito a forza nell’universo, ma essenzialmente eterogeneo alla Natura che li circonda. Nel cinema invece il principio è quello di negare ogni frontiera all’azione. Il concetto di luogo drammatico non solo è estraneo, ma essenzialmente contraddittorio con la nozione di schermo. Lo schermo non è una cornice, come quella del quadro, ma un mascherino segreto che non lascia scorgere che una parte dell’avvenimento. Quando un personaggio esce dal campo della macchina da presa, siamo disposti ad ammettere che esso sfugge al campo visivo, ma per noi continua ad esistere identico a se stesso in un altro punto della scena, che ci è nascosto. Lo schermo non ha quinte, non potrebbe averne senza distruggere la sua specifica illusione, che è di fare di una pistola o di un viso il centro stesso dell’universo. Al contrario di quello del palcoscenico, lo spazio dello schermo è centrifugo. Dato che l’infinito di cui il teatro ha bisogno non potrebbe essere spaziale, esso può essere solo quello dell’anima umana. Circondato da questo spazio chiuso, l’attore è nel fuoco di un doppio specchio concavo. Dalla sala e dalla scenografia convergono su di lui i fuochi oscuri della coscienza e le luci della ribalta. Ma il fuoco di cui egli brucia è anche quello della propria passione e del suo punto focale; egli accende in ogni spettatore una fiamma complice. Come l’oceano nella conchiglia, l’infinito drammatico del cuore umano romba e si ripercuote fra le pareti della sfera teatrale. Per questo tale drammaturgia è di essenza umana, l’uomo ne è la causa e il soggetto. Sullo schermo, l’uomo cessa di essere il punto focale del dramma per divenire (eventualmente) il centro di un universo. L’urto della sua azione può sviluppare le sue onde all’infinito; la scenografia che lo circonda partecipa dello spessore del mondo. Perciò, come tale, l’attore può anche essere assente poiché l’uomo non gode qui di nessun privilegio a priori sull’animale o sulla foresta. Tuttavia niente esclude che esso sia la molla principale e unica del dramma (come nella Giovanna d’Arco di Dreyer) e in ciò il cinema può benissimo sovrapporsi al teatro. In quanto azione, quella di Fedra o di Re Lear non è meno cinematografica che teatrale, e la vista della morte di un coniglio in La règle du jeu ci commuove come quella, raccontata, del gattino di Agnese. Ma se Racine, Shakespeare o Molière non sopportano di essere portati al cinema con una semplice registrazione plastica e sonora, è perché il trattamento dell’azione e lo stile del dialogo sono stati concepiti in funzione della loro eco sull’architettura della 14 L’illustrazione storica ideale di questa teoria dell’architettura teatrale nei suoi rapporti col palcoscenico e la scenografia ci è fornita dal Palladio col suo straordinario teatro olimpico di Vicenza che riporta l’antico anfiteatro, ancora a cielo scoperto, a un puro trompe-l’oeil architettonico. Perfino l’accesso stesso alla sala costituisce già un’affermazione della sua essenza architettonica. Costruito nel 1590, all’interno di una ex caserma offerta dalla città, il Teatro Olimpico offre allo spazio esterno solo dei grandi muri nudi di mattoni rossi, cioè un’architettura puramente utilitaria e che si potrebbe dire «amorfa» nel senso in cui i chimici distinguono lo stato amorfo dallo stato cristallino di uno stesso corpo. Il visitatore che entra come attraverso un buco nella roccia non crede ai suoi occhi quando si trova d’un tratto nella straordinaria grotta scolpita che costituisce l’emiciclo teatrale. Come quei geodi di quarzo e d’ametista che sembrano dall’esterno dei volgari ciottoli ma il cui spazio interno è fatto di un viluppo di puri cristalli segretamente orientati verso l’interno, il teatro di Vicenza è concepito secondo le leggi di uno spazio estetico e artificiale esclusivamente polarizzato verso il centro. sala. Ciò che queste tragedie hanno di specificamente teatrale non è tanto la loro azione quanto la priorità umana, quindi verbale, data all’energia drammatica. Il problema del teatro filmato, almeno per le opere classiche, non consiste tanto nella trasposizione di un’«azione» dalla scena allo schermo, quanto nella trasposizione di un testo da un sistema drammatico ad un altro, conservando tuttavia la sua efficacia. Non è quindi essenzialmente l’azione dell’opera teatrale che resiste al cinema ma, oltre i modi dell’intreccio che forse sarebbe facile adattare alla verosimiglianza dello schermo, la forma verbale che le contingenze estetiche e i pregiudizi culturali ci obbligano a rispettare. È proprio questa che si rifiuta di lasciarsi prendere nella finestra dello schermo. «Il teatro» dice Baudelaire, «è il lampadario». Se si dovesse opporre un altro simbolo all’artificiale oggetto cristallino, brillante, multiplo e circolare, che rifrange le luci intorno al suo centro e ci tiene prigionieri nella sua aureola, diremmo che il cinema è la piccola lampada della maschera che attraversa come un’incerta cometa la notte del nostro sogno ad occhi aperti: lo spazio diffuso, senza geometria e senza frontiere, che circonda lo schermo. La storia dei fallimenti e dei recenti successi del teatro filmato sarà dunque quella dell’abilità dei registi riguardo ai modi di mantenere l’energia drammatica in un ambiente che la rifletta o, almeno, le dia sufficiente risonanza perché essa sia ancora percettibile dallo spettatore di cinema. Cioè di una estetica non tanto dell’attore, quanto della scenografia e del découpage. Si capisce quindi come il teatro filmato sia radicalmente votato al fallimento quando si riporti, da vicino o da lontano, ad una fotografia della rappresentazione scenica, anche e soprattutto quando la macchina da presa cerca di farci dimenticare la ribalta e le quinte. L’energia drammatica del testo, invece di tornare all’attore, va a perdersi senza eco nell’etere cinematografico. Si spiega così come un’opera di teatro filmata possa rispettare un testo, essere ben recitata in una scenografia verosimile, e sembrarci totalmente annientata. È il caso, per riprendere un esempio concreto, del Voyageur sans bagages. Il dramma giace davanti a noi, apparentemente identico a se stesso, ma svuotato di ogni energia, come un accumulatore scaricato da un’invisibile presa di terra. Ma, al di là dell’estetica della scenografia, sulla scena e sullo schermo, vediamo bene che in ultima analisi il problema posto è quello del realismo. E questo è il punto a cui si torna sempre quando si parla di cinema. Lo schermo e il realismo dello spazio Dalla natura fotografica del cinema, infatti, è facile concludere col suo realismo. L’esistenza di un meraviglioso o di un fantastico del cinema, lungi dall’infirmare il realismo dell’immagine, ne è invece la più probante riprova. L’illusione non si fonda al cinema, come a teatro, su convenzioni tacitamente ammesse dal pubblico, ma al contrario sul realismo imprescindibile di quello che gli viene mostrato. Il trucco deve essere materialmente perfetto: l’«uomo invisibile»15 deve portare un pigiama e fumare la sigaretta. Se ne deve concludere che il cinema è votato alla sola rappresentazione, se non della realtà naturale, almeno della realtà verosimile di cui lo spettatore ammette l’identità con la natura, quale egli la conosce? Il relativo fallimento estetico dell’espressionismo tedesco confermerebbe questa ipotesi, proprio perché vediamo come Caligari [Il gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene, 1919] ha voluto sottrarsi al realismo della scenografia sotto l’influsso del teatro e della pittura. Ma ciò sarebbe apportare Allusione a un famoso film fantastico, The invisible man (L’uomo invisibile, 1933) di James Whale. (n.d.t.). 15 una soluzione semplicistica ad un problema che ammette delle risposte più sottili. Siamo pronti ad ammettere che lo schermo si apre su un universo artificiale purché esista un denominatore comune fra l’immagine cinematografica e ìl mondo in cui viviamo. La nostra esperienza dello spazio costituisce l’infrastruttura della nostra concezione dell’universo. Trasformando la formula di Henri Gouhier: «Il palcoscenico accoglie tutte le illusioni, salvo quella della presenza», si potrebbe dire: «Si può svuotare l’immagine cinematografica di ogni realtà, salvo una: quella dello spazio». Ogni realtà è forse dir troppo, poiché non si potrebbe senza dubbio concepire una ricostruzione dello spazio pura di ogni riferimento alla natura. L’universo dello schermo non può giustapporsi al nostro, vi si sostituisce necessariamente poiché il concetto stesso di universo è spazialmente esclusivo. Per un certo tempo, il film è l’Universo, il Mondo, o, se si vuole, la Natura. Si deve riconoscere che tutti i film che hanno cercato di sostituire una natura fabbricata e un universo artificiale al mondo della nostra esperienza non ci sono riusciti. Ammessi i fallimenti di Caligari e dei Nibelunghi [di Fritz Lang, 1924], ci si domanda donde viene l’incontestabile successo di Nosferatu [di Murnau, 1922] e di La passione di Giovanna d’Arco (criterio di successo restando il fatto che questi ultimi film non sono invecchiati). Sembra tuttavia, a prima vista, che i procedimenti della regia appartengano alla stessa famiglia estetica, e che, sotto le variazioni di temperamento o d’epoca, si possano classificare questi quattro film, nella direzione opposta a quella del «realismo», in un certo «espressionismo». Ma se si guarderà più da vicino, ci si accorgerà che esistono fra di essi delle differenze essenziali. Sono evidenti per quel che riguarda R. Wiene e Murnau. Nosferatu è ambientato per lo più in ambiente naturale, mentre il fantastico di Caligari si sforza di nascere dalle deformazioni della luce e della scenografia. Il caso della Giovanna d’Arco di Dreyer è ancora più sottile, perché la parte della natura sembra a tutta prima inesistente. Pur essendo più discreta, la scenografia di Jean Hugo non è quasi meno artificiale e teatrale di quella utilizzata per Caligari; l’uso sistematico del primo piano e di angolazioni insolite è fatto apposta perché finisca col distruggere lo spazio. I frequentatori dei cineclub sanno che non si manca mai di raccontare, prima della proiezione del film di Dreyer, la famosa storia dei capelli della Falconetti, tagliati realmente per le necessità della causa, e che si fa inoltre menzione della mancanza di trucco per gli attori. Ma tali richiami storici non superano mai in genere l’interesse dell’aneddoto. Mi sembra invece che in essi si celi il segreto estetico del film; ciò che gli vale la sua perennità. Per essi l’opera di Dreyer cessa di avere qualcosa in comune con il teatro e, si potrebbe addirittura dire, con l’uomo. Più Dreyer ricorreva esclusivamente all’espressione umana, più doveva riconvertirla in natura. Che non ci si inganni su questo punto; quel prodigioso affresco di teste è il contrario stesso del film d’attori: è un documentario di facce. Non è importante che gli interpreti «recitino» bene; invece la verruca del vescovo Cauchon o le macchie rosse sulla pelle di Jean d’Yd sono parte integrante dell’azione. In questo dramma visto al microscopio, la natura intera palpita sotto ciascun poro della pelle. Lo spostamento di una ruga, un labbro che si contrae sono le scosse sismiche e le maree, il flusso e riflusso di questa scorza umana. Ma la suprema intelligenza cinematografica di Dreyer mi piace vederla nella scena di esterni che chiunque altro non avrebbe mancato di girare in studio. La scenografia costruita evoca sicuramente un Medio Evo di teatro e di miniature. In un certo senso niente è meno realistico del tribunale nel cimitero o del portale col ponte levatoio, ma tutto è illuminato dalla luce del sole e il becchino getta nella fossa una palata di terra vera.16 Sono questi dettagli «secondari» e apparentemente contrari all’estetica generale dell’opera che le conferiscono però la sua natura cinematografica. Se il paradosso estetico del cinema consiste in una dialettica del concreto e dell’astratto, nell’obbligo dello schermo di significare solo per il tramite del reale, tanto 16 In questo senso considero gravi errori di Laurence Olivier la scena del cimitero e quella della morte di Ofelia in Amleto. Avrebbe avuto l’occasione di introdurre il sole e la terra in contrappunto alla scenografia di Elsinore. Ne aveva intravista la necessità con la vera immagine del mare durante il monologo di Amleto? L’idea, eccellente in sé, non è, da un punto di vista tecnico, perfettamente sfruttata. più importante appare discernere gli elementi della regia che confermano la nozione di realtà naturale e quelli che la distruggono. Ora, è assolutamente grossolano subordinare la sensazione di realtà alla quantità di fatti reali accumulati. Les dames du Bois de Boulogne può essere considerato un film eminentemente realistico, anche se tutto o quasi tutto vi è stilizzato. Tutto: salvo il rumore insignificante di un pulisci-vetro, il mormorio di una cascata o il cadere della terra che sfugge da un vaso rotto. Sono rumori d’altronde accuratamente scelti per la loro indifferenza all’azione, e che ne garantiscono la verità. Essendo il cinema per sua essenza una drammaturgia della natura si sostituisce all’universo invece di essere ad esso incluso. Lo schermo non potrebbe darci l’illusione di questa sensazione di spazio senza ricorrere a certe garanzie naturali. Ma si tratta non tanto della costruzione di una scenografia, di un’architettura o di una immensità quanto dell’isolamento di un catalizzatore estetico, che potrà essere sufficiente introdurre a dosi infinitesimali nella regia, perché questa precipiti totalmente in «natura». La foresta di calcestruzzo dei Nibelunghi tenta inutilmente di apparire infinita, noi non crediamo al suo spazio; mentre il fremito di un solo albero di betulla al vento, sotto il sole, potrebbe bastare a evocare tutte le foreste del mondo. Se tale analisi è fondata, vediamo che il problema estetico principale, nella questione del teatro filmato, è quello della scenografia. La scommessa che deve sostenere il regista è quella di riconvertire uno spazio orientato verso la sola dimensione interna, dallo spazio chiuso e convenzionale della recitazione teatrale a una finestra sul mondo. Nell’Amleto di Laurence Olivier, e ancora meno nel Macbeth di Welles, il testo non appare superfluo o diminuito dalla parafrasi della regia; così appare invece paradossalmente nelle regie di Gaston Baty, proprio in quanto quest’ultimo si è ingegnato a creare sulla scena uno spazio cinematografico, a negare il retro della scenografia, riducendo in tal modo la sonorità del testo alle sole vibrazioni della voce dell’attore, privata della sua cassa di risonanza come un violino ridotto alle sole corde. Non si può negare che l’essenziale a teatro è il testo. Concepito per l’espressione antropocentrica del palcoscenico e impegnato a supplire da solo alla natura, non può, senza perdere la sua ragion d’essere, dispiegarsi in uno spazio trasparente come il vetro. Il problema che si pone al cineasta è quindi di rendere alla sua scenografia un’opacità drammatica, sempre rispettando il suo realismo naturale. Risolto questo paradosso dello spazio, il regista, lungi dall’aver timore di trasportare sullo schermo le convenzioni teatrali e le servitù del testo, ritrova al contrario la libertà di appoggiarsi ad esse. A partire da ciò, non si tratta più di fuggire tutto quello che «fa teatro», ma eventualmente anzi di accusarlo con il rifiuto di facili soluzioni cinematografiche, come ha fatto Cocteau ne I parenti terribili e Welles nel Macbeth, o anche col sottolineare la parte teatrale, come Laurence Olivier nell’Enrico V. L’evidente ritorno al teatro filmato a cui assistiamo da dieci anni si iscrive essenzialmente nella storia della scenografia e del découpage; è una conquista del realismo; non, ben inteso, del realismo del soggetto o dell’espressione, ma di quel realismo dello spazio senza il quale la fotografia animata non fa il cinema. [...] Morale Tanto la pratica (certa) come la teoria (possibile) di un teatro filmato realizzato con successo, mettono in evidenza le ragioni dei vecchi fallimenti. La pura e semplice fotografia animata del teatro è un errore puerile, riconosciuto dopo trent’anni, su cui non vale la pena d’insistere. L’«adattamento» cinematografico ha messo più tempo a rivelare la sua eresia, continuerà ancora a fare delle vittime, ma sappiamo oramai dove conduce: a dei limbi estetici che non appartengono né al teatro né al film, ma a quel «teatro filmato» giustamente denunciato come il peccato contro lo spirito del cinema. La vera soluzione, finalmente intravista, consisteva nel comprendere che non si trattava di portare sullo schermo l’elemento drammatico - interscambiabile da un’arte all’altra di un’opera teatrale, ma, inversamente, la teatralità del dramma. Il soggetto dell’adattamento non è quello dell’opera teatrale, ma l’opera stessa nella sua specificità scenica. Precisata tale verità, potremo infine concludere su tre proposizioni che apparivano inizialmente paradossali e che divengono, alla riflessione, evidenti. 1) Il teatro in aiuto del cinema La prima di queste proposizioni è che, lungi dal pervertire il cinema, il teatro filmato, concepito in modo giusto, non può che arricchirlo ed elevarlo. Quanto al fondo prima di tutto. È fin troppo certo, ahimè, che la produzione cinematografica media è comunque intellettualmente molto inferiore, se non alla produzione drammatica attuale (perché ad includervi Jean de Létraz e Henry Bernstein...), almeno al patrimonio teatrale sempre vivo. Non fosse che in ragione dell’anzianità di quest’ultimo. Il nostro secolo può essere considerato il secolo di Charlot come il XVIII secolo quello di Racine e Molière, ma alla fin fine il cinema ha solo un mezzo secolo di vita mentre la letteratura teatrale ne ha venticinque. Che sarebbe oggi il palcoscenico francese se, come lo schermo, non desse praticamente asilo che alla produzione degli ultimi dieci anni? Poiché difficilmente si può contestare che il cinema traversa una crisi di soggetti, non rischia gran che ad assumere soggettisti come Shakespeare o anche Feydeau. Non insistiamo, la causa è troppo chiara. Molto meno chiara può sembrare per quel che riguarda la forma. Se il cinema è un’arte maggiore, e possiede le sue leggi e il suo linguaggio, cosa può guadagnare a sottomettersi a quelle di un’arte diversa? Molto! E proprio quando, finendola con dei trucchi vani e puerili, si propone veramente di sottomettersi e di servire. Per giustificare pienamente questa sottomissione, bisognerebbe situare il suo caso in una storia estetica degli influssi nell’arte. Si metterebbe così in evidenza, riteniamo, un commercio decisivo fra le tecniche artistiche, almeno ad un certo stadio della loro evoluzione. Il nostro pregiudizio dell’«arte pura» è una nozione critica relativamente moderna. Ma l’autorità stessa di questi precedenti non è indispensabile. L’arte della regia, di cui abbiamo precedentemente tentato di rivelare il meccanismo in qualche grande film, più ancora che le nostre ipotesi tecniche, presuppone, da parte del realizzatore, un’intelligenza del linguaggio cinematografico che non ha l’uguale che in quella del fatto teatrale. Se il «Film d’arte» ha fallito dove Laurence Olivier e Cocteau sono riusciti, ciò è dovuto prima di tutto ai fatto che questi ultimi avevano a loro disposizione un mezzo d’espressione molto più evoluto, ma anche al fatto che hanno saputo servirsene ancora meglio dei loro contemporanei. Dire dei Parenti terribili che è forse un film eccellente, ma che «non è cinema» con il pretesto che esso segue passo per passo la messa in scena teatrale, è una critica insensata. In quanto proprio per questa ragione è cinema. È il Topaze (ultima maniera) di Marcel Pagnol a non essere cinema proprio perché non è più teatro. C’è più cinema, e grande cinema, nel solo Enrico V che nel novanta per cento dei film tratti da soggetti originali. La poesia pura non è affatto quella che non vuol dire niente, come ha ben fatto rilevare Cocteau; tutti gli esempi dell’abate Bremond dimostrano il contrario: «La fille de Minos et de Pasiphaé»17) è una scheda di stato civile. Ma vi è comunque un modo, disgraziatamente ancora virtuale, di dire questo verso sullo schermo che sarebbe cinema puro in quanto se ne rispetterebbe il più intelligentemente possibile la portata teatrale. Più il cinema si proporrà di essere fedele al testo, e alle sue esigenze teatrali, più necessariamente dovrà approfondire il linguaggio che gli è proprio. La miglior traduzione è quella che testimonia la più profonda intimità con il genio delle due lingue e la loro maggiore padronanza. 17 Famoso verso della Fedra di Racine. (n.d.t.). 2) Il cinema salverà il teatro Perché il cinema restituirà senza avarizia al teatro quel che gli avrà preso. Se anche non è già avvenuto. Se infatti il successo del teatro filmato presuppone un progresso dialettico della forma cinematografica, esso implica reciprocamente e a fortiori una rivalutazione del fatto teatrale. L’idea sbandierata da Marcel Pagnol, secondo cui il cinema verrebbe a rimpiazzare il teatro mettendoio in conserva, è completamente falsa. Lo schermo non può soppiantare il palcoscenico come il pianoforte ha eliminato il clavicembalo. [...] Il cattivo «teatro in conserva» ha aiutato il vero teatro a prendere coscienza delle sue leggi. Il cinema ha ugualmente contribuito a rinnovare la concezione della messa in scena teatrale. Sono, questi, risultati ormai ben acquisiti. Ma ce n’è ancora un terzo che il buon teatro filmato permette di intravedere: un progresso formidabile, nel senso dell’estensione come in quello della comprensione, della cultura teatrale del gran pubblico. Cos’è un film come l’Enrico V? Per prima cosa Shakespeare per tutti. Ma anche e soprattutto una luce smagliante proiettata sulla poesia drammatica di Shakespeare. La più efficace, la più abbagliante delle pedagogie teatrali. Shakespeare esce dall’avventura doppiamente scespiriano. Non solo l’adattamento dell’opera drammatica moltiplica il suo pubblico virtuale, come gli adattamenti di romanzi fanno la fortuna degli editori, ma il pubblico è preparato molto meglio di prima al godimento teatrale. L’Amleto di Laurence Olivier non può evidentemente che allargare il pubblico dell’Amleto di Jean-Louis Barrault, e sviluppare il suo senso critico. Come fra la migliore riproduzione moderna di un quadro e il piacere di possedere l’originale sussiste una differenza irriducibile, così la visione di Amleto sullo schermo non può sostituire l’interpretazione di Shakespeare data, mettiamo, da una compagnia di studenti inglesi. Ma ci vuole una vera cultura teatrale per apprezzare la superiorità della rappresentazione reale da parte di dilettanti, cioè per partecipare alla sua recitazione. Ora, più il teatro filmato è riuscito, più approfondisce il fatto teatrale per meglio servirlo, e più si rivela l’irriducibile differenza fra lo schermo e il palcoscenico. È al contrario il «teatro in conserva» da una parte e il mediocre teatro di boulevard dall’altra che mantengono la confusione. Les parents terribles non tradisce il suo mondo. Non è su un piano meno efficace del suo equivalente scenico, ma nemmeno su un piano che non faccia implicitamente allusione all’indefinibile supplemento di piacere che mi avrebbe dispensato la rappresentazione reale. Non ci potrebbe essere per il vero teatro miglior propaganda che il buon teatro filmato. Verità ormai indiscutibile tanto che potrebbe apparire ridicolo l’essermici attardato così a lungo se il mito del «teatro filmato» non sussistesse troppo spesso sotto forma di pregiudizi, di malintesi e di conclusioni già predisposte. 3) Dal teatro filmato al teatro cinematografico La mia ultima proposizione sarà, lo riconosco, più azzardata. Abbiamo fin qui considerato il teatro come un assoluto estetico, a cui il cinema si avvicinerebbe in maniera soddisfacente, ma di cui sarebbe, a buon motivo e nel migliore dei casi, l’umile servitore. Tuttavia la prima parte di questo studio ci ha già permesso di riconoscere nelle comiche la rinascita di certi generi drammatici praticamente spariti, come la farsa e la Commedia dell’arte. Certe situazioni drammatiche, certe tecniche storicamente hanno ritrovato nel cinema, prima di tutto il concime sociologico di cui hanno bisogno per esistere, e ancor meglio le condizioni per uno sviluppo integrale della loro estetica che il palcoscenico manteneva congenitalmente atrofizzata. Attribuendo allo spazio la funzione di protagonista, lo schermo non tradisce lo spirito della farsa, dà soltanto al senso metafisico del bastone di Scapin le sue dimensioni reali: quelle dell’Universo. La comica è anzitutto, o anche, l’espressione drammatica di un terrorismo delle cose, di cui Keaton ancor più di Chaplin ha saputo fare una tragedia dell’Oggetto. Ma è vero che le forme comiche costituiscono nella storia del teatro filmato un problema a parte, probabilmente perché il riso permette alla sala di cinema di costituirsi in coscienza di se stessa e di prendervi appoggio per ritrovare qualcosa dell’opposizione teatrale. In ogni caso, e per questo non abbiamo spinto più lontano il nostro studio, l’innesto fra il cinema e il teatro comico si è operato spontaneamente, ed è stato così perfetto che i suoi frutti sono stati sempre considerati come il prodotto del cinema puro. Oggi che lo schermo sa accogliere, senza tradirli, altri teatri oltre quello comico, niente impedisce di pensare che esso possa ugualmente rinnovarli sviluppando certe loro virtualità sceniche. Il film non può, né deve essere, l’abbiamo visto, che una modalità paradossale della messa in scena teatrale, ma le strutture sceniche hanno la loro importanza, e non è indifferente recitare Giulio Cesare all’arena di Nimes o all’Atelier; ora, certe opere drammatiche, e non fra le minori, soffrono praticamente da trenta o cinquant’anni di un disaccordo fra lo stile di messa in scena da esse richiesto e il gusto contemporaneo. Penso particolarmente al repertorio tragico, ove l’handicap è dovuto soprattutto alla estinzione della razza del tragico tradizionale: i Mounet-Sully e le Sarah Bernhardt, spariti ai primi del secolo come i grandi rettili alla fine dell’era secondaria. Per un’ironia della sorte, proprio il cinema ha conservato i loro resti fossilizzati nel «Film d’arte». È ormai divenuto un luogo comune attribuire questa sparizione allo schermo per due ragioni convergenti: l’una estetica, l’altra sociologica. Lo schermo infatti ha modificato il nostro senso della verosimiglianza nell’interpretazione. Basta vedere precisamente uno dei brevi film interpretati da Sarah Bernhardt o da Le Bargy per capire che quel tipo d’attore ancora virtualmente vestiva i coturni e la maschera. Ma la maschera diviene irrisoria, quando il primo piano può farci annegare in una lacrima, e il portavoce ridicolo, quando il microfono fa tuonare a volontà l’organo vocale più deficiente. Così ci siamo abituati all’interiorità nella natura che lascia all’attore di teatro solo un margine di stilizzazione ristretto al di qua dell’inverosimiglianza. Il fattore sociologico è forse ancora più decisivo: il successo e l’efficacia di un Mounet-Sully erano senza dubbio dovuti al suo talento, ma sorretti dall’assenso complice del pubblico. Era il fenomeno del «mostro sacro», oggi quasi completamente ricaduto sul cinema. Dire che i concorsi del Conservatorio non producono più tragici non significa affatto che non nascono più delle Sarah Bernhardt, ma che l’accordo fra l’epoca e le loro doti non esiste più. Così Voltaire si spolmonava a plagiare la tragedia del XVII secolo perché credeva che solo Racine fosse morto, e non la tragedia. Ai nostri giorni, quasi non vedremmo alcuna differenza fra MounetSully e un cattivo filodrammatico di provincia, perché saremmo incapaci di individuarla. Nel «Film d’arte», rivisto da un giovane d’oggi, il mostro rimane, il sacro non c’è più. In queste condizioni, non ci si deve stupire che la tragedia di Racine, in particolare, subisca un’eclissi. Grazie al suo senso conservatore, la Comédie Française è in grado, fortunatamente, di conservarle un modo di vita accettabile, ma non più trionfale.18 E poi è solo con un interessante filtraggio dei valori tradizionali, col loro delicato adattamento al gusto moderno, e non con un rinnovamento radicale a cominciare dall’epoca. Quanto alla tragedia antica, se può commuoverci di nuovo lo dobbiamo in modo paradossale alla Sorbona e al fervore archeologico degli studenti. Ma proprio in queste esperienze dilettantesche bisogna vedere la reazione più radicale contro il teatro di attori. Ora, non è naturale che se il cinema ha totalmente volto a suo profitto l’estetica e la È appunto il caso dell’Enrico V, grazie al cinema a colori. Si vuole in Fedra un esempio di virtualità cinematografica: il racconto di Théramène, reminiscenza verbale della tragi-commedia macchinosa, considerato come un pezzo letterario drammaticamente fuori posto, ritroverebbe, realizzato visivamente al cinema, una nuova ragion d’essere. 18 sociologia del mostro sacro di cui viveva la tragedia sulla scena, può anche restituirgliele se il teatro viene a cercarle? Basti pensare a un’Athalie girata da Jean Cocteau con Yvonne de Bray. Ma certo non sarebbe solo lo stile dell’interpretazione tragica a ritrovare sullo schermo la sua ragion d’essere. Si può concepire una rivoluzione corrispondente della messa in scena che, senza cessare di essere fedele allo spirito teatrale, gli offrisse delle nuove strutture in accordo con il gusto moderno, e soprattutto in proporzione ad un grande pubblico di massa. Il teatro filmato attende un Jacques Copeau che ne faccia un teatro cinematografico. Così, non solo il teatro filmato è ormai fondato esteticamente di diritto e di fatto, non solo sappiamo d’ora in avanti che non ci sono opere teatrali che non possano essere portate sullo schermo, quale che ne sia lo stile, purché si sappia immaginare la conversione dello spazio scenico nei dati della messa in scena cinematografica, ma anche che è possibile che la sola messa in scena teatrale e moderna di certe opere classiche non sia ormai realizzabile che al cinema. Non è per caso che alcuni dei più grandi cineasti del nostro tempo sono anche dei grandi uomini di teatro. Welles o Laurence Olivier non sono venuti al cinema per cinismo, snobismo o ambizione, e nemmeno, come Pagnol, per volgarizzare il loro sforzo teatrale. Il cinema non è per loro che una forma teatrale complementare: la possibilità di realizzare la messa in scena contemporanea, quale essi la sentono e la vogliono. (1951)