UNIVERSITA’ DELLA CALABRIA DIPARTIMENTO DI SCIENZE DELL’EDUCAZIONE Appunti Scienze dell’Educazione “Autismo ed educazione” Prof.ssa Antonella Valenti 2007/2008 1 Indice 1. le sindromi autistiche:da psicosi autistica a disturbi dello sviluppo 2. non piu’ psicosi autistica ma disturbo generalizzato dello sviluppo 3. l’autismo come disturbo generalizzato dello sviluppo • comunicazione verbale e non verbale • interazione sociale • immaginazione o repertorio di interessi 4. studi epidemiologici 5. fattori eziologici 6. autismo e ritardo mentale 7. importanza di una diagnosi precoce 8. la diagnosi differenziale delle principali forme autistiche • il disturbo autistico • criteri diagnostici del disturbo autistico 9. il disturbo di rett • criteri diagnostici del disturbo di rett 10. il disturbo disintegrativo della fanciullezza • criteri diagnostici del disturbo disintegrativo della fanciullezza 11. il disturbo di asperger • criteri diagnostici del disturbo di asperger 12. sviluppo non altrimenti specificato (incluso l’autismo atipico testo del dsm iv) 2 13. l’autismo e le relazioni interpersonali • l’isolamento intellettuale dell’autistico. • lo sviluppo delle prime interazioni sociali a confronto tra bambini normali e bambini autistici. 14. “teoria della mente” • teoria della mente e test • teoria della mente e attenzione congiunta 15. la teoria modularista di baron-cohen sullo sviluppo della teoria della mente 1. le sindromi autistiche:da psicosi autistica a disturbi generalizzati dello sviluppo. 3 Il caso di Peter 1 «Peter è il figlio molto desiderato e molto amato di una famiglia agiata e benestante di Londra. Ha una sorella più grande di due anni. Durante il suo primo anno di vita Peter non sembrava diverso da qualsiasi altro bambino. Piangeva e rideva per le stesse cose per le quali aveva pianto e riso la sorellina. Nelle fotografie appare come un bambino bello, sano e felice. Se mai vi era stato qualche lieve segno dei problemi successivi, nessuno se ne era accorto. Fu solo quando Peter iniziò a fare i primi passi che i genitori cominciarono a preoccuparsi: sembrava diventare sempre più diverso dai suoi coetanei. A differenza di sua sorella, che aveva cominciato a parlare a 12 mesi, non disse una parola se non molto tempo più tardi. Ma la cosa più preoccupante fu che sembrava non comprendere niente di quello che gli veniva detto. Non alzava gli occhi quando lo si chiamava per nome, non mostrava alcun interesse ad ascoltare o guardare chi gli parlava, mentre poteva rimanere completamente assorto ad esaminare minutamente un blocco per costruzioni. Peter stava seduto in grembo a qualsiasi persona come se stesse seduto sulla parte soffice di un mobile e sembrava felice nella stessa misura in cui poteva esserlo quando se ne stava seduto per conto suo in qualche altro angolo della stanza. Quando sua madre veniva a prenderlo, non allargava mai le braccia. come faceva invece il cuginetto della stessa età. Dapprima nessuno pensò che Peter fosse qualcosa di diverso da un bambino molto indipendente e autosufficiente che tardava a parlare. Fu la nonna ad insistere che si doveva esaminare l'udito dei nipotino. Peter era sordo? Forse la sordità poteva spiegare non solo perché non parlava, ma anche perché sembrava vivere così bene in un mondo tutto suo e perché prendesse parte così raramente al mondo degli altri. Tuttavia questa spiegazione fu esclusa subito quando si appurò che l'udito di Peter era normale e quando divenne sempre più chiaro che in effetti rispondeva in modo insolito ai suoni. Era molto spaventato dal rumore dell'aspirapolvere: strillava ripetutamente e non si calmava facilmente. A quel rumore, del resto, non si sarebbe mai abituato. Alla fine si arrivò a passare l'aspirapolvere solo quando Peter non era in casa. D'altro canto, Peter era affascinato dal rumore degli autobus che passavano per la strada. Non c'era una volta che non corresse alla finestra quando sentiva il rombo familiare del motore. In questi casi non indicava mai l'autobus né gridava eccitato per attrarre l'attenzione di qualcuno, come invece aveva sempre fatto la sorella quando vedeva un'immagine di Topolino. Fin da quando aveva 18 mesi, la sorellina di Peter si divertiva a giocare a fare la spesa, a prendere il tè, a mettere le bambole a letto, ma Peter non fece mai niente del genere. Aveva una grande collezione di automobiline, ma anziché giocarci nello stesso modo del cuginetto, sembrava interessato soltanto a disporle una dopo l'altra in lunghe file e ad osservare da vicino le ruote che giravano. Non rispondeva mai agli 1 Caso immaginario di un soggetto autistico, da Uta Frith “Autism. Explaing the Enigma”, 1996 (ed. it. L’Autismo. Spiegazione di un Enigma). 4 altri bambini che venivano a chiamarlo per giocare. A un certo punto, quando Peter aveva circa tre anni, i genitori si resero conto che qualcosa non andava. Peter non dava ancora alcun segno di linguaggio ed era chiaro che per molti aspetti rimaneva indietro rispetto ai bambini della sua età. Tuttavia amava la musica ed ascoltava senza posa le Quattro stagioni di Vivaldi. I suoi genitori avevano sentito parlare di Autismo, ma scartarono questa ipotesi perché pensavano che essere autistico volesse dire evitare le persone e non mostrare alcuna risposta emozionale. Come avevano notato, a Peter piaceva stare in compagnia della gente e in effetti preferiva stare vicino alla madre e alla sorella ed era contentissimo quando suo padre giocava con lui ad azzuffarsi. Aveva degli scoppi di risa e talvolta andava in collera violentemente, sebbene fosse difficile capire perché. Quando Peter compì i tre anni, fu diagnosticato come autistico dopo essere stato sottoposto a interviste, osservazioni e test per un lungo periodo di tempo. In effetti, ai test psicologici che implicavano il linguaggio Peter andò molto male per la sua età, ma a un test in cui doveva mettere insieme delle figure geometriche riuscì benissimo. A casa diventò presto un mago nell'esecuzione dei puzzIe, che riusciva a fare anche con il disegno alla rovescia. Proprio questa abilità dette alla madre di Peter la speranza che alla fine egli avrebbe sorpreso tutti e si sarebbe rivelato un bambino eccezionalmente dotato. Nel periodo in cui il linguaggio e le abilità sociali si sviluppano normalmente in modo rapido, cioè nell'età compresa tra i tre e i cinque anni, Peter apprese queste abilità molto lentamente e sia lui che la sua famiglia si trovarono a vivere il loro periodo più duro. Era molto difficile interagire con Peter, specialmente fuori casa e fuori dalle sue abitudini quotidiane. Gli estranei notavano apertamente che il bambino era troppo viziato. Tuttavia si permetteva a Peter di fare tutto quello che voleva solo perché sembrava del tutto impossibile farlo andare d'accordo con i desideri degli altri o interrompere le sue abitudini. Erano ancora frequenti dei gravi attacchi d'ira. Alla fine Peter cominciò a parlare, ma il linguaggio non si aprì alle porte della comunicazione, come tutti avevano sperato. Stranamente, Peter ripeteva spesso ciò che dicevano le altre persone. Era del tutto indifferente ai giochi in cui si doveva far finta di fare qualcosa o a semplici attività di gruppo. Non provava alcun piacere particolare a giocare con teneri animaletti di pezza. Li trattava esattamente come le sue automobiline, come cose, cioè, da mettere in fila. Spesso i familiari avevano come la sensazione che esistesse un muro invisibile che non permetteva loro di avere un contatto appropriato con Peter. E per quanto si adoperassero, Peter non entrò mai in un gruppo, di bambini o di adulti. Sembrava che per la maggior parte del tempo non guardasse le persone, ma che il suo sguardo passasse attraverso di loro. Peter era molto abitudinario ed era estremamente complicato tagliargli i capelli, operazione che doveva essere fatta mentre dormiva. Lo si vedeva spesso agitare le mani e guardarle di sguincio. Talvolta per la strada o in un negozio, faceva un rumore acutissimo e saltellava sguaiatamente in su e in giù senza alcuna ragione apparente. Era difficile fare un viaggio con lui da qualche parte. La famiglia si adattò sempre di più a lui e alle sue abitudini rigide. Tolleravano ciò che non poteva essere cambiato, insegnando al piccolo Peter a compiere delle azioni quotidiane necessarie come 5 vestirsi e mangiare: ma abituarlo a lavarsi fu una lotta continua ed estenuante. Alla fine, con molta pazienza, si ottenne qualche risultato. Dopo il quinto anno divenne molto più facile interagire con Peter. Il suo linguaggio mostrò un netto miglioramento, sebbene continuasse a ripetere le frasi e le usasse in modo improprio. Parlava con una strana voce cantilenante, quando non ripeteva a pappagallo quello che dicevano gli altri. La sua comprensione del linguaggio sembrava stranamente limitata. Conosceva alcune parole molto rare e il loro significato ed era capace di nominare tutte le sfumature dei colori. Sapeva che cos'era un dodecaedro, ma sembrava non conoscere il significato di una parola comune come «pensare». Peter fece un notevole progresso in una scuola speciale. Imparò a padroneggiare molte abilità, tra cui la lettura, la scrittura e l'eseguire calcoli aritmetici. Imparò a nuotare e si divertiva a costruire barchette. i suoi disegni erano estremamente raffinati. Fu la sorella di Peter a rendersi conto che egli aveva memorizzato tutti i percorsi degli autobus di Londra con relativi numeri e destinazione. Nessuno seppe mai come era riuscito a farlo e perché. Cominciò a collezionare tutto quanto avesse a che fare con gli autobus, un piacere per i parenti che avessero cercato qualcosa da regalargli. Così la sua stanza era piena di modellini, di poster e di cartine. Stranamente, Peter non mostrò mai di fatto un qualche interesse a viaggiare sugli autobus. Una visita a un museo dei trasporti lo lasciò indifferente. All'età di dieci anni, Peter fu esaminato da uno psicologo: ai test di intelligenza non verbale risultò nella gamma normale, mentre ai test verbali rientrò nella gamma del ritardo lieve. Considerando le sue capacità e i suoi successi scolastici, la famiglia era ottimista sul futuro progresso di Peter. Anche gli estranei notavano spesso come il bambino fosse divenuto «socievole». Non era affatto timido e spesso avvicinava le persone in visita a casa e a scuola, chiedendo il loro nome e indirizzo. E commentava, ad esempio: «Dulwich (una località di Londra), allora il 12 (l'autobus)». Quando tornavano la volta seguente, spesso si ripeteva lo stesso tipo di dialogo. Sebbene fosse un po' troppo chiacchierone, in un modo ripetitivo («Oggí è lunedì, ieri era domenica, domani è martedì»), stranamente, spesso era difficile ricavare delle informazioni importanti da lui: ad esempio, quando si fece molto male in seguito a una caduta, non ne parlò mai con nessuno, e la madre rimase sconvolta quando scoprì i vestiti macchiati di sangue mentre li infilava nella lavatrice. Negli anni della pubertà e dell'adolescenza, quando i suoi coetanei diventavano indipendenti e sempre più attenti, specialmente a come potevano apparire e all'effetto che potevano avere sugli altri, Peter sembrava non si rendesse conto dell'effetto che poteva suscitare. Tuttavia diceva spesso: «Va bene così? Sono un bravo ragazzo?», dimostrando di preoccuparsi dei suo comportamento. Purtroppo, proprio il fatto che facesse queste stesse domande sia nelle circostanze appropriate sia in quelle inappropriate, e il fatto che diventasse estremamente triste quando veniva criticato, dimostravano quanto fosse fuori dalla realtà. Si era fatto molto alto e aveva ancora un bell'aspetto, ma colpiva chiunque non sapesse quanto fosse estremamente infantile. 6 Da quel momento in poi diventò sempre più evidente che soffriva di un handicap mentale: bastava guardarlo appena un po'. I suoi movimenti erano goffi e agitava le mani e le dita. Si comportava allo stesso modo in compagnia o da solo. Era molto probabile che sbadigliasse smisuratamente e si toccasse il naso quando qualcuno cercava di parlargli. Non sorprende che non fosse mai invitato ad unirsi ai suoi coetanei nelle attività del doposcuola. A sua madre premeva che Peter andasse a nuoto, un'attività che gli piaceva molto. Peter riteneva che la giovane cassiera di un supermercato fosse sua amica soltanto perché gli aveva sorriso quando lui aveva pagato il conto. E' chiaro che non aveva alcuna idea corretta di che cosa fosse un amico, anche se furono fatti molti sforzi per spiegarglielo. Talvolta era preso seriamente da un senso di frustrazione e infelicità: si rendeva conto di essere diverso, ma non riusciva a capire come e perché. Peter comprendeva le cose alla lettera in modo estremo. Una volta, quando sua madre disse che la sorella non aveva più gli occhi dal piangere, si mise a guardare con ansia sul pavimento per vedere se gli occhi erano andati a finire lì. Peter non gradiva di essere preso in giro, si contrariava subito. Finita la scuola, Peter visse a casa. Sebbene sapesse leggere molto bene, non leggeva per piacere. Spesso era inquieto e tormentava gli altri con un cicaleccio ripetitivo. Gli piaceva guardare la televisione ed era contento di stare di fronte al video in compagnia di altre persone. Quando veniva trasmessa una commedia con scherzi e giochi maneschi si metteva a ridere con gli altri. Non riusciva però a comprendere le trame delle soap operas che la madre seguiva con passione, ma conosceva tutti i nomi dei personaggi e degli attori che li impersonavano. Gli piaceva che i personaggi buoni fossero buoni e che i cattivi fossero cattivi, ma si confondeva se qualcuno era un po' buono e un po' cattivo. Peter ha ora trent'anni e vive ancora a casa. Conduce una vita semplice: aiuta nell'ufficio della madre a mettere i documenti in archivio e a preparare il tè, e ricopia le etichette con una scrittura molto chiara. E' di aiuto anche nel giardinaggio e nei lavori domestici. Ogni giorno passeggia per il prato esattamente lungo lo stesso percorso. Peter è completamente ingenuo e non comprende come si vive al mondo, perché la gente mente o imbroglia. L'età adulta non è per Peter uno stadio della maturità, ma piuttosto una immaturità permanente che sembra accordarsi bene con il suo aspetto giovanile. La sua voce rimane acuta e caratteristica, l'andatura è rigida e goffa e la postura è dinoccolata. Non ha una ragazza e ciò lo rende triste. La vita indipendente che i suoi genitori avevano sperato per lui è irrealizzabile. I familiari di Peter sanno bene che esistono altri individui autistici che dispongono di poche abilità pratiche, con cui è difficile interagire e che sono rimasti muti per sempre. Riconoscono che Peter ha fatto una lunga strada da quando guardava le persone «attraverso il loro corpo» e non parlava per niente. Ma sono preoccupati di ciò che gli accadrà quando non potranno più prendersi cura di lui. Hanno paura che in un ambiente indifferente potrà cadere in uno stato d'abbandono o essere sfruttato» 7 2. NON PIÙ PSICOSI AUTISTICA MA DISTURBO GENERALIZZATO DELLO SVILUPPO E’ di fondamentale importanza che l’autismo non venga più classificato all’interno delle malattie mentali o delle psicosi, questo è avvenuto grazie alle nuove scoperte terapeutiche che hanno portato a tale inquadramento. Il termine malattie mentali implica che il primo trattamento deve essere psichiatrico e che solo quando questo si rivela insufficiente l’attenzione deve rivolgersi a un’educazione specifica. Nei disturbi generalizzati dello sviluppo, invece, per il trattamento diventa prioritario l’intervento educativo (Peeters, 1996). I tempi che hanno portato a tale cambiamento sono stati molto lunghi: negli anni ’50 e ’60, periodo di massimo splendore della teoria psicoanalitica, l’autismo viene classificato come psicosi, la forma infantile della schizofrenia, e si sviluppano le prime teorizzazioni sulla “madre frigorifero” o ancora sulla “madre schizogenetica”. Partendo da queste considerazioni, Bettelheim (1967) fu uno dei primi autori ad indagare la possibilità che nello sviluppo dell’autismo fosse implicato un rapporto madre-bambino alterato, caratterizzato principalmente da carenza di contatto fisico, pratiche alimentari anomale, difficoltà nel linguaggio e/o nel contatto oculare con il figlio; da qui l’idea che l’autismo scaturisse come meccanismo di difesa al rifiuto materno percepito dal bambino. Un contributo di rilievo è stato, poi, quello di Margaret Mahler (1980); la nascita psicologica del bambino, secondo questa autrice, si svolge attraverso un processo di separazione-individuazione, separazione dall’unione simbiotica con la madre ed individuazione di sue caratteristiche personali. Nei primi mesi di vita si possono osservare due fasi che la Mahler considera precursori di questo processo: la fase di autismo normale (prima settimana di vita) nella quale il neonato si protegge dalle nuove e forti stimolazioni sensoriali con cui entra in contatto e la fase simbiotica (tra i due e i cinque mesi) nella quale il bambino inizia scoprire il mondo esterno, partendo dalla propria madre. Le psicosi del bambino vengono interpretate dalla Mahler come deformazioni psicopatologiche di queste normali fasi di sviluppo dell’Io e delle sue funzioni nell’ambito del rapporto con il primo oggetto esterno, la madre. Infatti, il bambino autistico mostra di non essere in grado di far fronte agli stimoli provenienti dall’esterno se non erigendo una barriera verso questi. Il bambino con psicosi simbiotica, nonostante abbia raggiunto uno stadio più differenziato nello sviluppo della personalità, mostra l’incapacità di rispondere alle situazioni proposte dalla realtà come individuo separato. Questo precoce disturbo della relazione madre-bambino non va imputato necessariamente, secondo la Mahler, ad una incapacità o patologia della madre; è, infatti, secondo l’autrice, difficile dire quale parte abbiano, nell’eziologia dell’autismo, anche i fattori ambientali e quelli intriseci del bambino. In seguito, anche la Tustin (1990) sottolineerà come non sia sempre così automatico il collegamento fra autismo e carenza di cure genitoriali, anche se attribuirà una notevole importanza, nell’eziologia autistica, alla rottura del legame madre-bambino in una fase in cui il bambino ancora non è pronto ad affrontare una separazione; questo distacco verrebbe vissuto dal bambino come la perdita di una parte del proprio 8 corpo ed in reazione a ciò egli costruirebbe allora un bozzolo composto da “oggetti autistici” al fine di garantirsi una continuità. Secondo l’approccio sistemico, il processo interattivo familiare che porta all’autismo del bambino vede il susseguirsi, nell’arco di tempo che copre tre generazioni, di una serie di rapporti tra i vari individui in cui dominano “frustrazione e delusione”. Se alle grandiose aspettative di gratificazione affettiva del matrimonio, segue per la coppia la delusione di un rapporto coniugale basato sulla dipendenza e sull’attribuzione di colpa reciproca, ben presto marito e moglie si troveranno in una situazione di “stallo”. Se la nascita di un figlio avviene proprio in questo momento, la madre che già si sente “svuotata” dal contesto in cui vive, si dimostrerà “insicura ed inadeguata” di fronte ai bisogni del figlio. Il padre sarà invece “tollerante e permissivo” nei confronti bel bambino, apparentemente per riparare alle carenze materne, ma, sotterraneamente per promuovere un’alleanza col figlio contro la madre. L’autismo sarebbe la manifestazione della resistenza del bambino davanti a questo tipo di dinamiche relazionali della coppia genitoriale. A partire dagli anni ’60 il modello psicodinamico venne, però, accusato di colpevolizzare ingiustamente i genitori dei bambini con autismo e Rimland (Rimland, cit. in Powers, 1994), direttore dell’Autism Research Institute, iniziò a sostenere che la causa dell’autismo non fossero i genitori, ma che il disturbo fosse causato da alterazioni “morfologiche e funzionali” a base organica. Occorrono, dunque, 20 lunghi anni prima che l’accezione psichiatrica venga ridimensionata, e non si parli più di “psicosi autistica” ma di “disturbo autistico”, o ancor meglio di “disturbo generalizzato dello sviluppo”. Siamo nel 1979, quando il direttore della rivista “Journal of Autism and Childood Schizophrenia”, Erik Schopler (successore di Leo Kanner), ne cambiò il titolo nell’attuale “Journal of Autism and Developmental Disorder2”. Questi cambiamenti accompagnano di fatto lo sviluppo delle conoscenze scientifiche attuali. Tra autismo e psicosi non vi è alcun rapporto, l’autismo non è una malattia mentale, tanto meno la forma infantile della schizofrenia, ma l’espressione di una complessa “disabilità mentale” causata da una disfunzione cerebrale (Nardocci, 2003). Per oltre trenta anni il punto nodale della sintomatologia autistica è stato il disturbo della relazione, del contatto affettivo: Leo Kanner in un suo famoso articolo parla di “disturbo autistico e del contatto affettivo”, e descrive i suoi undici piccoli pazienti come tendenti all’isolamento, autosufficienti, felicissimi se lasciati soli, “come in un guscio”, poco reattivi in ambito relazionale; Hans Asperger utilizza il termine “autismo” derivandolo dai lavori dello psichiatra svizzero Eugen Bleuler sulla schizofrenia, e facendo riferimento a quello che è definito “l’isolamento autistico”, quella condizione cioè in cui il malato schizofrenico vive un rapporto psichico fortemente disturbato con la realtà esterna: è ripiegato su sé stesso e non è interessato ad avere contatti con gli altri, con il mondo che lo circonda. A tal proposito Asperger afferma che «il disturbo fondamentale consiste in una restrizione delle relazioni con il 2 La rivista nasce nel 1971, sotto la direzione di Leo Kanner, con il nome di “Journal of Autism and Childood Schizophrenia” - nel 1974 Erik Schopler sostituisce Leo Kanner, e nel 1979 cambiò il titolo della rivista in “Journal of Autism and Developmental Disorder” - Attualmente il direttore è Gary Mesibov. 9 mondo circostante, che la personalità deve essere perciò compresa da questo punto di vista e che essa è totalmente organizzata a partire da questa limitazione» (Nardocci, 2003) . 3. L’AUTISMO COME DISTURBO GENERALIZZATO DELLO SVILUPPO. L’autismo è un grave disturbo funzionale del sistema nervoso centrale a insorgenza precoce che altera profondamente lo sviluppo complessivo del bambino e il suo processo di crescita Si è anche stabilito che non vi è una causa unica, in quanto un certo numero di processi patologici possono determinare gravi danni, assimilabili all’autismo, nello sviluppo del bambino. Questi processi patologici sono stati definiti a livello dei sistemi di classificazione internazionali delle malattie, il DSM-IV Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi mentali dell’American Psychiatric Association (1994) - e l’ICD-10 - Classificazione Multiassiale dei Disturbi psichiatrici del Bambino e dell’Adolescente (1995) - come “Disturbi Generalizzati (o Pervasivi) dello Sviluppo”. Con questa definizione si intende raggruppare delle patologie che hanno la caratteristica di alterare in senso invasivo lo sviluppo psicologico complessivo del bambino, compromettendo in modo diffuso e totale tutte le aree (cognitive, linguistiche-comunicative e comportamentali) fondamentali per lo sviluppo normale del bambino. Normalmente i sintomi sono rilevabili entro il secondo/terzo anno di età e si manifestano con gravi alterazioni nelle aree della comunicazione verbale e non verbale, dell’interazione sociale e dell’immaginazione o repertorio di interessi. • Comunicazione verbale e non verbale La persona autistica utilizza il linguaggio in modo bizzarro o appare del tutto muta; spesso ripete parole, suoni o frasi che sente pronunciare (ecolalia). Anche se le capacità imitative sono integre, ha notevoli difficoltà ad impiegare i nuovi apprendimenti in modo costruttivo in situazioni diverse. Spesso è presente ritardo mentale. • Interazione sociale Apparente carenza d’interesse e di reciprocità con gli altri; tendenza all’isolamento e alla chiusura; apparente indifferenza emotiva agli stimoli o ipereccitabilità agli stessi; difficoltà ad instaurare un contatto visivo (es. guardare negli occhi le persone), ad iniziare una conversazione o a rispettarne i turni, difficoltà a rispondere alle domande e a partecipare alla vita o ai giochi di gruppo. Non è infrequente che bambini affetti da autismo siano inizialmente diagnosticati come sordi, perché non mostrano alcuna reazione, come se non avessero udito appunto, quando sono chiamati per nome. 10 • Immaginazione o repertorio di interessi Di solito un limitato repertorio di comportamenti viene ripetuto in modo ossessivo; si possono osservare sequenze di movimenti stereotipati (es: torcersi o mordersi le mani, sventolarle in aria, dondolarsi, ecc.) detti, appunto, stereotipie. Queste persone possono manifestare eccessivo interesse per oggetti o parti di essi, in particolare se hanno forme tondeggianti o possono ruotare (biglie, trottole, eliche, ecc.). Si riscontra una resistenza al cambiamento che per alcuni può assumere le caratteristiche di un vero e proprio terrore fobico. La persona può esplodere in crisi di pianto o di riso. Può diventare autolesionista, iperattiva ed aggressiva verso altri o verso oggetti. Al contrario alcuni mostrano un’eccessiva passività e ipotonia che sembra renderli impermeabili a qualsiasi stimolo. Esiste uno spettro molto ampio di disturbi autistici, contenente diverse entità cliniche, alcune chiaramente distinguibili, altre sfumate nelle varie forme intermedie, altre ancora possono coesistere o confondersi con altre patologie neurologiche, per lo più con ritardo mentale, come le sindromi dismorfogenetiche, la sindrome di Rett, malattie metaboliche e molte altre. All’estremo opposto dello spettro si colloca la sindrome di Asperger con autismo senza disturbo del linguaggio né ritardo mentale, e altre forme rare di autismo ad elevato funzionamento intellettivo; le manifestazioni cliniche del disturbo variano ampiamente a seconda del livello di sviluppo e dell’età cronologica del soggetto: in epoche “precocissime” difatti, esse, risultano molto sottili e difficili da definire rispetto a quelle che si osservano dopo i 2 anni di età, per cui può essere riferito che il bambino si è sviluppato normalmente nel 1º anno di vita (o anche nei primi 2); solo in una minoranza di casi, i genitori riferiscono di chiari sintomi autistici nella prima infanzia riferibili ad un disturbo dell’interazione sociale, per mancanza di sorriso sociale e/o di postura anticipatoria quando un adulto si avvicina per prenderli in braccio, per indifferenza o avversione al contatto fisico, per uno scarso contatto oculare e per la carenza, ma non sempre assenza totale di comportamento di attaccamento o legame affettivo con le figure parentali; inoltre, possono non mostrare alcuna ansia da separazione se vengono lasciati in un ambiente ignoto, con sconosciuti. I bambini piccoli affetti da tale disturbo possono trattare gli adulti come intercambiabili oppure, possono attaccarsi meccanicamente ad una determinata persona. Nel corso dello sviluppo il bambino può diventare maggiormente disponibile ad essere coinvolto passivamente nell’interazione sociale, e può anche diventare più interessato alla stessa. Comunque, anche in questi casi, il bambino tende a trattare le altre persone in maniera finalistica: utilizza l’altro in maniera strumentale per l’appagamento delle esigenze del momento. Quest’ultimo aspetto induce a tener ben presente che il rapporto interpersonale è limitato sempre, o quasi sempre, a richiedere qualcosa o qualche azione e non a condividere interessi, informazioni, emozioni. Nell’età adulta, coloro che fanno maggiori progressi spesso desiderano costruire delle amicizie ma, l’inettitudine all’approccio e l’incapacità a rispondere ad interessi, emozioni e sentimenti altrui, rappresentano importanti ostacoli allo sviluppo delle stesse. In merito a quest’aspetto, L. Wing e J. Gould hanno individuato tre sottogruppi di soggetti autistici, sulla base della qualità dell’interazione sociale: 11 soggetti inaccessibili, che si “tirano fuori” da qualsiasi rapporto sociale; soggetti passivi, che tendono ad isolarsi, ma sono in grado di interagire quando adeguatamente sollecitati; soggetti attivi ma bizzarri, che sono capaci di prendere l’iniziativa nell’interazione sociale, ma lo fanno in maniera inopportuna, enfatica ed inappropriata. Questi diversi profili non variano solo da bambino a bambino, ma, in uno stesso bambino, possono alternarsi nel corso dello sviluppo. Uno dei motivi principali che spinge i genitori a richiedere una consultazione specialistica è rappresentato dal fatto che “il bambino non parli”. La compromissione qualitativa delle competenze verbali e non verbali rappresenta uno dei disturbi più tipici e, forse, quello che maggiormente determina nei genitori la consapevolezza di uno sviluppo atipico. Nel primo anno di vita, la quantità e la modalità di lallazione del bambino autistico, può essere ridotta o abnorme. Con il passare degli anni, mentre alcuni bambini non riescono ad acquisire alcuna espressione verbale, altri emettono rumori, suoni, stridii e sillabe senza significato in modo stereotipato, senza apparente intento di comunicare; altri ancora, presentano un progressivo sviluppo del linguaggio, che può addirittura diventare particolarmente fluente, ma qualitativamente inadeguato, anch’esso privo di intento comunicativo. Esso è caratterizzato da ripetizione di parole, frammenti di frasi o intere frasi memorizzate (ecolalia immediata o differita), frasi stereotipate, inversione pronominale. Si notano, inoltre difficoltà di articolazione e alterazioni della prosodia (eloquio cantilenante o monotono o enfatico). La comprensione risulta, in varia misura, deficitaria e nei soggetti che presentano maggiori progressi vengono segnalati alcuni deficit molto particolari, riferibili ad una particolare area del linguaggio, la pragmatica, intesa come quella capacità di definire le relazioni fra il linguaggio propriamente detto e chi lo usa, in rapporto agli scopi, ai bisogni, alle intenzioni e ai ruoli di chi partecipa alla conversazione (motti di spirito, doppi sensi, metafore, locuzioni idiomatiche). Ne deriva una comprensione letterale. Gli esempi a tal proposito sono innumerevoli: Quando a un bambino, dopo una passeggiata sotto la pioggia, veniva chiesto di pulirsi i piedi prima di rientrare in casa, si toglieva le scarpe, i calzini e si strofinava i piedi sullo zerbino. Una volta una madre disse a un bambino che la sorella “non aveva più gli occhi dal piangere” il bambino scosso si mise a cercarli sul pavimento. Un ragazzo insisteva tutte le sere per mettere al coperto la sua bicicletta, ma i genitori ne capirono il motivo solo alcune settimane più tardi. Il figlio aveva sentito dire “cade la notte”. Infine, alcuni dei bambini più brillanti dimostrano di essere particolarmente affascinati da numeri e/o lettere, altri imparano a leggere anche in età prescolare (iperlessia) ma spesso, senza la minima comprensione. Nei primi anni di vita, inoltre, il bambino autistico presenta un ridotto repertorio di interessi: gran parte del gioco esplorativo è assente o minimo. 12 La manipolazione degli oggetti avviene con modalità stereotipata, priva di creatività,immaginazione e carattere simbolico. Tutte le attività di gioco quando presenti, sono rigide, ripetitive e monotone. Spesso, sono presenti movimenti, gesti e/o azioni che per la loro frequenza e la scarsa aderenza al contesto assumono la caratteristica di stereotipie. Il repertorio di comportamenti osservabili è, apparentemente, molto variabile. Il bambino, infatti, può impegnarsi in maniera atipica (per ripetitività, rigidità e/o perseverazione) a ruotare velocemente, urtare, allineare oggetti, osservarne un particolare, mostrare un attaccamento esasperato ad oggetti insoliti. Stereotipie, manierismi e smorfie come dondolarsi, assumere posture bizzarre, odorare e/o leccare oggetti e/o persone, guardarsi le mani o imprimere alle stesse atteggiamenti particolari, disegnare sempre la stessa cosa, documentarsi su determinati argomenti, ecc., sono particolarmente frequenti quando il bambino viene lasciato solo e possono ridursi in situazioni strutturate. Tali soggetti, infine, fanno resistenza a modificazioni e cambiamenti, spesso si riscontra la “ritualizzazione” di alcune abitudini quotidiane come mangiare, vestirsi, addormentarsi, ecc. che devono svolgersi secondo sequenze rigide e immodificabili. La percezione anche minima di una variazione del rituale, crea in questi soggetti una reazione di profondo disagio che si traduce in vivaci reazioni comportamentali di rabbia e aggressività. Inoltre, alcuni bambini con disturbo autistico, mostrano improvvisi cambi di umore con scoppi di riso o di pianto senza una ragione apparente, o una singolare sensibilità nei confronti di particolari stimoli uditivi che possono scatenare nel bambino violente reazioni di panico, con tentativi di proteggersi coprendosi, ad esempio, le orecchie con le mani. Risposte simili possono essere osservate anche nei confronti di particolari stimoli visivi o di alcuni stimoli tattili. Sono frequenti anche insonnia, problemi nutrizionali, enuresi. Il quadro appena descritto rappresenta la forma clinica conclamata, la quale si realizza progressivamente nel tempo. Nella maggioranza dei casi, tuttavia, è nel periodo compreso fra i 10 ed i 20 mesi che cominciano a diventare particolarmente evidenti i sintomi riferibili ad un disturbo dell’interazione e della comunicazione sociale. In un certo numero di casi i genitori riferiscono di aver acquisito la consapevolezza di un serio problema di sviluppo solo dopo i 20 mesi, in relazione soprattutto alla mancata acquisizione del linguaggio e alla comparsa di comportamenti di forte isolamento. In molti di questi casi, tuttavia, l’approfondimento anamnestico permette di rilevare che anche in epoche precedenti il piccolo presentava, oltre ai sintomi precoci “specifici”, già sintomi “aspecifici” quali difficoltà nella suzione, ipereccitabilità, difficoltà dello svezzamento, disturbi del sonno. La gravità e la sintomatologia dell’autismo variano molto da individuo ad individuo e tendono, nella maggior parte dei casi, a migliorare con l’età soprattutto se il ritardo mentale è lieve o assente, anche se una remissione totale dei sintomi è un evento particolarmente raro. 4. STUDI EPIDEMIOLOGICI. 13 Nel 1966 Victor Lotter portò a termine il primo studio epidemiologico sull’autismo, a cura della MRC Social Psychiatry Unit (Unità Psichiatrica sociale del Consiglio delle ricerche mediche) di Londra. L’analisi venne effettuata su 78.000 bambini di età compresa tra gli otto e i dieci anni, e i risultati evidenziarono un’incidenza di 4,5 su 10.000 nella popolazione di bambini di età compresa tra gli otto e i dieci anni. Il rapporto tra maschi e femmine era di 2,6 a 1. Tutti i bambini del gruppo finale mostravano una mancanza persistente di contatti affettivi e un desiderio ossessivo per la ripetitività,esempi chiari di Autismo nella forma descritta da Kanner. E’ evidente che esiste un numero maggiore di casi meno tipici di quelli evidenziati da Lotter, che potrebbero essere tranquillamente diagnosticati come “autistici”. In altre parole l’incidenza dovrebbe raddoppiare se oltre ai gravi si includono i casi più lievi. La percentuale 4,5 su 10.000, rappresentativa di circa un terzo dei soggetti affetti da Disturbo Generalizzati dello Sviluppo, tende ad essere messa in discussione da recenti studi epidemiologici condotti con i criteri diagnostici meno ferrei (DSM IV-R), i quali hanno evidenziato una incidenza doppia (Peeters, 1996). E’ questo che emerge da un’altro studio condotto di recente in Nuova Scozia, in cui sono stati esaminati a fondo 20.800 bambini di età compresa tra i sei e i quattordici anni. Di questo gruppo, ventuno sono stati identificati come autistici; ciò corrisponde ad un’incidenza di 10 su 10.000, con un raddoppio delle stime precedenti, ma con esattamente la stessa incidenza di maschi rispetto alle femmine - 3 a 1, o 4 a 1 a seconda degli studi – anche se, come affermano alcuni autori, nelle femmine si riscontrano i casi più gravi (Gillberg e Steffenburg, 1987; Lelord e Sauvage, 1990; cit. in Zappella, 1996). Se poi si usa una definizione educativa invece che medica, cioè una definizione che includa autismo e sindromi ad esso collegate si arriva a un’incidenza di 20 casi su 10.000.?? Va infine sottolineato che l’interessamento è uniformemente rappresentato in tutte le situazioni - culturali, economiche e sociali - e contesti -urbani e rurali. Tale dato, ormai consolidato e incontestabile, concorre significativamente a sconfessare ulteriormente l’ipotesi dell’origine psicosociale dell’autismo. In Italia le persone identificate con questa diagnosi sono circa 80.000, tale cifra includerebbe circa 25.000 persone colpite dalla sindrome completa e circa 50.000 che mostrano la maggior parte i sintomi occorrenti per una diagnosi di questo tipo. Le quattro cause più comuni di disturbo generalizzato dello sviluppo sono il ritardo mentale,l’epilessia,la paralisi cerebrale che sono più frequenti e al quarto posto troviamo fra questi l’autismo(Power, 1994). Il disturbo autistico viene definito generalizzato in quanto interessa lo sviluppo percettivo e discriminativo, dell'attenzione, della motricità, dell'intelligenza, della memoria, del linguaggio, dell'imitazione e più in generale dell'adattamento all'ambiente (Cottini, 2002). 5. FATTORI EZIOLOGICI 14 Con l’avanzamento delle tecniche di studio del sistema nervoso centrale e con l’affinarsi delle possibilità di diagnosi è andata progressivamente modificandosi la concezione secondo la quale l’autismo rappresentava un’unica malattia originata dalle influenze negative precoci che la famiglia e in particolare la madre, esercitavano sullo sviluppo psichico e sociale del bambino. Ora sappiamo che i genitori non rappresentano il problema; la maggior parte degli studiosi ritiene, infatti, che i genitori non possono assolutamente essere considerati la causa prima dell’autismo del loro piccolo ma, al contrario, la risorsa più importante; possono svolgere, infatti, ruoli determinanti nel favorire lo sviluppo delle sue abilità e competenze, contribuire al successo di un programma didattico o di un intervento rieducativo. Il “fascino” che tale disturbo suscita, a causa di quell’aspetto impenetrabile e inaccessibile che sembrano mostrare i soggetti che ne sono affetti, ha stimolato l’interesse di numerosi ricercatori, i quali hanno cercato di investigarne le cause da molti punti di vista: dal campo psicogenetico a quello neurobiologico e neurogenetico, le varie teorie si sono succedute e integrate, e oggi si concorda su una genesi multifattoriale. Dalle evidenze provenienti dai vari ambiti di ricerca quali la citogenetica, la genetica molecolare, la biochimica, la neuropsicologia, ecc., attualmente si può dire che l’autismo è un disturbo biologico del cervello con importante componente genetica che altera la dinamica della crescita dell’encefalo, già nel primo trimestre di gravidanza: accelerazione della crescita nelle fasi precoci e rallentamento di crescita nelle fasi tardive; le alterazioni interessano reti neurali complesse tra verme cerebellare, emisferi cerebellari, importanti nell’attenzione, anticipazione, fondamentale per l’interazione sociale e programmazione di sequenze motorie complesse, corteccia frontale, importante per le funzioni esecutive, sistema limbico, ippocampo e amigdala correlati con il processing emozionale e la memoria, ed altre aeree connesse. Tuttavia, i geni candidati a un ruolo nel determinare la suscettibilità all’autismo sono tra 10 e 20. La tendenza attuale della ricerca sulle cause e i meccanismi implicati nel determinismo del Disturbo Autistico è, dunque, orientata sulla necessaria concomitante presenza di più geni, che abbiano non solo effetto additivo, ma anche epistatico vale a dire potenziato, maggiore della semplice somma, e di fattori ambientali scatenanti connessi in relazione temporale con l’insorgenza del disturbo quali malattie, incidenti, ospedalizzazioni, morte di uno dei genitori, bruschi cambiamenti ambientali, ecc. Il campo della ricerca, comunque, è tutto aperto. Al momento, infatti, non esiste una singola causa conosciuta. Molto ci si attende dai progressi delle neuroscienze e dalla loro applicazione clinica. In particolare dagli studi di biologia molecolare relativi allo sviluppo cerebrale, dalla ricerca sui fondamenti biologici della socializzazione e della comunicazione, dalla psicofarmacologia, dalla genetica. Concentrare l’attenzione sulla natura biologica delle sindromi autistiche non significa compiere operazioni riduzionistiche. Oggi è noto che uno dei principali obiettivi di ricerca delle neuroscienze è rappresentato dalla zona di convergenza dei processi mentali e dei processi biologici. Il ruolo dei 15 fattori ambientali, soprattutto nelle epoche più precoci, è stato dimostrato come fondamentale per lo sviluppo del SNC come per quello delle facoltà percettive e del comportamento. Esistono periodi critici, momenti irreversibili, che inducono la differenziazione, ma anche la nascita di reazioni emozionali e comportamentali che hanno luogo solo in risposta a stimoli esogeni. Esiste però anche l’individuo con il suo patrimonio genetico, neurobiologico e di programmi di sviluppo propri della specie, il quale con l’ambiente interagisce. Carenza di stimoli ambientali o stimoli ambientali bombardanti possono provocare alterazioni del comportamento e del contatto con la realtà. Le stesse manifestazioni patologiche possono tuttavia emergere se l’individuo è colpito precocemente da alterazioni del Sistema Nervoso Centrale che gli impediscono di utilizzare o di ricevere gli stimoli che provengono dall’ambiente. E’ necessario quindi dedicarsi con maggiore insistenza ad approfondire il versante delle cause, troppo a lungo trascurato, perché interessati ad interpretare il disturbo autistico più che a conoscerlo. La domanda che ci si deve porre di fronte ad un disturbo autistico che si manifesta prevalentemente attraverso disturbi mentali non riguarda tanto la distinzione di questi disturbi in biologici o funzionali; bisogna piuttosto chiedersi quando e in quale misura sulla alterazione biologica, comunque presente, hanno avuto un ruolo fattori genetici e d evolutivi, fattori tossici o infettivi e fattori ambientali biologici (Giornale di Neuropsichiatria dell’Età Evolutiva, 11. 3. 91- pag. 186). L’adozione di una prospettiva globale sarà sicuramente molto più producente, soprattutto in considerazione del fatto che è ormai opinione condivisa che tutti i processi mentali sono anche dei processi biologici e che ogni alterazione che li riguarda è organica. 6. AUTISMO E RITARDO MENTALE Sfatando un incorreggibile luogo comune generato dalla favola degli idiot savant, amplificata da film come “Rain man”, a cui va solo il merito di aver diffuso la conoscenza del disturbo autistico, va precisato che circa il 50 - 70% dei soggetti autistici ha un ritardo mentale, mentre il rimanente 25% comprende situazioni limite (Q.I. ricompreso tra 70 e 79) e solo il 10% di esso supera il Q.I. di 85 (Bagalà, 2001). Detto questo si può concludere che 3 bambini autistici su quattro manifestano un ritardo mentale oltre all’autismo. A tal proposito la Frith si pone un’interessante interrogativo «Se il ritardo mentale è un segno preciso di una disfunzione cerebrale di origine biologica, come possiamo spiegare la piccola percentuale (10%) di bambini autistici che non presentano un ritardo intellettivo ai test standard di intelligenza?». Lo studio condotto da Goldstein e Lancy nel 1985, aiuta la Frith a rispondere a questo importante quesito. I risultati dello studio condotto dai due ricercatori portano ad ipotizzare che la forma della distribuzione dei punteggi ai test di intelligenza nella 16 popolazione autistica sia la stessa della popolazione normale, con una differenza nella posizione della media che si trova spostata 50 punti di Q.I. Secondo Goldstein e Lancy lo spostamento è riconducibile alla disfunzione cerebrale, e che i bambini autistici con prestazioni più elevate mostrerebbero comunque una prestazione ridotta rispetto al loro funzionamento se non fossero colpiti da Autismo. Tale ipotesi è rafforzata dal fatto che i bambini autistici più capaci non raggiungono i livelli di Q.I. estremamente alti che ottengono i bambini normali più dotati (Frith, 1996).????? 7. IMPORTANZA DI UNA DIAGNOSI PRECOCE Attualmente il DSM-IV e l’ICD-10 sono i sistemi di classificazione più utilizzati e sui quali si è diffuso maggior consenso. La classificazione americana (DSM-IV) annovera il Disturbo Autistico fra i Disturbi generalizzati dello sviluppo insieme a: disturbo di Asperger, disturbo disintegrativo della fanciullezza, disturbo di Rett, disturbo generalizzato dello sviluppo non altrimenti specificato. Per la classificazione dell’OMS (ICD-10), invece, l’Autismo Infantile rientra nella categoria delle Sindromi da alterazione globale dello sviluppo che comprende, oltre ai disturbi descritti dal DSM-IV, anche l’Autismo Atipico, che si differenzia dall’Autismo Infantile perché, pur essendoci una compromissione dello sviluppo, anomalie nell’interazione sociale, nella comunicazione e stereotipie di comportamento, queste si evidenziano anche dopo i tre anni (Atipicità nell’età di esordio), oppure, pur evidenziandosi prima dei tre anni non soddisfano completamente tutti i tre gruppi di sintomi principali (Atipicità nella sintomatologia), e la Sindrome iperattiva associata a ritardo mentale e movimenti stereotipati, che descrive bambini con ritardo mentale grave e medio (Q.I. inferiore a 50), gravi problemi d’iperattività, deficit attentivo e, molto spesso, comportamenti stereotipati. Nel DSM IV (1996) la novità più importante, rispetto alla precedente del 1987, è lo spostamento della categoria di cui fa parte l’Autismo, i Disturbi Generalizzati dello Sviluppo, dall’asse II (disordini a decorso lungo, stabili e con prognosi infausta), all’asse I (disordini episodici e transitori). Ciò implica l’aver riconosciuto che i sintomi possono variare ed attenuarsi, cosa che normalmente non avviene per i disturbi sull’asse II, come ritardo mentale e disordini di personalità. Uscito dall’ambito delle psicosi infantili, ove era annoverato, l’Autismo vede un approccio descrittivo e classificatorio ampio e diversificato rispetto alla prima classificazione. Che l’Autismo sia un disturbo generalizzato dello sviluppo è un fatto condiviso dalla comunità scientifica e la sua uscita dalla categoria delle psicosi infantili, non soddisfa solo un’esigenza di classificazione ma facilita, nella percezione collettiva del disturbo, una prospettiva evolutiva più favorevole. Parallelamente, sono anche leggermente cambiati i criteri diagnostici. La categoria è divenuta più omogenea, dato che i sintomi che ne fanno parte sono diminuiti da 16 a 12. Di questi, devono esserne presenti almeno sei, distribuiti fra tre aree: comunicazione, interazione sociale e patterns di comportamenti stereotipati, con minimo due di essi che indichino deficit 17 nell’interazione. La maggioranza degli studiosi è concorde nell’affermare che, in gran parte dei casi, il Disturbo Autistico (DA) è diagnosticabile all’età di 2 anni, sebbene attualmente la diagnosi venga ancora formulata ad un’età di circa 5 anni. I motivi di questo ritardo sono molteplici. Secondo Lord (1995, cit. in D’Ardia, Cerquiglini, Bernabei, 2002), il motivo per cui le anomalie nell'interazione e nella comunicazione non vengono notate precocemente è che spesso vengono compensate dall'ambiente familiare che le circonda, solo quando i bambini crescono tali anomalie risultano più evidenti. Baron-Cohen (1992, cit. in D’Ardia, Cerquiglini, Bernabei, 2002) individua tra le difficoltà di diagnosi precoce la non specifica preparazione dei pediatri nel comprendere i segni precoci e il fatto che la maggior parte dei criteri diagnostici si riferisce ad anomalie dello sviluppo della comunicazione e delle competenze sociali, difficilmente identificabili in età pre-scolare. Proprio per tale motivo Baron-Cohen cercò di superare tali difficoltà creando la Checklist for Autism Toddler (CHAT) da somministrare ai bambini di diciotto mesi con il fine di individuare quei casi a rischio per l’autismo. Ampiamente documentato da una serie di ricerche, risultano, dunque, di fondamentale importanza, sia la precocità della diagnosi sia la diagnosi differenziale con quadri simili all’autismo. Allo stato attuale, non esistono metodi di prevenzione né di cure del DA, conseguentemente formulare tempestivamente una diagnosi di Autismo permette di: 1. prevenire l’instaurarsi di una condizione di crisi genitoriale, che necessariamente segue a quel più o meno lungo periodo di preoccupazioni, dubbi e angosce durante il periodo di emergenza dei segni tipici del DA; 2. contenere le angosce e gli atteggiamenti difensivi genitoriali che vengono messi in atto consentendo, loro, un percorso di elaborazione mentale del disturbo di cui è affetto proprio il figlio; 3. programmare un intervento precoce. Una serie di ricerche ha messo in evidenza che la possibilità di organizzare in maniera adeguata tempi, spazi ed attività del bambino nella fascia di età considerata (2-4 anni), riesce ad incidere significativamente, nell’immediato, sulle potenzialità del bambino e in prospettiva sulla qualità dei suoi comportamenti adattivi, da cui dipende la qualità di vita dell’intero sistema famiglia. La diagnosi di Autismo deve essere confermata dal parere di un neuropsichiatria infantile esperto, formulata su parametri esclusivamente comportamentali in base all’osservazione diretta del soggetto; è necessario adottare, inoltre, delle scale di valutazione opportunamente elaborate sia per il “comportamento autistico” che per tutte le aree di sviluppo: competenze motorie e prassiche, livello cognitivo e linguistico, comportamento adattivo e temperamentale. Il percorso diagnostico necessita di un approccio multidisciplinare, non solo nella componente medica; affinché il contributo dei diversi specialisti possa esprimersi in maniera integrata e avere il minore impatto possibile sul bambino oggetto di indagine e sulla sua famiglia, è importante organizzare un’èquipe che faccia capo a specifico servizio di Neuropsichiatria Infantile. A conclusione dell’iter diagnostico, sarà possibile impostare e seguire il 18 soggetto autistico e la sua famiglia, mettendo in atto un programma che garantisca la responsabilità dei genitori con un intervento di stimolazione del bambino e il suo inserimento in strutture educative e sociali appropriate (Asilo Nido, Scuola Materna). L’intervento precoce pone, dunque, l’accento sull’importanza del ruolo della famiglia del soggetto con DA; l’intervento sui genitori non deve ridursi ad un generico intervento psicologico, né tantomeno essi devono essere considerati i destinatari di consigli psicoeducativi. La famiglia rappresenta un qualcosa di più complesso e articolato, assume quelle caratteristiche di “spazio privilegiato”, in cui il bambino autistico, soprattutto in epoca molto precoce, interagisce e partecipa. Pertanto, la presa in carico dei genitori, prevede un programma articolato nell’ambito del quale essi devono ricevere informazioni adeguate sulla natura del disturbo e delle varie terapie più accreditate, devono essere sostenuti nelle scelte educative del figlio e, infine, guidati nel mettere in pratica, in ambiente domestico, strategie che favoriscano l’acquisizione di repertori comportamentali utili e ridurre quelli problematici. Tutti gli spazi esperenziali del soggetto autistico acquisiscono una valenza terapeutica. L’Asilo Nido e/o la Scuola dell’Infanzia rappresentano delle opportunità per il soggetto autistico di agire ed interagire in contesti diversi dal luogo di terapia. Di particolare importanza risulta essere la presenza dei coetanei: la spontaneità che li caratterizza, la “naturalezza” del loro modo di rapportarsi e la capacità di una sintonizzazione empatica, li pongono come figure particolarmente idonee per attivare sequenze di interazione in grado di facilitare la crescita sociale del bambino autistico. Tuttavia, l’inserimento in ambiente scolastico, va intenzionalmente programmato, coinvolgendo adeguatamente gli operatori ad esso preposto. Il coinvolgimento degli operatori dell’ambiente scolastico deve avvenire ad opera degli operatori sanitari attraverso incontri periodici, nell’ambito dei quali vanno discussi una serie di aspetti generali che riguardano il bambino, le sue modalità relazionali, i suoi stili comunicativi e le caratteristiche del suo modo di rispondere alle sollecitazioni esterne, cioè dopo aver definito un “profilo educativo personalizzato” (PEI) che definisca le sue aree di forza e di debolezza; solo così sarà possibile definire gli obiettivi a breve e medio termine, tenendo conto dell’eterogeneità della sintomatologia e della sua variabilità nel corso del tempo. Pertanto, il progetto educativo va, periodicamente, analizzato mediante scale di valutazione analitiche ed esaustive, che permettano di giudicare l’idoneità degli obiettivi scelti e la validità delle strategie utilizzate. Esso va eventualmente riformulato in rapporto alle esigenze che di volta in volta si vengono a determinare. 8. LA DIAGNOSI DIFFERENZIALE DELLE PRINCIPALI FORME AUTISTICHE 19 • Il disturbo autistico Nel normale sviluppo si possono osservare periodi di regressione dello sviluppo, ma questi non sono né così gravi né così prolungati come nel Disturbo Autistico. Il Disturbo Autistico deve essere distinto dagli altri Disturbi Generalizzati dello sviluppo. Il Disturbo di Rett differisce dal Disturbo Autistico per la sua caratteristica distribuzione tra i sessi e per il tipo dei deficit. Il Disturbo di Rett è stato diagnosticato quasi esclusivamente nelle femmine, mentre il Disturbo Autistico si manifesta molto più frequentemente nei maschi. Nel Disturbo di Rett vi è una modalità caratteristica di rallentamento della crescita del cranio, la perdita di capacità manuali finalistiche già acquisite in precedenza e l’insorgenza di andatura o di movimenti del tronco scarsamente coordinati. Specie durante l’età prescolare, i soggetti con Disturbo di Rett possono mostrare difficoltà nell’interazione sociale simili a quelle osservate nel Disturbo Autistico, ma queste tendono ad, essere transitorie. Il Disturbo Autistico differisce dal Disturbo Disintegrativo della Fanciullezza, che presenta una modalità caratteristica di regressione dello sviluppo dopo almeno due anni di sviluppo normale. Nel Disturbo Autistico, le anomalie di sviluppo vengono di solito notate nel primo anno di vita. Quando non sono disponibili informazioni sullo sviluppo precoce o non è possibile documentare il periodo di sviluppo normale richiesto, si dovrebbe diagnosticare un disturbo autistico. Il Disturbo di Asperger può essere distinto dal Disturbo Autistico dalla mancanza di ritardo nello sviluppo del linguaggio. Il Disturbo di Asperger non viene diagnosticato se sono soddisfatti i criteri per il Disturbo Autistico. La Schizofrenia con esordio nella fanciullezza di solito si sviluppa dopo anni di sviluppo normale, o quasi normale. Si può fare una diagnosi aggiuntiva di Schizofrenia se un soggetto con Disturbo Autistico sviluppa le caratteristiche tipiche della Schizofrenia con sintomi della fase attiva, caratterizzati da rilevanti deliri o allucinazioni che durano per almeno un mese. Nel Mutismo Selettivo il bambino di solito mostra adeguate capacità di comunicazione in alcuni contesti e non ha la grave compromissione nell’interazione sociale e le modalità ristrette di comportamento associate col Disturbo Autistico. Nel Disturbo della Espressione del Linguaggio e nel Disturbo Misto della Espressione e della Ricezione del Linguaggio vi è una compromissione del linguaggio, ma essa non è associata con la presenza di compromissione qualitativa nell’interazione sociale e con modalità di comportamento ristrette, ripetitive, e stereotipate. Talvolta è difficile determinare se un’ulteriore diagnosi di Disturbo Autistico sia giustificata in un soggetto con Ritardo Mentale, specie se il Ritardo Mentale è Grave o Gravissimo. Una diagnosi aggiuntiva di Disturbo Autistico, è riservata a quelle situazioni in cui vi sono deficit qualitativi delle capacità sociali e di comunicazione ed i comportamenti specifici caratteristici del Disturbo Autistico. Le stereotipie motorie sono caratteristiche del Disturbo Autistico; una diagnosi aggiuntiva di Disturbo da Movimenti Stereotipati non va fatta se questi sono meglio giustificati come parte della sintomatologia del Disturbo Autistico. 20 Relazione con i criteri diagnostici per la ricerca dell’icd-10 I gruppi di criteri e gli algoritmi diagnostici del DSM-IV e dell’ICD-10 sono all’incirca gli stessi. Nell’ICD-10, questo disturbo viene riportato come Autismo Infantile. • Criteri diagnostici del Disturbo Autistico A) Un totale di sei (o più) voci da 1), 2), e 3), con almeno due da 1), e uno ciascuno da 2) e 3): 1) compromissione qualitativa dell’interazione sociale, manifestata con almeno 2 dei seguenti: a) marcata compromissione nell’uso di svariati comportamenti non verbali, come lo sguardo diretto, l’espressione mimica, le posture corporee, e i gesti che regolano l’interazione sociale; b) in soggetti con linguaggio adeguato, marcata compromissione della capacità di iniziare o sostenere una conversazione con altri; c) uso di linguaggio stereotipato e ripetitivo o linguaggio eccentrico; d) mancanza di giochi di simulazione vari e spontanei, o di giochi di imitazione sociale adeguati al livello di sviluppo; 2) Compromissione qualitativa della comunicazione come manifestato da almeno uno dei seguenti: a) ritardo o totale mancanza dello sviluppo del linguaggio parlato (non accompagnato da un tentativo di compenso attraverso modalità alternative di comunicazione come gesti o mimica); b) in soggetti con linguaggio adeguato, marcata compromissione della capacità di iniziare o sostenere una conversazione con altri; c) uso di linguaggio stereotipato e ripetitivo o linguaggio eccentrico; d) mancanza di giochi di simulazione vari e spontanei, o di giochi di imitazione sociale adeguati al livello di sviluppo; 3) Modalità di comportamento, interessi e attività ristretti, ripetitivi e stereotipati, come manifestato da almeno uno dei seguenti: a) dedizione assorbente ad uno o più tipi di interessi ristretti e stereotipati anomali o per intensità o per focalizzazione; b) sottomissione del tutto rigida ad inutili abitudini o rituali specifici; c) manierismi motori stereotipati e ripetitivi (battere o torcere le mani o il capo, o complessi movimenti di tutto il corpo); 21 d) persistente ed eccessivo interesse per parti di oggetti; B) Ritardi o funzionamento anomalo in almeno una delle seguenti aree, con esordio prima dei 3 anni di età: 1) interazione sociale 2) linguaggio usato nella comunicazione sociale 3) gioco simbolico o di immaginazione; C) L’anomalia non è meglio attribuibile al Disturbo di Rett o al Disturbo Disintegrativo della Fanciullezza. 9. IL DISTURBO DI RETT La caratteristica fondamentale del Disturbo di Rett è lo sviluppo di deficit specifici multipli successivo ad un periodo di funzionamento normale dopo la nascita. I soggetti hanno un periodo prenatale e perinatale apparentemente normale con sviluppo psicomotorio normale nei primi 5 mesi di vita. Anche la circonferenza del cranio alla nascita è nei limiti della norma. Tra i 5 e i 48 mesi di età la crescita del cranio rallenta. Vi è una perdita di capacità manuali finalistiche già acquisite in precedenza tra i 5 e i 30 mesi di età, con successivo sviluppo di caratteristici movimenti stereotipati delle mani che somigliano al torcersi o a lavarsi le mani L’interesse per l’ambiente sociale diminuisce nei primi anni dopo l’esordio del disturbo, sebbene l’interazione sociale possa spesso svilupparsi in seguito lungo il decorso. Insorgono problemi nella coordinazione dell’andatura o dei movimenti del tronco. Vi è anche una grave compromissione dello sviluppo della ricezione e dell’espressione del linguaggio, con grave ritardo psicomotorio. Il Disturbo di Rett è tipicamente associato al Ritardo Mentale Grave o Gravissimo che, se presente, dovrebbe essere codificato sull’Asse II. Non vi sono dati di laboratorio specifici associati al disturbo. Nei soggetti affetti da Disturbo di Rett può esservi un’aumentata frequenza di anomalie elettroencefalografiche e di disturbo convulsivo. Sono state riportate anomalie aspecifiche con le tecniche di visualizzazione cerebrale. I dati sono limitati per lo più a serie di casi e sembra che il Disturbo di Rett sia molto meno comune del Disturbo Autistico. Questo disturbo è stato riportato soprattutto nelle femmine. Relazione con i criteri diagnostici per la ricerca dell’icd-10 22 I gruppi di item e gli algoritmi diagnostici del DSM-IV e dell’ICD-10 sono all’incirca gli stessi. Nell’ICD-10 questo disturbo viene riportato come Sindrome di Rett. • Criteri diagnostici del Disturbo di Rett A) Tutti i seguenti: 1) sviluppo prenatale e perinatale apparentemente normale; 2) sviluppo psicomotorio apparentemente normale nei primi 5 mesi dopo la nascita; 3) circonferenza del cranio normale al momento della nascita; B) Esordio di tutti i seguenti dopo il periodo di sviluppo normale: 1) rallentamento della crescita del cranio tra i 5 e i 48 mesi; 2) perdita di capacità manuali finalistiche acquisite in precedenza tra i 5 e i 30 mesi con successivo sviluppo di movimenti stereotipati delle mani (per es., torcersi o lavarsi le mani); 3) perdita precoce dell’interesse sociale lungo il decorso (sebbene l’interazione sociale si sviluppi spesso in seguito); 4) insorgenza di andatura o movimenti del tronco scarsamente coordinati; 5) sviluppo della ricezione e dell’espressione del linguaggio gravemente compromesso con grave ritardo psicomotorio. 10. IL DISTURBO DISINTEGRATIVO DELLA FANCIULLEZZA La manifestazione fondamentale del Disturbo Disintegrativo della Fanciullezza è una marcata regressione in diverse aree del funzionamento dopo un periodo di almeno 2 anni di sviluppo apparentemente normale. Uno sviluppo apparentemente normale è rispecchiato da una comunicazione verbale e non verbale, relazioni sociali, gioco e comportamento adattivo adeguati all’età. Dopo i primi 2 anni di vita (ma prima dei 10 anni) il bambino va incontro ad una perdita clinicamente significativa di capacità di prestazione acquisite in precedenza in almeno due delle seguenti aree: espressione o ricezione del linguaggio, capacità sociali o comportamento adattivo, controllo della defecazione o della minzione, gioco o capacità motorie. I soggetti con questo disturbo mostrano i deficit sociali e di comunicazione e le caratteristiche comportamentali che solitamente si osservano nel Disturbo Autistico. Vi è una compromissione qualitativa dell’interazione sociale e della comunicazione e modalità di comportamento, interessi e attività ristretti, ripetitivi e stereotipati. L’anomalia non è meglio attribuibile ad un altro specifico Disturbo Generalizzato dello Sviluppo o alla Schizofrenia. Il Disturbo Disintegrativo della Fanciullezza è di solito associato al Ritardo Mentale Grave, che, se presente, dovrebbe essere codificato sull’Asse II. Si possono rilevare diversi sintomi o segni neurologici aspecifici. Sembra esservi un’aumentata frequenza di anomalie grafiche e di disturbo convulsivo. Sebbene sembri probabile che questa 23 condizione sia il risultato di una qualche lesione del sistema nervoso centrale in corso di sviluppo, non è stato identificato alcun meccanismo preciso. La condizione si osserva talvolta in associazione con una condizione medica generale (per es., leucodistrofia metacromatica, malattia di Schilder) che potrebbe spiegare la regressione dello sviluppo. Nella maggior parte dei casi, comunque, accertamenti accurati non rivelano tale condizione. Se una condizione neurologica o un’altra condizione medica generale sono associate con il disturbo, si dovrebbe codificarle sull’Asse III. I dati epidemiologici sono limitati, ma il Disturbo Disintegrativo della Fanciullezza sembra essere molto raro e molto meno comune del Disturbo Autistico. Sebbene studi preliminari suggerissero un’eguale distribuzione tra i sessi, i dati più recenti indicano che la condizione è più comune tra i maschi. Per definizione, il Disturbo Disintegrativo della Fanciullezza può essere diagnosticato solo se i sintomi sono preceduti da un periodo di almeno 2 anni di sviluppo normale e se l’esordio è prima dei 10 anni di età. Quando il periodo di sviluppo normale è stato abbastanza prolungato (5 o più anni), è particolarmente importante eseguire un esame obiettivo e un esame neurologico completo per valutare la presenza di una condizione medica generale. Nella maggior parte dei casi l’esordio è tra i 3 e i 4 anni, e può essere insidioso o improvviso. I segni premonitori possono includere aumentati livelli di attività, irritabilità e ansia, seguiti da una perdita del linguaggio e delle altre capacità di prestazione. Di solito la perdita delle capacità di prestazione raggiunge un plateau, dopo di che possono manifestarsi alcuni limitati miglioramenti, sebbene il miglioramento sia di rado rilevante. In altri casi, specie quando il disturbo è associato con una condizione neurologica progressiva, la perdita delle capacità di prestazione è progressiva. Questo disturbo ha un decorso continuo e, nella maggior parte dei casi, permane per tutta la vita. Le difficoltà sociali, di comunicazione e comportamentali rimangono relativamente costanti nel corso della vita. Durante lo sviluppo normale si possono osservare periodi di regressione, ma non sono né così gravi né così prolungati come nel Disturbo Disintegrativo della Fanciullezza. Il Disturbo Disintegrativo della Fanciullezza deve essere distinto dagli altri Disturbi Generalizzati dello Sviluppo. Contrariamente al Disturbo di Asperger, il Disturbo Disintegrativo della Fanciullezza è caratterizzato da una perdita clinicamente significativa di capacità prestazionali acquisite in precedenza e da una maggiore probabilità di Ritardo Mentale. Nel Disturbo di Asperger non vi è ritardo nello sviluppo del linguaggio e non vi è marcata perdita delle capacità intellettive. Il Disturbo Disintegrativo della Fanciullezza deve essere differenziato da una demenza con esordio durante l’infanzia o la fanciullezza. La demenza si manifesta come conseguenza degli effetti fisiologici diretti di una condizione medica generale (per es., un trauma cranico), mentre il Disturbo Disintegrativo della Fanciullezza si manifesta tipicamente in assenza di una condizione medica generale associata. Relazione con i criteri diagnostici per la ricerca dell’icd-10 24 I gruppi di criteri e gli algoritmi diagnostici del DSM-IV e dell’ICD-10 sono identici tranne che per il Criterio C, in cui l’ICD-10 tiene conto anche di una generale perdita di interesse per gli oggetti e per l’ambiente. Nell’ICD-lO, il disturbo viene riportato come Sindrome Disintegrativa dell’Infanzia di Altro Tipo. • Criteri diagnostici del Disturbo Disintegrativo della Fanciullezza A) Sviluppo apparentemente normale per almeno i primi 2 anni dopo la nascita, come manifestato dalla presenza di comunicazione verbale e non verbale, relazioni sociali, gioco e comportamento adattivo adeguati all’età. B) Perdita clinicamente significativa di capacità di prestazione già acquisite in precedenza (prima dei 10 anni) in almeno due delle seguenti aree: 1) espressione o ricezione del linguaggio; 2) capacità sociali o comportamento adattivo; 3) controllo della defecazione o della minzione; 4) gioco; 5) abilità motorie; C) Anomalie del funzionamento in almeno due delle seguenti aree: 1) compromissione qualitativa dell’interazione sociale (per es., compromissione dei comportamenti non verbali, incapacità di sviluppare relazioni con i coetanei, mancanza di reciprocità sociale o emotiva); 2) compromissioni qualitative della comunicazione (per es., ritardo o mancanza del linguaggio parlato, incapacità di iniziare o di sostenere una conversazione, uso stereotipato e ripetitivo del linguaggio, mancanza di giochi vari di imitazione); 3) modalità di comportamento, interessi e attività ristretti, ripetitivi e stereotipati, incluse stereotipie motorie e mani; D) L’anomalia non è meglio attribuibile ad un altro specifico Disturbo Generalizzato dello Sviluppo o alla Schizofrenia. 11. IL DISTURBO DI ASPERGER Le caratteristiche principali del Disturbo di Asperger sono una grave e perdurante compromissione dell’interazione sociale. L’anomalia deve causare una compromissione clinicamente significativa nell’area sociale, lavorativa, o in altre aree 25 importanti del funzionamento. Contrariamente al Disturbo Autistico, non vi sono ritardi clinicamente significativi del linguaggio (per es., singole parole sono usate all’età di 2 anni, frasi comunicative sono usate all’età di 3 anni). Inoltre, non vi sono ritardi clinicamente significativi nello sviluppo cognitivo o nello sviluppo di capacità di autoaccudimento adeguate all’età, nel comportamento adattivo (tranne che nell’interazione sociale), e nella curiosità riguardo all’ambiente nella fanciullezza. La diagnosi non viene fatta se sono soddisfatti i criteri per un altro specifico Disturbo Generalizzato dello Sviluppo o per la Schizofrenia. Il Disturbo di Asperger si osserva talvolta in associazione con condizioni mediche generali che andrebbero codificate sull’Asse III. Si possono rilevare diversi sintomi e segni neurologici aspecifici. Le tappe fondamentali dello sviluppo motorio possono essere ritardate, e si osserva spesso una goffaggine motoria. Le informazioni sulla prevalenza del Disturbo di Asperger sono limitate, ma sembra che esso sia più comune tra i maschi. Il Disturbo di Asperger sembra avere un esordio piuttosto tardivo rispetto al Disturbo Autistico, o per lo meno sembra che venga diagnosticato piuttosto tardivamente. I ritardi o la goffaggine motoria possono essere rilevati nel periodo prescolare. Le difficoltà nell’interazione sociale possono diventare più evidenti nel contesto scolastico. È durante questo periodo che interessi particolarmente bizzarri o circoscritti (per es., un’attenzione affascinata per gli orari dei treni) possono apparire o essere riconosciuti come tali. Da adulti, i soggetti con questa condizione possono avere problemi di empatia e di modulazione dell’interazione sociale. Questo disturbo segue apparentemente un decorso continuo e, nella stragrande maggioranza dei casi, dura per tutta la vita. Sebbene i dati disponibili siano limitati, sembra esservi un’aumentata frequenza di Disturbo di Asperger tra i membri della famiglia di soggetti affetti da questo disturbo. Il Disturbo di Asperger non viene diagnosticato se risultano soddisfatti i criteri per un altro Disturbo Generalizzato dello Sviluppo o per la Schizofrenia. Il Disturbo di Asperger deve anche essere distinto dal Disturbo Ossessivo-Compulsivo e dal Disturbo Schizoide di Personalità. Il Disturbo di Asperger e il Disturbo Ossessivo Compulsivo condividono modalità ripetitive e stereotipate di comportamento. Contrariamente al Disturbo Ossessivo-Compulsivo, il Disturbo di Asperger è caratterizzato da una compromissione qualitativa dell’interazione sociale e da un tipo più ristretto di interessi e attività. Contrariamente al Disturbo Schizoide di Personalità, il Disturbo di Asperger è caratterizzato da comportamenti e interessi stereotipati e da un’interazione sociale più gravemente compromessa. Relazione con i criteri diagnostici per la ricerca dell’icd-10 26 I gruppi di criteri e gli algoritmi diagnostici del DSM-IV e dell’ICD-10 sono quasi gli stessi. Nell’ICD-10, questo disturbo viene riportato come Sindrome di Asperger. • Criteri diagnostici del Disturbo di Asperger A) Compromissione qualitativa nell’interazione sociale, come manifestato da almeno due dei seguenti: 1) marcata compromissione nell’uso di diversi comportamenti non verbali come lo sguardo diretto, l’espressione mimica, le posture corporee e i gesti che regolano l’interazione sociale; 2) incapacità di sviluppare relazioni con i coetanei adeguate al livello di sviluppo; 3) mancanza di ricerca spontanea della condivisione di gioie, interessi o obiettivi con altre persone (per es., non mostrare, portare o richiamare l’attenzione di altre persone su oggetti di proprio interesse); 4) mancanza di reciprocità sociale o emotiva. B) Modalità di comportamento, interessi, e attività ristretti ripetitivi e stereotipati, come manifestato da almeno uno dei seguenti: 1) dedizione assorbente ad uno o più tipi di interessi stereotipati e ristretti, che risultano anomali o per intensità o per focalizzazione; 2) sottomissione del tutto rigida ad inutili abitudini o rituali specifici; 3) manierismi motori stereotipati e ripetitivi (per es., sbattere o torcere le mani o le dita o movimenti complessi di tutto il corpo); 4) persistente eccessivo interesse per parti di oggetti. C) L’anomalia causa compromissione clinicamente significativa dell’area sociale, lavorativa o di altre aree importanti del funzionamento. D) Non vi è un ritardo del linguaggio clinicamente significativo (per es., all’età di 2 anni sono usate parole singole, all’età di 3 anni sono usate frasi comunicative). E) Non vi è un ritardo clinicamente significativo dello sviluppo cognitivo o dello sviluppo di capacità di autoaccudimento adeguate all’età, del comportamento adattivo (tranne che dell’interazione sociale) e della curiosità per l’ambiente nella fanciullezza. 27 F) Non risultano soddisfatti i criteri per un altro specifico Disturbo Generalizzato dello Sviluppo o per la Schizofrenia. Il prof. Christopher Gillberg, dopo aver studiato approfonditamente la sindrome di Asperger, ha elaborato 6 criteri per la diagnosi, basati su quelli del DSM IV. I sei criteri diagnostici di Gillberg 1) Deficit sociale con estremo egocentrismo, che può includere: a) Incapacità ad interagire con i coetanei b) Mancanza del desiderio di interagire con i coetanei c) Bassa comprensione delle regole sociali d) Risposte socialmente ed emotivamente inappropriate. 2) Interessi e preoccupazioni limitati: a) Memorizzazione invece che significato b) Relativa esclusione di altri interessi c) Aderenza ripetitiva. 3) Routine e rituali ripetitivi 4) Linguaggio e discorso particolare come: a) Possibile ma non evidente ritardo nello sviluppo precoce b) Linguaggio espressivo perfetto alla superficie c) Insolita prosodia, caratteristiche particolari di voce d) Deficit di comprensione che include un errato riconoscimento del significato letterale e implicito. 5) Problemi di comunicazione non-verbale, come: a) Limitato uso della gestualità b) Linguaggio del corpo maldestro c) Espressioni facciali limitate e inappropriate d) Tipico sguardo fisso, ‘irrigidito’ e) Difficoltà nel regolare la vicinanza fisica. 6) Goffagine motoria (non necessariamente presente in tutti i casi). 12. SVILUPPO NON ALTRIMENTI SPECIFICATO 28 (incluso l’Autismo Atipico testo del DSM IV) Questa categoria, dovrebbe essere usata quando vi è una grave e generalizzata compromissione dello sviluppo dell’interazione sociale reciproca o delle capacità di comunicazione verbale e non verbale, o quando sono presenti comportamenti, interessi o attività stereotipate, ma non risultano soddisfatti i criteri per uno specifico Disturbo Generalizzato dello Sviluppo, la Schizofrenia, il Disturbo Schizotipico di Personalità o il Disturbo di Evitamento di Personalità. Per es., questa categoria include l’autismo atipico, quadri che non soddisfano i criteri per il Disturbo Autistico per l’età tardiva d’insorgenza, la sintomatologia atipica o subliminare, o per tutti questi motivi insieme. 13. L’AUTISMO E LE RELAZIONI INTERPERSONALI a cura di dr.ssa Angelina Giaquinta. Ho passato gran parte della mia vita da sola nella mia stanza ed ero felice quando la porta era chiusa e restavo da sola. Non ricordo di essermi mai chiesta dove fossero mio padre, mia madre, mio fratello e mia sorella. Non mi interessavano. Penso che fosse così perché non avevo capito che erano persone e che le persone sono più importanti degli oggetti. Mi mettevo, e lo faccio ancora, un grande lenzuolo scuro sulla testa. Questo desiderio aumenta quando sono con estranei e in un ambiente non familiare. Farlo mi fa sentire molto più al sicuro. (Therese Joliffe). L’isolamento intellettuale dell’autistico. La parola “autismo” continua a generare confusione perché, nonostante i progressi fatti in campo scientifico, a cui si devono tutte le nuove conoscenze sul funzionamento dei soggetti autistici, molti continuano ad associare la sindrome a un 29 unico sintomo: l’isolamento. Se si legge attualmente la definizione di autismo, tuttavia si arriverà alla conclusione che l’isolamento è una caratteristica possibile, ma non necessariamente essenziale (Peeters, 1996). L’interesse di autorevoli studiosi si è rivolto nel corso degli ultimi anni all’analisi della natura dell’isolamento autistico (Leslie, Baron-Coehn, Frith). I risultati ottenuti concordano tutti nel sostenere che, l’isolamento degli autistici non è un isolamento socio-emotivo, ma piuttosto un isolamento intellettuale. Inizialmente, sembrava che il problema sottostante al comportamento verso gli altri potesse essere descritto meglio come un rifiuto o un evitamento di contatti sociali. Gli esperimenti condotti da Beate Harmeline e Neil O’Connor (cit. in Peeters, 1996) per indagare il grado di evitamento sociale nei bambini autistici, misero però in discussione la tesi dell’isolamento sociale: non fu registrata nessuna differenza statisticamente significativa tra bambini normali e bambini autistici, messi in condizione di poter scegliere tra stimoli sociali e non. In uno studio dove veniva misurata la distanza fisica tra il bambino e un gruppo di stimoli di natura sociale (persona e bambola) e non (piattaforma oscillante, coperta), posti in fondo ad una stanza molto grande, i bambini autistici al pari di quelli normali passarono molto più tempo con gli stimoli sociali. Dunque, a differenza di quanto era stato fatti negli anni passati, sulla base di grossolane misure di evitamento non era possibile affermare che i bambini autistici evitano gli stimolo sociali. Anche gli studi condotti sull’evitamento dello sguardo (Harmeline e O’Connor) sono a favore della forte componente intellettiva e non emotiva dell’isolamento nell’autismo. Qualunque sia la causa, l’incapacità di usare il linguaggio degli occhi non ha niente a che fare con l’evitamento del contatto umano e neppure con una mancanza di consapevolezza delle altre persone (Frith, 1996). Il problema è da ricercare piuttosto in un deficit della consapevolezza delle altri menti. Nei primi anni di vita, nel periodo che va dai tre ai cinque anni, l’isolamento nel bambino autistico si evidenzia in maniera molto greve, e può essere ben rappresentato dalle preoccupazioni espresse dai genitori:« pur trovandosi con più di 20 bambini 30 della sua stessa età, se messo in un angolo del salone, ci rimane fino a quando l’insegnante non lo smuove», « non ha mai dato un’occhiata alla sorellina da quando è nata», «dopo un mese, il papà è rientrato da un lungo viaggio, ma lui non ha mostrato nessuno interesse, ha continuato a guardare la televisione». Tale mancanza di riposte emozionali adeguate risulta molto frustrante per i familiari dei piccoli bambini autistici, in quanto inevitabilmente viene ricondotta ad una mancanza totale di affetto. Dopo i cinque anni si assiste a un certo miglioramento delle abilità sociali, soprattutto nei bambini autistici che non presentano gravi ritardi cognitivi. Lo sviluppo della socializzazione nella fanciullezza procede infatti molto velocemente, pur contraddistinguendosi per alcune “bizzarrie” legate alle difficoltà dei bambini autistici di apprendere “in modo appropriato” come ci si deve comportare con gli altri. Hans Hasperger (1944) affermò che i bambini normali acquisiscono le abilità sociali senza esserne consapevoli coscientemente perché imparano tutto per istinto. Nelle persone con autismo “l’adattamento sociale deve procedere invece attraverso l’intelletto”. “Le interazioni sociali che sono normali per la maggior parte delle persone, possono spaventare le persone autistiche. Da bambina, ero come un animale privo di istinti che lo guidassero; dovetti imparare per prove ed errori. [...] Io non so leggere i sottili indizi emozionali. Ho dovuto imparare per prove ed errori cosa significano certi gesti e certe espressioni facciali. [...] Nel corso del tempo ho accumulato una formidabile biblioteca di ricordi di esperienze, programmi televisivi, film visti al cinema e letture sufficiente a risparmiarmi gli imbarazzi sociali che l’autismo causa e utilizzo queste informazioni per 31 orientare il processo decisionale in maniera assolutamente logica. In passato le mie decisioni logiche erano sbagliate perché si basavano su dati insufficienti. Oggi sono molto migliori perché la mia memoria contiene più informazioni. [...] Ora che ho 47 anni, dispongo di una ricca banca dati, ma ci sono voluti anni per costruire la mia biblioteca di esperienze e per imparare a comportarmi in maniera appropriata. (Temple Grandin). Molte sono le persone autistiche a sostenere che l’apprendimento delle abilità sociali nell’autismo procede in modo sistematico, al pari dell’apprendimento di una lezione a scuola. Jim, ragazzo di 27 anni autistico ad alto funzionamento, sostiene che le persone con autismo sono prive degli istinti di base che rendono la comunicazione un processo naturale; e ancora, Donna Williams descrive come copiava le emozioni in modo da comportarsi naturalmente, ma si trattava di un processo puramente meccanico, come recuperare file da un computer (cit. in Grandin, 2003). Lo sviluppo delle prime interazioni sociali a confronto tra bambini normali e bambini autistici. Per capire le caratteristiche fondamentali dello sviluppo sociale del bambino autistico, bisogna considerare il processo di sviluppo sociale del bambino normale (tab. 1.)3 I bambini normali vengono al mondo con la motivazione e la capacità per cominciare a stabilire un’immediata relazione sociale con le persone predisposte alla loro cura, prime fra tutte la mamma. 3 revisione di uno studio comparativo effettuato Sauvage (1992) e da Gillberg e Peeters (1995), che mette a confronto lo sviluppo normale e lo sviluppo di “segni” di autismo nei primi 5 anni di vita . 32 Il contatto degli sguardi e le reazioni all’espressione del viso, segnali eminentemente visivi, si collegano in un complesso ma infallibile processo di coordinazione all’attivazione del tono muscolare, a emozioni, a vocalizzi, e mobilitano quindi un’integrazione di più canali e sistemi sensoriali. E’ questo il periodo dell’intersoggettività - in cui compaiono attenzione congiunta, i correlati comportamentali emozione congiunta e intenzione congiunta - definita come la costruzione di significati emotivi socialmente condivisi, che da questo momento si evolvono senza mai più abbandonarci per il resto della nostra vita. Bambino, mamma o papà, e oggetti del mondo si combinano in un rapporto stretto di eventi, emozioni, bisogni soddisfatti, azioni compiute. I gesti e i suoni imitati dal bambino, e imitati a loro volta dai genitori, andranno lentamente a combinarsi con gli schemi già pronti per il linguaggio. La parola non farà altro che completare questo insieme di abilità ed eventi già presenti e praticati, rendendo la comunicazione più veloce e diretta. tab. 1Età autismo Sviluppo normale INTERAZIONE SOCIALE 0-1 anno Sviluppo con “segni” di INTERAZIONE SOCIALE Poco attivo ed esigente, qualcuno è Gira la testa e gli occhi in molto irritabile direzione di un suono Scarso contatto oculare, indifferenza Tende le braccia per essere preso al mondo sonoro Sorride agli angeli (2 mesi) Ricomincia un comportamento Non aggiusta la propria posizione quando l’adulto lo imita (6 mesi) nelle braccia della madre Differenzia i familiari dagli Assenza di reazioni anticipatorie sconosciuti; gioca con l’adulto a dare e prendere oggetti, fa il gioco del cucù, fa “ciao” con la mano, piange e orienta il suo corpo in direzione della madre quando se ne va (8 mesi) Sempre più Difficile da calmare se piange Molti bambini mostrano indifferenza, alcuni accettano che ci si occupi di loro, ma non prendono alcuna iniziativa Diminuzione della “socialità” quando frequentemente il bambino comincia a gattonare e 33 prende l’iniziativa del gioco camminare Aumento del contatto visivo con Indifferenza alle separazioni gli adulti mentre il bambino si intrattiene con i suoi giochi (12 mesi) 1-2 anni Gioco parallelo Distingue in genere i familiari dagli Inizio del gioco con i pari, di altri, ma esprime poco affetto breve durata, in genere più di Indifferente agli adulti non familiari tipo fisico Comportamenti di isolamento Presenza, a volte, di paure intense 3 anni Impara a condividere rispettare il turno e a Non accetta gli altri bambini Eccessiva irritabilità Litigi con i bambini della stessa Incapace di comprendere le punizioni età Ama fare cose che fanno ridere gli altri Vuole “far genitori piacere” ai suoi 4 anni Giochi di imitazione e sociali con Non comprende le regole nel gioco scambio di ruoli con gli altri Ha compagni preferiti, scarta verbalmente e a volte fisicamente i bambini con cui vuole giocare 5 anni Più interessato ai coetanei che Più orientato verso gli adulti che agli adulti verso i coetanei Molto frequenti i litigi e gli insulti A volte un po’ più socievole, ma le Sta a turno nel ruolo di chi interazioni sono bizzarre, a senso unico obbedisce o di chi chiede L’ attaccamento ai genitori si sviluppa durante il primo anno di vita, si consolida e diventa fonte di grandi emozioni, rivelandosi condizione fondamentale per il più ricco degli apprendimenti e, quindi, base sicura dalla quale partire per l’esplorazione del mondo. Prendendo ad esempio la coppia madre-bambino naturalmente 1’attenzione della mamma è orientata a ogni movimento e reazione fisica del bambino, verso il quale ha una cura assoluta. Quando il bambino inizia a scrutare il viso della mamma, a 34 sorridere, a rispondere al sorriso, assistiamo a un processo somigliante a una spirale: la mamma risponde al bambino; la mamma risponde ancora modificando un po’ la risposta del bambino (Xaiz Micheli?)?. Le novità introdotte dalla mamma, adattate al livello di sviluppo, alle abitudini e al temperamento del bambino, verranno accolte da lui con entusiasmo, tanto che le richiederà ancora e le accoglierà con sorrisi e vocalizzi. Quelle che, invece, risulteranno al bambino incomprensibili o fastidiose, verranno ignorate o respinte con il gesto precoce di distogliere lo sguardo e di girare il capo. In questo modo, la mamma comincerà a capire sempre di più il bambino, a codificare i suoi bisogni di cura fisica e a sintonizzarsi sulle sue preferenze relativamente alla quantità e al tipo di stimoli sociali amati e tollerati. Senza accorgersene, prenderà il ritmo congeniale al bambino per quanto riguarda la quantità di ripetizioni del medesimo gioco di cui egli ha bisogno e le variazioni del gioco stesso. Dopo questo gioco a due, la mamma introdurrà via via altri oggetti; il bambino dimostrerà rapidamente di poter guardare 1’oggetto, poi la mamma, poi di nuovo 1’oggetto; la mamma risponderà appagata, aggiungendo un qualche spunto sonoro a questi giochi di sguardi. Presto il bambino indicherà con il dito, porterà degli altri oggetti per mostrarle quanto sono belli e per ottenere dalla mamma la stessa risposta deliziata che, nel frattempo, è divenuta sempre più complessa, articolata in parole. La maggior parte di quello che succede all’interno delle loro attività relazionali, viene inteso da mamma e bambino senza equivoci, prima con gli sguardi, poi con i gesti, poi con le parole. La dotazione genetica, che permette al bambino di ricevere indicazioni sull’ oggetto di cui la mamma sta parlando, fa sì che egli possa rapidamente ricevere e comprendere gli elementi fondamentali dei messaggi, prima per ottenere informazioni e divertimento, poi per adeguarsi a regole e richieste. Il compito di regolare il comportamento del figlio, per renderlo socialmente accettabile e utile, è una vera fatica destinata ad aumentare con la crescita del bambino, il cui esito positivo è possibile perché tale processo affonda le sue radici in un tessuto comune che viene costruito fin dai primi mesi di vita su abilità innate tanto 35 nel bambino quanto nei genitori. Tale processo si completa durante tutto il tempo in cui il bambino, pur imponendosi con 1’espressione dei suoi bisogni e 1’impellenza delle sue necessità, è ancora un “esserino” totalmente dipendente dai grandi. Quando un bambino è colpito da autismo o da altre forme di disturbo generalizzato dello sviluppo, i comportamenti che insieme costituiscono l’intersoggetività sia primaria che secondaria possono non comparire, o comparire in ritardo o in forma deviata. Essi possono inoltre risultare ancora più difficili in presenza di disturbi sensoriali o motori gravi, e svilupparsi lentamente in caso di ritardo mentale. E’ poi importante rilevare che nell’autismo e nei disturbi simili tali comportamenti non funzionano mai come motivazione intrinseca. Essi non vengono cioè cercati per il piacere che danno e, a loro volta, non suscitano motivazione a fare qualcosa per ottenere o per suscitare negli altri espressioni di emozioni positive o di fastidio, lodi o rimproveri. Il bambino in difficoltà non matura quindi una motivazione sociale; di conseguenza, essa non può svolgere 1’essenziale funzione di stimolare altre esperienze e l’acquisizione di abilità sociali superiori. La mancanza di motivazione sociale riduce anche 1’esercizio o 1’apprendimento di altre abilità necessarie che di per sé non hanno natura sociale, come quelle motorie, cognitive o di autonomia. Tutto ciò rende molto difficile vivere con un bambino autistico e insegnargli ciò che a sua volta è necessario per vivere. 14.“TEORIA DELLA MENTE” E’ stata proprio una caratteristica sociale, quale l’isolamento sociale, a spingere Leo Kanner a chiamare autistici gli 11 bambini che per lunghi anni furono oggetto dei suoi studi. Un aspetto delle difficoltà che gli autistici hanno con le interazioni sociali è ben spiegato nell’ipotesi della “Teoria della mente” della psicologa inglese Uta Frith e dei suoi collaboratori. Nel descrivere la teoria della mente la Frith presenta un dipinto rappresentante la scena di un baro (fig. 1). Il dipinto rappresenta delle persone che giocano a carte. Tre 36 sono sedute al tavolo da gioco, si tratta di due uomini e di una donna. La donna è in piedi e tiene un bicchiere in mano. Questa prima analisi del quadro, pur essendo precisa e dettagliata non lascia trasparire il palese inganno che si sta verificando davanti ai nostri occhi. Siamo di fronte ad una cospirazione. Si sta tramando un inganno, perché i personaggi “parlano in modo eloquente con gli occhi e con le mani” (Frith, 1996). Le due donne guardano curiosamente di traverso verso il giocatore di sinistra. La donna seduta al tavolo da gioco indica il compagno seduto alla sua destra pure con l’indice della mano destra. Il giocatore di sinistra tiene due carte nascoste nella mano sinistra, nascosta dietro la schiena. Il quarto uomo pensieroso, ignaro di quello che sta accadendo, guarda in basso le sue carte. Colti questi dettagli, solo facendo delle inferenze riguardo ciò che i personaggi vedono, sanno e credono possiamo dedurre l’intenzione del pittore di voler fig. 1. Ripreso da H. De Clercq, “Mum, is that a human being or an animal?”, Lucky Duck Publishing Ltd, 2003 rappresentare una situazione di baro. Ma come arriviamo a capire queste sue intenzioni con assoluta certezza? Leggendo il comportamento e facendo ipotesi su ciò che le persone stanno pensando, sentendo e pianificando. In altre parole, utilizzando una “Teoria della mente” che faccia da interprete alle emozioni e alle intenzioni nascoste, ma sottostanti al comportamento e alle espressioni. Gli autistici hanno difficoltà a “leggere” emozioni, intenzioni e pensieri; sono mentalmente e socialmente "ciechi" perché non dispongono di una “teoria della mente”: un’azione per loro è solo un’azione, che non cela nessun significato. La mente del bambino autistico sarebbe, in altre parole, comportamentista, capace cioè di comprendere l’azione dell’altro solo nel suo senso manifesto, raramente in quello implicito e sotteso. Questo è quello che è emerso da uno studio, condotto da BaronCohen, Lesile e Frith (cit. in Frith, 1996), nel quale veniva chiesto a un gruppo di bambini di ordinare delle storie figurate (fig. 2). L’obiettivo dei ricercatori era quello 37 i determinare, in base all’ordine delle figure, la comprensione della storiella da parte dei bambini. fig. 2. Tre storie figurate (tratta da “Autismo. Spiegazione di un enigma, Frith, 1995, pag 204) Tutti i bambini autistici comprendevano perfettamente la storia meccanicistica, “il pallone è scoppiato perchè è stato forato dal ramo” o “ l’albero ha forato il pallone”. Tutti i bambini autistici comprendevano perfettamente la storia comportamentale: “una ragazza va in un negozio a comprare dei dolci, paga il venditore e porta con sé i dolci”. Non era così, invece, per le storielle mentalistiche. La maggior parte dei bambini autistici, pur dotati, non le comprendeva affatto. Una storiella mentalistica ha senso in quanto tale solo se al protagonista è attribuito uno stato della mente, ad esempio, “un ragazzo mette un cioccolatino dentro una scatola e poi va a giocare. Mentre è fuori (la logica della mentalizzazione ragiona: senza che il ragazzo lo sappia), la madre mangia il cioccolatino. Quando ritorna, il ragazzo è sorpreso di trovare la scatola vuota (la logica della mentalizzazione ragiona: credeva che il suo cioccolatino fosse ancora nella scatola)”. I bambini normali e con sindrome di Down, anche di età mentale inferiore al gruppo dei bambini autistici, comprendevano tutte e tre le storielle. Tali risultati evidenziano che i bambini autistici possono essere bravi “fisici” e ottimi “comportamentisti”, ma cattivi “psicologi”. Come chiarisce bene la Frith (1996), tutti noi per comprendere l’interlocutore, il genitore o il compagno, non ci fermiamo all’evidenza, al comportamento manifesto, ma andiamo al di là, cercando di entrare nella mente dell’altro, leggendo tra le righe delle sue azioni per arrivare a comprendere le intenzioni che vi stanno dietro. Una mente che legge la mente dell’altro non adotta una griglia comportamentista, ma segue una prospettiva “mentalistica”: si basa sulle idee che si è gradualmente formata sui processi mentali, su cosa sono i pensieri, le immagini o le emozioni. 38 Può sembrare che gli autistici siano indifferenti alle persone che li circondano, ma non è per “egocentrismo”, è piuttosto un problema di rigidità cognitiva verso tutto ciò che è “metafisico”. Ricordo che dopo una giornata particolarmente difficile, portai Thomas nella mia stanza in modo che gli altri bambini potessero almeno fare i compiti in pace. Era tutto veramente troppo difficile per me e scoppiai in lacrime. Allora vidi il piccolo Thomas gattonare verso di me. Pensai che volesse consolarmi e per la felicità cominciai a piangere ancora di più. Poi mise le dita sugli occhi e cominciò a ridere. Era il luccichio delle lacrime che lo affascinava. (Hilde De Clercq) • Teoria della mente e test. Un test che voglia appurare l’esistenza di stati mentali nel bambino piccolo deve necessariamente utilizzare situazioni in cui si verifica un evento di cui qualcun altro non ne è a conoscenza. ??Questo evento però non deve far parte dello stato mentale del bambino che non sa, perchè se capace di mentalizzare, automaticamente inferirà l’evento. Il metodo elaborato da Heinz Wimmer e Josef Perner (1989, cit. Camaioni, 1995) rappresenta un buon punto di partenza per accertare la presenza di una buona teoria della mente nei bambini piccoli. L’esperimento, illustrato in fig. 3, consiste nel mimo di due bambole: Sally e Anna. Sally ha un cestino e Anna ha una scatola . Sally ha una biglia e la mette nel suo cestino. Sally esce dalla stanza. Durante la sua assenza, Anna tira fuori la biglia di Sally dal cestino e la mette nella sua scatola. Sally torna nella stanza e vuole giocare con la sua biglia. 39 Alla domanda:« Dove andrà Sally a cercare la biglia?» cosa rispondono i bambini? Naturalmente la risposta corretta è «nel cestino». Sally cerca la biglia nel posto dove l’ha lasciata, perché non era presente quando Anna l’ha spostata. Sally crede che la biglia sia ancora dove l’ha messa. Indicando il cesto, i bambini tengono conto della falsa credenza che Sally possiede sulla collocazione della pallina. Indicando la scatola i bambini dimostrano di basare la loro risposta sullo stato di fatto, il luogo dove si trova la pallina al momento della domanda. Il campione comprendeva tre gruppi di bambini: bambini di 4 anni, che ai test cognitivi rientravano nel range di normalità nella fascia media, bambini autistici di 11 anni che presentavano differenze statisticamente significative tra Q.I. verbale (ritardo moderato al Britisch Picture Vocabulary) e Q.I. di performance (intelligenza di tipo medio alla Scala Leiter) e bambini di 10 anni affetti da sindrome di Down che presentavano ritardo moderato in entrambe le prove verbali (Britisch Picture Vocabulary) e di performance (Scala Leiter). La maggior parte dei bambini non autistici (normali e con sindrome di down) ha dato la risposta corretta, indicando il cestino. Al contrario, tutti i bambini autistici, eccetto pochi (solo 4 su 20), hanno dato la risposta sbagliata, indicando la scatola, il posto dove si trovava realmente la biglia. I bambini autistici nel rispondere non hanno tenuto conto della credenza di Sally, del fatto che lei non sapeva che la biglia fosse lì. L’incapacità dei bambini autistici di comprendere la credenza di Sally è significativa perché di fatto essi avevano un’età mentale superiore a quella degli altri bambini. Dal punto di vista intellettivo erano capaci di risolvere molti problemi logici, ma non riuscivano a risolvere il problema apparentemente semplice presentato nel test. L’inferire che , se Sally non aveva visto che la biglia era stata spostata nella scatola, allora doveva credere che fosse ancora nel cestino, era alla base delle difficoltà dei bambini autistici per la risoluzione del problema. fig. 3. L’esperimento di Sally e Anna elaborato da Heinz Wimmer e Josef Perner (1989) 40 Un altro strumento, impiegato in molti studi per indagare l’attribuzione di stati mentali, e più in generale la teoria della mente, è il “test della matita del tubetto degli smarties”, sempre elaborato da J. Perner e dai suoi collaboratori (1989, cit. in Surian 2002). Anche in questo caso la procedura è molto semplice e diretta. Come è illustrato in fig. 4, viene presentato ai bambini un tubetto di smarties, e gli si chiede cosa pensano che il tubetto contenga. Tutti i bambini si aspettano Smarties o cioccolatini. Allora si apre la scatola e si mostra che invece contiene una matita. A questo punto la matita viene rimessa nel tubetto, e vengono rivolte tre domande ai bambini: 1. “Cosa contiene il tubetto?”; 2. “Cosa hai risposto quando ti ho chiesto poc’anzi cosa ci poteva essere nel tubetto?”; 3. “Quando entra il tuo compagno, sottoposto per la prima volta alla prova, se gli chiedo cosa c’è qui dentro cosa mi risponderà?” . Anche in questo esperimento i bambini di 4 anni con uno sviluppo normale rispondono correttamente, mentre i bambini autistici di 11 anni incontrano notevole difficoltà. Su 23 bambini 17 nel rispondere hanno tenuto conto dello stato di fatto, il tubetto conteneva una matita e non cioccolatini, non attribuendo stati mentali al compagno. Sebbene i bambini autistici ricordassero la loro risposta errata, non erano in grado di prevedere che lo stesso errore potesse farlo un loro compagno (Surian, 2002). Nel complesso tali studi dimostrano la presenza di un grave deficit nella teoria della mente dei bambini autistici, e conseguentemente la compromissione delle abilità necessarie per attribuire stati mentali a se stessi e agli altri. Tali deficit, secondo Baron-Cohen (1988), sarebbero alla base delle “singolari anormalità che questi bambini presentano nell’interazione sociale e nella comunicazione”, dal momento che abilità quali: tenere in considerazione le credenze, i desideri, le intenzioni e le opinioni delle altre persone, sono precursori fondamentali dello sviluppo delle abilità sociali e comunicative. 41 Ma cos’è che impedisce lo sviluppo di una teoria della mente nei soggetti autistici? L’assenza di stati mentali, chiamata da Baron-Cohen “cecità intellettiva” e da Surian “psicoagnosia”, a che cosa può essere imputata? A questa domanda ha risposto acutamente Alan Leslie, avanzando l’idea di “una netta somiglianza tra la logica che sottende la mentalizzazione e la logica della finzione”. La finzione in questa prospettiva diventa il precursore della Teoria della mente. Il bambino viene al mondo dotato di un bagaglio di conoscenze -piuttosto non si potrebbe parlare di un bagaglio innato di abilita' di importanza fondamentale per.... oppure fare la differenza tra comportamenti istintivi ed appresi????- fondamentalmente importanti per la costruzione del sapere del mondo che lo circonda. Ad un livello primitivo, anche il neonato “conosce” concetti come il tempo, lo spazio e la causalità (Frith, 1996). Il bambino è predisposto fin dalle prime ore di vita a relazionarsi con oggetti e persone e risponde ad essi in modo differente. La costruzione di conoscenze specifiche del mondo verrà, dunque, appresa grazie alla sua capacità di rappresentarsi mentalmente ciò che esperisce quotidianamente. Nel primo anno di vita il bambino è in grado di portare la propria attenzione sul comportamento delle persone che lo circondano e di rappresentare nella propria mente molte realtà concrete (es. “c’è il latte”). fig. 4. L’esperimento del tubetto degli smarties elaborato da Perner e collaboratori, 1989. In altre parole il bambino costruisce nella propria mente delle rappresentazioni degli eventi del mondo reale. Alan Leslie definisce questa prima concettualizzazione “rappresentazione di 1° livello”. Durante il secondo anno di vita comincia a comparire una nuova e più evoluta capacità, quella di rappresentarsi mentalmente delle rappresentazioni di rappresentazioni degli eventi del mondo reale (Lucia “crede” che ci sia il latte). In altre parole, il bambino attraverso delle metarappresentazioni, chiamate da Leslie “rappresentazioni di 2° livello”, riesce a 42 rappresentarsi mentalmente anche gli stati mentali. Il significato di questo progresso evolutivo è di massima importanza per tutte le funzioni mentali superiori. Alan Lesile chiama “decoupler” (distaccatore) il meccanismo che permette la costruzione delle rappresentazioni. Questo meccanismo, sarebbe innato e matura soltanto nel secondo anno di vita . E’ questa l’età in cui si sviluppano la capacità di fingere e poi lentamente la capacità di mentalizzare. La fine di questo sviluppo determina la formazione di una Teoria completamente matura della mente. Le metarappresentazioni costituiscono un’importantissima tappa per il progresso evolutivo del bambino, perché la loro acquisizione gli permette non soltanto di prestare attenzione a fatti concreti, ma anche alle intenzioni e alle opinioni che possono stare dietro al comportamento e alle persone. Secondo Leslie, la metarappresentazione è il meccanismo sottostante la capacità di rappresentazione degli stati mentali. Nella sua forma matura questo meccanismo permette lo sviluppo della teoria della mente, mentre nella sua forma più precoce e primitiva permette la comparsa del gioco di finzione (Baron-Cohen, 1995). Senza una corretta teoria della mente un bambino a cui viene dato nelle mani un telefono cellulare giocattolo ripeterà meccanicamente i movimenti - portarsi il telefono all’orecchio - che avrà visto fare agli adulti e che sono indotti dalle caratteristiche fisiche dell’oggetto ( e di cui ha una rappresentazione mentale), ma non “tenterà di trovare il campo ottimale di ricezione” e non dirà frasi tipo “ti passo la mamma”, perché non è in grado di fare inferenze, né di far finta di parlare con una persona, che nella realtà non c’è. E’ in questo modo che si esprime la cecità cognitiva dei bambini autistici. Il loro non è un problema di percezione di memoria o di linguaggio: essi non tengono conto degli stati mentali del loro interlocutore, non riescono a concepire che l’altro possa credere a qualcosa che non è vero, che possa pensare alcunché che corrisponda alla realtà. • Teoria della mente e attenzione congiunta(Xaiz-micheli utilizzano un altro termine...... per non confonderla con la minore o maggiore capacita' di fare due cose in contemporanea ovvero"condividendo" l'attenzione tra due attivita'). 43 I risultati di diversi studi osservativi relativi alla bassissima frequenza di comportamenti di attenzione condivisa nei bambini autistici rispetto ai bambini normali (Loveland e Landry, 1986; Sigman e Mundry, Ungerer e Sherman, 1986, Curcio, 1995) portano ad ipotizzare che il deficit dell’attenzione condivisa sia il precursore più importante del deficit sociale. I bambini normali, intorno ai 10 mesi di vita, sviluppano la capacità di indicare gli oggetti che si trovano intorno a loro, senza tener conto del fatto che l’adulto stia o meno guardando la stessa cosa. L’attenzione condivisa, infatti, emerge alcuni mesi dopo quando il bambino comprende che le sue richieste saranno soddisfatte più velocemente se si guarda la persona al momento giusto, indicando l’oggetto desiderato. Man mano che il bambino cresce, la competenza comunicativa aumenta e il bambino intuisce che se si desidera condividere i propri stati mentali con un’altra persona, è indispensabile che comunichi, verbalmente o con i fatti, ciò che è importante nel proprio vissuto in quel dato momento. Un bambino autistico indica quando vuole una caramella, ma non indica alla madre quale caramella a lui piace, o cosa quel sapore gli ricorda, cosicché questa non può condividere lo stato mentale del proprio figlio. Con molta probabilità per i bambini autistici non vi è alcuna differenza tra gli stati mentali propri e quelli altrui, e per tale motivo non c’è la necessità di condividere con gli altri il contenuto della propria mente. Ma ritorniamo ad occuparci in maniera più dettagliata degli studi condotti sull’analisi del comportamento di attenzione condivisa, i quali comprendono: 1. “lo sguardo referenziale” – io guardo ciò che tu stai guardando; io uso la direzione del mio sguardo per ancorare la tua attenzione su qualcosa – usato dai bambini normali a partire dall’ottavo mese di vita; 2. “i gesti” – indicare, mostrare e dare – che si presentano tra il non e il dodicesimo mese di vita. Baron- Cohen nel 1989 (cit. in Camaioni, 1995) ha condotto un esperimento, su un gruppo di bambini autistici e con sviluppo normale, al fine di evidenziare il ruolo della teoria della mente nei deficit di attenzione. Il comportamento indagato è stato il 44 gesto di indicare, esaminando la comprensione e la produzione di due diversi usi funzionali dell’indicare: 1. gesto di indicare proto-imperativo, che consiste nell’indicare al fine di ottenere un oggetto per mezzo di qualcuno. Durante la prova l’esaminatore affermava: «Adesso userò il mio dito indice per dire una cosa. Cosa voglio dire?». Alla consegna seguiva l’indicazione di uno di quattro giocattoli posizionati vicino al bambino e ad una certa distanza dall’esaminatore. Poi si passava alla registrazione delle risposte dei bambini (tab. 2). 2. gesto di indicare proto-dichiarativo, che consiste nell’indicare al fine di ottenere commenti e osservazioni da qualcuno sulla realtà esterna. Durante la prova l’esaminatore affermava:«Ora userò il mio dito indice per dire una cosa. Cosa voglio dire?». Successivamente andava vicino alla finestra, guardava il cielo, e poi guardava il soggetto mentre continuava a indicare verso il cielo. Poi si passava alla registrazione delle risposte dei bambini. Successivamente egli ripeteva il gesto in tre direzioni diverse: porta aperta, dentro la sua cartella e dentro la tasca della sua giacca (tab. 3). Partendo dall’assunto che il gesto di indicare proto-imperativo si basa su un’interazione fisica e non mentale, mentre il gesto di indicare proto-dichiarativo implica il prendere in considerazione gli stati mentali dell’altro, Baron–Cohen ipotizza che, se i deficit di attenzione condivisa nei bambini autistici sono riconducibili alla loro incapacità di prendere in considerazione gli stati mentali dell’altro, il gesto di indicare proto-imperativo non sia disturbato nell’autismo a differenza del gesto di indicare proto-dichiarativo. 45 Comprensione dell’indicazione proto-imperativa. Definire un gesto di indicare come proto-imperativo dipende dall’interpretazione che ne fa chi osserva. Di conseguenza abbiamo codificato come il soggetto interpreta un gesto di indicare. Durante la prova lo sperimentatore affermava<< Adesso userò il mio dito indice per dire qualcosa. Cosa voglio dire?>>. Dopo di che egli si metteva di fronte al soggetto e indicava a turno uno dei quattro giocattoli posizionati in semicerchio vicino al soggetto e ad una certa distanza dallo sperimentatore. Poi attendeva la risposta del soggetto. Codifica delle risposte. Sono state prese in considerazione quattro categorie di risposta (due corrette e due sbagliate): 1. Se il bambino ha preso l’oggetto e lo ha dato allo sperimentatore è sta registrata una risposta corretta: il soggetto ha interpretato il gesto di indicare come proto-imperativo, cioè come una richiesta dell’oggetto. 2. Se il soggetto ha detto «Tu vuoi dire ‘Dammi quel giocattolo’» o una frase analoga, è stata attribuita una risposta corretta: il soggetto ha espresso il significato proto-imperativo del gesto di indicare. 3. Se il soggetto non ha risposto o ha prodotto una risposta inappropriata (ad es. toccando il dito indice o imitando il gesto dello sperimentatore) è stata registrata una risposta sbagliata. 4. Se il soggetto ha nominato il giocattolo o ha espresso un commento su di esso, è stato registrato che il bambino ha interpretato il gesto come protodichiarativo; in questo caso lo sperimentatore ripeteva insistentemente in modo da enfatizzare l’attesa di una risposta diversa. Se il soggetto a questo punto ha continuato a non esibire una delle risposte descritte in (1) e (2), è stata attribuita una risposta sbagliata, annotando al tempo stesso la comprensione dell’indicare proto-dichiarativo. 46 tab. 2. Comprensione dell’indicazione proto-imperativa (Tratta e modificata da “La teoria della mente”a cura di L. Camaioni, pag. 16). Comprensione dell’indicazione proto-dichiarativa. Durante la prova lo sperimentatore affermava:« Ora userò il mio dito indice per dire qualcosa. Cosa voglio dire?». Successivamente andava verso la finestra, guardava il cielo e indicava, e poi guardava il soggetto mentre continuava ad indicare verso il cielo. Lo sperimentatore aspettava la risposta del soggetto. Successivamente egli ripeteva il gesto in tre direzioni diverse: In direzione di una porta aperta, dentro la sua cartella e nella tasca della sua giacca. Ciascuna di queste direzioni è stata selezionata per il fatto che lo sperimentatore poteva vedere un oggetto non visibile al soggetto (ad es. un aeroplano o un uccello nel cielo, una persona nel corridoio e un giocattolo nella cartella o nella tasca). Codifica delle risposte. Sono state considerate cinque categorie di risposta (tre corrette e due sbagliate): 1. Il bambino ha guardato in direzione di ciò che veniva indicato (spesso ciò ha comportato lo spostarsi vicino allo sperimentatore) è stata assegnata una risposta corretta, avendo il bambino interpretato il gesto come proto-dichiarativo. 2. Se il bambino ha chiesto «Cos’è?» o «Cosa stai guardando?» o ha nominato l’oggetto indicato, ha espresso interesse nel gesto come fosse protodichiarativo. 3. Se il bambino ha detto:« Vuoi che io guardi ciò che tu stai guardando » o una frase equivalente (ad es., «Stai dicendo “In cielo c’è un aereo”») è stata assegnata una risposta corretta: il soggetto ha espresso il significato protodichiarativo del gesto. 47 4. Se il soggetto ha tentato di prendere qualcosa e l’ha data allo sperimentatore è stata attribuita una risposta sbagliata: il soggetto ha interpretato (in modo inappropriato) il gesto come proto-imperativo. Viene comunque annotata la comprensione del gesto di indicare proto-imperativo. 5. Se il soggetto non ha prodotto nessuna risposta o ha prodotto una risposta inappropriata (come il toccare il dito indice, ecc.) è stata registrata una risposta sbagliata. 48 Tab 3. Comprensione dell’indicazione proto-dichiarativa (Tratta e modificata da “La teoria della mente”a cura di L. Camaioni, pag. 17). I risultati, presentati nella tabella (tab. 4) confermano le sue ipotesi: i bambini autistici, rispetto ai bambini normali presentano difficoltà solo nel gesto di indicare proto-dichiarativo. Come sostiene lo stesso Baron-Cohen, (cit. in Camaioni, 1995) tale risultato è particolarmente importante se si tiene conto del suo significato in termini educativi, “i deficit dell’indicazione proto-dichiarativa nell’autismo, in termini di incapacità di rappresentarsi l’attenzione negli altri, può aiutare a capire il senso delle decine di resoconti, presenti nella letteratura clinica, del tipico comportamento esibito dai bambini autistici di prendere l’adulto per il polso e di posare la sua mano su una maniglia, piuttosto che utilizzare le strategie dello sguardo per comunicare la stessa intenzione, dipendenti dalla comprensione dell’attenzione condivisa e che sembrano essere al di sopra delle capacità di molti primati non umani”. GRUPPO N Proto-imperative Proto-dichiarative Risposte Risposte % corrette AUTISM % corrette 20 14 70 2 10 27 25.5 93.5 26 96.2 O NORMA LE tab. 4. Numero medio di bambini ( e percentuale per ogni gruppo) che hanno risposto correttamente alla prova di comprensione del gesto di indicare proto-imperativo e 49 proto-dichiarativo (Tratta e modificata da “La teoria della mente”a cura di L. Camaioni, pag. 18). 15. LA TEORIA MODULARISTA DI BARON-COHEN SULLO SVILUPPO DELLA TEORIA DELLA MENTE. Quali sono i processi responsabili dell’acquisizione della teoria della mente? E’ ormai opinione condivisa che gli aspetti fondamentali della teoria della mente, nello sviluppo normale, si delineano molto precocemente, intorno ai tre anni di età. La complessità e astrazione di queste conoscenze suggeriscono che tali acquisizioni non sono il prodotto di generali meccanismi associativi e di condizionamento, in quanto nessun apprendimento puramente associativo conosciuto è in grado di produrre le conoscenze astratte che formano le basi della conoscenza psicologica. A tal ragione, la possibilità che alla base dello sviluppo delle conoscenze psicologiche ci sia un meccanismo di questo tipo, sembra inverosimile, e appare più probabile l’azione di processi specializzati e predisposizioni biologiche (Lesile, 1994; Surian, 2002). Tutti i bambini con uno sviluppo tipico acquisiscono una teoria della mente entro i trequattro anni, nonostante le differenze culturali, e le variazioni linguistiche e sociali, a cui sono sottoposti. Un processo di sviluppo guidato da meccanismi maturativi, in larga parte endogeni, spiega bene perché, malgrado marcate differenze esperenziali, tutti i bambini sviluppino grosso modo alla stessa età le conoscenze psicologiche fondamentali. Tutti a eccezione dei bambini sordi e di bambini autistici. In una ricerca condotta su un gruppo di bambini sordi da Peterson e Siegal (2000) è emerso che l’esperienza conversazionale primaria, relativa ai primi anni di vita, ha un impatto significativo sullo sviluppo della teoria della mente. Infatti i bambini non udenti figli di genitori udenti che non usano il linguaggio dei segni, dimostrano prestazioni significativamente scadenti nei compiti di false credenze, rispetto ai bambini sordi figli di genitori sordi, che usano il linguaggio dei segni. L’esperienza 50 conversazionale diventa allora prerequisito fondamentale per lo sviluppo successivo della teoria della mente. L’esperienza, in quest’ottica riveste il ruolo fondamentale di automatizzare alcuni processi, rendendoli cognitivamente più flessibili e operativi, ma non è direttamente responsabile dell’acquisizione dei concetti di base. In altre parole la teoria della mente è innata, ma per svilupparsi necessita dell’esperienza: senza una soglia minima di interazione, o in casi gravi di assoluta deprivazione, si possono produrre gravi danni allo sviluppo psicologico, che possono includere anche arresti o ritardi nello sviluppo della teoria della mente. La teoria modularista sullo sviluppo della teoria della mente elaborata da BaronCohen (1995) trova il suo fondamento nella convinzione che l’acquisizione della teoria della mente sia garantita da meccanismi specializzati. Il deficit metarappresentativo nei bambini con autismo trova la sua causa nel funzionamento anomalo del meccanismo specializzato nell’acquisizione della teoria della mente. Baron-Cohen prevede quattro moduli distinti che costituiscono la chiave di lettura della mente. Oltre al modulo che produce metarappresentazioni – ToMM (Theory of Mind Mechanism), simile a quello descritto da Lesile, egli ne prevede altri tre: un modulo designato all’elaborazione della direzione dello sguardo – EDD (EyeDirection Detector), un modulo specifico per la lettura dell’intenzionalità di movimenti e le rappresentazioni di stati volitivi – ID (Intentionality Detector), ed infine un modulo che guida l’attenzione condivisa nelle interazioni triadiche – SAM (Shared Attention Mechanism). Secondo Baron-Cohen, i moduli EDD e ID sarebbero i precursori evolutivi del modulo SAM, che a sua volta è il precursore del modulo più evoluto ToMM. Concludendo, questa breve rassegna sulla particolarità dello sviluppo sociale del bambino con autismo, possiamo evidenziare che tutti gli studi più autorevoli al riguardo concordano sulla centralità della Teoria della mente per l’interazione sociale e la comunicazione. Tra questi Alan Leslie propone che la Teoria della mente e la finzione abbiano origine nello stesso meccanismo primitivo che matura relativamente tardi. Questa teoria spiegherebbe perché la diagnosi inequivocabile di 51 autismo non può essere fatta prima del secondo o terzo anno di vita, età prevista per la completa maturazione dei suddetti componenti dello sviluppo cognitivo. La mancanza di tale Teoria ci aiuta a capire buona parte della sintomatologia tipica dell’autismo, così i problemi di linguaggio si possono meglio comprendere se si riconducono a un problema relativo alla semantica degli stati mentali; parimenti, le difficoltà legate alle relazioni affettive possono nascondere un’incapacità a comprendere gli stati mentali, emotivi ed affettivi altrui. Bibliografia Elementi tratti dal Giornale di Neuropsichiatria dell’Età Evolutiva, 11. 3. 91- pag. 183-185. 52 American Psychiatric Association, Diagnostic and Statistical Manual of Mental disorders (IV-R), Washington D.C., A.P.A. 1994 - Ed. It., Masson, Milano, 1995. Asperger H., Bizzarri, isolati e intelligenti, a cura di Nardocci F., Erickson, Trento, 2003. Bagalà S., Il bambino delle fate: storie, temi e problemi dell’autismo infantile, Collana Autismo Italia, Laruffa, Reggio Calabria, 1997. Camaioni L., La teoria della mente. Origini sviluppo e patologia, Laterza, Roma- Bari, 1996. Cottini L., Il bambino autistico a scuola: quale integrazione?, Psicologia e Scuola, 107, 16-24, 2002. Cottini L., L’integrazione scolastica del bambino autistico, Giunti Barbera, Firenze, 2002. D’Ardia C., Cerquiglini A., Bernabei P., Problema del riconoscimento dei sintomi precoci dell’autismo, Psichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza, 2001 Frith U., L’autismo. Spiegazione di un enigma, Laterza, Roma-Bari, 1996. Giovanardi Rossi P., Mariani Cerati D., Visconti P., Autismo infantile: proposta per un protocollo di ricerca eziologia, Giornale di Neuropsichiatria Infantile e dell’Età Evolutiva, 11, 3. 175-192, 1991. OMS: Tha ICD-10 classification of mental and behavioral disorders. Diagnostic criteria for research. Ginevra, 1993 - Ed. It., Masson, Milano, 1994. Powers M., Autismo, Raffaello Cortina, Milano, 1994. Peeters T., Autismo infantile. Orientamenti teorici e pratica educativa. Phoenix Editrice, Roma 1996. Wing L., I bambini autistici, Armando, 1986. Zappella M., Autismo Infantile, Nis, Roma, 1996. 53