Sono passati nove mesi, il tempo di una gestazione,
quanto basta a una nuova vita per venire alla
luce. Tempo che ha segnato una pausa, quella di
Coolclub.it, un giornale nato cinque anni fa, un
free press “insolito” che dopo cinquanta numeri
aveva interrotto le sue pubblicazioni. Oggi questo
giornale torna, rinasce. E siamo felici. Sui motivi
della pausa si è parlato anche molto.
Molte delle ragioni che segnano una rottura o
un allontanamento sono dettate da impulso e
irrazionalità. La stessa che ci ha fatto imbarcare
in questa avventura editoriale, per lo meno
bizzarra, in questo territorio. Proporre contenuti
gratuitamente non paga… sembra una scoperta
stupida ma è così. La sopravvivenza è difficile
quanto la riconoscenza, ma poco importa.
Quello che tutto può è la passione. Ci sono cose
che rendono un senso ai nostri giorni, il resto
passa, appartiene al quotidiano. Bisogna invece
rivendicare, esserci, lasciare segno di un, seppur
minuscolo, sentire. Ecco perché Coolclub.it torna
nelle vostre mani, anche fosse solo un attimo,
entra nelle vite, nelle case di molti.
Crediamo che musica, libri, cinema, teatro siano
seminato da accudire e curare. Sono queste le cose
che vogliamo raccontarvi, quelle che vogliamo
condividere, amplificare. A chi già ci ama, a chi
ci scoprirà, vogliamo solo regalare ancora, e ci
auguriamo per molto, tracce di contemporanea
bellezza. Ignoriamo ciò che muove il mondo,
almeno in queste pagine, e ci dedichiamo a ciò
che lo rende lieve.
Abbiamo scelto una nuova veste, più piccola
nella forma ma più ricca di contenuti, per poter
arrivare dove prima non eravamo (il vecchio
Coolclub.it aveva fatto tanta strada, era arrivato
fino ai confini della nostra ragione e li aveva
anche superati). Abbiamo nuova casa nelle calde
Manifatture Knos di Lecce.
Nostalgia canaglia è il tema di questo nuovo primo
numero, la traccia su cui ci siamo interrogati,
sintonia tra il nostro sentire in questi mesi di
assenza e una tendenza delle arti a ripescare
dal passato o a cercare di mantenerlo in vita.
Lo stile è quello di sempre, fedele all’idea di uno
scrivere passionale, senza troppi tecnicismi. La
speranza è di coinvolgere sempre più scritture,
firme, aspirazioni, emozioni. Tante ne abbiamo
accumulate in questo tempo di silenzio e abbiamo
cercato di renderle in queste pagine, rischiando
un po’ sulla freschezza delle segnalazioni. Ma
l’importante è che tutto questo abbia un luogo
dove imprimersi e rimanere. Come sempre
invitiamo chiunque a collaborare, intervenire,
aiutarci e criticarci. A voi il resto, sperando che
sia la curiosità a muoverci sempre e che queste
pagine possano essere zona franca dove trovare
leggerezza.
Osvaldo Piliego
EDITORIALE 3
CoolClub.it
Via Vecchia Frigole 34
c/o Manifatture Knos
73100 Lecce
Telefono: 0832303707
e-mail: [email protected]
sito: www.coolclub.it
Anno 5 Numero 42
giugno 2008
Iscritto al registro della
stampa del tribunale di Lecce
il 15.01.2004 al n.844
Direttore responsabile
Osvaldo Piliego
Collettivo redazionale
Pierpaolo Lala, C. Michele
Pierri, Cesare Liaci, Antonietta
Rosato, Dario Goffredo
Hanno collaborato a questo
numero: Giancarlo Susanna,
Dino Amenduni, Pasquale
Boffoli, Claudia Attimonelli,
Anna Puricella, Federico
Baglivi, Nino Gianni D’Attis,
Ilario Galati, Giuseppe Lisi,
Camillo Fasulo, Francesco
Andriani De Vito, Tobia
d’Onofrio, Marco Chiffi,
Stefania Ricchiuto, Rossano
Astremo, Marco Montanaro,
Vito Lubelli,Roberto Cesano
Ringraziamo Manifatture
Knos e le redazioni di
Blackmailmag.com, Radio
Popolare Salento di Taranto
e Lecce, Controradio di Bari,
Mondoradio di Tricase (Le),
Ciccio Riccio di Brindisi,
L’impaziente di Lecce,
quiSalento, Lecceprima,
Musicaround.net.
Bob Lind 6
Progetto grafico
erik chilly
Dreams are my reality 12
Nostalgia Canaglia
Impaginazione
Gianfranco Massa
musica
Stampa
Martano Editrice - Lecce
Paolo Benvegnù 15
Chiuso in redazione nel primo
giorno di caldo tropicale
Recensioni 23
Per inserzioni pubblicitarie e
abbonamenti:
[email protected]
Libri
Giuseppe Genna 36
Recensioni 39
Cinema Teatro Arte
Ascanio Celestini 48
Recensioni 53
Eventi
Sound Res 57
Calendario 58
Sommario 5
BUTTERFLY
DREAMS
Intervista a Bob Lind
Nostalgia della musica e dei suoni degli anni
’60? Certo. Se fossimo inglesi o americani. Se
avessimo potuto vivere una delle stagioni più
creative del rock. Ma nostalgia dei gruppi beat
italiani… suvvìa. Siamo seri. Mentre il mondo
della musica era messo sottosopra da una schiera
di giovani artisti di talento – primi fra tutti
i Beatles – noi ci nutrivamo di (quasi sempre)
scialbe versioni in lingua italiana.
La recente e trombonesca operazione dei Pooh
– ovvero come rovinare delle belle e innocenti
canzoni – alcune amene sortite di Shel Shapiro,
l’ex leader dei Rokes cui non nuocerebbe una
cura di fosforo, e un’esaltata lode radiofonica di
Se perdo anche te da parte del pur bravo Fiorello
(“Ma chi l’ha scritta? Migliacci!”) gettano una
luce nuova e per molti versi ancor più sinistra
sulla grande truffa del beat italiano. Sì, perché Se
perdo anche te è Solitary Man di Neil Diamond.
6 Nostalgia Canaglia
Mentre un altro successo di Gianni Morandi,
Scende la pioggia è Eleanor dei Turtles. Altre
vittime? I Procol Harum, i Mamas & Papas,
Barry McGuire, i We Five, i Kinks, i Traffic, i
Move, i Bee Gees, Sonny & Cher, i Monkees …
Per sfruttare l’onda delle “traduzioni” e tentare
una difesa, ecco allora i Procol Harum con Il tuo
diamante (Shine On Brightly), Nina Simone con
Così ti amo (To Love Somebody) e perfino David
Bowie con Ragazzo solo, ragazza sola (Space
Oddity)
Nella preziosa appendice all’Enciclopedia del
Rock Italiano (Arcana, 1993) leggiamo tra l’altro:
“(…) Quasi mille (“cover”) ne abbiamo scovate
tra le pieghe più polverose del bitt, e sappiamo
per certo che in qualche caso neppure gli autori
ne ricordano l’origine (…)”.
Spinti da un vero e proprio senso di giustizia
mancata – nessuno, men che mai Shel Shapiro,
lo ricorda – abbiamo cercato in rete Bob Lind. E
sapete una cosa? Dopo 24 ore dall’invio di una
mail, Mr. Lind ci ha risposto!
Tornato sulle scene dopo una lunghissimo
silenzio, Bob Lind è uno di quei cantautori
che hanno fatto (e fanno) grande la popular
music americana. Da noi è sempre stato poco
conosciuto, ma nel “grande bluff” di cui abbiamo
parlato fino ad ora spiccano due cover di canzoni
scritte proprio da lui ed eseguite dai Rokes: Che
colpa abbiamo noi (Cheryl’s Goin’Home) e È la
pioggia che va (Remember The Rain). Curioso,
vero? E i suoi dischi, credeteci, sono bellissimi.
Nato a Baltimora, in Maryland, nel 1942, Lind ha
cominciato la sua carriera a Denver, in Colorado,
ma il suo esordio discografico è avvenuto a Los
Angeles con la produzione di Jack Nitzsche,
compositore, autore di colonne sonore, musicista
(con i Buffalo Springfield, i Crazy Horse e
Neil Young) nonché arrangiatore prediletto di
Phil Spector, Il successo di Elusive Butterfly,
entrata di prepotenza nei Top 5 americani, ha
finito, come talvolta accade, per impedirgli di
seguire un percorso professionale lineare. La
recente ristampa su cd dei due album prodotti
da Nitzsche a metà anni ’60 e di Since There
Were Circles (1970) – in cui suonano due eroi del
country rock californiano, l’ex Byrd Gene Clark
e il banjoista Doug Dillard - lo ha finalmente
riportato alla ribalta.
Che musica ascoltavi quando andavi a
scuola?
Quando ero molto piccolo – a cinque o sei anni –
ascoltavo Burl Ives e Gene Autry. Alcuni critici
dicono di sentire tracce di Gene Autry nella mia
voce. Poi ho scoperto il rhythm & blues – James
Brown, i Platters, Bobby Bland. Mi piaceva anche
il rock, Bo Diddley, Little Richard, Chuck Berry,
Elvis Presley, Gene Vincent. Ma ho cominciato
a trovare la mia voce quando in America si è
affermato il movimento del folk rock e ho sentito
artisti pieni di soul che cantavano testi ricchi di
significato con cuore e passione – Bob Gibson,
Fred Neil, Richie Havens, Judy Collins, Bob
Dylan e Joan Baez. In quel momento ho capito
che avrei potuto crearmi un posto tutto mio nella
musica.
Frequentavi i folk club di Denver?
È stato un periodo magico. Le notti erano piene
di vita. Denver aveva una dozzina di coffeee
houses e c’erano circa 50 artisti e gruppi che ci
lavoravano regolarmente. Ci conoscevamo tutti
e quando uno aveva una serata libera, andava
a sentire un altro cantante. Tutti si dividevano
accordi e modi di suonare. Nessuno era geloso di
quello che conosceva. Così ognuno influenzava
gli altri. La paga era terribile. I locali pagavano
qualcosa come 10 o 15 dollari per tre set a serata.
Ma per me era come una scuola. Ho imparato a
esibirmi stando una sera dopo l’altra di fronte
al pubblico e vedendo cosa funzionava e cosa no.
Al principio cantavo soltanto canzoni di altri.
Ma piano piano ho cominciato a inserire le mie
canzoni nei miei show. Diventai presto conosciuto
sia per le canzoni sia per il mio modo di cantare.
Oggi ci sono più di 200 cover di mie canzoni».
Il tuo incontro con Jack Nitzsche è stato
decisivo per la tua carriera.
Ho incontrato Jack nel 1965 nell’ufficio di Lenny
Waronker alla Metric Music Publishing. La Metric
mi aveva appena fatto firmare un contrattto e
Jack stava cercando del materiale per alcuni dei
gruppi che stava producendo. Lenny non pensava
che i miei demo avessero abbastanza impatto
e voleva che suonassi dal vivo le mie canzoni.
Sapevo chi era Jack, naturalmente. Avevo anche
una copia di Lonely Surfer. E pensai che tutta
l’idea fosse stupida. Cosa avrebbe potuto sentire
con la sua sensibilità melodica un arrangiatore
brillante e colto nelle mie piccole canzoni folk?
Entrò con quella valigetta che portava sempre
con sé, i capelli lunghi da scienziato pazzo e gli
occhiali spessi. Si sedette ad ascoltarmi mentre
strimpellavo quattro o cinque pezzi e mi sorprese
quando disse a Lenny: “Finalmente hai un autore
onesto”. Fin da principio Jack sentì nella mia
musica qualcosa che io non sentivo. Non scelse
nessuna di quelle canzoni per gli artisti che stava
producendo, ma disse a Lenny che le mie cose gli
piacevano. Lenny ne fece cenno ai Powers That
Be alla World Pacific e loro scritturarono Jack
per produrmi. Dopo che ebbe sentito tutte le mie
canzoni mi disse: “Non penso che qui ci siano dei
brani da classifica. Ma faremo un album molto
bello”. Non ho mai incontrato una persona più
paziente. Io non leggevo la musica. Non sapevo
neppure il nome degli accordi che facevo. Lui
si sedeva al piano e diceva: “Suonami le note
che fai”. Io suonavo una nota alla volta e lui
diceva, “Sì. Questo è un Do Maggiore settima”
o quello che era. Il giorno e la notte prima delle
session si barricò nel suo ufficio e scrisse quelle
stupefacenti e meravigliose partiture, quelle
commoventi linne di archi, e tutto il resto. Oggi,
quando penso a lui, non riesco a dimenticare la
sua pazienza e la sua generosità, oltre al fatto
che ebbe fiducia in me prima ancora che ne
avessi io stesso.
Nostalgia Canaglia 7
Il successo di Elusive Butterfly ti ha colto
di sorpresa?
Sì. Fu pubblicata come facciata B. Sulla A c’era
un pezzo intitolato Cheryl’s Goin’ Home. Fu un
vero flop. Non andò da nessuna parte. Ma un
dj in Florida girò il disco e cominciò a passare
la facciata B, e per ragioni che nessuno può
spiegare Elusive Butterfly cominciò a scalare
le classifiche. Io non mi aspettavo proprio di
avere degli hit da classifica. Puntavo a un tipo
di carriera differente – come quelle di Dylan,
Judy Collins, Fred Neil o Joan Baez, nessuno dei
quali aveva degli hit a quell’epoca, ma ognuno
dei quali aveva un largo seguito di culto da parte
di persone che apprezzavano tutta la loro opera.
Cosa ricordi del momento in cui l’hai
scritta?
L’ho scritta a Denver, qualche mese prima di
trasferirmi a Los Angeles. Ho cominciato alle
dieci di sera e sono rimasto sveglio tutta la
notte a lavorarci. L’ho finita intorno alle sei del
mattino. Molte delle mie canzoni a quell’epoca
venivano scritte così – sul limite che divide il
sonno dalla veglia. Credo sia proprio questo
a dare loro quella qualità “sognante” che le
persone dicono di sentire nel mio lavoro. Quando
scrivo la mia musica migliore, una parte della
mia mente si chiude (la parte che pensa e critica
e chiede il significato delle cose) e lascia che
l’altra parte (quella della libera immaginazione)
corra a ruota libera. Elusive Butterfly all’inizio
era composta di cinque strofe. Fu accorciata a
due per il disco.
In Since There Were Circles ha suonato
l’armonica Gene Clark, uno dei cinque
Byrds fondatori. Che ricordo hai di lui?
Era un uomo difficile. Molto triste, molto
tormentato. Ma penso che avesse un cuore
buono. Proteggeva se stesso comportandosi in un
modo molto educato – perfino formale – con tutti,
anche con le persone che venivano considerate
come suoi amici. Ero molto più vicino a Doug
Dillard di quanto lo fossi a Gene. Ma anche
Doug mi disse che Gene, in un certo senso era
un mistero anche per lui. Era un uomo di talento
che è morto troppo presto.
Adesso cosa fai?
Faccio concerti in giro per tutta l’America. Scrivo
e sto cercando un’etichetta discografica. I due
noti registi Paul Surratt e Ian Marshall stanno
realizzando un documentario sulla mia vita e
sulle mie canzoni e speriamo che esca presto.
Giancarlo Susanna
Nostalgia Canaglia 9
L’ETERNO
RITORNO:
La rivincita dei dinosauri
Tutti ritornano, a volte: sembra quasi una
moda, forse ancora di più un bisogno, come ci
fosse la necessità di distillare perle di bellezza
dalla dolce vena della nostalgia per compensare
un presente che proprio non ci piace. Nostalgia
come sintomo di una mancanza, di qualcosa che
un po’ si rimpiange, come risposta all’assenza.
L’addio, il sapere che una cosa non ci sarà più,
è fondamentale per stabilire una prospettiva,
delineare percorsi che sempre avanti dovrebbero
guardare.
Di nuova musica, musica contemporanea o
sperimentale, si parla e si discute da molto.
Parallelamente a un percorso in progress della
musica esiste una strada che scava a ritroso che
guarda sempre al passato come fonte inesauribile
10 Nostalgia Canaglia
di linfa per creare musica “nuova”.
Ed il passato diventa presente, il passato diventa
“sempre”, la musica perde per un attimo un suo
contesto temporale, per divenire onda, che come
quelle del mare è in balia delle correnti, dei
venti, fatta di flussi e riflussi.
Solo con la risacca è possibile scovare le perle
nascoste dalla patina del tempo. Ci sono poi
comete destinate a eclissarsi in pochissimo tempo
e altre stelle che mai smetteranno di brillare.
Chi ama la musica ha sempre dei rimpianti.
Ognuno di noi avrebbe voluto assistere a un
concerto indimenticabile, vivere a Londra nel
‘77 o fumare una gitane papier de mais con
Gainsbourg.
Beh non tutto è possibile, ma quasi.
Proprio questi sembrano gli anni in cui il passato
torna alla ribalta più che mai.
Mitiche le reunion che hanno fatto molto
discutere ma anche sognare migliaia e migliaia
di fan. Due su tutte: i Led Zeppelin e i Police.
Ma si potrebbe continuare a lungo citando i
Take That, le Spice Girls, si vocifera anche su
un riavvicinamento degli Wham. E poi ancora
Jesus and Mary Chain, Van Halen. Anche i Blur
sembrano pronti a rientrare in studio dopo una
lunga pausa in cui Damon Albarn si è dedicato a
vari progetti paralleli e Graham Coxon alla sua
carriera solista. Il fenomeno delle reunion non è
certo storia di oggi. Memorabile quella dei Black
Sabbath del 1998 documentata da un album
live. La formazione originale della band di Ozzy
Osbourne non calcava lo stesso palco (tranne
una sparuta apparizione) dal lontano ‘79. Bob
Geldoff e il Live 8 sono stati galeotti invece per i
Pink Floyd che nel 2005 hanno suonato insieme
dopo 25 anni di separazione, Roger Waters
lasciò la band dopo The final Cut (disco dell’83).
Del ‘96 la notizia scandalo del ritorno dei Sex
Pistols (senza Sid Vicious naturalmente) che
palesarono candidamente e provocatoriamente
l’operazione puramente commerciale. Proprio su
questo si dibatte. C’è chi pensa, come Paul Mc
Cartney, che queste rimpatriate siano mosse
solo da motivi economici e chi come Phil Collins
(batterista dei Genesis, altra band protagonista
di pompatissimi riavvicinamenti) sostiene di non
avere bisogno di altri soldi ma di farlo per puro
piacere.
e desiderate della storia non è mai avvenuta,
quella dei Beatles appunto. Ringo Starr con il
suo inimitabile humor ha sottolineato “non c’è
nessuna chance di risuonare insieme…due di
noi sono morti”. In realtà qualcosa di simile si
era visto in occasione della pubblicazione delle
Anthology dove erano comparsi due inediti di
John Lennon digitalizzati e suonati dai Beatles
superstiti. E ancora dopo la morte di George
Harrison correva voce di una formazione con
Paul, Ringo, e Dhani figlio di George. Si potrebbe
continuare, la lista è lunghissima, ma accanto
a queste, che più che rimpatriate sembrano a
volte riesumazioni, si fa sempre più avanti un
fenomeno divertente ma a tratti inquietante:
quello delle tribute band.
Fatto sta che una delle reunion più chiaccherate
Osvaldo Piliego
La tribute band è un “gruppo omaggio”, cioè un
insieme di musicisti che decidono di riprodurre,
nel modo più fedele possibile, il repertorio di un
artista o di una band. A differenza delle cover
band che invece spaziano, attingendo a vari
repertori, le tribute band scelgono un artista e
cercano di diventarne la copia anastatica. Così
puoi avere il tuo concerto personale degli U2 nel
pub a pochi passi da casa, con tanto di cantante
travestito da Bono, o un Elvis redivivo e per di
più obeso.
Abbiamo bisogno di miti, di nuovi idoli tascabili,
al costo di doverli dissotterrare, forse perché
abbiamo bisogno di sogni a portata di mano o
forse solo perché proprio non ci va di crescere.
U2
Nostalgia Canaglia 11
Plastikman
DREAMS ARE
MY REALITY
Il tempo delle cover
12 Nostalgia Canaglia
Quando Plastikman, guru della techno, propose
nel 1998 una traccia dal titolo Are Friends
Elektrik? chi aveva familiarità con la prima scena
synth pop pensò ad una cover del celebre pezzo
omonimo di Gary Numan del ’79 – se non fosse
per l’uso irriverente della consonante k al posto
della c che segnava l’irraggiungibile distanza di
cui l’ascoltatore si accorge sin dalle prime note. In
effetti Plastikman aveva prelevato irriconoscibili
sample trasformandoli in loop per una suggestiva
traccia techno. Dunque la cover è un tributo che
necessita di una distanza e proprio nello spazio
di quella distanza interviene l’elemento creativo
apportato dal nuovo interprete che diversamente
sarebbe solo un semplice esecutore.
Allora possiamo dire che la cover è
un’interpretazione. Se guardiamo alla storia di
Tainted Love, ad esempio, è l’interpretazione
electro synth pop dei Soft Cell del 1981 a
venirci in mente, con quel suo celebre bink-bink
d’apertura. Mentre il duo di Leeds fu colpito
dall’ascolto al juke box della versione originale
Northern Soul di Gloria Jones (compagna di
Marc Bolan) del 1964 poi ristampata nel ’75,
tanto da farne una cover epurando ogni elemento
black. Questo episodio è emblematico perché
esprime involontariamente il significato storico
della cover: all’inizio degli anni ’60 si affermò
una pratica che serviva ad aggirare le dinamiche
autoriali andando incontro alle esigenze di un
mercato per lo più bianco, ovvero si facevano
reinterpretare da musicisti bianchi brani
rock&roll e rhythm&blues che presentavano
ottimi spunti ma che erano giudicati ancora
troppo sporchi e di non facile ascolto per il
pubblico. Perciò si chiamò cover l’atto del coprire
e nascondere l’originale ritenuto inadeguato,
confondendo la sua matrice black.
Non è certo questo il caso dei Soft Cell che furono
semplicemente affascinati dalla canzone della
Jones. Il pezzo ebbe tanto successo che solo due
anni dopo i Coil ne fecero una cover dark e dai
toni cupi sfruttando le tematiche del testo per
parlare dell’improvvisa diffusione del virus HIV
e della demonizzazione omofobica. Nel videoclip
si scorge in un cameo lo stesso Marc Almond
nelle vesti dell’Angelo della Morte.
Ma forse i più giovani conoscono la versione
goth-rock-glam di Marilyn Manson, che al binkbink dei Soft Cell, ai fiati dell’originale di Gloria
Jones e al rintocco delle campane a morto dei
Coil, sostituisce i suoni effettati e sporchi di
chitarre e tastiere. Anche uno spot dei Levi’s
modello Wide Leg ha adoperato Tainted Love.
L’idea è venuta al regista Spike Jonze, già autore
di numerosi videoclip, che ha ambientato in una
sala operatoria in stile Scrubs, la rianimazione
di un paziente che scambia i suoni provenienti
dall’elettrocardiogramma per il bink-bink
d’attacco della celebre hit dei Soft Cell e si mette
a cantare. In modo del tutto esilarante la sala
operatoria si trasforma in un musical dove
dottori e paramedici intonano una versione soul
della canzone. Il comico clip di Jonze si appella
alla riconoscibilità della hit Tainted Love,
costruendovi il concept dell’Ad.
Dunque la cover è fondamentalmente una
citazione, in senso letterario e in senso
“giuridico” allorché chiama in giudizio una
canzone del passato e la fa rivivere testandone
lo charme nel presente. Così si muovono, ad
esempio, i Nouvelle Vague che sin dal loro nome
mettono in moto un gioco infinito di citazioni: il
movimento francese a cui si rifanno e che citano
anche nel titolo dell’album Bande a part, il film
di Godard del 1964 (da cui traggono anche una
scena messa in loop per realizzare il video della
cover dei Lords of the New Church Dance with
me); implicitamente citano anche la New Wave,
traduzione inglese di Nouvelle Vague e bacino a
cui attingono per la scelta delle loro cover, così
come, e qui si chiude il cerchio, spiegano lo stile
adottato per reinterpretare i brani della New
Wave con arrangiamenti Bossa Nova, traduzione
questa volta in portoghese del sintagma Nouvelle
Vague.
Un ultimo cenno è alla cover-parodia di cui
youtube offre infiniti esempi. In genere l’hip
hop si presta, suo malgrado, per l’attitudine
provocatoria e canzonatoria dei testi e delle
movenze ad essere oggetto di parodie, come
anche le canzoni romantiche stile tempo
delle mele. Non è un caso che Louie Austin in
collaborazione con Senor Coconut, due titani del
remake, abbiano realizzato in stile bossanova
una cover di Dreams are my reality di Richard
Sanderson. Imperdibile.
In chiusura, dato che la cover è nata ponendo
quesiti di carattere autoriale, suggerirei di
considerare la proposta di Loredana Bertè
a Sanremo 2008: una buona cover di un
pezzo dimenticato degli anni ’80 a cui lei ha
semplicemente cambiato il titolo!
Claudia Attimonelli
(in parte estratto dal saggio “Dialoghi con-citati tra videoclip,
loop, cover e remix”, di C. Attimonelli, Progedit, 2007)
Nostalgia Canaglia 13
MUSICA
PAOLO
BENVEGNÙ
Paolo Benvegnù è senza dubbio la sintesi
perfetta di tutto quello che oggi la musica
italiana dovrebbe essere. Musica d’autore, rock,
pop, poesia, nervi e cuore sono tutti elementi in
equilibrio nelle sue canzoni. Da poco è uscito il
suo nuovo album Le labbra, non è che la conferma
di un percorso in continua evoluzione. Dopo gli
inizi con gli Scisma, dopo il bellissimo Piccoli
fragilissimi film di qualche anno fa arrivano una
manciata di canzoni a farci sperare in un futuro
migliore per la musica italiana.
Chi ti ascolta non può non definire la tua
musica come sensibile; le tue canzoni sono
emozionate, mi verrebbe da dire, e non
possono che emozionare. Come ti avvicini
alla musica e come arrivi alla canzone?
Io mi avvicino alla musica spasmodicamente.
Impegnandomi come i neonati quando devono
mangiare, succhiare. Perciò non sono lucido.
Naturalmente non sono lucido. Ma resto sempre
accanto. Come una vestale. E alle volte mi arriva
qualche cosa. Meno la riconosco, questa cosa, più
sono grato. Poi scrivo una canzone. Ma non è
niente. Tutto sta in ciò che succede prima. Perciò
le canzoni, le mie, sono tutte ninne nanne. Sono
un bambino che canta ai bambini. O forse un
albero.
Questo nuovo album è diverso dal
precedente, sembra più muscolare, più teso
in alcuni suoi momenti. Ce lo racconti?
Le Labbra. Sono piccole canzoni di liberazione.
La mia. E di chi può riconoscersi. E Di Amore
Incondizionato. E Di Costruzione. Serve per
guidare, in automobile. È una delle tante storie
di un essere umano. Niente di più. Niente di
meno. Come restare, a sei anni, sotto un tavolo.
O sotto un letto. A percepire in Silenzio il mondo.
C’è la tensione dello stupore. Ma è un passaggio.
Solo un passaggio. Piccolo, infinitesimale. Un
gesto inconscio.
Si parla di amore, di persone, di rapporti,
quanto di te c’è in questo disco?
In questo disco ci sono io, che sono il cantante
e lo scrittore dei Paolo Benvegnù. E ci sono
Andrea Franchi, Guglielmo Gagliano, Luca
Baldini. Sono Storie che ci sono appartenute per
un mese. Poi, ora non sono già più mie, nostre.
Ma soprattutto c’è l’Amore inteso come Assoluto.
Incondizionato. Almeno idealmente. L’Amore di
chi uccide per un bacio.
Questo disco esce quasi in contemporanea
con l’invasione post-sanremese, è un disco
italiano, rock, d’autore, ma se vogliamo
anche pop, un respiro di sollievo per noi.
Tu come vedi il panorama mainstream
italiano, cosa ti piace e cosa non sopporti?
Io non lo vedo il panorama. E vorrei esser cieco,
Per vedere ancora meno. Ed essere veggente.
E trattenere le Parole. Ma non ne sono capace,
Perciò rispondo. Non sopporto la menzogna di
chi scrive intorno alle Parole e chi cerca Spazio
a tutti i costi. Perciò mal sopporto quasi tutti gli
artisti mainstream italiani…Ma ora vedo.. che
qualcuno torna o arriva a scrivere, a suonare
cercando. E sono felice per loro. E sorrido.
(O.P.)
GRIMOON
Italia e Francia, sodalizio quanto mai riuscito
soprattutto quando si parla di Grimoon. Progetto
musicale, e non solo, capace di emozionare.
Il vostro immaginario, cupo per certi versi,
surreale per altri, sembra aprirsi in questo
nuovo disco, Les 7 vies du chat, lasciando
filtrare della luce. A tratti dà l’impressione
di essere una sorta di circo sgangherato.
Quante “vite” ha questo vostro nuovo
album?
Solenn: I brani del disco sono molto diversi
tra di loro, sono tuttavia legati dalla fantasia,
dalla ricerca di un universo sonoro sognante ed
ammaliante. In questo universo c’è spazio per
tutti: per i personaggi più assurdi dei nostri
video, e per gli ospiti che si sono prestati a questo
folle gioco con noi. Nel circo Grimoon non esiste
“la vita” ma “le vite”; ci siamo sempre divertiti a
mettere in scena storie impossibili, improbabili,
portare fuori dal nostro immaginario personaggi
stravaganti, surreali, magici.
Il francese è musica che si aggiunge alla
vostra musica, una lingua che ha un
sapore retrò ma che in questi ultimi anni
soprattutto è protagonista di una scena
16 musica
indie bellissima, che rapporto hai con la
tua patria e la sua musica?
Solenn: Sono 7 anni che sono via dalla Francia
e confesso di non essere molto informata sulla
scena musicale francese. Le scoperte più recenti
sono stati tra l’altro De Rien, il gruppo di Thibaut
che è stato ospite in un brano.
Sei musicisti, tanti strumenti, come vi
avvicinate al suono di una canzone,
quale percorso seguite, c’è una partenza
comune?
Alberto: Le canzoni di questo disco sono iniziate
con delle registrazioni su un quattro piste,
voce chitarra e batteria elettronica e qualche
arrangiamento di Arp Solina e Space Echo.
Le abbiamo presentate al nostro produttore,
Giovanni Ferrario, che ci ha dettato qualche
arrangiamento e direzione da seguire. Il lavoro
grosso lo abbiamo fatto con lui dandogli massima
fiducia. Per il fatto degli strumenti, siamo tutti
fanatici di strumenti Vintage. È questo il vero
segreto della bellezza e spontaneità dei nostri
suoni. Un amore maniacale verso certe macchine
non può che portare a buoni risultati. È come
sentirsi puri, in un certo senso, davanti all’uso
indiscriminato del computer o del digitale in
genere.
La vostra musica a tratti sembra una
colonna sonora, non a caso. Ci parli del
vostro stretto legame con le immagini?
Solenn: Più che immagini, possiamo direttamente
parlare di immagini in movimento. Il nostro
rapporto con loro è assoluto: realizziamo un
cortometraggio per ogni canzone, ed essendo
giunti ad oltre 25 video girati, ti posso assicurare
che essi sono parte integrante non solo del nostro
progetto ma anche della nostra vita: ormai siamo
giunti al punto di pensare per immagini, parlare
per immagini, forse tra un po’ ci trasformeremo
in immagini, chi lo sa. La mia casa è diventata
il museo dei nostri corti. Maschere ovunque,
ho perfino un muro tutto dipinto (sfondo per
un video), personaggi che popolano le mensole,
cassettine di videocamera ovunque… e poi si
gira, si gira, si gira: più che una passione ormai
è un’ossessione.
I Grimoon sono anche Macaco Records,
raccontaci un po’ di questa avventura.
Meglio fare tutto da soli?
Solenn: Questa è la caratteristica principale
della nostra esperienza in Macaco: lavorare con
persone che stimiamo per originalità, attitudine
e stile. È anche grazie alla Macaco che abbiamo
conosciuti numerosi artisti, e alcuni di questi sono
stati anche ospiti sull’ultimo disco dei Grimoon.
Da questo punto di vista, la Macaco è veramente
un’esperienza splendida. Dall’altro c’è tutta la
parte organizzativa: le mail, i comunicati stampa,
il booking, e non finisco l’elenco perché sarebbe
veramente lungo, alle volte questo lato prende
il sopravvento sull’altro e la Macaco diventa un
peso enorme da sopportare, soprattutto quando
i Grimoon sono in tour, in produzione video o
musicale. Sicuramente da soli si ha il controllo
assoluto su quello che si sta facendo e si ha
anche la consapevolezza di quello che si può fare.
Certo che togliersi qualche peso non sarebbe
affatto male e difatti è proprio quello che stiamo
cercando di fare.
Alberto: per addentrarsi in una avventura di
questo tipo non bisogna essere che “Macachi”.
Questo numero di Coolclub.it parla di
nostalgia, che rapporto avete con questo
sentimento?
Alberto: La nostalgia è un bellissimo sentimento,
ti dà vigore al cuore, ti fa sognare e ti dà
speranza. La nostalgia la vivo in questo modo,
come stimolo per non crepare dentro meccanismi
moderni. Noi siamo nostalgici degli anni ’60,
’70, del super8, della musica registrata su
nastro, degli strumenti vintage, delle macchine
vintage, dell’orchestra della Rai, del Carosello,
della fantasia, della vitalità, della curiosità, ecc.
Ho anche nostalgia della forza degli uomini di
altri tempi, delle ambizioni culturali e politiche
dei giovani degli anni '60, dei cantanti che
cambiavano le epoche. Ho anche nostalgia di mio
padre che a tavola mi diceva che Berlinguer era
una brava persona... Per questo motivo non ho
mai votato Berlusconi e i suoi amici.
(O.P.)
THE
BRUNETTES
Della band The Brunettes, nei prossimi tempi,
si sentirà parlare sempre di più. E non solo
perché il nuovo album, Structures and Cosmetics
(2007) porta il marchio Subpop, storica etichetta
che ha immortalato il grunge di Nirvana e
Soundgarden. Il duo composto da Jonathan
Bree e Heather Mansfield arriva dalla Nuova
Zelanda, con un suono originale quanto basta.
Melodie che si infilano nel cervello, testi ironici
quanto criptici. Abbiamo parlato con Heather.
Siete partiti dal nulla, Jonathan lavorava
in un negozio di dischi. Ora si parla
sempre più di Brunettes. Come ci si sente
a suonare su palchi sparsi per il mondo?
Beh, ci stiamo pian piano abituando all’idea di
diventare famosi (ride). Io e Jonathan suoniamo
insieme da circa 10 anni, veniamo da esperienze
musicali diverse. Speriamo che col tempo The
18 musica
Brunettes diventi un nome sempre più grande.
Nell’ultimo album c’è Brunettes against
Bubblegum Youth, canzone in cui - già
dal titolo - prendete in giro i giovani.
Eppure è finita sullo spot di “Hollyoaks”,
una delle soap opera più seguite in
Inghilterra, soprattutto dai ragazzi (in
onda su Channel 4, ndr). Non vi sembra
una contraddizione?
No, non lo è. Dietro a Brunettes against
Bubblegum Youth c’è una storia interessante. Si
chiamava originariamente “B.A.B.Y.”. Solo che
la nostra casa di produzione pensava fosse una
cattiva idea usare B.A.B.Y. come titolo di una
canzone irriverente. Soprattutto per eventuali
conseguenze legali. Per evitare di metterci nei
guai, Jonathan se n’è uscito con un nuovo titolo,
Brunettes against Bubblegum Youth. Che guarda
caso ha come acronimo proprio “B.A.B.Y.”. Uno
scherzetto simpatico.
Le vostre canzoni sono, appunto, piene di
ironia. If you were alien è straordinaria,
parla di un amore extraterrestre. Pensate
mica di lasciare la Terra?
Anche in questo caso, If you were alien è una
specie di scherzo. Volevamo una canzone che
parlasse d’amore, della fase di innamoramento.
Condizione interessante, quella in cui si è
innamorati. Che con la canzone diventa qualcosa
in più delle semplici battute sulla ragazza della
porta accanto.
If you were alien è grandiosa anche per
la musica, all’inizio sembra quasi una
canzoncina cinese.
Davvero? Favoloso, non ci avevo mai fatto caso.
Parliamo di influenze musicali.
Per quest’ultimo album io e Jonathan ci siamo
rifatti molto alle atmosfere anni ’60, come anche
in passato. A cui si aggiungono Beach Boys e
Blondie. Ora, però, ci stiamo guardando attorno,
cercando di ascoltare qualcosa di più recente.
E il paragone con i Beatles, che tanto
piace alla critica? Quanto può pesare sulla
vostra musica?
Finché si parla del fatto che sia noi che i Beatles
facciamo parte della “pop music” va bene.
Però, in fin dei conti, non è un paragone così
importante per noi.
Anna Puricella
musica 19
MASSIMO
ZAMBONI
Si intitola L’Inerme è l’Imbattibile ed è il nuovo
lavoro dello storico fondatore e chitarrista
dei CCCP e dei CSI. A quasi quattro anni di
distanza da Sorella Sconfitta, il suo primo vero
disco solista, il musicista reggiano ritorna con
un’opera multidisciplinare pubblicata dalle
edizioni musicali de il manifesto: un cofanetto
contenente, oltre al disco, anche un dvd del filmdocumentario Il Tuffo della Rondine di Stefano
Savona e un libro che è una sorta di quaderno
di riflessioni e appunti. Massimo Zamboni parte
20 musica
da Mostar - la città bosniaca nella quale, ai
tempi della guerra fratricida, con i Csi tenne dei
concerti sotto le bombe - per un viaggio verso tutti
gli Est del mondo. La musica riparte idealmente
sullo sfumare delle note di Sorella Sconfitta e
si porta appresso tutte quelle caratteristiche –
l’incedere ipnotico, le asprezze, la poesia - che
furono il marchio di fabbrica dei CCCP prima
e dei CSI dopo. Sebbene Massimo questa volta
si misuri in maniera più netta con il canto, non
mancano le ospitate di voci importanti, quella
rauca e suadente di Nada, quella della soprano
Marina Parente e quella dell’arabo-pugliese
Nabil Salameh.
L’impressione che ho è che ormai la
musica in quanto tale ti stia sempre più
stretta. Interpreto così l’uscita di questo
disco che è anche un quaderno di appunti
ed un dvd.
Anche se non sembra io ho fatto una scelta di
questo tipo in difesa della musica perché credo
che chi fa musica oggi ha il dovere di interrogarsi
pesantemente. Oggi la musica è un genere
al ribasso e credo che per uscire da questa
situazione la musica deve avere il coraggio di
confrontarsi e perdersi in altre forme. Per i temi
impegnativi che ho voluto trattare ho sentito
la necessità di dare spazio alle parole e alle
immagini.
Quattro anni fa ci hai suggerito di
coltivare ed amare la nostra sconfitta, che
dipingevi addirittura come una sorella.
Adesso ci poni un altro concetto spigoloso:
l’inermità. Perché l’inerme – colui il quale
non porta armi - è imbattibile?
Parto da Sorella Sconfitta. L’inermità mi è
sembrata la logica prosecuzione. L’inermità
è una categoria centrale nel nostro mondo e
dobbiamo porci continuamente, in un periodo di
guerra come questo, la domanda: chi è l’inerme?
Non sono solo le popolazioni in guerra. Siamo
anche noi che inermi potremmo diventarlo da
un momento all’altro. Comunque così come con
Sorella Sconfitta partivo dalla mia di sconfitta,
alla stessa maniera adesso parto dalla mia
inermità. Cerco di mettermi in gioco, è questa la
scommessa delle mie canzoni.
Canzoni che anche stavolta affidi, per
toccare più registri, ad alcuni ospiti come
Nada, Marina Parente e Nabil Salameh.
Ma in questo caso utilizzi maggiormente
anche la tua di voce.
Mi sono molto divertito a cantare… cambierò la
professione sulla carta d’identità, da musicista
a cantante (ride)… però come dici tu, le voci
mi servono per confrontarmi con altri registri,
per aggiungere colore e suoni. Comunque non
sono mai troppo ripiegato su me stesso, se una
canzone richiede un’interpretazione femminile
non vedo perché negarlo.
Nel cofanetto dicevamo c’è anche un dvd
che contiene Il Tuffo della Rondine di
Stefano Savona, film–documentario sulla
città bosniaca di Mostar. Quando l’ho visto
ho pensato nemmeno tanto casualmente
a Cupe Vampe, canzone che mi bruciava
dentro qualche anno fa, quando a bruciare
era pure un bel pezzetto d’Europa.
Per me tornare lì ha il significato di ripartire
da lì. Ci sono luoghi che, come dici tu, bruciano
dentro, ma dobbiamo stare attenti a non
consumarli. Non si parla più di ex-Jugoslavia,
di Bosnia. Non possiamo consumare quei luoghi
solo nei momenti di tragedia. Bisogna tornarci.
E io ci sono ritornato, dopo esserci stato più
di una decina d’anni fa con i CSI. Mostar è
cambiata e anche io non sono più lo stesso. E’
una città che ti permette di vedere a nudo la
condizione umana.
Cambiando argomento, ti manca una
band?
No, assolutamente. Non mi mancano le tensioni
di una band, non mi mancano i legami. Certo, una
band ti dà molta capacità di approfondimento.
Comunque sono circondato tuttora da ottimi
musicisti e no, non credo che formerò mai più
una band.
Massimo, i cd di solito come oggetti fanno
schifo. Questo invece è parecchio bello.
Hai assemblato tu la confezione?
Si. Ovviamente la scultura non è mia ma di
una bravissima artista che si chiama Beatrice
Pasquali ma la confezione l’ho pensata io e
l’ho curata come fosse una sorta di canzone
aggiuntiva. Anche perché non se ne può più di
pagare a caro prezzo delle orribili scatolette di
plastica. A quel punto è meglio scaricarli. Io
invece credo che i dischi, sin dalla copertina,
devono essere capaci di ‘scaldarti la mano’.
Il cofanetto esce col marchio del
Manifesto…
Si ma l’abbiamo prodotto in casa. Molto
impegnativo ma casalingo. L’appoggio del
manifesto ha poi aperto degli scenari impensati.
Nessuna casa discografica avrebbe potuto
sostenere un progetto del genere perché non
lo capiscono…se chiedi ad un discografico cosa
vuol dire ‘inerme’ non è in grado di dirtelo… Col
manifesto invece c’è stata subito una comunanza
di vedute e hanno capito perfettamente la
necessità di un’opera così complessa. E poi
loro sanno dov’è Mostar… se lo chiedi ad un
discografico invece (ride) …
Ilario Galati
musica 21
PORTISHEAD
Third
Island
Se Beth Gibbons non fosse nata
a Bristol, la capitale mondiale
del trip-hop (e non solo di quello), ma in Italia, magari nel
profondo Sud, in qualche borgo
calabrese dove la tradizione ha
la meglio sul progresso, forse
quella chioma bionda e quel
fascino magnetico sarebbero
a disposizione della comunità.
Forse Beth sarebbe una prèfica, una donna che piangeva i
morti a pagamento in occasione dei funerali. E credo che ci
si sarebbe impegnati per avere
Beth in tutte le funzioni. Se i
Portishead non si fossero riuniti, il trip-hop, bandiera mai
del tutto ammainata ma a
mezz’asta da troppo tempo, non
avrebbe mai avuto né la parola fine né la seconda puntata.
Sarebbe stato un incompiuto:
impossibile, per il peso specifico (e la conseguente eredità)
di quello che, a livello musicale, può essere definito l’ultimo
sussulto degli anni ‘90. Se ci si
fosse fermati a Dummy (1994),
un cd assolutamente irripetibile, per loro come per chiunque
altro, avremmo a che fare con
un disco leggendario infarcito da una marea di rimpianti.
Ma la storia non si fa con i se, e
così Beth è tornata a casa dopo
dimenticabili progetti solisti, a
Bristol il trip-hop è stato tirato
via dai cassetti e ripulito da un
po’ di polvere stantia. E così,
aspettando il tanto annunciato Weather Underground dei
Massive Attack ci godiamo la
terza fatica di studio del terzetto britannico. I 10 anni di
pausa si percepiscono, ma non
in modo determinante. Il suono
è aggiornato, ma l’estetica del
dolore, incarnato da sempre
da un’ancora imprescindibile Beth Gibbons, è rimasta la
stessa. Third raggiunge punte
di eccellenza assoluta laddove
si corrono i rischi maggiori,
laddove la prèfica non deve
solo piangere ma guidare le
danze, laddove l’elettronica le
fornisce un caldo riparo. E allo
stesso tempo Geoff Barrow e
Adrian Utley sarebbero due
figuranti di lusso se non disponessero di cotanta chanteuse.
Lo testimonia The Rip, dove
il cantautorato non avrebbe lo
stesso senso se non supportato dai sintetizzatori. L’opener
Silence, al primo ascolto in
particolare, è un viaggio emotivo difficilmente traducibile in
parole. La traccia migliore, la
numero 9, Small sarebbe piaciuta molto anche a Jim Morrison. È l’album tutto a rapire,
indistintamente. I Portishead
sono un’alchimia difficilmente
ripetibile. La speranza è che ne
siano consapevoli anche i protagonisti. Noi, 10 anni, non li
vogliamo più aspettare.
Dino Amenduni
NICK CAVE AND
THE BAD SEEDS
Dig!!! Lazarus Dig!!!
Mute Rec.
Lazarus dig!!! è l’ultima fatica
di Nick Cave & The Bad Seeds,
dopo la bellissima ed evocativa colonna sonora di Cave e
Warren Ellis per The assassionation of Jesse James (by
the coward Robert Ford), con
la quale i due hanno messo in
mostra la loro spaventosa poliedricità artistica. Che Warren
Ellis sia divenuto l’alter-ego di
Nick Cave prendendo il posto
che fu di Mick Harvey è ormai
inequivocabilmente un dato di
fatto, lievitato pian piano attraverso gli anni ‘90 ed i primi
del nuovo millennio con album
indimenticabili come The Boatman’s Call, No more shall we
part, Nocturama ed Abattoir
Blues: dalla scarna essenzialità di violino/viola il suo parterre strumentale/chitarristico/
tastieristico è divenuto stupefacente nel recente progetto
Grinderman, sino a stravolgere
i connotati del sound Bad Seeds con inquietanti cromatismi vintage/futuristi. Questa
rimane la novità più rilevante
anche di Dig!!! Lazarus dig!!!,
che vede per l’ennesima volta
l’inossidabile australiano nei
panni del predicatore sacro/
profano ormai maturo sciorinare liriche grevi di ossessioni
bibliche (il titolo dell’album è
tutto un programma!), paranoie esistenziali ma anche di speranza mai sopita. Il sound generale dei Bad Seeds e di brani
come Albert Goes West, Today’s
Lesson, Lie Down Here (& be
my girl), Midnight man, Moonland, sapidi di accattivanti evoluzioni, è più agile e spigoloso
dei barocchismi gospel di Abattoir Blues: il furioso/eclettico
side-project Grinderman ha lasciato un impronta profonda. Il
Cave più lirico degli anni ‘90 si
ripropone in Jesus of the moon
e Hold on to yourself: come non
provare gli stessi brividi caldi
di allora?
A sorpresa (graditissima) We
call upon the author e la lunga
farneticante More news from
nowhere scompaiono (inconsciamente?) nelle sabbie mobili di un’ipnosi esattamente a
metà strada tra Velvet Underground e Joy Division.
Passato e sperimentazione
s’incrociano con impareggiabile
classe.
Pasquale “wally” Boffoli
musica 23
Il Salento
nonèGrande.
È nel Mondo.
LeccePrima.it
quotidiano on line
ADELE
19
Xl Records
Non avrei mai immaginato che
il mio primo 10 in pagella sarebbe giunto così, per una carneade, l’ennesima giovane talentuosa londinese (Tottenham
per la precisione), anche in
questo caso non bellissima, che
viene presa per mano da valenti talent scout (Mark Ronson vi
dice niente?), viene mandata
su tutte le copertine con qualche etichetta che fa più o meno
così: “la nuova…”. Quante volte
abbiamo visto sensazionalismi
del genere? In questi ultimi
anni la tendenza è schizofrenica, non c’è nemmeno il tempo di
pubblicare un album a un’artista, che subito viene fuori la
nuova qualcosa, il nuovo qualcuno. Adele è la nuova Amy Winehouse? Assolutamente no. Ed
è un bene. Amy ha e avrà sempre qualcosa in più dal punto di
vista della personalità, ma se
parliamo di musica (e basta),
dovrà darsi da fare per tenere
la leadership. Non si sentiva
un album così emozionante da
anni, sinceramente. Grandissime doti vocali (ed ecco qua il
tam-tam della “nuova…”) accompagnate da un songwriting
ispirato (“scrivo solo quando
sono depressa”, dice la 23enne). Un pop coraggioso, pulito,
non ruffiano. Nessun punto debole: risulta in qualche misura
limitante indicare le migliori
canzoni in un lavoro così organico. Ma se proprio dobbiamo,
vi suggeriamo Chasing Pavements, che ha convinto anche
la gerontocrazia radiofonica
italiana. È nata una stella. E
speriamo che non ci si affretti
nella scoperta della nuova Adele, perché c’è da godersi pienamente lei. L’originale.
Dino Amenduni
DAVID SHRINGLEY
Worried Noodies
Tomlab
David Shrigley è un artista
scozzese, scrittore, disegnatore, regista di Glasgow. Stravagante ed originale ha deciso di
fare un disco senza musica…
o meglio lui ha scritto i testi
ed i disegni e poi insieme alla
Tomlab, etichetta per cui esce
il disco, ha cercato e trovato
39 artisti conosciuti o meno
che hanno musicato le sue parole. All’interno del cd infatti
è disponibile un file pdf sul
progetto, che contiene le opere di David Shringley. Dal
punto di vista musicale, non è
di semplice ascolto, o meglio,
confonde l’ascoltatore. Molto
spesso i generi di band troppo
diverse tra loro si intersecano
disorientando l’ascolto. Inoltre
ogni pezzo dura circa 1 minuto, giusto la parte introduttiva.
Che poi partecipino band come
Hot Chip, Deerhoof, Franz
Ferdinand, Liars, Trans AM,
Casiotone, David Byrne non
può non essere che una buona presentazione, ma tuttavia
alla fine anche questi nomi rischiamo di scomparire tra la
confusione. Certamente è un
bel progetto, innovativo, sicuramente, ma non dal punto di
vista musicale.
Federico Baglivi
BLACK MOUNTAIN
In The Future
Jagjaguwar/Wide
Al secondo album, dopo l’omonimo esordio del 2005, i canadesi Black Mountain svaccano
di brutto. Un pastone di folk
diarrotico, hard rock, psichedelia pleonastica e (noooh!!!) progressive, attuale come l’orologio
a cipolla del vostro trisavolo.
Chiaro, mentre tu sei in preda a una signora dispepsia da
iperacidità, tutti i critichini che
contano stanno già gridando al
miracolo. Metti su questo disco
e la prima cosa che ti viene in
mente è: “Maledetti fricchettoni, ma non si erano estinti?” La
seconda è: “Peggio di loro solo
i Mars Volta”. E intanto sviti
il tappo del flacone di Maalox
Plus da 200 Ml. Automedicazione. Sospensione orale. Automedicazione. Principio attivo:
magnesio idrossido; alluminio
idrossido; dimeticone. Automedicazione. C’è un pezzo che si
chiama Angels ed è l’unico passabile dell’intero lotto. Il resto
musica 25
fa francamente schifo. Automedicazione.
Automedicazione.
Automedicazione!!! (N.g.d’a.)
BAUSTELLE
Amen
Warner
uno strumento per mescolare
senza timori le varie influenze che hanno caratterizzato il
gruppo, soprattutto quel gusto
per il tropicalismo che diviene
poi, un po’ a sorpresa, la cifra
distintiva di questo Amen. Bravissimi.
Dino Amenduni
MUSETTA
Mice To Meet You
Irma Records
THE RAVEONETTES
Lust Lust Lust
Sleeping Star
Quarta fatica di studio per
l’oramai terzetto originario di
Montepulciano (Fabrizio Massara ha lasciato la formazione
dopo La Malavita). Un album
che vince per netto distacco
sui precedenti: il più compiuto,
maturo, completo. Un lavoro
che decanterà lentamente e che
fra 10 anni verrà indicato come
uno dei manifesti della storia
pop italiana. C’è tutto per creare il culto Baustelle, dalla cura
(anche estetica) del dettaglio,
alla personalità di Francesco
Bianconi che convince sempre
di più ai testi (e sempre meno
alla voce) alla straordinaria
Rachele Bastreghi che non a
caso appare presente come non
mai alla voce e che è protagonista del miglior pezzo dell’intero
album, quella Dark Room che
ci auguriamo diventi un singolo. Gemme su gemme in album
che, nonostante le sue 15 tracce, presenta ben pochi momenti
di stanca. Su tutte Baudelaire,
pronta a fare la storia; umorismo nero e menzione meritoria
anche per Spaghetti Western.
L’iperproduzione caratteristica dei Baustelle “multinazionali” viene qui utilizzata come
26 musica
Terzo disco in studio per il duo
danese che torna con un lavoro
che segna inequivocabilmente una nuova rotta rispetto al
precedente Pretty in Black. Registrato a New York, Lust Lust
Lust pur non accantonando i
chiari riferimenti agli anni ’50
e ’60, si presenta con un sound
chiaramente shoegaze tanto
da costituire una nuova vita
musicale per Sune e Sharin.
Maggiormente oscure rispetto
al passato, le canzoni di Lust
Lust Lust, come suggerisce il
titolo, ruotano attorno al tema
del desiderio e delle passioni. I passaggi “catatonici” la
fanno da padrone e un po’ di
noia sovente affiora al termine
dell’ascolto ma non mancano
momenti riusciti come l’apertura di Aly Walk With Me (ritmo
agonizzante, voce cantilenante e riff assassino) o l’omaggio
(consapevole o no, non importa)
a Jesus and Mary Chain di You
Want The Candy.
Ilario Galati
Il duo milanese Musetta si
presenta subito con un accuratissimo art work, che colpisce sicuramente l’osservatore.
Ma Matteo Curcio e Marinella
Mastrosimone non si limitano
soltanto all’estetica. I due si
muovono su linee di suono apparentemente inconcilianti richiamando costantemente una
atmosfera noir da cinema anni
Trenta. L’elettronica appena
accennata, molto minimale,
ricorda molto da vicino il triphop dei Portishead, mentre la
voce assomiglia molto a Bjork.
Ma non è qui la novità del duo.
Sono i costanti riferimenti al
jazz e allo swing che colgono
nel segno, con il sottofondo
elettronico, rendendo ogni canzone un viaggio incantevole in
atmosfere da moderno Casablanca. Un disco per anime in
bianco e nero ma con qualche
sfumatura colorata.
Giuseppe Lisi
JOE JACKSON
Rain
Rykodisk
A cinque anni di distanza da
Volume 4, suo ultimo doppio
album in studio Joe Jackson,
l’eclettico geniaccio del pop
britannico (solo Costello è al
suo livello!) ritorna con Rain,
un lavoro che riesce a centrare
l’obiettivo non facile di fondere
energia ed eleganza compositiva. Jackson conferma una
ennesima volta uno stile inconfondibile affinato in trent’anni
di esplorazione di aree espressive a volte molto distanti tra
loro, dal punk alla classica, dal
jazz alle colonne sonore. Molti
i richiami in Invisibile Man,
Good Bad Boy, Citizen Sane,
King Pleasure Time ai suoi primi indimenticabili album fine
anni’70/inizi ‘80 trasudanti aggressività mod, ma non ci credereste, le chitarre in Rain sono
completamente assenti: a farla
da padrone ed a tessere tutte le
linee armoniche è il pianoforte
dell’artista, strumento che già
da tempo Jackson aveva mostrato di prediligere e nel quale
si è perfezionato. Esso in Solo
(So Low) accompagna addirittura in perfetta solitudine la
performance vocale di Joe priva
di sbavature. Complice un combo straordinario comprendente
il fedelissimo bassista Graham
Maby, Jackson elargisce raffinate melodie targate Bacharach (Wasted Time) e continua
nella sua affascinante ed ormai
interminabile
esplorazione
dell’armonia e dell’arte pop.
Pasquale Boffoli
BURNING SEAS
Extract Album
Promo Cd+Dvd
Un passo alla volta, senza fretta, questi ragazzi sono arrivati
a forgiare uno stile personale
e credibile, giusto punto d’incontro tra schemi derivati da
consistenti applicazioni di tecniche di old school thrash, nu
& death metal e schegge di
techno-metal a delinearne i
contorni (ma questo, forse, lo
sapevate se vi è già capitato di
ascoltare il loro precedente materiale). Arrivano dalla Puglia i
Burning Seas, terra assai fertile musicalmente parlando, ma
fuori dal giro del metal meno
ortodosso.
Tanto di guadagnato per chi
come loro segue da sempre soltanto l’istinto, al riparo dalle
solite iper-sfruttate convenzioni ed è riuscito a mettere in piedi qualcosa che scotta e riluce.
Camillo “RADI@zioni”
Fasulo
OFFLAGA DISCO
PAX
Bachelite
Santeria/Audioglobe
e alla new-wave ma soprattutto all’analogico, assolutamente
onesti nelle loro tessiture sonore. Ma cosa sarebbero gli Offlaga senza le intuizioni della
vita di città, delle piccole cose
che diventano insegnamenti
per la vita, della nostalgia viva
per un comunismo forse un po’
annacquato, à la Lula da Silva,
citato in Dove ho messo la mia
golf, di quel realismo sociale
che diventa poesia in prosa?
La formula Offlaga non perde
di credibilità né di appetibilità.
Questa è e sarà sempre la sfida
legata a un azzardo così grande:
non cantare. Allo stesso tempo
sento di non condividere pienamente la scelta ortodossa di
mescolare voce e musica, come
fossero un unico flusso indefinito. Non è così: apprezziamo la
modestia di Collini, ma è lui, il
più improbabile dei frontman,
a poter far emergere gli Offlaga
dalla (seppur) prestigiosa nicchia underground in cui si sono
posizionati.
Dino Amenduni
SUNTRACK
Deeply Inside
Snowbit
Max Collini, il più improbabile dei frontman, è finito su un
palco per la prima volta a 36
anni. E nemmeno grazie alle
sue doti vocali. Ingegnere di
Reggio Emilia, terra in cui i
CCCP hanno lasciato un segno ancora tangibile a oramai
20 anni di distanza dai loro
capolavori, scrive testi senza
i quali gli Offlaga Disco Pax
non avrebbero alcuna ragione
di esistere. Non me ne vogliano Enrico Fontanelli e Daniele
Carretti, gli altri componenti
della band, devoti al kraut-rock
Come una colonna sonora che
trae ispirazione dal mondo, la
natura… a questo fa pensare il
nome di questo progetto. Ampi
spazi in cui intersecare tracce
sonore che arrivano dalle cordinate più disparate. Musica che
musica 27
non ha coordinate geografiche
precise, difficile da datare sospesa tra passato e presente.
C’è un velo di psichedelia, che
sembra prendere aria, sfociare in “ambienti” sonori con
“progressioni” che affondano
le radici negli anni ‘70 ma ergono i loro rami verso galassie
lontane. Sono due, poco è dato
sapere di loro, sfogliando il
booklet e scavando tra i riferimenti sparsi tra note e parole
l’enigma si svela pian piano e
si scopre un disco veramente
bello. (O.P.)
YEASAYER
All Hour Cymbals
We Are Free/
Goodfellas
Middle
Eastern-Psych-PopSnap-Gospel. Significa tutto e
significa niente, ma è in questo modo che il cantante degli
Yeasayer, Chris Keating, ama
definire la propria musica. In
effetti non potrebbe esserci altro modo, dato che il quartetto
di Brooklyn mischia in uno stile personale numerosi generi,
dalla world music al pop, dalla musica etnica alle influenze
anni ’80. Il loro primo album
All Hour Cymbals rispecchia
appieno la loro stramba definizione già dalla open-track Sunrise che è un po’ di tutto, gospel
nella voce, ritmiche tribali,
un ritornello pop, elettronica
28 musica
minimale, il basso dub. Wait
for the summer sembra essere
una canzone per ingraziarsi la
divinità indù Shiva con tanto
di sytar e armonie orientaleggianti. Il singolo 2080 ha un
incedere molto più pop con chitarre in primo piano e un ritornello accattivante anche se non
mancano i riferimenti (continui) alla world music. Le successive tracce rivelano un’andatura più cosmica (Ah Weir),
ma il canovaccio rimane più o
meno sempre lo stesso, cioè coretti mistici, richiami orientali,
qualche ritornello pop. Certo
non mancano le buone canzoni
(la già citata Ah Weir, Wait for
Wintertime e la ghost track),
ma l’impressione è che proprio
quello che dovrebbe essere il
punto di forza del gruppo, ovvero una mistione ben congeniata
di diversi stili musicali, sia una
debolezza perché rende il suono
delle varie canzoni troppo simile e prevedibile, in una ricerca
a volte forzata di originalità.
Sicuramente è un debutto interessante, ma solo i futuri lavori
potranno dirci se gli Yeasayer
sono i pionieri di un genere
nuovo.
Giuseppe Lisi
24 GRAN­A
Ghostwriters­
La Canzonetta
Quinto album per il quartetto
partenopeo, ormai tra i veterani
nel circuito underground italiano, un disco in cui le classiche
caratteristiche sonore del gruppo, legate alla melodia napoletana con venature “dub-rock”,
danno maggior spazio al lato
cantautorale. La voce di Francesco Di Bella, in primo piano,
è costantemente accompagnata
da delicati arpeggi di chitarra
che permettono di raccontare
storie e sensazioni. Vari sono
gli ospiti che partecipano al
disco (produzione artistica di
Daniele Sinigallia), tra cui Riccardo Sinigallia in Avere una
vita davanti e Filippo Gatti in
Le Verità. Il disco, dalle atmosfere lente, scorre velocemente
e sembra raggiungere la sua
migliore espressione quando
i brani si vestono di melodie e
parole napoletane più che nelle
tracce in italiano. In generale il
risultato è buono ma non sconvolgente, come se l’evoluzione
dei 24 Grana avvenisse per piccoli passi ma costantemente.
Francesco AdV
EMOGLOBE
Emoglobe
Red vision
Che il grunge abbia lasciato
tracce indelebili nel rock è ormai pratica dell’ascolto. Ne
è rimasta l’attitudine un po’
come fu ed è per il punk. Figli di un carica, di una rabbia
che ancora oggi è dirompente
e capace di scuotere. Gli Emoglobe sembrano portare con sé
tutto questo, un’energia che si
sprigiona come sfogo, nervosa,
tesa, spigolosa mentre lascia
qua e là spiragli di melodia nelle aperture. Vengono da Milano, licenziati dalla nuova e promettente Red Vision, scelgono
l’inglese per esprimersi con la
stessa dimestichezza con cui
intrecciano inserti di elettronica e distorsori. Sanno pestare
duro come distendersi (bella e
alienante la ballata Northpole).
Ottima prova. (O.P.)
THE SLEEPING
YEARS
We’re Becoming
Islands One By One
Talitres
Quando ho ascoltato Nick Drake per la prima volta era se
come la vita lo sfiorasse appena, fosse lontana e lo accarezzasse come un vento leggero,
una brezza. Alcuni dicono che
solo gli anni permettono alla
tristezza di posarsi e addormentarsi. The Sleeping years,
sembra raccontare la ricerca
della pace, il ricordo del dolore,
l’intensità del vivere e la leggerezza del sogno. Quando un
uomo (Dale Grundle) abbraccia
il necessario per cantarsi l’effetto è penetrante, merito di
una lirica ispirata, di arpeggi,
archi e poco di più. Bello come i
Sodastream ci hanno abituato,
folk del nuovo millennio pronto
per emozionare. (O.P.)
MISSIVA
Sospeso
Produzioni Rock
Italiane / Andromeda
Carattere e personalità emergono con decisione dal debutto
ufficiale dei brindisini Missiva,
formazione di relativamente
recente costituzione ma evidentemente con le idee ben chiare
circa la propria identità artistica. Il solido rock proposto dalla
band mette bene in evidenza
qualità tecniche sicuramente di
buon livello come anche capacità di elaborare composizioni a
volte complesse e serrate ed a
volte più intense e di più ampio respiro. Figli “illegittimi”
di certo grunge stile anni ’90, i
Missiva attingono a piene mani
da certo rock a stelle e strisce
d’impostazione epica e drammatica, dove rabbia e melodia
si contrappongono rincorrendosi in continuazione, senza pur
tuttavia mai calcare troppo la
mano in direzione di sonorità
particolarmente ruvide o pesanti. Sospeso colpisce nel segno fin dal primo ascolto senza
lasciare emergere troppi dubbi
circa le potenzialità della band,
già matura per affrontare, con
la giusta determinazione, palcoscenici di tutto rispetto. Sembra infatti proprio la dimensione “live” quella in cui i Missiva
riescono meglio ad infrangere
la barriera del rapporto di coinvolgimento tra chi sta sopra e
chi sotto il palco!
Camillo “RADI@zioni”
Fasulo
ESSIE JAIN
We Made This
Ourselves
Leaf
Per chi non credeva che la musica classica potesse incotrare
il folk è arrivata, solo qualche
mese fa, Joanna Newsom. Questo bellissimo debutto di Essie
Jain ne è la riconferma. Più
virato verso il folk, dalle tinte autunnali, leggero come la
farfalla in copertina, ispirato,
lirico, struggente. A volte Essie
sembra non appartenerci, sfuggirci, poi si radica e riecheggia
in suoni che sembrano avere
il gospel come riferimento, poi
ancora sembra bussare timida alla porta di Will Oldham,
o tornare in Inghilterra da cui
è partita per poi stabilirsi in
America. Il suono da “camera”
non è che base su cui la voce
sorprendente per espressione e
gamma di sfumature si inerpica e gioca. Proprio come il volo
di una farfalla, irregolare, sorprendente, ma elegantissimo.
(O.P.)
WHY?
Alopecia
Tomlab
Il
marchio di fabbrica
Clouddead non può che essere
garanzia di qualità. Un terzo
di loro è motore di questo
progetto che porta avanti il
vessillo dell’hip-hop che flirta
con l’indie, il pop, la melodia.
Sarebbe tentati di mettere un
post, qualcosa nell’elenco di
generi possibili ma quello che
conta sono le canzoni. Come
un epigono di Beck, qualcosa
che attraversa i generi, li
campiona li mette in sequenza
in un collage figlio dei nostri
tempi, la cosa più vicina a
quello che siamo, un crossover
di esperienze che girano in
testa, il tempo necessario per
diventare un brano, a metà
strada fra rap e canzone. Un
gioco preso molto seriamente,
affiches postmoderni, guida
agli autostoppisti del futuro.
(O.P.)
musica 29
CAPAREZZA
Le dimensioni del mio
caos
Virgin
sta - l’utilizzo massiccio di strumenti tradizionali, chitarre in
primis, è un indiscutibile titolo
di merito - ma che lascia aperte
una serie di questioni, prima
fra tutte: come andrà a finire
tra Capa e il suo caos?
Dino Amenduni
TRABANT
Music 4 Losers
Rsvp!/Moscow
Michele Salvemini da Molfetta,
Puglia, è tornato. Quarto album
in studio per il nostro principale prodotto d’esportazione ed
ennesima spietata analisi della nostra società. Il Capa è in
grande, grandissimo fermento
creativo: pubblica quest’album
proprio mentre il suo volume
Saghe Mentali invade le librerie, non è mai uguale a sé stesso
nei suoi set dal vivo, dove annoiarsi è obiettivamente impossibile, re-inventa il fotoromanzo.
Le dimensioni è una sorta di
doppio concept album in cui
le storie di due personaggi di
fantasia, Luigi delle Bicocche,
“protagonista” dell’ottimo singolo Eroe e Ilaria Condizionata
sono funzionali alla narrazione
delle italiche sorti. Creatività e
caos spesso vanno a braccetto e
questo è apparso chiaro sin da
subito al Nostro, che forse ha
subìto la sua stessa verve e ha
messo fin troppa carne, seppur
pregevole, sul fuoco. Il risultato
finale è un album in cui le singole tracce funzionano (Abiura
di me su tutte) ma il complesso
appare un po’ forzato e ridondante. Un album comunque
positivo, che conferma le doti
di Caparezza come scrittore,
come sociologo - Vieni a ballare
in Puglia deve far riflettere i
nostri politici - e come musici30 musica
trattasi di muzak pre-party).
Nove brani per 28’ e 48”: il top
è rintracciabile in Girlfriend/
bestfriend (meno convincenti
quando tentano di inseguire
gli inarrivabili Planet Funk).
L’estate scorsa hanno suonato
sullo stesso palco di Joan as a
Police Woman e The Good, the
Bad and the Queen. Possibilità
di crescita? Abbastanza.
Nino G. D’attis
OTTAEDRO
Faggi In Fuga
Bassesfere
Nel Manicomio Italia (tutte le
mappe traumatologiche dei casi
più gravi sono andate smarrite)
ci sono giovani che fanno musica che qualcuno definisce “party oriented”. I Trabant sono un
quartetto di Trieste attivo dal
2004 e composto da Il Marcello: voce e chitarra; Joujou:
synths; Jack: batteria; Chuk:
basso. Un E.p. autoprodotto
nel 2005, quindi l’approdo sulle
sponde della Records! S’il Vous
Plait, coraggiosa etichetta udinese che ammette: “Amiamo le
canzoni. Crediamo che farne di
buone non sia cosa facile.”
Semi sparsi nel Trabant sound:
new wave funk, pop adulterato, elettronica neuromelodica.
Il loro primo album, nei negozi
da ottobre, dura lo spazio di un
video di media lunghezza su
youporn e anche se non brilla
per originalità è abbastanza
divertente, colorato, orecchiabile da metterti in condizione
di ascoltarlo mentre ti vesti per
uscire (correggiamo, dunque:
La musica, quando nasce, non
dovrebbe avere una destinazione, ma essere in balia di
suggestioni che solo le emozioni sanno leggere. È così che
progetti come questo giocano
saltellando tra i generi, prendendosi la libertà di perdersi
in fughe con corse all’inseguimento di un tema che scappa?
Come fosse piuma leggera, per
poi posarsi su una melodia o un
tempo dispari. Di grandi respiri è fatta la musica di questo
progetto, respiri che lasciano
spazio ai musicisti di tessere
senza manierismo ricami che
aggiungono stile alle composizioni. E non importa si attinga
dalla canzone popolare o dalla
musica colta, quello che sembra avere importanza è il viaggio, il percorso. Meno di un’ora
di musica, poche parole, tante
visioni. (O.P.)
CAMILLE
Music Hole
Emi
un dovere morale. Perché la
musica potrà anche non essere
più quella di una volta; ma se
nel giro di pochi mesi si ha il
piacere di recensire Amy, Adele e Camille non c’è motivo di
essere preoccupati. Anzi.
Dino Amenduni
CAMERA 66
In Sospeso
Autoprodotto
La musica non è più quella di
una volta, dicono. Forse è così:
spesso si utilizza questa frase
per indicare il declino delle produzioni negli ultimi anni. Forse
è vero che le cose sono cambiate in peggio. Ma quando le arti
si trasformano e violano canoni, spesso spiazzano. Quando
c’è la qualità, entusiasmano.
Questo è Music Hole, semplicemente l’album dell’anno. E
dire ciò in primavera vuol dire
essere di fronte a un prodotto di valore assoluto. Da mesi
non si avvertiva un senso di
novità e allo stesso tempo non
si provavano simili brividi. Un
album perfettamente coerente
ma composto da tante piccole
storie, tante tracce che vivono
da sole. La produzione, a cura
di Matthew Kerr, si muove tra
il visionario e il folle ed è attorno a suoni liquidi e destrutturati che la parigina Camille
esplode. La sensazione che
si prova è quella di una forza
della natura che si diverte con
suoni messi lì quasi a caso, poi
decide che deve mettere tutto
in ordine con la sua voce, e lo fa
tutte le volte. La parigina canta in inglese e si candida così al
ruolo di primazia nel pop d’autore. Il timore, come sempre, è
che prodotti del genere passino
inosservati: anche per questo il
parlare di Music Hole è quasi
La parola, spessore alla parola,
le parole sono importanti. E in
Italia, ce lo hanno sussurrato
o urlato gente come i Cccp, i
Massimo Volume e i più attuali
e alla moda Offlaga Disco Pax.
I Camera 66 si muovono in
questi territori. Musicalmente
legati al post rock, lirici, scuri, cinematografici, concedono
alle parole cornice che diventa
sostanza e alimenta i brani.
Atmosfere aeree si alternano
ad altre sotterranee, il livello
emotivo generale è denso, teso,
ha il sapore di questi anni, sintonizza stati d’animo che ci appartengono. (O.P.)
THE LAST SHADOW
PUPPETS
The Age Of The
Understatement
Domino
Alex Turner (Arctic Monkeys),
Miles Kane (Rascals), James
Ford (batteria, produzione):
non lasciatevi ingannare dai
nomi, però. Il disco si apre in
grande stile con un’acida galoppata morriconiana. Eccessiva,
ma non pomposa. È un album
ambizioso che mostra le elevate
doti di Turner come cantautore
e compositore. Il materiale è di
una compattezza disarmante, i
pezzi freschi, ispirati e carismatici. Sorprende la coesione fra i
ragazzi e la London Metropolitan Orchestra. Psichedelia e
poi ancora psichedelia, echi del
miglior pop-folk-rock di Sixties
e Seventies con in testa S. Walker e Axelrod. Only the truth è
teatrale, una marcia acida; ha
la struttura e la violenza punkhardcore old school, ma sonorità western. In I don’t like you
anymore s’intravedono gli Arctic Monkeys, e il pezzo chiude
con grida da film horror. L’album è un vero e proprio vortice.
Un ispirato omaggio ai Sessanta e Settanta. Pur presentando
arrangiamenti estremamente
articolati ed orchestrati, il disco non suona mai pomposo o
scolastico. Vedi la sobrietà di
Meeting Place, fantastica crea
tura uscita dal ballo di fine
anno di un american-college
nei Sixties. Ma che ispirazione!
Che talento! Travolgente.
Tobia D’Onofrio
EFTERKLANG
Parades
Leaf
Ritorna il gruppo danese con
Parades, undici tracce, uscito
musica 31
fai-da-te. Un’attitudine quella
dei Beach House che se fosse
trasportata in video avrebbe
lo stesso impatto di un vecchio
filmato in Super-8 affascinante
e retrò quanto basta.
Marco Chiffi
per la Leaf. Dopo il loro disco
d’esordio Tripper, con ottimi
risultati, molti avevano gli
occhi puntati addosso agli Efterklang. In parte le aspettative non sono state deluse. Sono
sempre loro, elettronici tanto
quanto basta per strizzare l’occhio alle atmosfere islandesi,
glitch e pop, alla base, e poi una
atmosfera folk con l’aggiunta
di arrangiamenti orchestrali.
Forse troppo orchestrali, da
saturare e rendere a volte inascoltabile il sottofondo sonoro.
In ogni modo un bel disco, quasi all’altezza del precedente.
Tra i pezzi migliori Polygyne,
avvolgente melodia glitch che
sembra via via accrescersi in
un suono orchestrale, e Frida
found a friend, velata di tristezza e sulla linea del precedente lavoro.
Federico Baglivi
BEACH HOUSE
Devotion
Carapark-Bella Union
Indie o dream pop, poco importa. Come vogliate definirla
la musica dei Beach House è
sognante ed eclettica. Il duo
di Baltimora ci mette tante tastiere vintage, drum machine
essenziali e la splendida voce
di Victoria Legrand a trasportarvi in un posto lontano, che
sia una spiaggia sul Pacifico o
una festa di adolescenti. L’altra metà del duo è Alex Scally
che oltre che fare il musicista
è pure falegname e fanatico del
32 musica
DEAD CHILD
Attack
Quarterstick
VAMPIRE WEEKEND
Vampire Weekend
Xl Recordings
Si, è successo di nuovo. Demo
che passano di blog in blog,
persone che si riscoprono fan e
l’etichetta (la XL Recordings in
questo caso) che sente un buon
profumo nell’aria e fa firmare
un contratto a quattro ragazzotti. La storia è trita e ritrita
e con qualche pregiudizio poi ti
metti all’ascolto e ci resti anche
un po’ male quando scopri che
è un lavoro maledettamente
buono. Perché questi quattro
sembrano venire dalla savana
africana e invece sono di New
York e quindi la grande mela
diventa nerissima e coloratissima al tempo stesso. Da APunk a Walcott è una catena
di rimandi all’afrobeat e alla
musica classica con tutto l’indie di oggi a mettere le basi.
Ma la cosa che infastidisce di
più è che tutto questo pare venirgli con troppa semplicità. E
mentre non riesci a capire se ti
stanno simpatici o meno, senti
già il bacino ondeggiare e il piede tenere il tempo per terra.
Marco Chiffi
Chi ha seguito gli albori del
post-rock non può non conoscere David Pajo. Un musicista
capace di scrivere la storia della musica, con Slint, Aerial M,
Tortoise, Stereolab e The For
Carnation. Con questi ultimi
suonano Michael McMahan e
Todd Cook che lo seguono nei
Dead Child. Le radici del movimento, ovvero Bastro o Squirrel Bait, hanno sperimentato
all’estremo e definitivamente
ucciso il sound post-punk e
metal-core. Era prevedibile
che con la riunione Slint, lo
sguardo indietro nel tempo
potesse riportare la voglia di
certe sonorità metal, posthardcore, trash, ecc. Non sorprende perciò ritrovare Pajo in
un disco che sembra uscire da
quel periodo. I Dead Child sono
sporchi, pesanti, talvolta ipnotici. Non c’è traccia di assoli
iper-tecnici o di gorgoglii vocali
di band classicamente heavy
metal. Le sonorità sono trash,
a volte ricordano Kyuss, Orange 9mm oppure sfoderano bei
riff e progressioni. Ma la voce
non convince e suona soffocata
e monotona. Come l’impianto
ritmico, rigido e poco vario. Da
uno come Pajo ci si aspettava
certamente di meglio. Un disco
che all’epoca non avrebbe sfondato. Ed ora come ora, se proprio trovasse orecchie per meri-
to del curriculum dei musicisti,
sarebbe quasi un miracolo.
Tobia D’Onofrio
THE NIRO
The Niro
Universal
ALMAMEGRETTA
Vulgus
Sanacore Records/
Edel
I figli di Annibale ritornano
sulla scena musicale italiana
con un disco di chiara matrice dub napoletana, come è nel
loro stile, in cui nuove e vecchie
voci del gruppo si intrecciano o
si alternano. Dopo la defezione
di Raiz (voce), comunque presente in una traccia del disco,
e la scomparsa di D Rad (dub
master) il gruppo si è arricchito inserendo nuovi elementi
come Lucariello e Zaira (voci),
ripescando vecchie conoscenze
come Princess Julianna (già
in Lingo, 1997) o chiamando a
collaborare un veterano come
Horace Andy, una delle voci
più belle del reggae internazionale. La produzione è ottima,
a dimostrazione di quanto di
buono gli Almamegretta siano
riusciti a seminare in tutti questi anni, si ha l’impressione che
il gruppo abbia ancora qualcosa da dire non solo a livello
nazionale. Un brano su tutti è
Just say who cantato da Horace Andy, una vecchia canzone
dell’artista giamaicano rivisitata con le classiche atmosfere
dub - reggae del gruppo, un
piccolo capolavoro. Il disco affronta, tra le altre, diverse tematiche sociali filtrandole con
lo spirito popolare napoletano
o ancor di più mediterraneo; è
forte in Vulgus lo stato di ansia
che si respira in questi ultimi
anni in Italia. L’album, ad eccezione di qualche brano che
non aggiunge sostanza al disco,
è nel complesso ben riuscito ed
è manna dal cielo in un panorama musicale italiano sempre
più piatto.
Francesco AdV
Lui confessa però di preferire
il padre Tim, ma anche Elliott Smith e Sufjan Stevens.
Il disco è abbastanza vario con
una prevalente attitudine alla
malinconia, però ci sono anche
brani di più ampio respiro, più
allegri. Canzoni brevi, intime,
struggenti… è una musica di
incantesimi quella di Davide
“The Niro” Combusti.
Camillo “RADI@zioni”
Fasulo
DolceMENTE
Il temporale estivo
Autoprodotto
The Niro è il nome d’arte di Davide Combusti – ventinovenne,
musicista e cantautore romano
– che a pronunciarlo ricorda
tanto quello del noto attore Robert De Niro. Con un mini CD
alle spalle, An Ordinary Man e
questo album lungo, auto-intitolato, da poche settimane nei
negozi, Davide potrebbe essere
scambiato facilmente per una
stella nascente della nuova
scena britannica, ma non è così
anche se scrive e canta in inglese i suoi brani. Intanto sorprende sin dal primo ascolto la
sua personale vena poetica condensata in queste tredici gemme di drammatica tensione,
ai confini del pop… E poi The
Niro è bravo, garbato, sottile.
Della sua musica dice che non
assomiglia a quella di nessun
altro, o meglio, che non è ispirata a quella di nessuno in particolare. Ma la sua voce educata e controllata, la sua chitarra
che emoziona facilmente, gli
arrangiamenti minimali e, insomma, un po’ tutti i suoni che
produce, non possono non ricordare i Muse, i Radiohead, Nick
Drake, ma anche Jeff Buckley.
Si insinua piano, senza far
troppo rumore, semplice, senza fare troppi giri e per questo
è disarmante. La musica dei
DolceMente è così, lontana da
tutto e allo stesso tempo vicina
come un segreto detto all’orecchio. Pop, indie negli ascolti, in
italiano con coraggio. Pensate a
gruppi come Yuppy Flu, Grandaddy, Sparklehorse, gente che
prende la parte intima della
musica e la mette in melodia.
Ecco, i dolceMente sembrano
cugini non lontanissimi di questa scena. Atmosfere oblique, la
voce di Simone un po’ spigolosa
ma smussata qua e là da armonie minime che creano nell’intreccio un tessuto sonoro caldo
e affascinante. Un esordio che
vanta alcuni nomi cari alla scena rock salentina affiancati da
nuove leve. Veramente promettenti. (O.P.)
musica 33
IRMA RECORDS
La Irma Records, tra le etichette italiane,
è sicuramente la più “nostalgica”. Punto di
riferimento per la scena lounge italiana e non solo,
custode di generi e sonorità vintage ma anche
promotrice di nuovi suoni e contaminazioni.
Che rapporto avete con la nostalgia?
In ambito musicale siete un punto di
riferimento, in Italia e non solo, per tutto
ciò che è vintage e profuma di anni ‘60?
Gli anni ’60 sono stati sicuramente il periodo più
bello della musica. Ancora oggi puoi ascoltare un
qualsiasi disco di quel periodo e lo trovi più fresco
e interessante di tanti dischi attuali. Questo vale
per tutti i generi musicali. Quindi è normale che
i riferimenti con quel mondo siano continui.
Una cosa fondamentale era l’importanza della
melodia, cosa che oggi si è persa molto. Noi, nel
nostro piccolo, siamo molto influenzati da quello
ma ovviamente cerchiamo di “attualizzare” il
tutto con la tecnologia e le sonorità di oggi.
Ma la Irma non è solo questo, in questi anni
siete cambiati, vi siete evoluti, senza mai
34 musica
rinunciare a uno stile, ci racconti un po’
della vostra storia?
La Irma nasce nel 1988 come etichetta dance
legata all’esplosione della House Music. La
prima crisi che si è creata dal cambio di supporto
tra Vinile e Compact Disc ci ha aiutato a
cambiare anche il nostro genere musicale che
si è evoluto in conseguenza del fatto che non si
ragionava più solo su brani singoli, ma su interi
album. Con l’album dei Jestofunk Love in a
Black Dimension abbiamo iniziato a cambiare
pelle definitivamente. Dall’allora dilagante Acid
Jazz abbiamo esplorato un po’ tutte le tendenze
che via via negli anni hanno attraversato il
mondo della musica da club, intesa non solo
come musica Dance, ma come musica da “locali di
intrattenimento”. Quindi abbiamo praticamente
“inventato” la Cocktail music, grazie a Montefiori
Cocktail e le compilation Mo’Plen, e siamo
entrati prepotentemente nel mondo del ‘lounge/
chillout’ passando per il trip hop, il break beat, il
drum’n’bass, e tutte le varie ramificazione della
musica elettronica, cercando di avere sempre un
doppio riferimento: la black music e la melodia.
Un’etichetta di “prim’ordine” che ha in sé
una serie di marchi, categorie, sfumature.
Ce ne parli?
Come molti sanno il nome “primordine” deriva
dal nome originario della Irma: i locali dove
abbiamo iniziato a lavorare erano gli stessi dove
negli anni ’50 c’era il più famoso ‘bordello’ di
Bologna, che si chiamava appunto “Irma Casa
Di Prim’ordine”. Come dicevo prima, affrontando
un po’ tutto il panorama della musica da club si
è creata ad un certo punto la necessità di dare
una connotazione più precisa ai generi musicali.
Quindi abbiamo evidenziato per esempio il
genere Cocktail e più dichiaratamente legato agli
anni ‘60 e ‘70 con l’etichetta La Douce. Abbiamo
fatto una lunga serie di compilation lounge/chill
out su un marchio a nome Irma Cafè. La musica
elettronica ha due diverse posizioni su Cuadra e
Irma Elettrica. La musica House è su Unlimited
e così via.
Tra le vostre novità anche la salentina
Agnese Manganaro, ci parli un po’ delle
vostre ultime uscite?
Da qualche anno abbiamo iniziato anche a
produrre musica in lingua italiana e Agnese
è sicuramente l’artista che più di tutte ci è
sembrata si “sposasse” con la nostra filosofia.
Finalmente dopo tre anni circa siamo in procinto
di pubblicare il suo album. Siamo in uscita in
questi primi mesi del 2008 con gli album di:
Bengi Jumping, il leader del gruppo Ridillo
nella sua veste più Cocktail, Musetta, un duo
milanese voce e musica elettronica che ha avuto
grande visibilità sul web e dal vivo, Supabeatz,
un giovane produttore siciliano di musica
Electro e Zone, un progetto del musicista jazz
Enzo Torregrossa, che con l’ausilio di diversi
cantanti ha fatto un lavoro molto raffinato ed
internazionale.
Come immagini il futuro della musica? Con
uno sguardo sempre rivolto a ciò che di
bello ci ha regalato il passato?
Il futuro è molto incerto, soprattutto per
quello che riguarda l’industria musicale. I
supporti registrati non si vendono più quindi
sta cambiando tutto il concetto del business.
Ma se parliamo solo di musica da ascoltare è
molto difficile a dirsi. Non mi sembra che negli
ultimi anni ci siano stati grandi cambiamenti
l’elettronica sta sempre più “alienandosi” ma
non ha generato dei veri e propri nuovi generi.
Quello a cui credo sempre di più è la ricerca della
melodia e quindi alla fine è sempre quello che
paga di più - poi i generi contano relativamente una bella melodia sta bene in qualsiasi versione,
l’esempio più eclatante è la grande diffusione
recente delle cover di brani storici, e quindi ci
ricolleghiamo sempre al passato. (O.P.)
musica 35
GIUSEPPE GENNA
Chi sia Giuseppe Genna, quali siano le sue
provenienze, distanze, attenzioni, è cosa che
potete sapere spulciando a profusione il sito
www.giugenna.com, in cui il miserabile autore
raccoglie da tempo ogni tipo di materiale su
scritti e pezzi di vita. Provare a tracciarne una
sintesi sarebbe ingeneroso, oltre che complesso,
quindi vogliate scusarmi se rimando alla vostra
curiosità le note biografiche che qui sarebbero
d’obbligo, ma Giuseppe è un uomo e uno scrittore
di cui non si può proprio fare riassunto.
Per scrivere Hitler ci hai messo dieci
anni. Li hai dedicati “a una meditazione
e un’ossessione creativa, tenute a bada
attraverso studi e riflessioni su come
guardare
in
faccia
letterariamente
Hitler”. Ti va di raccontarmi qualcosa in
proposito?
Non è sentendo il Male che ho trascorso questi
dieci anni, perché il Male non è. Sono stati anni
di permanenza, per quanto possa sembrare
paradossale. Come si sta di fronte a qualcosa che
non è, come si sta di fronte a una non-persona?
È evidente: l’atroce sterminatore sono io. Come
posso rappresentare, allora, questo mio sguardo
su ciò che non è, e che non è Hitler eppure lo è ?
[…] In questi anni, ci sono stati momenti in cui si
sono manifestate alcune percezioni di possibilità
di rappresentazione di questa “cosa”.
Per guardare in faccia Hitler, sei risalito
all’indietro nel tempo da uomo, ma anche
da filosofo e da scrittore. In questi due
LIBRI
ultimi “ruoli”, c’è stata partecipazione
emozionale?
Non c’è stato lavoro empatico su Hitler, ma sulla
Shoah. Il perno del libro per me è quello che sta
tra le due pagine nere, e che si intitola Apocalisse
con figure. […] Quel capitolo è indipendente
a livello di mercato, non è parte vendibile del
libro. Nelle parole pronunciate - in cui non sono
assente ma sono certo minoritario - si deposita
una cosa da dire: che la memoria non è l’ultima
facoltà, perché se tu vai ad Achau e ricordi dei
vivi nelle camere a gas, e della loro vita e della
loro esperienza di prima, la memoria diventa
selettiva. Accade a un certo punto per natura
che stai e risenti, e basta: questo sentire, che
cede la memoria, è l’essere di fronte a Hitler non essere .
Un’altra curiosità riguarda il ricorso alla
mitologia norrena, attraverso la figura
del “lupo della Fine” Fenrir. Perché hai
utilizzato una figura mitica in un libro
fortemente de-mitizzante?
Partiamo dal presupposto che il lupo che scatena
la fine del mondo va dal piccolo Hitler e gli dice
“Io sono vuoto e mi riempio di te”. Hitler non è
invaso dal Male: questo è il primo atto che io
compio, deresponsabilizzando Hitler stesso. E’
fondamentale, a questo punto, l’ossessione di
Hitler per la figura del lupo: il suo cane, Blondi,
è un pastore, per esempio. Per questo l’utilizzo
di una figura mitica che di fatto è mito vuoto, e
che fa da contrappasso a Hitler che non pretende
di essere personaggio.
Consentimi un gioco di differenze tra Hitler
e un altro tuo lavoro: Medium. Medium
narra della scomparsa di tuo padre; Hitler
registra la non-esistenza di una nonpersona. È un parallelo che ha un senso?
Ha un senso, assolutamente sì. Medium, però,
è vero solo nel primo capitolo, dopo tiro fuori il
nemico che mi consente la rielaborazione del
lutto, cioè la finzione, la finzione letteraria. C’è
tutto un discorso sul passato, che può essere
vero e può essere finto, e che messo di fronte
all’atto della morte del padre crolla. È il crollo
della finzione di fronte all’umanità[…]. Poi c’è
Hitler, che non fu padre di nessuno, e non fu
padre perché non c’è un solo momento vero in
tutta la sua vita[…]. È fuor di dubbio che io
abbia schierato l’empatia nel momento in cui ho
scritto, mutuandola dal fatto scatenante narrato
in Medium, e rivolgendola tutta contro Hitler.
Sì.
Ricorre il quarantennale del ‘68 e
Mondadori ripropone Catrame, libro in
cui rendi evidenti i tradimenti degli anni
immediatamente successivi al movimento
di protesta. Credi in questa riproposta?
Per me Catrame non ha l’impatto politico che
dovrebbe avere. “Quelli” erano anni particolari,
in cui non esisteva la controinformazione, e la
memoria andava perduta. Per questo mi sarebbe
sembrato più significativo riproporre ora un libro
come Assalto a un tempo devastato e vile.
Altra tua presenza in libreria, l’antologia
Tu sei lei per la Minimum Fax , di cui sei
curatore. Hai
chiamato otto scrittrici
a narrare delle storie. Questo libro è
“automaticamente politico” e si fa portatore
insieme di una questione femminile e di
una questione artistica. Per coerenza
d’intenti, non sarebbe stato più giusto far
curare questo lavoro a una donna?
No, per due motivi. Il primo è che a nessuna
donna vien da proporre alcuna antologia.
Il secondo è che la questione femminile è
universale, quindi io sono femminile. Qui c’è
in ballo la percezione di una società che non sa
comprendere quanto il femminile sia salvifico
[…] Allora, vediamo come sente il femminile.
Vediamolo affidando a otto scrittrici altrettante
narrazioni, senza nulla di pre-ordinato. Bene, la
risposta è che il femminile sente tutto, visto che
in questa antologia non c’è un racconto che sia
paragonabile a un altro, e tutti sono differenti
per struttura, tono, contenuto.
Anche il tuo sito è un progetto intensamente
politico. In un mondo che decade sempre
più verso l’isolamento e la separatezza, tu
e pochi altri autori curate questa relazione
speciale con lettori e colleghi attraverso il
web è davvero utile tutto ciò?
Nel momento in cui si è intellettuali, o si
mettono a disposizione degli altri i saperi, le
capacità di sentire, i modi di intercettare, o
non si è intellettuali. In una società complessa,
la salvezza è fondare una comunità in cui
saperi diversi si possano aggregare, per
contrastare quella complessità che si traduce
in semplificazione dell’estremo, e quindi in
omologazione e alienazione. Scrivere è fare
mitopoiesi, per trascinare nel segno del possibile
ciò che in un’epoca ti dice che il segno può essere
solo quella certa cosa, solo quelle determinate
possibilità. Si chiama controllo sociale.
Stefania Ricchiuto
Libri 37
TIRDAD ZOLGHADR
Softcore
Isbn
Tirdad Zolghadr è un trentacinquenne iraniano che ha trascorso la sua infanzia a Teheran.
Attualmente vive a Berlino,
dove lavora come curatore d’arte
contemporanea, oltre a svolgere
l’attività di critico, giornalista e
traduttore. Non è un caso, quindi, che il protagonista di Softcore, suo primo romanzo, edito
in Italia da Isbn, sia un cinico curatore d’arte
contemporanea, tornato a Teheran, per aprire
un locale di tendenza, La promessa, già storico
bar appartenuto alla sua famiglia nei decenni
precedenti. La Teheran di Zolghadr ha davvero
poco da spartire con l’immagine che noi occidentali abbiamo dell’Iran di Ahmadinejad. Qui
ci troviamo nel gorgo di una città che pullula di
artisti, in una continua e roboante dimensione
etilica e drogata dell’esistenza, scandita da amplessi consumati su tavoli poco confortevoli o in
bagni sempre troppo occupati. Softcore racconta con stile diretto e ironico le vicissitudini che
accadono tra il ritorno del curatore a Teheran e
l’apertura del suo locale, che nelle sue intenzioni
vuole essere una sorta di iceberg della tendenza, dove arte, moda e comunicazione sono tutti
elementi shakerati al fine di ottenere il massimo profitto possibile. Diciamo subito che sarà
lo stesso cosmopolitismo del curatore ad essere
il suo tallone d’Achille. In fondo Teheran non è
Berlino e i servizi segreti sono sempre in agguato. Libro spassoso, con alcune pagine esilaranti,
alcuni momenti narrativi di stallo.
Rossano Astremo
MARIANO SABATINI
Altri Trucchi D’autore
Nutrimenti
Ho trovato davvero divertente
la lettura di Altri trucchi d’autore di Mariano Sabatini, edito
da Nutrimenti, seconda puntata
del suo viaggio alla scoperta dei
segreti dei grandi scrittori. In
questo libro ci sono una cinquantina di interviste soprattutto a
narratori italiani, da Genna alla
Parrella, da Veronesi a Brizzi,
da Montanari alla Santacroce, con qualche com-
parsata straniera, tra cui Cunningham, Deaver
e Lansdale. Ho usato il termine divertente perché, scorrendo le varie interviste, ho notato che
Sabatini ha fatto a gran parte degli scrittori le
stesse domande, ed in particolar modo ha fatto
delle domande a mio parere strambe, del tipo
“I verbi ausiliari: aiuto o condanna?”. Cosa vuol
dire? Cioè, come fai a scrivere senza utilizzare i
verbi ausiliari. E soprattutto perché dovrebbero
rappresentare una condanna. Tant’è che qualcuno si è un po’ innervosito. Così come molti hanno
risposto a stento ad un’altra domanda, “Scrittori
si diventa o si nasce?”, troppo marzulliana per
sembrare vera. Così come altre che non mi hanno convinto, “Cosa pensa degli avverbi?”, “Sceglie
le parole anche per il suono?”, “Su cosa si fonda
il suo stile?”, “I suoi lettori chi sono?”, “Le parole che odia?”, e potrei continuare ancora. Ecco,
questa non è una recensione. Più che altro è una
riflessione. Io, in quanto giornalista, ad esempio,
non avrei mai chiesto ad Isabella Santacroce
“Per quali scrittori prova invidia?”, perché avrei
scommesso un rene che lei avrebbe risposto così:
“Per nessuno, i miei scrittori e poeti preferiti si
sono tutti suicidati”.
Rossano Astremo
CORMAC MCCARTHY
La Strada
Einaudi
Un uomo e un bambino immersi in uno scenario che, qualche
decennio fa, avremmo definito
‘post-atomico’. Spinti dalla voglia
di sopravvivere verso un altrove
(il sud, il mare) attraversano un
paesaggio di scheletri e polvere,
vestigia in rovina di una civiltà
che non è più. Sono questi i pochi elementi dai quali Cormac
McCarthy parte per raccontare una straordinaria storia di dolore e morte, di speranza e di
resurrezione. La Strada è un romanzo asciutto, brutale laddove lo scrittore, senza ipocrisia,
descrive il tramonto della civiltà e la fine delle
relazioni umane. McCarthy, con uno stile lirico
difficilmente eguagliabile, intesse una storia opprimente nella quale filtra tuttavia un sottilissimo raggio di speranza. I dialoghi tra padre e
figlio, secchi, crudi ma sempre dolcissimi e colmi
di amore filiale, sono lancinanti e consolatori. In
un contesto agghiacciante, gli occhi del bambino
conservano ancora l’innocenza necessaria per ripartire, immaginare e costruire un mondo diverLibri 39
so. Vendutissimo negli Usa, La Strada, che ha
fatto vincere il Pulitzer al suo autore e si prepara
a diventare un film per la regia dell’australiano John Hillcoat, comincia dove due capolavori
come La Peste di Camus e Cecità di Saramago
finiscono. Grande letteratura.
Ilario Galati
MURIEL BARBERY
L’eleganza del riccio
e/o
Pubblicato da Gallimard in Francia, dove ha rappresentato un
vero e proprio caso letterario,
L’eleganza del riccio ha già creato un piccolo culto anche in Italia.
Il fortunatissimo libro di Muriel
Barbery è forte di intuizioni notevoli e di personaggi ben costruiti.
La storia ruota intorno a Renè,
portinaia all’apparenza sciatta
e banale ma in segreto coltissima e bibliofila, e
Paloma, nichilista dodicenne che ha progettato il suicidio non prima di aver dato fuoco alla
sua casa, per punire i suoi sciocchi genitori borghesi. Divertentissimo ma con un finale molto
amaro, L’eleganza del riccio farà felici anche
coloro i quali gongolano per le citazioni, di cui
il romanzo è ricco. A dire il vero è forse questo
il suo punto debole, un po’ per alcuni cedimenti
‘trendy” (l’amore per la cultura giapponese), un
po’ per alcune affermazioni troppo anticonformiste (le nature morte fiamminghe valgono più di
tutto il rinascimento italiano) difficili da mandar
giù. Arduo ma riuscito il lavoro delle traduttrici
(due per due registri differenti, quello di Paloma
e quello di Renè) costrette a misurarsi con numerosi calembour e citazioni.
Ilario Galati
L. R. CARRINO
Acqua Storta
Meridiano Zero
Storia d’amore e di camorra, questo piccolo libro di Carrino. Poco
più di cento pagine che scorrono
veloci tra baci, abbracci, appuntamenti segreti e spietate esecuzioni nei vicoli, tra le mura del
carcere minorile di Nisida, sugli
scogli di Mergellina. Lo scenario
è quello che Roberto Saviano ha
messo perfettamente a fuoco nel
suo Gomorra, la colonna sonora la forniscono i
neomelodici partenopei Ida Rendano e Maria
Nazionale (ma l’io narrante sostiene di preferire Carmelo Zappulla, Nino D’Angelo, Luciano
Caldore). Piombo, feste pazze a base di Jack
Daniel’s, zoccole, femmenelle e “cocaina tagliata
‘na merda”, il lettore immerso in un’atmosfera
pesante, paranoica, da ballata tragica illuminata solo a tratti da riverberi ironici che smorzano
appena l’ineluttabile crollo finale. Acqua Storta
è un noir che mette in scena le sciagurate vicende di Giovanni e Salvatore, coppia di amanti sul
filo del rasoio, bersagli mobili consapevoli del
fatto che il loro amarsi non sia altro che “una
bestemmia sull’altare di Santa Chiara”. Il primo è figlio rozzo e passionale di Don Antonio,
un boss che legge e rilegge Dante e la Bibbia;
il secondo lavora come contabile del clan Acqua
Storta. Si nascondono al mondo, Giovanni e
Salvatore, soprattutto al loro universo di gomma dura, impermeabile al diverso. E conoscono
i codici, le regole immutabili del Sistema: puoi
avere il potere, puoi girare armato, guidare il tuo
piccolo esercito e avere mogli, puttane, figli. Non
è ammesso tutto ciò che risulta “contronatura”,
poiché un camorrista frocio non si è mai visto,
nessuno ne ha mai sentito parlare neppure nelle
barzellette. Romanzo di carne che freme, di eredità pesanti tra dolori inflitti e sofferti e di una
Napoli vista come il luogo oscuro assoluto: occhi
e orecchie dappertutto, raccomandazioni paterne
(di un padre-padrone sanguinario) che suonano
come feroci ultimatum. Il Sistema non si apre. Il
Sistema non cambia. Il Sistema annienta i suoi
figli “malati”. Luigi Romolo Carrino, napoletano,
classe ’68, una laurea in Informatica, è poeta e
autore teatrale. Due suoi racconti sono apparsi
nell’antologia Men On Men 5 (Mondadori).
Nino G. D’Attis
RICHARD BRAUTIGAN
Una donna senza fortuna. Viaggiando all’indietro con due camicie soltanto
Isbn
Richard Brautigan, a quarantasette anni, aveva
una faccia rassicurante, nonostante tutto. Rassicurante è anche Una donna senza fortuna, nonostante tutto, nonostante il suicidio dell’autore
poco dopo averlo terminato, nonostante l’aria
della fine aleggi in ogni riga di questo libro. Nonostante la nostalgia sia presente, per un passato inafferrabile, in ogni angolo di questa storia.
Libri 41
Anche se non c’è una storia, non una sola almeno: ci sono le storie, quelle di ogni uomo, l’amore, l’assenza di senso, le idee che si sciolgono nei
fiumi e nei fumi della memoria; l’incapacità di
tener testa alla memoria in una battaglia priva
di senso, perché è la storia d’ogni uomo a ridisegnare il senso. E solo l’ironia e la leggerezza
possono riuscire a non trasformare la nostalgia
in un mostro che non si arresta mai. Ma non c’è
nulla di tanto cervellotico in questo Brautigan,
tranquilli: c’è una scarpa spaiata in mezzo a una
strada di Honolulu, c’è un coniglio gigante in
un’aula di tribunale, c’è la neve che non fa rumore e l’acqua che ne fa troppo. E ci sono due donne,
una che s’impicca, nel cui ricordo abita Brautigan, e una che muore di cancro. “Mi mancherai
un bel po’”, dice Brautigan a quest’ultima. Ma
le scrive anche: “Le parole sono fiori di niente.
Ti voglio bene”. Grazie alla traduzione di Enrico
Monti, si comprende il valore dei fiori di niente
– unico momento in cui il narratore non è bugiardo - : è il linguaggio semplice e onesto a rassicurare, raccontando non una ma tante storie.
È questo l’unico codice che permette pure delle
splendide, improvvise impennate, come quadri
isolati in una pianura malinconica e ingenua.
Raccontando un viaggio all’indietro e a perdere,
R. restituisce sé stesso alla sua vita, attraverso
le 160 pagine di un quaderno giapponese in cui
nel 1982 aveva cominciato ad appuntare qualcosa. Qualcosa che assomiglia oggi a un disco dei
Wilco o di Neil Young, qualcosa che si legge così
come si fa, di nascosto, col diario di un figlio.
Marco Montanaro
JASPER FFORDE
Il pozzo delle trame perdute
Marcos y Marcos
Dopo Il caso Jane Eyre e Persi in
un buon libro, anche nell’ultimo
romanzo dell’autore gallese Jasper Fforde ritroviamo la detective letteraria Thursday Next,
alla prese con vagabondaggi
stravaganti nelle dimensioni
letterarie parallele, nonché con
una gravidanza turbolenta da
portare a termine. Nella terza puntata di questa saga-fiction, Thursday è
infatti prossima a diventare madre, ma la sua
missione per la GiurisFiction - fondazione in forma di forza dell’ordine a custodia della purezza
dei romanzi di tutti i tempi - la porta a fuggire
nei modi più bizzarri dal colosso nemico Goliath,
42 Libri
e a intrufolarsi nelle trame di mille e più storie per trovare un capitolo in cui partorire. La
narrazione adatta sembra essere un giallo lagnoso e soporifero, ma anche tra le sue righe la
futura mamma è condannata a essere nomade
e indagatrice senza sosta. Accompagnata da innumerevoli figure strambe - costruite da Fforde
con dovizia di particolari e con un occhio molto
critico alla fabbriche narrative contemporanee –
Thursday ci guida così fino al pozzo delle trame
perdute, in cui è possibile reperire il finale appropriato, la metafora calzante, la figura indovinata per un qualunque romanzo: in barba alla
ricerca, al talento, al genio, la scrittura qui è di
fatto un servizio, che secondo canoni, e con metodo, contribuisce alla costruzione di un mero prodotto commerciale. Denuncia gaia e brillante dei
modi del potere, l’ultimo lavoro di Fforde colpisce
dritto al cuore l’editoria contemporanea, e il suo
essere sempre più mercato pacchiano, e sempre
meno teca del senso delle parole.
Stefania Ricchiuto
BORIS PAHOR
Necropoli
Fazi
Necropoli è un libro vecchio di
quarant’anni, il cui titolo è noto
in più parti del mondo, e il cui
autore – che vive in Italia - è
stato ovunque pluripremiato.
Vien da chiedersi perché l’editoria nazionale abbia aspettato un
tempo non indifferente prima di
proporre, nei propri cataloghi, le
memorie di un uomo deportato
in un lager sui Vosgi. Memorie scritte come tutti i libri dovrebbero essere resi, e cioè in modo
sublime; memorie peraltro insolite, quasi eccentriche, perché non minate dal male osservato e
sentito, ma paradossalmente fortificate dall’orrore; memorie che scevre da ogni auto-commiserazione, sono maestre di quella resistenza che
sola strappa ai poteri i loro indicibili intenti. La
domanda, meglio ritirarla: la risposta parla di
un Paese poco incline a svelare con veemenza le
scomodità di certa Storia. Resta la necessità di
una lettura che non si può procrastinare oltre,
per un omaggio incontenibile e una rielaborazione prepotente. Nei luoghi facili al vento si dice
sia più semplice liquidare i ricordi: provvede l’intensità della natura a spazzare via i pesi e i residui del vissuto. Boris Pahor, 95 anni, di lingua
slovena, vive a Trieste, e la sua città non poteva
essere altrove. Come la sua scrittura, questa è
un incontro aspettato tra i segni del passato e
la forza invalidante della bora, che dissolve,
nell’appuntamento opportuno, le orme invisibili
dell’inferno attraversato.
Stefania Ricchiuto
WU MING 4
Stella Del Mattino
Einaudi Stile Libero
Le guerre quando terminano in realtà non si concludono. Mai. Soprattutto quando alla Storia segue Argomentazione, che è spesso male, perché
molto annoda per il gusto becero del groviglio
post-qualcosa, e pochissimo risolve. Anzi, nulla.
Di contro, agisce e scioglie per davvero Narrativa, che anima la scrittura ed elabora il trauma,
e che supera i simulacri del sistema per recuperare la capacità di stare ancora nel presente.
Al di là di simboli e suggelli ben orchestrati,
essa consente di rintracciare quel qui e ora, che
l’emergenza di un evento de-finito smarrisce per
intenzione; di abbattere la prigione del mito, che
edifica le sbarre degli stereotipi collettivi; di accompagnare le identità del tempo, in movimento
continuo nonostante il prima; di negare la faciloneria della contestualizzazione, per allevare
così la libertà della memoria; di afferrare, con
coscienza, che un orrore passato che non doveva
accadere più si sta facendo contemporaneo, o già
si è fatto, perché non lo si è davvero ricordato.
Al pari di una disciplina sottile, quindi, essa interviene sui blocchi, indaga gli intrecci, analizza
i meccanismi, dell’uomo calato nelle “civiltà”.
Nella complessità di un percorso di svelamento,
incontra la sofferenza del guardare in faccia il
dolore intimo e sociale che è stato, per accudirlo
nella testa pesante e pensante di chi poi scriverà. Solo allora, con un racconto in più, ci sarà un
inganno in meno, e tanta consapevolezza finalmente fatta. Stella del mattino: mazza ferrata,
arma medievale dotata di aculei e impugnatura.
Oxford, fine della Prima Guerra Mondiale.
Lewis, Graves, Tolkien fanno i conti, da reduci e
nelle aule d’Università, con il massacro epocale,
l’immane conflitto, la tragedia senza eguali. Le
coscienze ormai son stati modificati senza uso di
sostanza, e i giorni e le notti e ancora i giorni
sono un continuo di allucinazioni, incubi, visioni.
Tutti hanno perso qualcuno, e hanno serrate negli occhi le immagini cruente e indicibili, e nelle
orecchie i suoni atroci e insostenibili. Il fronte ha
inviso il corpo e invaso l’anima. L’orrore è ancora. Nella calma apparente di un’Accademia
dolorante, giunge Lawrence d’Arabia il leggendario, ispiratore di rivolte, per raccogliere le sue
imprese in un memoriale-custodia. Le esistenze
dei tre, sopravvissuti alla Grande Guerra e futuri narratori, sono coinvolte da quel momento
nell’incontro-scontro con l’eroe ritornato, personaggio dai mille e più paradossi e dall’ identità
imprendibile ed enigmatica. Di lui, credono di
poter indagare il mito, chiarendone gli equivoci e illuminandone le ambiguità. Dimenticando,
però, che sono stati salvati fisicamente dall’evento bellico, e sono stati sommersi interiormente
dallo stesso, e che la sopravvivenza concreta è
ancora condizione distante. Il continuare a vivere ha forma di scrittura e destino di soluzione,
e non può passare per una figura frugata senza
limiti, ma per un personaggio osservato con flagello su di sé. E lo osservano i tre, e con dovizia, ed è qui che la trama si fa gioco di potente
interpretazione e Wu Ming 4, da analista fine e
aguzzino, scandaglia sogni e pulsioni di ognuno
alla ricerca del fantasma non solo privato da
confessare. Sia esso una doppia vita, o un’indifferenza intollerabile, o un delirio mortificante, lo
spettro insidioso va isolato e restituito, al tempo
e alla situazione che lo ha prodotto con progetto. Così, su basi storiche evidenti e indiscutibili,
la mazza ferrata della penna tortura i sensi di
colpa e i punti di vista dei protagonisti, le paranoie e le manie dell’esperienza, gli assilli e i
tarli dell’esistenza. Romanzando, certo, o meglio
ancora ipotizzando, facendo cioè esercizio di fantasia sottile e attenta. Per consegnare una storia
verosimile come poche, da studiare e comparare
con i tempi recenti, attuali e soprattutto possibili. Il riconoscimento del contemporaneo passa
per una stella del mattino, per le sue punte sulla
pelle, per le sue spine nell’anima.
Stefania Ricchiuto
Libri 43
AA.VV.
Tu sei lei
Minimum fax
Donata Feroldi, Esther G., Helena Janeczek, Babsi Jones, Federica Manzon, Alina Marazzi,
Veronica Raimo, Carola Susani:
queste le scrittrici chiamate da
Giuseppe Genna ad abitare con
le loro narrazioni l’antologia annuale della Minimum Fax. Tutte donne, e non per caso, ma per
una scelta meditata del curatore, che ha voluto proporre lavori rigorosamente
originali - non mutuati dal web o da altro tipo
di officina – anche per rispondere politicamente
all’inversione culturale che sta caratterizzando
le vicende italiche. Esce Tu sei lei mentre celebriamo i quarant’anni di un ’68 stinto, mentre
proponiamo revisionismo culturale sull’aborto,
mentre annaspiamo nel relativismo condannando il diritto al dissenso. Genna, che da scrittore
è sempre fine anticipatore di tracce ad incastro
socio-politico-poetico, anche da “tutore” individua le chiavi narrative per sbrogliare certi nodi
contemporanei. Alcune rese sono eccellenti, altre buone, altre meno, ma la qualità dello stile a
volte deve cedere il passo all’urgenza dei temi: il
corpo, la maternità, la morte, son tutti pretesti
giusti per chiamare prima di tutto alla sorveglianza quotidiana, poi alla meraviglia letteraria. Perché concentrare l’attenzione sulla donna
e la sua autodeterminazione è stato il punto di
partenza di lotte non certo antiche: ritrovare la
stessa premura “leggendo” queste voci si fa, per
quel che stiamo riattraversando, atto indifferibile e tassativo. La missione prima degli intellettuali è leggere con scavo tra le righe sociali per
restituirne tutte le ingannevoli sovrapposizioni:
Genna e le sue donne ce lo rammentano così.
Stefania Ricchiuto
ARMANDO TANGO
Salento’s Movida
Glocal
Con Salento’s Movida, lo scrittore e giornalista
Armando Tango, pseudonimo di Teo Pepe, racconta abilmente in una parabola noir l’altra Lecce, quella che non ti aspetti, quella che – ironicamente – con la tanto sbandierata movida non
ha davvero nulla a che fare. L’odore dell’estate,
poeticamente e impietosamente impresso nel
sottotitolo, non è affatto il caloroso e sfrenato
44 Libri
aroma della bella stagione salentina, ma il terribile afrore
della calura entro cui l’autore
delinea, con una storia avvincente e verosimile, quanto di
peggio si possa nascondere tra
le pieghe della piccola società di
provincia. Miseria e malinconia
trattate sì con le premesse del
genere noir: però con una qualità in più, cioè che il libro si lascia leggere tutto
d’un fiato, fa affezionare ai suoi personaggi, eroici o negativi che siano. Tango rende senza timori
il rapporto amore-odio con la terra, senza contemplazione fine a se stessa, narrando sapientemente tutti gli strati sociali in un mix di peripezie degne della migliore tradizione americana
e dialoghi curati e credibili. Grazie a uno stile
asciutto e cinematografico, l’autore offre una
galleria di luoghi indimenticabili e personaggi di
spessore. Ivan e Brooke, una coppia impossibile,
lui ragazzo umile, destinato a vedere svanire le
sue piccole ambizioni, lei bellissima e perduta;
il fotografo Pachi, scintilla immorale il cui furto
di una misteriosa penna produrrà conseguenze
devastanti; Massimo e Anna Bellardoni, un vizioso quanto incapace commercialista e una exmiss avvilita e sconfitta, rappresentanti della
Lecce bene; Claudio, dj in declino, che riassapora
per un solo attimo la gloria del passato; il prof.
Casardi, costretto a fare i conti con la propria
esistenza; Bebawi, agente dello Zebal in missione, gorilla ridicolo e minaccioso; poi un boss in
bilico, uno scagnozzo violento, un’aristocratica
megalomane e infine Maurizio Costanzo e Maria
De Filippi, a completare una pantomima terribilmente vera, protagonisti di una festa a Santa
Maria di Leuca – finis terrae anche metaforica
– dove sarà l’epilogo della vicenda. Una trama
fitta di intrighi in salsa nera, uno stile asciutto
e immediato, un romanzo totalmente efficace e
universale; perché “…qui è cambiato tutto. Un
pub ogni dieci metri. Bar, ristoranti, pizzerie,
tavolini sui marciapiedi e perfino sulla strada.
Musica, gente, odore di fritto, sembra di stare a
Ibiza…”. Nulla sarà più come prima.
Vito Lubelli
STEFANO DONNO
Ieratico Poietico
Besa
Ieratico Poietico è il poema di severa generazione
di un intellettuale giovane e giustamente stanco.
Strutturato secondo una linearità magica e si-
gnificativa, si sviluppa secondo
tre movimenti, e non per caso il
primo atto è un fiume, il secondo
una fuga, il terzo un desiderio.
L’uniformità esasperata è la
denuncia che l’autore affida al
primo suo procedere in flusso,
registrando i colori stinti, i fetori
nauseabondi, i fragori molesti di
una condizione contemporanea
abitata da paradossali “silenziose folle spente”.
Nella seconda parte, il presente cede la gogna al
passato, e la confessione sfrenata di prima si fa
narrazione cauta dell’inenarrabile. “Ci sono storie / che non devono essere raccontate / quando
in tasca / non rimane altro”. L’esplorazione qui
si fa aguzzina, la penna si cala nei tombini fondi delle fogne più sudice, fin nel sottosuolo delle
cronache (im)possibili: “perché a dire si rischia /
di perdere tempo / di espiare a stento / malcelate
sicurezze”. La terza parte è l’attesa, l’aspettativa, quel che verrà. È il cedere al sogno ancora
possibile di uno stato differente delle cose. Anche
della poesia, che “è tutta / incentrata / su di una
scelta entropica / del Paradiso”, e che rintraccia
in questo libello solenne tutta l’urgenza del suo
ritorno alla sorveglianza del mondo.
Stefania Ricchiuto
WILLIAM BURROGHS
Rock and roll virus
Coniglio Editore
Molto di quello che è stato Burroghs è considerato a pieno titolo spirito fondante del rock and
roll e della sua essenza. Molto di
quello che ha fatto è stato fonte di ispirazione per generazioni di musicisti. Come un virus,
qualcosa che ha contaminato,
infettato il mondo della musica
con le sue visioni, le sue teorie.
L’incontro con Burroghs è per tutti, anche per
noi lettori, un’esperienza che incide o che per
lo meno non lascia indifferenti. In questo libro
sono raccolte alcune interviste che Burroghs ha
fatto e ricevuto, celebri incontri tra i quali quelli
con David Bowie, Patti Smith i Devo. La potenza
dell’operazione, tra l’altro estratto di una molto
più vasta opera pubblicata in America, è nella
eterogeneità dei registri, nella diversa lettura di
presenti più o meno remoti da parte di personaggi eletti da altri a guide generazionali. Accanto
a divagazioni e alcuni spunti interessanti (da
approfondire grazie alle note molto curate), ci
sono, a volte, piccoli momenti in cui l’umanità e
la fragilità delle persone prendono il sopravvento sui personaggi. Nel complesso rimane la testimonianza di momenti in cui vite speciali, a loro
modo, si sono incrociate anche se solo per poco.
(O.P.)
LESTER BANGS
Impubblicabile!
Minimum Fax
Lester Bangs non è solo colui
che più di tutti è stato capace di
mettere su carta l’attitudine del
rock, non è solo il punto di vista
irriverente,
l’atteggiamento
bulimico, lisergico, senza freni.
Lester Bangs è sperimentazione,
un
occhio
nelle
viscere
della storia della musica, la
spocchioneria, il punk. Dopo
i bellissimi e consigliati, a chiunque voglia in
qualche modo occuparsi di scrittura e musica,
Guida ragionevole al frastuono più atroce e Deliri,
desideri e distorsioni sempre editi da Minimum
Fax, esce in questi giorni Impubblicabile. Un
libro che ci restituisce un Bangs più intimista,
che si culla nei ricordi, si abbandona a digressioni
che esulano dalla musica. Bellissime le sue
stilettate al sistema, le cavalcate impetuose di
una fantasia chimica e geniale al contempo, i
toni sempre sopra le righe. Come un bambino
non riesce a pensare “questo non si dice”. Mai
letto un Bangs così vicino.
(O.P.)
H.P LOVECRAFT
Gli orrori di Yuggoth
Barbera Editore
Tra i più grandi scrittori di letteratura horror
Lovecraft è stato scoperto tardi e oggi, a 70
anni dalla sua morte, fioccano anche in Italia le
pubblicazioni della sua copiosa produzione. Oltre
alla narrativa c’è anche la poesia di Lovecraft.
Atea, pessimista, onirica come da sempre ci ha
abituato, ma anche autobiagrafica. A volte i
sonetti di Lovecraft sembrano seguire canovacci
tipici della narrativa e come questa sanno essere
vividi, suggestivi anche nel dono della sintesi.
Quello che rimane, e che Barbera ci ha restituito
con puntualità, è un autore che va riscoperto,
uno di quelli senza il quale oggi forse non
leggeremmo Stephen King e compagnia bella.
(O.P.)
Libri 45
Pe QUOD
La casa editrice PeQuod nasce ad Ancona nel
1996. Da subito, è esempio lampante di come
una provincia (apparentemente) senza stimoli
come quella marchigiana possa dar vita ad
una realtà di riferimento. Nel 1997, infatti,
con la pubblicazione di Congedo, ordinario di
Gilberto Severini, produce un vero e proprio
caso letterario. Da allora continua a ricercare
e diffondere scritture curate e suggestive. Ne
abbiamo parlato con Antonio Rizzo, fondatore
insieme a Marco Monina di
questa preziosa realtà.
Vi definite una casa editrice
“in navigazione”, che cerca e
pubblica scritture di qualità.
Una
scelta
sicuramente
rischiosa
che
richiede
energie e tempi lunghi. Le
stesse dichiarazioni sono
rilasciate da quasi tutte
le piccole e medie realtà
editoriali italiane. In cosa
consisterebbe
la
vostra
differenza?
Dal punto di vista programmatico
il nostro obiettivo è rintracciare,
trovare le scritture che ci
piacciono, quelle che secondo noi
hanno diritto di pubblicazione,
e ancor di più necessità di
pubblicazione.
Seguiamo
ovviamente degli standard di
qualità, che si evincono leggendo
i titoli delle nostre due collane
di narrativa: Happy Hour e
PeQuod. Lavoriamo in questo
particolare mercato, con tutte
le sue difficoltà, per far passare
delle scritture in cui prima
di tutto crediamo. La nostra
differenza può essere questa.
Analizziamo questa diversità per figure.
Com’è il vostro rapporto con l’aspirante
autore? Cosa accade “fisicamente” quando
notate un manoscritto interessante?
Ci arrivano tre-quattro dattiloscritti al giorno,
per tutta la settimana, con una media di sessanta
al mese e punte di novanta. Non c’è una schema
vero e proprio in base a cui muoverci. Molto
dipende da ciò che abbiamo modo di leggere, per
46 Libri
cui contattiamo l’autore, cerchiamo di conoscerlo,
lo raggiungiamo oppure lo convochiamo in sede,
e avviamo un’indagine reciproca e personale.
Cerchiamo di comprendere i suoi percorsi e i suoi
gusti, le letture che sono dietro la sua opera, e
proviamo a comunicare qualcosa su di noi. Poi,
inizia il lavoro sul testo. Quando si decide per
la pubblicazione, si affronta un lavoro di editing
che a seconda dei casi può essere più o meno
breve. Tutto è, insomma, variabile.
Può capitare che chi venga
scoperto e poi lanciato da
voi, dopo un significativo
successo vi abbandoni per
una realtà più commerciale.
Quando succede, vi sentite
traditi? Come reagite – nei
fatti e sentimentalmente all’andar via di chi avete di
fatto allevato?
La questione è complessa. Un
autore migra per natura, questa
migrazione non può essere in
nessun modo contrastata. Le
grandi case hanno la capacità
di investire delle cifre che
non appartengono alla piccola
editoria, rilasciando anticipi
che non sono neanche pensabili
in realtà come la nostra. Da qui
l’andar via di autori, che abbiamo
però contribuito a far conoscere,
e che ci hanno permesso a loro
volta di farci conoscere, dalla
critica come dai lettori più
attenti. Di fatto, l’autore può
anche andar via, ma resta nel
nostro catalogo.
E come vi comportate nei
confronti
degli
editori
“scippatori”?
Cercate
di
comunicare in qualche modo il vostro
disappunto, vi orientate verso un’elegante
indifferenza?
Nulla di tutto questo. Con gli editori maggiori c’è
una grande collaborazione. Non potrebbe esserci
– di fatto – “concorrenza”, perché sarebbe sleale
in partenza. Cerchiamo, allora, di mantenere e
curare rapporti di scambio, e di lavorare molto
sulle reciproche segnalazioni.
Continuiamo con le nostre figure. Cosa fate
per costruire un rapporto più autentico
con il lettore?
Credo che il nostro catalogo parli per noi, e
siamo convinti che i nostri autori comunichino
attraverso le opere il nostro modo di intendere
la narrativa. Nei fatti, abbiamo potenziato
determinate strategie: più presentazioni, in modo
che autori e lettori si conoscano e si confrontino;
più ufficio stampa, per raggiungere l’importante
canale della pubblicità attraverso i giornali;
più librerie fiduciarie, per la promozione presso
esercizi attenti e che credono in noi.
Un modo per curare la relazione con il
lettore sarebbe provare a concretizzare
l’abbattimento dei costi di copertina. Vi
state impegnando su questo fronte?
Normalmente ci manteniamo sui costi di mercato.
Il rischio di un abbattimento vero e proprio è che
si abbiano libri a costi troppo contenuti, che non
richiamino per questo un certo prestigio. Un
costo di mercato troppo basso corre il rischio di
riportare a qualcosa che non vale, troppo alto
impedisce accessibilità. Il libro ha però un suo
processo di vendita, che ha necessità di un costo
giusto. Ecco, i nostri costi sono “giusti”…
Né eccessivi, né da libri “svenduti”…
Certo! Noi, infatti, non abbiamo per scelta una
collana di tascabili.
Continuiamo a parlare dei prezzi.
Recentemente la Camera ha approvato un
emendamento al pacchetto-Bersani che
liberalizza i prezzi dei libri. La cosa non è
risultata gradita a molti suoi colleghi.
La cosa fa paura… La forza commerciale delle
grandi case è così sproporzionata rispetto a
quella delle piccole… Si pensi solo al fatto che
per le grandi è possibile abbattere i costi della
distribuzione perché sono praticamente nulli.
Per noi è ovviamente diverso.
Ecco, il problema della distribuzione. Altra
piaga della piccola editoria. Voi come lo
avete risolto?
Siamo distribuiti dal nazionale PDE, e nei
circuiti alternativi da NdA. Per la promozione ci
affidiamo a Vivalibri, una rete di agenti che cura
il contatto diretto con le librerie. All’inizio però
ci facevamo distribuire da agenti regionali. Per
noi questo passaggio regionale/nazionale è stato
importantissimo.
PeQuod è la nave di Moby Dick, e ben rende
la nostra idea di navigazione tra le scritture.
Il nome l’abbiamo ereditato da una collana di
Transeuropa, che abbiamo rilevato quando
contava su appena due titoli e trasformato in
una casa editrice…
…che nel tempo è diventata un prezioso
contenitore di poesia buona, anche se
curate – per scelta - pochissimi titoli
all’anno. Di recente avete pubblicato
la salentina Claudia Ruggeri, un vero e
proprio talento, scomparsa tragicamente
dodici anni fa. Come siete arrivati a lei? C’è
una storia dietro questo particolare ponte
Salento-Ancona?
Ah, c’è sicuramente un punto di riferimento,
rappresentato da Mario Desiati. Tramite la
sua passione, abbiamo conosciuto la poesia
di Claudia. Siamo stati colpiti subito dalla
complessità dei suoi versi, dall’intensità non
comune ad un’età giovane come la sua, ma
soprattutto dal suo essere una voce fuori dal coro
rispetto alle esperienze dei suoi anni e degli anni
di poco successivi. Tutta la redazione è stata
travolta da questa suggestione. L’introduzione
di Mario, poi, ci ha letteralmente entusiasmato,
e definitivamente convinti per la pubblicazione.
Lasciamoci con tre titoli, uno per la
poesia, uno per la narrativa, uno per la
saggistica…
Per la poesia non posso che confermare Inferno
minore, per i motivi che ho già detto. Per la
saggistica, un libro del nostro catalogo che
mi sta particolarmente a cuore è Senza rete di
Fulvio Panzeri: nove conversazioni che mettono
a confronto lo scrittore e la critica, nove dialoghi
sulla narrativa e i suoi perché. Rappresenta,
questo testo, il nostro percorso, quello che abbiamo
fatto e abbiamo intenzione di continuare a fare:
dare valore ai processi creativi. Per la narrativa
- che dire - amo tanti dei nostri libri. Non riesco
a sceglierne uno… Assalto a un tempo devastato
e vile di Giuseppe Genna, Neppure quando è
notte dello stesso Desiati, i Racconti ambigui
di Enzo Siciliano, Una volta mia di Martino
Gozzi. No, non riesco proprio a scegliere… Una
novità potrei indicare con assoluta convinzione:
Giancarlo Liviano D’arcangelo e il suo Andai,
dentro la notte illuminata.
Stefania Ricchiuto – Il Passo del
Cammello
Perché avete scelto come nome proprio
PeQuod?
Libri 47
CINEMA TEATRO ARTE
Per Ascanio Celestini la Storia, quella con la
S maiuscola, non è una questione di nostalgia.
È materiale fatto di piccole singole storie, da
filtrare attraverso il racconto soggettivo e ironico
del narratore, unica possibilità di difesa dei
protagonisti ai margini dei suoi spettacoli.
Lo incontro a Latiano, Brindisi, nel suo camerino,
a cinque minuti dall’inizio di Percora nera. Elogio
funebre del manicomio elettrico. Prego Dio che
non parli rapidamente come nei suoi spettacoli
(ma Dio non esiste oppure è il direttore di un
supermercato/manicomio, si dirà in scena poco
dopo).
Celestini mi accoglie con una parrucca in mano e
una stufa che occupa un quarto della stanzetta.
È l’occasione per parlare di questo spettacolo del
2005 in cui c’è tutto il suo repertorio: scenografia
essenziale, pochi movimenti, mille microstorie
per spiegare i manicomi e i loro personaggi,
l’elettroshock e l’umana disperazione di
quei luoghi col tipico tono da affabulatore/
mitragliatore; un mondo che vive sovrapposto
a quello delle manie della compulsiva società
Qual è la reazione del pubblico?
Quando si parla del supermercato c’è una scena
piuttosto forte. Ecco, alcune persone mi hanno
detto di essersi sentite schifate, disgustate.
È l’effetto che volevo ottenere, seppure senza
particolari artifici: tutto quel parlare di cibo,
merci, oggetti, è la rappresentazione di quello
che, all’opposto della malattia mentale, dovrebbe
essere la normalità, e che in fondo assume toni
molto paradossali. Tornando al confronto con
gli altri spettacoli, forse proprio su questo, su
quella rappresentazione del supermercato e
del consumismo, Pecora nera finisce per andare
dritto al cuore dello spettatore.
È uscito anche il documentario Parole
Sante. Com’è andata col grande schermo?
Il metodo di lavoro è stato lo stesso, interviste,
viaggi, racconti, poi ho messo tutto insieme. Potrà
piacere o meno da un punto di vista artistico, ma
ritengo che il tema trattato, la precarietà, sia di
grande importanza; invece c’è quasi un’opera
di rimozione collettiva al riguardo, a destra
LE MEMORIE
dei consumi, in cui invece si affoga tra yogurt,
riviste, salumi, bibite e cereali esattamente come
i matti possono affogare nel buio.
Ma è anche l’occasione per parlare di Parole sante,
film documentario in cui Celestini racconta le
vicende di alcuni giovani precari nel call-center
più grande d’Italia, l’Atesia di Roma. Parole
sante è anche un disco edito da RadioFandango,
vincitore del Premio Ciampi 2007 come “miglior
esordio discografico dell’anno”.
Come nasce Pecora nera?
Il processo creativo è stato comune agli altri.
Anche in questo caso ho raccolto delle interviste,
poi ho rielaborato tutto per il racconto sulla
scena. Ho girato per manicomi, ascoltato storie
e visto come funziona quel mondo per tre anni.
Non so se ci sono grosse differenze rispetto agli
altri miei lavori, si tratta comunque di qualcosa
che scava nella coscienza di ognuno. Forse
questo riesce ad essere più diretto, trattando un
tema, quello della malattia mentale, che non è
precisamente legato a un passaggio storico come
gli altri.
48 Cinema Teatro Arte
come a sinistra c’è un silenzio spaventoso, tutti
sembrano avere la coscienza sporca. Le storie che
racconto nel documentario sono storie – vere – di
coraggio e di esasperazione, storie di ragazzi che
sembrano davvero affogare nel lavoro nero, altro
che a contratto. È come sguazzare in un’illegalità
diffusa paradossalmente a norma di legge.
Ho letto che però avresti sconsigliato di
vedere il film, visto che sarebbe uscito
male…
No, intendevo dire che se si cercano delle storie
in senso tipico, delle storie e delle avventure da
cinema, allora Parole Sante non è il film che fa
per voi. Ci sono delle storie drammaticamente
vere, che non hanno alcun bisogno di essere
‘spettacolarizzate’ o adattate a un linguaggio
strettamente cinematografico: ed è questo che le
rende interessanti.
Marco Montanaro
Ascanio Celestini alle Manifatture Knos di Lecce
Foto Maurizio Buttazzo
DI CELESTINI
Parole Sante
Al call-center dell’Atesia le telefonate valgono 85 centesimi di euro. Se durano meno di venti secondi
neanche quelli. Se durano un’ora o più, sempre gli stessi spiccioli. Un giorno le paghe vengono riviste,
ma non per ipotizzare e concretizzare un aumento, bensì per costruire un ulteriore scandaloso
ribasso. È la goccia che fa traboccare il vaso: i lavoratori non ci stanno più. Nasce così PrecariAtesia,
un movimento di protesta “concreta”, che vuole costringere l’azienda a ripensare in nome del diritto
– e del rispetto - gli atteggiamenti vessatori e mortificanti dei vertici. La lotta sarà cosa complessa,
tormentata: nei suoi incastri, porterà alcuni precari all’ottenimento di contratti regolari, ma altri a
guai a catena e senza soluzione. Ascanio Celestini – uomo di teatro e di denuncia – registra pasticci
e impicci di uomini in rivolta, raccogliendo le voci di tanti, e combinandole in un mixaggio indovinato
di storia autentica e poeticità pura. La narrazione, incrollabile, indaga un particolare per ritrarre
una situazione tanto diffusa quanto drammatica. Per risultato, la testimonianza inequivocabile
dello stato del lavoro in un Paese fintamente fondato su di esso. Parole Sante è uscito in Dvd+Libro
pubblicato da Fandango. (S.R.)
RACCONTI
DI VIAGGIO E
DI LAVORO
Dalla radio alla carta, dal palcoscenico agli
scaffali delle librerie. Da poche settimane sono
usciti due volumi di attori salentini che negli
ultimi anni hanno concentrato gran parte del
proprio teatro su spettacoli dedicati al lavoro.
Il primo è Emigranti Express di Mario Perrotta,
trasposizione letteraria (e letterale) della
fortunata trasmissione radiofonica ideata e
“recitata” dall’autore/attore leccese in onda su
Radio 2 tra la fine del 2006 e l’inizio
del 2007. Il secondo è Di fabbrica
si muore, un reportage e un testo
teatrale che ricostruiscono la storia
esemplare e drammatica dell’operaio
Nicola Lovecchio, scritto dall’attore
Alessandro Langiu e dall’oncologo
Maurizio Portaluri.
“Era il 1980. Stazione di Lecce. Ore
20.07. Tra un’ora parte il treno per
Milano-Schaffhausen-Stoccarda…
Siamo già tutti qui!”. Inizia con
questa immagine il racconto di Mario
Perrotta, dalla stazione ferroviaria
di Lecce, l’ultima in Italia, dalla quale partivano
i treni carichi di immigrati verso il nord Italia e
la Germania, il Belgio, la Francia, la Svizzera.
L’attore leccese continua il suo percorso tra
immigrazione, lavoro, fatica, razzismo, una
epopea raccontata con l’accento salentino
attraverso gli spettacoli Italiani Cincali e La
turnata. Il racconto passa attraverso gli occhi
del piccolo Mario che a 10 anni ogni mese
veniva “caricato” dalla madre sul
treno per Milano-SchaffhausenStoccarda. Nel capoluogo lombardo
lo aspettava il padre, emigrato al
nord per lavoro. Nel treno il piccolo
Mario racconta e ascolta storie,
delinea personaggi, narra incontri
e gozzoviglie da treno. Il libro,
pubblicato dalla Fandango, è diviso
(come la trasmissione radiofonica)
in quindici capitoli, che prendono il
nome dalle stazioni: Lecce, Brindisi,
Bari, Pescara, sino a giungere a
Milano e proseguire oltre frontiera
verso Zurigo, Stoccarda, Bruxelles fino al ritorno
finale nel sole. La trasposizione scritta riporta
quelle distorsioni dell’italiano tipiche della
parlata popolare, esplicate in un divertente
glossario finale. Perrotta, che attualmente è
in tournee con il suo nuovo spettacolo Odissea
(che sarà in scena a Melpignano il 12 luglio,
nell’ambito della Notte bianca del Comune griko)
si conferma uno dei più interessanti interpreti
del teatro di narrazione oggi in Italia. Istrionico
personaggio è riuscito, ed è forse questo il merito
più grande, a costrurire una nuova “lingua” che
mantiene tutta la forza dirompente del dialetto.
Di fabbrica si muore (pubblicato da Manni)
racconta invece la storia di Nicola Lovecchio,
operaio del petrolchimico di Manfredonia, alla
ricerca di risposte sulla genesi di una malattia
devastante che non gli lascia alcuna speranza.
La prima parte del libro, scritta da Michele
Portaluri, è un lavoro d’indagine,
quasi un reportage che, partendo
dall’incidente che nel 1976 provocò la
fuoriuscita di decine di tonnellate di
arsenico dallo stabilimento (evento
lasciato colpevolmente scivolare
nel silenzio e nell’indifferenza)
denuncia i misteri del petrolchimico.
La seconda parte è un testo di teatro
di denuncia, scritto da Alessandro
Langiu, in cui la drammatica
vicenda
di
Lovecchio
viene
rappresentata con la forza della
realtà e con un’intensità emotiva
che spiazza e commuove il lettore.
Dall’Ilva di Taranto all’Enichem di Manfredonia
nei suoi spettacoli Langiu racconta il fallimento
dell’industria pesante. “Quello che m’interessa
e il racconto dell’ingiustizia, dei diritti violati”,
sottolinea Langiu.
“Sono cresciuto in una delle città più martoriate
dall’industria pesante, e non secondario, ho
dedicato la mia tesi di laurea, all’Ilva. Il fatto
che fossero progetti temporanei e
strazianti per il territorio, si sapeva,
ma era meno importante della fame
di lavoro. Ora dove hanno chiuso,
si son trovati nuovi percorsi, dove
resistono, si reitera il meccanismo
pseudo-mafioso, del fa male ma
non se ne può fare a meno. Che è
sbagliato concettualmente come idea
imprenditoriale e del lavoro. Il costo
sociale (malattie, ed assistenza)
è elevato ma non se ne parla…
l’elemento più impressionante è che le
popolazioni dormono! A Manfredonia
per esempio, Anagrafe Lovecchio, ha risvegliato
una voglia di parlare,e quell’attivismo dal basso.
A Taranto invece, sono stato a lungo esiliato
dalle istituzioni locali (Comune e Provincia), ma
soprattutto un pubblico, che seppur numeroso,
alle repliche autonome fatte, non sa come reagire.
Dico questo perché se le coscienze individuali e
collettive, non si muovono, non cambia nulla. E
per cominciare io a Taranto non posso fare i miei
spettacoli”. (pila)
Cinema Teatro Arte 51
DA MURO A MARSIGLIA
La tradinnovazione, ma che cosa vorra dire?
Ascolti i Mascarimirì e forse, dico forse, riesci a
darti una prima risposta. Claudio Giagnotti da
Muro Leccese, da tutti conosciuto semplicemente
come Cavallo, è uno dei più impetuosi interpreti
della musica tradizionale salentina. La sua storia
inizia da molto lontano. Nei primi anni ’90 fonda,
insieme ad una banda di “ragazzacci”, i Terra
de Menzu. Ragazzi di Muro Leccese, stregati
dai racconti del fotografo Fernando Bevilacqua,
che si avvicinano al mondo della musica e della
cultura tradizionale suonando e realizzando una
fanzine. Cavallo però è un nomade nel sangue, è
un avventuriero della musica, è un viaggiatore
e decide, dopo aver fondato i Mascarimirì, di
andare alla ricerca di nuove sonorità. Sbarca
a Napoli, in Occitania, a Marsiglia e inizia a
scambiare musica con importanti musicisti
come Daniele Sepe, Lou Dalfin, Massillia Sound
System, Dupain. Costruisce un asse SalentoOccitania che non è solo musicale.
Dopo dieci anni Cavallo ha sentito l’esigenza
di raccontare la sua storia e lo fa attraverso un
documentario, un dvd ben curato (in distribuzione
con quiSalento e nel circuito Anima Mundi),
che ha molti pregi e qualche difetto. Le letture
possono essere sicuramente due. La prima è
quella dell’osservatore salentino che conosce,
o pensa di conoscere la materia tradizionale;
la seconda è quella dell’osservatore esterno,
straniero in una terra di taranta e di muretti a
secco. Il dvd è diviso in due parti distinte, due
facce della stessa medaglia sonora. Nella prima
parte Cavallo parte dalla sua casa di Muro, dalla
macelleria dei suoi zii, dai suoi amici di sempre,
musicisti o ex musicisti, accompagnatori e
costruttori di tamburelli. Qui il racconto passa
attraverso l’uso del dialetto e una costruzione a
tratti ironica, se non addirittura comica. Grande
protagonista Mario Marsella, vecchio musicista
che racconta la sua esperienza con le tarantante
e i tarantati. Dopo questa lunga introduzione sul
Salento parte il viaggio che riporta Cavallo e i
Mascarimirì a incontrare gli amici che lo hanno
affiancato in dieci anni di carriera. Da Molfetta,
con De Gennaro e poi a Napoli con un ispirato
Daniele Sepe, e poi le valli occitane dei Lou Seriol
e Lou Dalfin e poi ancora Nizza e Marsiglia. Il
racconto si alterna alla musica, le attestazioni di
stima nei confronti dei salentini si mischiano a
riflessioni generali sulle musiche, sulle lingue,
sull’uso dei dialetti e degli strumenti. Il ritmo si fa
più serrato e la lentezza delle nostre terre lascia
il passo, simbolicamamente, a velocità diverse.
Cambia la luce, cambia lo scenario. Un occhio
indigeno, forse, gradisce maggiormente questa
seconda fase del documentario dove si apprende
la novità portata da Cavallo nello scenario della
musica tradizionale. Ecco che la tradinnovazione
diventa realtà, che quei suoni duri iniziano a
essere compresi. Molti si chiederanno, a cosa
serve un documentario per raccontare la storia
di un gruppo? Sicuramente a fare chiarezza
sul suo percorso ma anche a raccontare una
stagione musicale e culturale con gli occhi di chi
ci guarda da lontano. Il coraggio non manca a
Cavallo e al suo gruppo (in costante variazione
di formazione), un coraggio che traspare dalle
immagini. Ballati! (pila)
PAOLO
SORRENTINO
Il divo
“Bello ma molto malvagio”. È
stato questo il commento di
Giulio Andreotti dopo la visione del film Il divo di Paolo Sorrentino che racconta la storia
di uno dei politici più influenti e potenti della Repubblica
italiana. Premiato al festival
di Cannes, osannato con dieci
minuti di applausi alla prima
proiezione per la stampa, il
film (prima ancora di uscire) ha
già diviso l’opinione pubblica
italiana. Sorrentino ha scelto
per la difficile interpretazione
Tony Servillo (a Cannes anche
con Gomorra) che è riuscito a
non cadere nell’imitazione sterotipata, approdando invece ad
un personaggio verosimile ma
non macchiettistico (alla Bagaglino, tanto per capirci). La storia si concentra sul periodo di
passaggio tra Prima e Seconda
Repubblica ma racconta tutta
la storia di Andreotti passando
per il rapimento Moro, l’omicidio Pecorelli, il presunto “bacio” con il mafioso Totò Riina.
Poco spazio alla vita privata di
un uomo che ha sempre difeso
la sua privacy. Una scommessa difficile ma ben riuscita, un
pezzo di repubblica tratteggiata senza troppi moralismi.
MATTEO GARRONE
Gomorra
Un confine invisibile separa
il Mezzogiorno e la Campania
dal resto della Penisola. Una
frontiera superata la quale
lo Stato non esiste e chi fa
politica non ha bisogno di voti
per essere eletto: benvenuti a
Gomorra. Tratto dall’omonimo
bestseller di Roberto Saviano
e fresco vincitore del Grand
Prix al festival di Cannes,
inonda le sale in 400 copie il
film di Matteo Garrone che
racconta un’Italia dimenticata.
E ha un effetto dirompente.
Come prevedibile il linguaggio
adottato dal regista romano
è profondamente diverso da
quello del libro che “tutti
hanno letto”, come recita
provocatoriamente, e forse a
buon titolo, lo scarno trailer
che in questi giorni gremisce
le reti televisive. Scritta a sei
mani con Maurizio Braucci
e Ugo Chiti, sceneggiatura e
regia hanno il pregio di essere
complementari a quanto letto,
di tradire le pagine di Saviano
non per stravolgerle, ma per
affiancarle. Il business lascia
spazio a vite e storie, che questa
volta hanno l’amaro sapore del
documentario, in una miscela
di personaggi che non si fanno
dimenticare agevolmente. Un
mosaico che ha i volti di un
imprenditore pronto a smaltire
senza impedimenti tonnellate di
rifiuti tossici (Toni Servillo), di
un “sottomarino” col compito di
pagare le famiglie dei detenuti
affiliati al clan (Gianfelice
Imparato), di due ragazzini
che vivono nel sogno di essere
qualcuno e farsi rispettare
senza aprir bocca, ma imitando
goffamente chi nel quartiere
parla attraverso il sordo suono
di un’arma. Dove la camorra
diventa Sistema, all’ombra
dei palazzi di Scampia tanto
quanto nelle campagne del
casertano, la realtà supera
di gran lunga la più sfrenata
inventiva. E giunti ai titoli di
coda, fra cattedrali nel deserto
ed utopie deliranti, sembra
solo di aver sfogliato un’altra
pagina stropicciata.
C. Michele Pierri
MARJANE
SATRAPI
Persepolis (Dvd)
Il talento di raccontare la
propria vita con le immagini,
la pesante leggerezza di un
tratto capace di dipingere un
paese (l’Iran), con tutte le sue
contraddizioni e le sue rivoluzioni. Questo è Persepolis di
Marjane Satrapi. Uno sguardo
dall’interno, inedito per mezzi
e modi, uno sguardo che cresce
di intensità insieme con l’età
della protagonista narrante.
Quando uscì, qualche anno fa,
la graphic novel, divisa in due
volumi, spiazzò e commosse
per la sua liricità, ironia, drammaticità. Il tratto semplice ed
efficace, il bianco e il nero usati
come espressione delle tensioni
emotive, il linguaggio secco e
diretto hanno saputo raccontare anni cruciali di una storia
difficile. Anni in cui Marjane è
cresciuta in una famiglia progressista, abituata fin da piccola al pensiero libero, costretto
però nelle pareti della sua stanza, nel legame con una nonna
illuminata, nel rapporto con i
genitori, nel suo amore per la
Cinema Teatro Arte 53
Recensioni
musica. L’emancipazione della
piccola si scontra sempre di più
con un clima politico che non fa
che inasprirsi (scoppia la guerra tra Iraq e Iran, il controllo
del regime si inasprisce) finché
Marjane non sarà costretta
a lasciare il suo Paese per un
lungo periodo in Austria. Questo è il secondo capitolo di Persepolis in cui lo sguardo dall’interno diventa confronto con
l’esterno. Tutto questo è stato
magistralmente trasposto in
una pellicola uscita nel 2007,
candidata all’oscar nel 2008 e
oggi disponibile in dvd. I disegni della Satrapi acquistano
nel movimento una leggerezza
poetica, il nero si trasforma in
un effetto notte che è accento
sul drammatico, il colore appare a sottolineare le pause sul
presente. Alcuni scorci sono di
una bellezza espressionista, la
colonna sonora di Olivier Bernet carica l’emotività di una
storia che purtroppo, si sa, non
può avere un lieto fine.
(O.P.)
JOEL E ETHAN COEN
Non è un paese per
vecchi (Dvd)
Il rovente asfalto del Texas
è il luogo dove un romanzo
del premio Pulitzer Cormac
McCarthy
e
il
primo
adattamento letterario dei
fratelli Coen si sono scontrati
ad un incrocio chiamato No
country for old men. Vincitore
di quattro premi Oscar - fra cui
quello di miglior pellicola - il
film appena uscito in dvd con
una buona dose di contenuti
speciali e un making of, fa
rivivere negli anni ’80 l’epopea
del selvaggio West, con la legge
del più forte ancora in vigore e
metafora di un mondo che non
cambia. Il silenzio scandisce le
lente ore calde della segreta
America rurale, quando sullo
sfondo prendono vita, come
nel più classico canovaccio,
un carico di eroina, due
milioni di dollari e criminali
intenzionati ad averli, non
curanti di lasciarsi alle spalle
una scia di cadaveri e sangue.
Sulle loro tracce uno sceriffo,
che come la legge è incapace
di essere decisivo, ma che in
un simbolismo abbastanza
ordinario rappresenta il lato
meno marcio della società in
cui viviamo. La violenza è una
realtà ineludibile e ne viene
rappresentato l’animo più
disordinato e dissennato senza
però volerne dare una resa
estetica, come da Tarantino in
poi ci si potrebbe attendere.
Meglio un’analisi sociale, come
sempre quasi grottesca e con
ottimi attori come Tommy Lee
Jones, Javer Bardem e Josh
Brolin al servizio di un’opera
forte, dal gusto raffinato, ma
decisamente snaturata rispetto
alle precedenti. La tradizionale
ironia dei Coen, che tutto
accompagna e confonde, viene
meno lasciando forse troppo
spazio alla cronaca di un’etica
inverosimile. E dopo l’intenso
quanto spiazzante finale è
lecito chiedersi: ma la morale è
davvero l’ago della bilancia del
nostro tempo?
C. Michele Pierri
LA CACCIATA DEL
PARADISO
Divisa in due mi ritrovo...
Un
corpo
femminile è,
al contempo luogo e
non luogo,
territorio di
rimozione e
di rivelazioni, nel quale
s’addentra
lo straniero, che è per
definizione
maschio.
La natura
benevola/
matrigna
ha inferto
alle Donne
una cicatrice, varco tra
le rosee carni ed essenza del piacere che
muta in creazione.
(S)oggetto delle attenzioni di
Loredana Cascione che compie
un viaggio iniziatico tra le
misteriose e lascive pieghe
della femminilità, attraverso la
contaminazione delle arti come
espressione più adatta per far
vibrare le proprie innumerevoli
altre voci. Nella performance,
Loredana ha come compagni
di viaggio, Gianfranco Massa,
Manuela Tondo, Mino e
Valentina Tramacere, Davide
Monaco e Raffele Casarano.
Roberto Cesano
Cinema Teatro Arte 55
SOUND
RES
EVENTI
Il compositore californiano Terry Riley e il
sestetto newyorkese Bang on a Can All Stars sono
gli ospiti d’eccezione della prima parte di Sound
Res 2008. Il programma di residenza, festival e
scuola estiva di musica contemporanea, a cura
di David Cossin, Alessandra Pomarico e Luigi
Negro, è organizzato da Loop House e Coolclub
con il sostegno di Regione Puglia, Provincia di
Lecce, Comune di Lecce, Gruppo Italgest, con il
patrocinio di Comune di San Cesario di Lecce
e Conservatorio Tito Schipa di Lecce, con la
collaborazione di 11/8 Records, Merico Pianoforti,
Radio Popolare Salento e Musicaround.net.
La V edizione di Sound Res si svolge tra giugno e
settembre ed è concepita come residenza diffusa
e multidisciplinare, articolata in momenti diversi
di creazione, produzione, formazione, riflessione,
incontro con alcuni protagonisti della cultura
internazionale e attorno ai temi più urgenti della
contemporaneità.
Dal 6 al 12 giugno, tra Lecce e San Cesario di
Lecce, Sound Res prende il via con la sezione più
strettamente musicale curata dal percussionista
e compositore newyorkese David Cossin, che
dopo aver invitato nella scorsa edizione Philip
Glass, ci conduce alle origini del minimalismo
coinvolgendo Terry Riley, il 73enne compositore
americano considerato il padre fondatore di
quel genere. Figura di svolta della musica
contemporanea, il compositore sarà raggiunto
nel Salento dal sestetto amplificato Bang on a
Can All Stars, ensemble elettrizzante di virtuosi
musicisti da oltre 20 anni a servizio della nuova
musica.
La residenza, che avrà luogo presso la Loop
House di San Cesario di Lecce, sarà utilizzata da
Terry Riley e dai sei musicisti di Bang on a Can
All Stars per creare Autodreamographical Tales,
una nuova e inedita composizione a partire dai
sogni e dalla musica di Riley che sarà presentata
in prima mondiale assoluta giovedì 12 giugno
nell’atrio di Palazzo dei Celestini a Lecce (inizio
ore 21.30, ingresso 10/15 euro).
Un grande compositore annota i suoi sogni,
li trascrive in musica, li traduce in suono
su un registratore, li trasforma in canzoni.
Una radio diffonde alcuni di questi brani e
un gruppo avventurosi musicisti ne resta
affascinato, tanto da commissionarne un’opera
per la propria formazione. Così nasce il progetto
Autodreamographical Tales, con musiche di
Terry Riley per i Bang on A can All Stars.
Nel Salento, grazie a Sound Res, l’opera viene
‘lavorata’ da compositore e musicisti e presentata
in prima mondiale assoluta, con la straordinaria
partecipazione di Terry Riley nelle vesti di
narratore, cantante e pianista. Dopo l’anteprima
salentina, l’opera verrà presentata il 9 novembre
a New York, dove sarà registrata con l’etichetta
Canteloupe Music come coproduzione Sound
Res e Bang on a Can, prima di essere portata in
tournee in Europa e in Asia.
Il concerto d’apertura, sabato 7 giugno nell’atrio
del Palazzo Ducale di San Cesario di Lecce,
(inizio ore 21.30 – ingresso 10 euro) è affidato alla
straordinaria vivacità esecutiva e interpretativa
dei Bang on A Can all Stars, riconosciuti come
i pionieri di una musica che sfida le categorie e
attraversa i generi esistenti. Con la precisione
di un ensemble da camera, la potenza di una
rock band e la capacità di improvvisazione
di un gruppo jazz, i Bang on a Can All Stars
introdurranno al repertorio d’eccezione che
l’inusuale strumentazione consente (clarinetti,
chitarra elettrica, violoncello, contrabbasso,
piano e percussioni). La formazione, eletta
American Ensemble of the Year nel 2005,
inviterà Terry Riley a suonare insieme il suo
rivoluzionario In C, considerato il primo brano
minimalista della storia della musica (era il
1964). Vi prenderanno parte anche i salentini
Cesare Dell’Anna e Mauro Tre. Musicisti e
compositore chiuderanno il concerto con una
lunga evoluzione nell’improvvisazione. I bang on
a Can sono Robert Black (contrabbasso), David
Cossin (batteria e percussioni), Mark Stewart
(chitarra elettrica), Evan Ziporyn (clarinetti),
Felix Fan (violoncello), Ning Yu (piano).
Come per ogni edizione la Summer School
costituisce uno dei momenti fondamentali del
programma, rappresentando l’occasione di
conoscenza e scambio tra i compagni di residenza
e un’opportunità di formazione per i musicisti
locali e studiosi. Protagonisti dei workshop
saranno il virtuoso Robert Black (contrabbasso,
8 giugno ore 18.00 Palazzo Ducale di San
Cesario di Lecce) e Evan Zporyn, di recente
premiato con il Genius Award (composizione e
clarinetto, 9 giugno ore 18.00 Palazzo Ducale di
San Cesario di Lecce). E L’11 giugno presso le
sale del Castello Carlo V di Lecce è fissato invece
l’incontro seminario con Terry Riley.
Info 0832303707 - www.soundres.org
Eventi 57
MUSICA
DOMENICA 1 GIUGNO
Bag-A-Riddim Band E Sud Sound System al
Parco Gondar di Gallipoli (Le)
Estalegal Band a Borgagne (Le)
Shanty Band E Villa Ada Crew a Casarano (Le)
Xanti Jaca ad Alezio (Le)
Beatrice Antolini, Il Genio, Tobia Lamare
e Postman Ultrachic al Sentinella di Torre
dell’Orso (Le)
Dinamo Rock al Jack’n Jill di Cutrofiano (Le)
MARTEDÌ 3
Bill Bruford e Michiel Borstlap al Teatro
Kennedy di Fasano (Br)
MERCOLEDÌ 4
Brian Auger al Teatro Kennedy di Fasano (Br)
GIOVEDÌ 5
Back To The Roots al Porticciolo di Torre
Sant’Andrea (Le)
La rassegna in dance hall style, ideata da Treble
in collaborazione con il porticciolo e associazione
culturale TerraNoa, parte con Dj War, uno dei
padri fondatori della scena raggamuffin hip hop
italiana.
Rocking Fingers - Dire Straits Tribute al Jack’n
Jill di Cutrofiano (Le)
VENERDÌ 6
Allan Holdsworth al Teatro Kennedy di Fasano
(Br)
Orchestra Di Piazza Vittorio a Casarano (Le)
La storia dell’Orchestra è iniziata con il
salvataggio del Cinema Apollo di Roma. Lo
storico locale era destinato a diventare una
sala Bingo e dalla volontà di trasformarlo in un
Laboratorio Internazionale di Cinema, Musica
e Scrittura, si è sviluppata, nel 2002, l’idea di
creare un’orchestra multietnica. Un gruppo
composto da una ventina di musicisti provenienti
da comunità e culture diverse, ognuno con i suoi
strumenti e il suo bagaglio di musica popolare,
in una fusione di culture e tradizioni, memorie
58 Eventi
e nuove sonorità, strumenti sconosciuti, melodie
magicamente universali, voci del mondo. Ideata
da Mario Tronco, ex membro della Piccola
Orchestra Avion Travel, e prodotta da Apollo
11, l’Orchestra rappresenta un’esperienza forse
unica al mondo, che assegna all’Italia un primato
di cui essere fieri.
SABATO 7
Statuto ad Aradeo (Le)
Bang on a can a San Cesario di Lecce
Pau dei Negrita, Cesko Degli Apre’s La Classe,
Cucuwawa al Parco Gondar di Gallipoli (Le)
Trilli di Blu – Canto di un’estate a Copertino
(Le)
Serata-evento dedicato alla poesia. Giuliano
Sangiorgi legge i versi dei poeti salentini: da
Girolamo Comi (di cui è appena uscita l’antologia
pubblicata da Lupo Editore) a Vittorio Bodini,
Salvatore Toma, AntonioVerri, Don Tonino
Bello. L’evento è organizzato dal Comune di
Copertino in collaborazione con Provincia di
Lecce e Regione Puglia
DOMENICA 8
P40 al Parco Gondar di Gallipoli (Le)
Gianna Montecalvo a Fasano (Br)
LUNEDÌ 9
Mr Moon al Parco Gondar di Gallipoli (Le)
MARTEDÌ 10
Tetes de bois alla Libreria Feltrinelli di Bari
GIOVEDÌ 12
Back to the Roots al Porticciolo di Torre
Sant’Andrea (Le)
Secondo appuntamento per la rassegna in dance
hall style, ideata da Treble, con Don Ciccio
a.k.a. Ciccioman, uno dei pionieri della scena
reggae italiana ha sempre unito la selezione di
un reggae senza compromessi con la volontà di
intrattenere il suo pubblico dando vita ad uno
stile unico e originale.
Terry Riley e Bang on a can nell’atrio di Palazzo
dei Celestini a Lecce
Morrison Hotel al Jack’n Jill di Cutrofiano (Le)
Skarlat al Parco Gondar di Gallipoli (Le)
VENERDÌ 13
Shock in town al Parco Gondar di Gallipoli (Le)
Kamafei a Cutrofiano (Le)
Entombed, Natron, Southborn al Teatro Kismet
di Bari
SABATO 14
Opa Cupa al Parco Gondar di Gallipoli (Le)
Radici Nel Cemento, Tre Allegri Ragazzi Morti E
Hormonauts al Teatro Kismet di Bari
DOMENICA 15
Lola and The Lovers al Parco Gondar di Gallipoli
(Le)
MERCOLEDÌ 18
Sud Sound System a Bari
GIOVEDÌ 19
Back to the Roots al Porticciolo di Torre
Sant’Andrea (Le)
La rassegna in dance hall style, ideata da
Treble, continua con uno tra i primi promotori di
musica reggae in Italia. Mimmo Superbass è fra
i fondatori del gruppo musicale Different Stylee
nei primi anni ‘80.
VENERDÌ 20
Ballati- Festa Della Musica a Cursi (Le)
Quarta edizione per la Festa della Musica
organizzata da Dilinò a Cursi. Si parte
all’insegna della musica tradizionale salentina
con due dei maggiori rappresentanti del genere,
i Mascarimirì di Claudio Cavallo e Uccio Aloisi.
Ingresso gratuito.
SABATO 21
Perfumes De Tango – Festa Della Musica a Cursi
(Le)
Seconda serata della Festa della Musica
organizzata da Dilinò a Cursi. In collaborazione
con Salento Negroamaro Festival, rassegna delle
culture migranti della Provincia di Lecce, spazio
a María Isabel García, cantante argentina, una
della massime rappresentanti contemporanee
del tango argentino, e Sergio Fabián Lavia.
Ingresso gratuito
La notte rosa a Otranto (Le)
Tra i protagonisti della serata: Triace,
Alessandra Caiulo in Corpi d’arco, accompagnata
dall’organetto di Claudio Prima e dal violino di
Francesco del Prete, Agnese Manganaro, Lola
& the Lovers, Kaotica, Garnet. Le strade e le
piazzette saranno animate invece da artisti di
strada, mangiafuoco, teatranti a cura del Salento
Buskers.
Kostas Theodorou Quartet al Teatro Romano di
Lecce
La performance del Kostas Theodorou Quartet,
ensemble di artisti provenienti da differenti zone
della Grecia, si palesa come un lungo viaggio che
parte dai suoni della tradizione popolare ellenica
e finisce per incontrare i generi della musica
contemporanea. Omaggio ai diversi idiomi
linguistici e dialettali, abbandonati in virtù
dell’affermazione di un’unica cultura nazionale,
Canzoni senza parole è dedicata a coloro i quali
non si rassegnano all’oblio delle proprie radici,
per un live set eclettico e di grande fascino che
guarda al futuro senza dimenticare il passato
DOMENICA 22
Jon Ensemble e Admir Shkurtaj trio presso il
Teatro Romano di Lecce
Arricchire il panorama culturale salentino con
un’inedita proposta artistica è la sfida con cui ha
deciso di misurarsi la Jon Ensemble. L’obiettivo
di questi sei musicisti, che si cimentano
nell’esecuzione di brani di Admir Shkurtaj, è
quello di promuovere, facendo ricorso a linguaggi
altri, la diffusione della musica contemporanea,
al fine di creare una nuova scena musicale
nel nostro territorio. Con Valerio De Giorgi
pianoforte, Luigi Bisanti flauto, Enrico Donateo
percussioni, Pasquale Coppola clarinetto-cl
basso, Anila Bodini violino, Gaetano Simone
violoncello, Admir Shkurtaj direzione.
GIOVEDÌ 26
Back To The Roots al Porticciolo di Torre
Sant’Andrea (Le)
La rassegna in dance hall style, ideata da
Treble, ospita De/Generator e Faùgno, autori
e conduttori della trasmissione “R&D VIBES”,
vibrazioni roots&dub in onda sulle frequenze di
Radio Popolare Salento.
VENERDÌ 27
Crifiu e Mamaska – Festa della musica a Cursi
(Le)
Ultima giornata per la manifestazione
organizzata da Dilinò. Sul palco dopo Nudo
al Cubo, band elettro-jazz e Manifattura
Clandestina, con il loro travolgente folk, spazio
a Mamaska, band ska salentina, ritornata sulle
scene live dopo qualche anno di pausa, e Crifiu,
con una miscela fatta di rock, elettronica, dub e
melodie mediterranee. Ingresso gratuito
DAL VENERDÌ 27 A DOMENICA 29
Cube Festival all’Arena della Vittoria di Bari
Dopo una stagione di eventi, dai meeting per le
band emergenti ai grandi nomi (come Caparezza,
Après la Classe, Linea 77, Baustelle, Roy Paci e
molti altri), Cube rilancia con il Cube Festival.
Due giorni di musica e un giorno dedicato allo
sport. Grandi nomi della scena italiana e nuove
Eventi 59
promesse. Il primo giorno spazio a le tre band
finaliste del Cube Contest, Le Luci della Centrale
Elettrica, Joalurlo, Ministri, Casino Royale
e Max Gazzè. Seconda giornata con altre tre
band provenienti dal contest, Il Genio, Serpenti,
Fratelli Calafuria, The Niro e Bluvertigo. Il 29
giugno verranno allestiti due maxischermi su
cui verrà proiettata la finale degli Europei di
calcio. A seguire Djset. www.cubefestival.it –
0805227296
DA VENERDÌ 27 A DOMENICA 29
Veglie in jazz a Veglie (Le)
Tre giorni di jazz e contaminazione a Veglie
nella terza edizione del festival. Sul palco si
alterneranno Bandadriatica, Luigi Bubbico
Swing band e Nicola Andrioli Quartet.
degli artisti. Innegabile in valore culturale per
la Valle d’Itria e per Alberobello in particolare.
Il secondo appuntamento è l’11 luglio con la Gil
Evans Orchestra. Inizio ore 21.30. Ingresso 20
euro. Info 0804326030
TEATRO CINEMA LIBRI
GIOVEDÌ 5 - VENERDÌ 6
Pedro Gomez (Colombia) ad Alessano (Le)
La Casa de las palabras di Salento Negroamaro
prosegue ad Alessano con Pedro Gomez direttore
della Casa de Poesía Silva a Bogotà, il tempio
per eccellenza della poesia latino americana e il
luogo fondamentale di accentramento artistico
e di conservazione e diffusione della cultura
poetica. Inizio ore 21.00. Ingresso gratuito. Info
www.salentonegroamaro.org
DOMENICA 8 GIUGNO
Fernando Rendon (Colombia) ad Alessano (Le)
Salento Negroamaro, rassegna delle culture
migranti della Provincia di Lecce, prosegue il suo
viaggio nell’America Latina. Ad Alessano, nella
Casa de las Palabras, sapzio a Fernando Rendon
direttore del Festival della Poesia di Medellin,
riconosciuto per la sua importanza nella società
contemporanea internazionale. Nel 2006 è stato
assegnato all’Evento il Premio Nobel Alternativo
per la Pace. Inizio ore 21.00. Ingresso gratuito.
Info www.salentonegroamaro.org
SABATO 28
Ludovico Einaudi ad Alberobello (Ba)
La prima edizione di Sovrana, International
WorldMusic Festival, si apre con il concerto
del pianista Ludovico Einaudi. Lo Scenario
è uno dei più belli il Trullo Sovrano, ossia
un monumento storico sotto l’alto patrocinio
dell’Unesco. Una piazzetta dalle atmosfere
d’altri tempi , un platea di massimo 300 persone
per una fruizione speciale delle performance
DA MERCOLEDÌ 11 a VENERDÌ 12
Teatrocinema (Cile) presso l’ Auditorium della
Fiera di Galatina (Le)
La Compagnia cilena, ospite di Salento
Negroamaro, rassegna delle culture migranti
della Provincia di Lecce, propone lo spettacolo Sin
Sangre, nato dall’omonimo testo di Alessandro
Baricco, che ha dato avvio ad un nuovo modo di
fare teatro, incorporando punti di vista e metodi
cinematografici all’interno della messa in scena,
che sono volti a sorprendere, meravigliare,
emozionare e che vogliono far riflettere sul
senso stesso della vita e del passare del tempo.
Sipario ore 21.00. Ingresso 10 euro. Info www.
salentonegroamaro.org
DOMENICA 15
Laura Pariani (Italia –Argentina) ad Alessano
(Le)
La scrittrice, da ritenersi una delle protagoniste
più significative della narrativa italiana, ha
dimostrato di possedere una rara sapienza di
scrittura ed una grande capacità di orchestrare
storie attraverso avvedute strategie linguistiche.
In occasione del suo intervento per Salento
Negroamaro, la scrittrice presenta “Dio non ama
i bambini”, spettacolo sull’emigrazione italiana
degli anni Dieci in Argentina, inframmezzate da
brani musicali eseguiti dal vivo. Inizio ore 21.00.
Ingresso gratuito. Info www.salentonegroamaro.
org
MERCOLEDÌ 18
Vicente Ruiz – Hector Noguera (Cile) a Galatina
(Le)
Il noto coreografo e regista teatrale Vicente Ruiz
e l’attore Hector Noguera mettono in scena lo
spettacolo Nijinky o la mente assassinata, una
libera interpretazione della vita del danzatore
russo Vaslav Nijinsky considerato il dio della
danza. L’artista emerse per il suo virtuosismo
impressionante e per le sue avanguardiste
creazioni, come La consacrazione della primavera
e Il pisolino di un fauno. Amante di Diaguilev,
mecenate del balletto russo, Nijinsky sviluppò
una schizofrenia che lo condannò, quando
aveva poco più di 30 anni, a vivere rinchiuso in
diversi ospedali psichiatrici. L’attore e il regista
terranno una residenza teatrale (dal 13 al 17
giugno) presso la Masseria Torcito di Cannole
(Le). Sipario ore 21.00. Ingresso 10 euro.
GIOVEDÌ 19 e VENERDÌ 20
Dioniso e Penteo.Tragedia del Teatro del Teatro
del Lemming (Rovigo) al Teatro Romano di Lecce
(19/19,45/20,30/ 22,15/ 22/ 22,45/23,30)
VENERDÌ 20
Tentare, Toccare, Odorare: Sensi e
Sensazioni nella Prosa di Ersi Sotiropoulu
Alla Libreria Liberrina Di Lecce
SABATO 21
Proiezione cortometraggi di Stefanos Mondelos,
Maria Magkanari, Kyros Papavassiliou al Teatro
Romano di Lecce
DOMENICA 22
2008
Odissea
Negli
Spazi presso
Conservatorio S.Anna, Accademia Belle Arti,
Rettorato Università, Palazzo Celestini di Lecce
Dalle 21.00 Reading letterario sull’Odissea
di Omero a cura di Fabrizio Saccomanno con
Livio Romano, Cesko-Apres La Classe, Giovanni
Pellegrino,Paolo Perrone, Massimo Ostilio,
Domenico Laforgia, Mario Perrotta, Stefania
Mandurino, Roberto Cingolani
LUNEDÌ 23
La Favola Di Orfeo, Gaia Baggio e Antonello
Taurino al Teatro Romano di Lecce
MARTEDÌ 24 e MERCOLEDÌ 25
La passione delle troiane presso il Teatro Romano
di Lecce
Lacrime di donne, lamenti strazianti e canti
intonati per raccontare una perdita. La tragedia
vissuta da una madre che perde troppo presto
un figlio. La tragedia di Andromaca che vede
morire per mano greca il figlio Astianatte e
la disperazione della Vergine di fronte alla
crocifissione di Cristo. La Passione delle Troiane
si pone come frutto della commistione tra la
tragedia di Euripide Le Troiane e il tema della
Passione di Cristo, scegliendo di adottare come
modalità narrativa le moroloja, nenie funebri
appartenenti alla tradizione grika. Le musiche,
eseguite dal vivo dagli stessi interpreti, narrano
la sofferenza umana che si fa speculare a quella
del Divino per una rappresentazione che si pone
tra il concerto e lo spettacolo. Idea e progetto
Salvatore Tramacere, regia Antonio Pizzicato,
Salvatore Tramacere con Angela De Gaetano
- Cassandra, Vito de Lorenzi – Percussioni,
Gianni De Santis - Coro, Emanuela Gabrieli Coro, Ninfa Giannuzzi - Andromaca, Riccardo
Marconi – Chitarra, Silvia Ricciardelli - Ecuba,
Admir Shkurtaj – Fisarmonica, Fabio Tinella –
Astianatte. Sipario ore 21.00. Ingresso gratuito.
VENERDÌ 27 e SABATO 28
Desert dell’Attis Teatro di Atene presso il Teatro
Romano di Lecce
Un uomo solo al centro di una scena vuota, il suo
corpo in balia degli elementi e delle forze naturali,
la sua mente persa in un luogo inaccessibile da
cui emergono immagini sfocate, parole indicibili,
frammenti di storie. Desert, liberamente tratto
dal testo La Persuasione e la Rettorica di
Carlo Michelstaedter, si presenta così come un
viaggio, come un’esplorazione introspettiva che
l’individuo compie alla disperata ricerca del
labirinto all’interno del quale si è perso, per
uno spettacolo che si propone come un’intensa
avventura del pensiero.
DAL 27 AL 29 GIUGNO
Solidaria direzione sud presso la Masseria
Torcito di Cannole (Le)
Salento Negroamaro, rassegna delle culture
migranti della Provincia di Lecce, incontra nel
suo lungo viaggio alla scoperta dell’America
Latina Solidaria Direzione Sud, la fiera del sud
sull’economia equa, solidale e sostenibile, giunta
alla terza edizione, intitolata “Las venas abiertas
de America Latina. Tra partecipazione e Reti
di Economia Solidale“. Tre giorni di incontri,
dibattiti, musica, feste, laboratori, presso la
Masseria Torcito di Cannole. Solidaria Direzione
Sud significa espositori tra associazioni, realtà
del non profit, istituzioni, produttori e tutti
coloro che propongono e sperimentano modelli
di consumo e di produzione equi e sostenibili.
Esempi legati all’ambiente, al commercio equo
e solidale, all’agricoltura biologica, al turismo
sostenibile, alle reti sociali, ai diritti umani, alla
cooperazione internazionale.
SABATO 28
Along the egnatia presso la Libreria Liberrima
di Lecce
Along Egnatia non è una guida, è un diario
greco dell’attraversamento di un territorio che
dall’Albania alla Macedonia, dalla Grecia fino
ad Istanbul racconta una geografia umana di
relazioni e di incontri che ancora una volta
ci mettono in discussione. Alla presentazione
parteciperanno Matteo Fraterno, Katerina
Koskina, Mary Zygouri, Luigi De Luca, Lorenzo
Romito, Celeste Nicoletti. Inizio ore 19.00.
Ingresso gratuito.
DOVE TROVO COOLCLUB.IT?
Era la domanda che molto spesso ci veniva
rivolta, quando il giornale era in buona salute: la
nostra distribuzione è stata sempre a pioggia o a
macchia di leopardo, fate voi. Coolclub.it andava
dove le nostre mani riuscivano a condurlo, ed era
dove i nostri “fan” decidevano di portarlo. Una
distribuzione legata un po’ agli eventi, un po’
al caso, un po’ al tempo (quando piove e non si
può prendere la vespa, è difficile raggiungere il
centro storico di Lecce).
Il nuovo formato (si passa dall’A4 all’A5, che
non sono nomi di autostrade) è stato pensato
anche per questo, per riuscire ad avere una
distribuzione migliore. L’invito che rivolgiamo ai
gestori dei locali, ai titolari di negozi di dischi,
di libri, di accessori vari è quello di richiedere
il nostro giornale. Diventeranno distributori
fidati e citati (in questa penultima pagina oggi
affidata ai miei deliri). Una scelta gratuita e
senza impegno che però potrà dare stabilità alla
nostra “presenza”.
Coolclub.it, questo già lo sappiamo, sarà
distribuito a Lecce e nella sua immensa
provincia, a Brindisi (e in alcuni paesi delle sue
vicinanze), a Bari (nei posti giusti e nei momenti
giusti) e a Taranto (le preziose collaborazioni
sono sull’adriatico e sullo Ionio). I complimenti
di questi anni ci condurranno (esperimento già
tentato in passato) a Roma, Milano, Bologna,
Trento (addirittura), Torino e (se le poste ci
accompagnano) a Barcellona. Poche copie per
segnare un territorio, poche copie per dire che
ci siamo.
Dopo nove mesi di assenza è stato difficile
tornare. Se volete sponsorizzare queste piccole
(ormai) pagine siete i ben accetti. Se volete
abbonarvi e supportare con una cifra simbolica
(20 euro l’anno) la nostra follìa editoriale sarete
sempre nei nostri cuori.
Dove si trova Coolclub.it?
Ovunque qualcuno voglia.
Info [email protected] – 0832303707.