Roma 18.11.2010 Relazione sulla Sussidiarietà Cardinale Angelo Bagnasco Arcivescovo di Genova Presidente della Conferenza Episcopale Italiana Un cordiale saluto e un ringraziamento per l’invito a questo incontro che, facendo parte di una apprezzata tradizione, ha già un valore per se stesso, essendo luogo di riflessione e di dialogo, spazio di conoscenza e di reciproca stima. Sono convinto che sia una premessa intelligente e utile per cercare di fare buona politica: coltivare i rapporti umani e una onesta e pensata istanza culturale. L’argomento che mi è stato affidato per questo breve intervento, è la sussidiarietà, tema importante della Dottrina Sociale della Chiesa che, com’è noto, “consente alla fede, alla teologia, alla metafisica e alle scienze di trovare il loro posto entro una collaborazione a servizio dell’uomo” (Benedetto XVI, Caritas in veritate, 31). Partiamo da quanto afferma il Santo Padre, Benedetto XVI, nell’Enciclica “Caritas in veritate”: «Manifestazione particolare della carità e criterio guida per la collaborazione fraterna di credenti e non credenti è senz’altro il principio di sussidiarietà, espressione dell’inalienabile libertà umana. La sussidiarietà è prima di tutto un aiuto alla persona, attraverso l’autonomia dei corpi intermedi» (ib 57). 1. L’origine del concetto Può essere utile una parola sull’etimo del termine. “Sussidiarietà” deriva dal latino “subsidium” e indica le truppe di riserva: la terminologia militare dell’Impero Romano distingueva le coorti che combattevano sul fronte (nella prima acies) dalle coorti di riserva, che stavano pronte dietro (subsidiariae cohortes). La sussidiarietà, applicata alla società, indica dunque l’intervento ausiliario e compensativo dello Stato a favore dei gruppi sociali più piccoli nonché dei singoli. La sussidiarietà esprime, quindi, in prima battuta, l’idea dell’aiuto, del sostegno, dell’intervento di rinforzo o di riserva supplementare, che viene incontro alle insufficienze di organismi sociali inferiori, senza per questo sminuirne il valore e le potenzialità, e senza voler sostituirsi ad essi. Richiede, pertanto, una capacità di acuto e onesto discernimento per riconoscere senza ideologie e ritardi le ricchezze e le capacità della società civile, e per non abbandonarla a se stessa di fronte a problemi più grandi rispetto alle forze. Ho detto con onestà. Infatti, lo Stato potrebbe incorrere in una duplice tentazione: quella di scaricare per ignavia le sue responsabilità sopravalutando le potenzialità altrui, oppure, quella di invadere, per statalismo accentratore, gli spazi possibili e dovuti ai diversi soggetti della società civile. Sono così chiamati in gioco, in coloro che rappresentato i cittadini, due principi: uno appartiene alla sfera dell’intelligenza per “intus-legere” le molteplici realtà che costituiscono il corpus sociale, l’altro la sfera morale che è ordinata all’agire con coerenza secondo verità e non secondo interessi e pregiudizi. La definizione classica del principio di sussidiarietà ricorre nell’Enciclica “Quadragesimo anno” di Papa Pio XI (1931): “Siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere ad una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle e assorbirle” (80). E’ interessante che il concetto di sussidiarietà emerga in parallelo con la crescente complessità sociale. In altre epoche, infatti, a fronte di società semplificate, dove lo spazio dell’intervento istituzionale era ridotto al minimo, gli accenni sul tema sono in genere laconici. 1 Ma non dobbiamo dimenticare che già nella Bibbia troviamo l’applicazione del principio, quando leggiamo nel libro dell’Esodo: “E’ compito troppo grave per te e non puoi resistere da solo (…) scegli uomini capaci (…) e stabiliscili sul popolo come capi di migliaia, capi di centinaia, capi di cinquantine e capi di decine (…) così il peso che grava su di te sarà alleggerito, portandolo anch’essi insieme con te” (Es 18, 18-22). Certamente si tratta di alleggerire Mosè , il conduttore, perché non resti schiacciato e pensi alle questioni più gravi, ma si tratta anche del riconoscimento che i corpi intermedi possono avere responsabilità e assolvere a funzioni determinate. San Tommaso, poi, descrive il principio di sussidiarietà quando, richiamandosi ad Aristotele, dichiara che “una unificazione e una uniformazione esagerata minacciano l’esistenza della repubblica composta da varie parti, così come la sinfonia e l’armonia delle voci scompaiono quando tutte cantano la medesima nota” (In Pol. II, 5). Il Concilio Vaticano II ha sottolineato l’importanza del principio specialmente nel campo dell’educazione e della scuola (cfr Gravissimum educationis, 3), nonché nella collaborazione economica internazionale (Gaudium et spes, 86). 2. Il fondamento della sussidiarietà La sussidiarietà esprime così il primato della persona, ed è nel contesto della persona che trova la sua radice vitale. E’ dunque all’interno dell’orizzonte antropologico che si áncora il principio. Ma dire questo significa – a ben vedere – dover affrontare in modo chiaro e deciso il problema della verità, e quindi della ragione. Se, infatti, come oggi si respira, tutto è diventato opinione in quanto la ragione non sarebbe in grado di indagare e cogliere la verità delle cose dell’ordine fisico, spirituale ed etico, come sarà possibile sapere chi è l’uomo? E senza sapere questo, come è possibile parlare di valori, tra cui la sussidiarietà e la solidarietà che alla prima deve essere intimamente connessa? E come ipotizzare il vivere comune, una società a misura d’uomo? E come pensare una politica efficace non perché funziona nei suoi dinamismi interni, ma perché serve l’uomo? Se si oscura l’intelligenza si corrompe la convivenza, e la società intera si sfarina in tanti mondi particolari dove il criterio non sarà più il bene comune – via impraticabile – ma gli interessi immediati e di parte. La stessa possibilità di legiferare diventa problematica non nelle sue procedure, ma nel suo fondamento: con la negazione della metafisica, la ragione non è più in grado di trovare la verità, e allo Stato non resta che affidarsi alle convinzioni che si rispecchiano nel consenso democratico. In questa situazione, non la più verità a creare il consenso, ma il consenso crea non tanto la verità quanto ordinamenti comuni. Anche il senso del “sacro” – inteso laicamente come qualcosa che mi precede, mi supera e quindi è indisponibile – non sembra aver quasi più significato per il diritto. La vita umana, allora, diventa qualcosa di cui si può disporre. Vorrei dire che ogni problema posto all’attenzione dei responsabili della cosa pubblica richiede di partire e di ritornare a questa questione: l’uomo. Si può parlare di valori e di principi veri e nobili, ma se non si leggono nella luce di una visione integrale dell’uomo rimangono dei frammenti senza riferimento che – per questo – sono destinati a deformarsi e a perire. Non prima, però, di aver fatto perire l’umanità dell’uomo e corrotto la società. Mi rendo conto che tutti dobbiamo rincorrere le cose e che più spesso siamo rincorsi da esse; ma per tutti vale il monito di Sant’Agostino: “Noli foras ire, in te ipsum rede. In interiore homine habitat veritas” (De vera religione, cap. XXXIX, 72). Non è possibile ora allargare il discorso, ma possiamo ascoltare alcune suggestioni. Il Magistero sociale cattolico ruota attorno alla nota affermazione tommasiana: “persona significati id quod est perfectissimum in tota natura, scilicet subsistens in rationali natura” (S.Th., I, q. 29, a. 3). E’, cioè, una realtà che non rimanda ad altro – come ad esempio la società e la cultura – ma consiste in se stessa come ricorda ancora Tommaso: “homo non ordinatur ad communitatem secundum se totum et secundum omnia sua” (S.Th., I-II, q.21, a.4, ad 3). Come a dire che tutto l’uomo fa parte della società politica, perché egli non è autosufficiente, cioè ha bisogno della società per realizzarsi completamente (e sotto questo aspetto è parte); e tuttavia non ne fa parte secondo tutto se stesso, 2 perché la persona è fine in se stessa e la società deve servire alla realizzazione di essa, non viceversa (sotto questo aspetto essa è un tutto). In questa visione emerge il principio di sussidiarietà: proprio perché la persona è realtà sociale e contestualmente realtà trascendente la società, “non è lecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità” (Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, p. 186). Se lo fosse, l’individuo sarebbe esautorato di fatto e sarebbe ricondotto a sudditanza sociale. Proprio perché nella società si tratta sempre di persone, “è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare” (ib.). Il primato della persona, che sta alla base del personalismo sociale, costituisce dunque il criterio del rifiuto di ogni forma di totalitarismo, e richiede non solo il principio di sussidiarietà, ma anche il pluralismo delle istituzioni: non dunque soltanto il pluralismo nella istituzione, ma pluralismo di istituzioni, in modo che le famiglie, i gruppi, le chiese, le comunità locali, abbiamo gli spazi e i mezzi per la realizzazione delle loro finalità educative ed assistenziali. Possiamo dire, a questo punto, che se il fondamento ultimo della sussidiarietà è la persona, il fondamento prossimo è la sua libertà e la sua dignità. La dignità di realizzarsi liberamente: di costruirsi con le proprie mani, di guadagnare se stesso, di esprimere i propri talenti, di non attendere tutto dagli altri, ma di lavorarsi con le proprie forze. In una parola semplice e diretta: di essere utile! Utile a sé e agli altri, quegli altri che si presentano a lui come singoli, come comunità primarie, come Stato. Se, come ho detto, lo Stato deve essere attento a non pretendere ciò che i soggetti minori non sono in grado di fare, e a non mortificare invadendo le diverse potenzialità, anche l’individuo e i corpi intermedi devono evitare il rischio di aspettarsi tutto dall’alto favorendo dinamiche di tipo assistenziale che non costruiscono né la persona, né i gruppi, né lo Stato. In questa prospettiva, emerge la necessità di una continua tensione educativa diffusa. Intendo non solo da parte del soggetto naturale e ineguagliabile di tale compito - la famiglia – ma anche la scuola, le associazioni giovanili, il mondo massmediatico, le istituzioni, la comunità cristiana secondo la sua millenaria vocazione e missione. La società in sé deve diventare una comunità educante. La sussidiarietà non si identifica innanzitutto con delle cose da fare, ma è una tensione dell’anima, è un atteggiamento da far emergere e educare, continuamente rimotivare nei suoi fondamenti e nei suoi significati. Un atteggiamento che deve sfociare in comportamenti coerenti e così diventare virtù morale. 3. Sussidiarietà e solidarietà nel bene comune Ecco perché il principio di sussidiarietà non può essere disgiunto dal principio di solidarietà, come ricorda Benedetto XVI, “perché se la sussidiarietà senza la solidarietà scade nel particolarismo sociale, è altrettanto vero che la solidarietà senza la sussidiarietà scade nell’assistenzialismo che umilia il portatore di bisogno. Questa regola di carattere generale va tenuta in grande considerazione anche quando si affrontano le tematiche relative agli aiuti internazionali allo sviluppo” (CV n. 58). Il primato della persona, che nasce con il Cristianesimo, diventa tema di riflessione filosofica e teologica nei primi secoli in particolare con Sant’Agostino, giunge ad una elaborazione mirabile con San Tommaso, trae la sua luce originaria dal mistero della Santissima Trinità che la dottrina della fede confessa come un unico Dio in tre Persone. Siamo di fronte alla personalizzazione nella comunione; emerge l’uomo come individuo personale, laddove per persona s’intende la relazionalità che tende alla comunione con Dio, con gli altri, con il mondo. L’uomo nasce dal mistero di Dio comunione e si ritrova solo nella dimensione comunionale. La stessa libertà personale non è un’autonomia assoluta e arbitraria, ma è responsabile in quanto chiamata a rispondere agli altri con i quali vive non come straniero ma come prossimo. Le singole libertà non sono tali solo in quanto non si disturbano, ma innanzitutto in quanto guardano alla verità dei valori universali e perenni che costituiscono quella base solida e certa per cui possiamo spenderci, 3 dedicarci e anche morire. Se non c’è nulla, in questo mondo, per cui valga la pena di morire, quale sarà la speranza affidabile per guardare al domani? E quale sarà la forza morale dei doveri? Proprio da questa origine, dall’essere costituiti come una unità molteplice fatta di anima e corpo, intelligenza e cuore, sentimenti e volontà, bisognosa di dare e ricevere amore, chiamati a farci dono a Dio e agli uomini, che ci vengono dati come fratelli, scaturisce il principio di solidarietà per cui “tutti siamo veramente responsabili di tutti” (Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis, 38). La dimensione della solidarietà che, oltre ad essere un principio sociale, è anche una virtù morale, appartiene alla sfera della giustizia, virtù orientata per eccellenza al bene comune. E’ allora a questo che dobbiamo guardare: il fine è sempre l’uomo. Come sappiamo, il Concilio Vaticano II definisce il bene comune come “l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai gruppi, come ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente” (GS 26). Ma che cos’è la perfezione dei diversi soggetti, perfezione alla quale sono ordinate le condizioni della vita sociale? E’ il vivere retto sia dei cittadini che dei loro rappresentanti. E’ la comunione nel vivere bene, cioè rettamente. Ritorna la domanda se è possibile individuare il retto vivere: se è possibile, allora si potranno facilmente individuare le condizioni più adeguate. E’ possibile guadagnare la conoscenza del bene comune se, come ho detto sopra, si rinuncia all’assioma moderno delle scienze empiriche quale unica via di un sapere valido, e se si opta per una ragione speculativa e pratica, ossia integrale, capace di attingere la verità oggettiva del bene umano. Solo così si può riconoscere che il fondamento e il criterio del bene comune è la dignità umana, intesa come capacità di vero, di bene e di Dio: l’uomo è capax veri, boni et Dei. La Chiesa crede fermamente in questa capacità di ogni uomo e quindi crede che ogni uomo è capace di bene comune. Ma questa, nella sua sostanza, è convinzione della coscienza universale di ogni tempo. Ecco la condizione di possibilità per ogni intelligente inclusione, per custodire e arricchire il bene comune inteso come il vivere retto di tutti, favorito dal varo di istituzioni e regole, di leggi giuste, cioè delle “condizioni di vita sociale” di cui parla il Concilio. Ed ecco la necessità e lo scopo di un costante compito educativo: aiutare i giovani ad incontrare le cose che contano, a dialogare con la vita, a lasciarsi provocare da lei così com’è per assumerla nella luce dei valori fondamentali, tra i quali l’apertura alla Trascendenza è decisiva. Aiutare a individuare i criteri della moralità, ad essere lungimiranti per intuire che le scelte immediate non possono mai prescindere dalle conseguenze a lungo respiro, a tener ferme le fondamenta del vivere personale e comunitario, fondamenta senza le quali ogni altro bene diventa fragile e si distorce. E’ necessario suscitare e coltivare la coscienza critica per non cedere al richiamo delle utilità immediate perché tutto lascia il segno nella vita e nel tempo, in modo virtuoso o nefasto. Un’educazione che, oltre alla via teoretica, percorre non poco la via pratica dell’esperienza sia della realtà che del bene morale. Nell’approfondire la dignità della persona e il bene comune, scopriamo che alla radice dell’essere umano vi sono delle realtà primarie e che, in quanto tali, sono intangibili. Mi sembra significativo proporre quanto i Presidenti delle Conferenze Episcopali del Continente Europeo, nell’annuale Conferenza quest’anno tenuta a Zagabria, hanno scritto nella Dichiarazione finale: “Siamo convinti che la coscienza umana è capace di aprirsi ai valori presenti nella creata e redenta da Dio per mezzo di Gesù Cristo. La Chiesa, consapevole della sua missione di servire l’uomo e la società con l’annuncio di Cristo Salvatore, ricorda le implicazioni antropologiche e sociali che da Lui derivano. Per questa ragione non cessa di affermare i valori fondamentali della vita, del matrimonio fra un uomo e una donna, della famiglia, della libertà religiosa e educativa: valori sui quali si impianta ed è garantito ogni altro valore declinato sul paino sociale e politico” (Zagabria, 3.10.2010). Vi ringrazio per la cortese attenzione e vi invito a continuare in questo cammino certamente utile per voi e per il vostro servizio al nostro amato Paese. 4