1 - Società Italiana di Scienza Politica

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CONVEGNO SISP 2013 - PANEL 6.2 GENERE E PARTECIPAZIONE
Genere, partecipazione e insicurezza. La mobilitazione politica come antidoto alla paura
Lorenzo Grifone BAGLIONI1
Attraverso una lettura di genere della cittadinanza, il paper esplora il complesso rapporto che lega
partecipazione politica e insicurezza urbana alla luce dei mutamenti culturali e dei condizionamenti strutturali della
società tardo moderna. L’analisi, effettuata tra le nuove generazioni del territorio fiorentino, mostra come ad una
diversa appartenenza in termini di genere si accompagnino percezioni dell’insicurezza urbana e disposizioni alla
partecipazione politica altrettanto differenziate. Sono in specie le giovani donne le più colpite dalla sindrome
dell’insicurezza, così come le più restie all’impegno politico. Al contrario, le donne che partecipano si rivelano anche
le più sicure. L’impegno politico, questa è l’ipotesi che si sostiene, sviluppa una mobilitazione che è anche cognitiva e
che avvantaggia riflessività e capacità critica individuali. Ciò consente anche a soggetti generalmente più vulnerabili,
come in questo caso le donne, una percezione non stereotipata dei fenomeni sociali facendo della partecipazione
politica una sorta di antidoto all’insicurezza urbana.
In questi anni, si registra il consolidarsi di due fenomeni sociali di grande portata: la
diffusione dell’insicurezza urbana e la diminuzione della partecipazione politica. Questi sono la
risultante di atteggiamenti individuali innescati da condizionamenti strutturali, come il
depotenziamento del welfare, la crisi economico-finanziaria e le migrazioni internazionali, e da
mutamenti culturali, come il disincanto, il relativismo e l’individualismo. Conviene sottolineare
come la diffusione dell’insicurezza urbana e la diminuzione della partecipazione politica siano
fenomeni sociali che colpiscono in particolare le nuove generazioni, amplificati dalla sindrome
della precarietà. L’attuale esperienza della precarietà non pare soltanto una caratteristica
passeggera della fase di “moratoria giovanile” (Erikson 1974), perché si materializza in un
duraturo sentimento di “deprivazione relativa” (Runciman 1972) con ampi riflessi a livello
psicologico e sociale – a meno che non si vogliano accreditare tagli di bilancio e flessibilità
estrema come qualcosa di “immaginario” (Cazzola 2011).
La cittadinanza ne viene inevitabilmente colpita, come erosa, non in quanto status
universale, bensì in quanto sistema di pratiche individuali. In sostanza, pur essendo cittadini “in
senso formale”, i giovani non lo sono più “in senso materiale” (Baglioni 2009), o lo sono sempre
meno, concretizzando una “incongruenza di status” (Giampaglia, Ragone 1981) che colpisce
potenzialmente una generazione intera. Non solo, le giovani donne paiono ancor più ai margini
della cittadinanza ossia, sempre con riferimento alla dimensione materiale dell’essere cittadini che
tiene conto delle capacità e delle pratiche della persona (Baglioni 2013), mostrano chances di vita
ulteriormente ridotte.
La sopravvivenza delle disuguaglianze relative al genere, nonostante il passaggio dalla
logica comunitaria patriarcale a quella moderna del contratto, appare difatti pressoché inalterata
(Pateman 1989). Questa prima riflessione fondamentale mette in evidenza tutte le difficoltà che
emergono nel rapporto tra differenze di genere e accesso alla cittadinanza. L’approccio del diritto
alle questioni di genere appare del tutto peculiare anche quando riguarda il tema fondamentale
dell’integrità del soggetto (Pitch 1998). Il corpo maschile, tranne rare eccezioni, non è normato
ponendosi esso stesso come la norma e quindi come eponimo della normalità. La diversità del
corpo femminile risulta invece oggetto di pratiche biomediche e di provvedimenti legislativi
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Docente incaricato di Sociologia del turismo all’Università di Firenze, borsista post-dottorale di Sociologia politica
all’Università di Chieti-Pescara, membro della redazione di Società Mutamento Politica. Rivista italiana di sociologia,
collabora da anni ai lavori del Centro Interuniversitario di Sociologia Politica (Ciuspo) e del Centro Europeo di
Ricerche e Studi Sociali (Ceuriss). È curatore di Una generazione che cambia (Firenze University Press 2007) e Scegliere di
partecipare (Firenze University Press 2011) ed è autore di Adolescenza Devianza (Regione Toscana 2006), Sociologia della
cittadinanza (Rubbettino 2009) e Prometeo in catene (Rubbettino 2013) ([email protected], [email protected]).
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mirati (chirurgia estetica, procreazione assistita, aborto, codificazione dei reati a sfondo sessuale).
A ben vedere, anche il moderno concetto di cittadinanza si definisce sulla base di caratteristiche
che mettono in luce la prevalenza accordata al genere maschile. La fondatezza di tale
affermazione è illustrata da due semplici esempi riferiti ai diritti e ai doveri. I diritti si collegano
alla partecipazione prolungata e costante del cittadino alla forza lavoro, mentre i doveri si
sintetizzano nella tradizionale concezione del cittadino-soldato – facce diverse dell’impegno
personale nella e per la società. In ambedue i casi si presuppone che sia l’uomo, e non la donna, a
dedicarsi al lavoro e al servizio militare.
Anche se il Welfare State oggi annulla le differenze di status e tende a rendere meno
inique le differenze di reddito, l’inclusione sociale delle donne pare avvenuta principalmente
anteponendo il loro ruolo di mogli e di madri a quello di cittadine. La dedizione ai servizi
domestici e familiari, in quanto postulato della condizione femminile, dimostra il perdurare delle
disuguaglianze di genere anche nell’ambito della cittadinanza moderna. A questo proposito, si
obietta come il percorso femminile di conquista dei diritti si sia in realtà sviluppato in una
direzione opposta a quella prefigurata da Marshall nella sua genealogia delle garanzie del cittadino
(Boccia 2002). La partecipazione delle donne alla società si è infatti concretizzata a partire
dall’utilizzo dei diritti sociali e industriali (accesso all’istruzione, tutela del lavoro e della maternità)
e non dalla fruizione dei diritti civili e politici. A lungo soggetta alla tutela dell’autorità del padre o
del marito, se non quando di un pubblico magistrato, e perciò subendo un patente stato di
minorità, solo di recente la donna ha potuto realmente sfruttare quelle garanzie che, al contrario,
sono state tra le prime ad essere acquisite allo status di cittadino.
Al giorno d’oggi è la struttura della divisione del lavoro sociale a costituire il freno più
evidente alla realizzazione di una piena cittadinanza femminile, ostacolata dalla dipendenza dalla
famiglia (rispetto a quella di origine prima e alla propria poi), dalla gestione della casa, dalla cura
dei figli e degli anziani. La donna risulta impegnata, come compito prevalente oppure aggiuntivo,
in un’attività lavorativa non retribuita di carattere domestico che compensa, integra e si sostituisce
al lavoro non svolto da tutti gli altri membri della famiglia (Sgritta 1988). Il proprio apporto al
mercato del lavoro viene mediato dalle decisioni assunte in ambito familiare, che queste siano
concordate con il partner, che siano semplicemente date per scontate oppure che vengano
imposte.
Quella che è la struttura della società attuale di certo non contribuisce a cambiare tale
stato di cose. La società del lavoro salariato rafforza l’interpretazione del ruolo femminile nella
funzione riproduttiva, così come cristallizza quello maschile nella funzione produttiva, delineando
un ruolo ancillare nel primo caso e un ruolo attivo di breadwinner nel secondo caso. Il corrispettivo
di questa attività tipicamente femminile non si traduce però in una chiara quantificazione
economica, né appare effettivamente percepito come un lavoro. È per tale motivo che una quota
del tempo sociale delle donne, se non la sua totalità, non risulta coperta dai meccanismi del
welfare. Difatti, questi sono azionabili a pieno solo da coloro che partecipano ad attività di tipo
produttivo continuative e strutturate. Ciò evidenzia come prima del cittadino in quanto tale sia
più propriamente il lavoratore, soprattutto se tutelato da un contratto a tempo indeterminato, a
godere dei benefici della cittadinanza (Paci 1990).
L’importanza di modelli di lavoro che non sono in linea con quello classico di natura
salariale e continuativa – come il lavoro femminile di cura o l’impiego precario dei giovani, e in
specie delle giovani donne – risulta largamente svalutata da questo assetto ormai datato del
Welfare State. Ne consegue che la protezione dei soggetti impegnati in tali attività non è
paragonabile a quella accordata a coloro che risultano inseriti nelle classiche tipologie
dell’impiego. A ciò si aggiunge la maggiore fragilità della posizione professionale femminile, fatta
di carriere lavorative meno dinamiche e di più ridotte possibilità di mobilità sociale ascensionale.
Le donne partecipano in misura minore alla forza lavoro e risultano più a lungo disoccupate
rispetto agli uomini. La loro brevità occupazionale appare una conseguenza del matrimonio e
della maternità. Ciò può condurre all’adozione del part-time, se non quando a definitivi abbandoni
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dell’attività lavorativa, verificando così effetti di natura segregativa. Tale segregazione può essere
sia di tipo orizzontale, con settori professionali a prevalenza femminile, sia di tipo verticale, con
una dislocazione dell’impiego femminile in posizioni subalterne o con una bassa qualificazione
delle donne all’interno di uno stesso settore.
L’accesso al lavoro da parte femminile avviene generalmente più tardi. Se è vero che le
opportunità di carriera si giocano nell’arco dei primi anni di attività, è proprio in quello stesso
periodo che le donne dedicano molto impegno emotivo e materiale agli affetti e alla famiglia. Ciò
comporta effetti profondi e duraturi su quello che sarà il loro percorso professionale. Il rischio
che si concretizzino condizioni di mobilità sociale discendente sorge inoltre ogni qualvolta si
verifichino periodi prolungati di assenza dal lavoro. Ciò significa che, pur conservando il proprio
posto di lavoro, per una donna diviene difficile essere reintegrata con le stesse mansioni (è questo
un caso che può verificarsi in concomitanza con il rientro dalla maternità). Per quanto possa
sembrare paradossale, e se condotta in tali condizioni, la ricerca ad ogni costo dell’uguaglianza tra
cittadine e cittadini può avere per conseguenza una sorta di snaturamento dei tempi biologici
della donna imponendo un utilizzo di tipo maschile dei tempi sociali. Per una donna questo può
significare la devoluzione pressoché integrale del proprio tempo alla carriera e perciò la rinuncia o
la posticipazione dell’esperienza della maternità o il sacrificio dello spazio da dedicare ai propri
figli.
Anche l’accesso alla sfera pubblica e alla sfera politica non sembra immune dai
condizionamenti prodotti dall’appartenenza di genere. La partecipazione delle donne, in termini
di mobilitazione politica e di accesso alle cariche pubbliche, appare a tutt’oggi molto limitata. La
segregazione professionale femminile non gioca a favore dell’impegno pubblico, in termini di
risorse cognitive, relazionali, temporali e materiali. Così come accade per il mercato del lavoro,
anche il mercato della politica appare organizzato secondo criteri di natura sessista e richiede una
capacità di intrattenere relazioni sociali che si fonda sulla libertà più completa dell’uso individuale
del tempo libero dal lavoro. Ciò presuppone l’essere esente da obblighi di cura e simili, cosa che è
ben più facile per coloro che sono uomini e che ricoprono mansioni professionali pregiate.
Nell’ambito dell’attuale sistema sociale che si ispira ai principi dell’inclusione e della democrazia le
dotazioni materiali non costituiscono più dei criteri formali di accesso, ma di fatto si trasformano
in condizioni che ostacolano le pratiche di cittadinanza e che, in questo specifico caso, rendono
difficoltoso l’impegno femminile nell’ambito di ruoli pubblici o politici.
Allo stesso modo, gli interessi delle donne non sembrano trovare una tutela realmente
sincera nelle organizzazioni partitiche e sindacali esistenti. È inoltre da rilevare che solo
sporadicamente le donne si sono rivelate buone promotrici delle loro stesse esigenze. Come
capita anche per altre figure e gruppi sociali svantaggiati, sono proprio coloro per i quali i diritti di
cittadinanza rappresentano maggiormente un veicolo di promozione sociale che spesso, per una
complessa somma di motivi tra i quali pesano senz’altro l’ignoranza, la povertà, il senso di
inefficacia e il fatalismo, non riescono ad approfittare delle garanzie formalmente disposte dallo
status di cittadino (Zincone 1992). Si tratta di un caso ulteriore di fragilità rispetto al godimento
della cittadinanza che allontana dalla sfera pubblica e dalla sfera politica una buona metà della
società civile e che evidenzia l’imperfetta efficacia dei provvedimenti a tutela della condizione
femminile oggi esistenti.
In breve, anche nell’ottica inclusiva della cittadinanza moderna i rapporti tra uomini e
donne non risultano equi e si configura una disuguale distribuzione delle opportunità e delle
risorse in chiave sessista. La cittadinanza femminile si è perciò realizzata in prevalenza sul piano
della selettività piuttosto che su quello dell’universalità (Sgritta 1990), risultando in qualche modo
limitata nella materialità delle pratiche, pur nella formale parità dei diritti.
Date queste premesse, s’intende ragionare su di una questione fondamentale: il vivere la
città e il mettere in pratica la cittadinanza. Nello specifico, i temi oggetto della riflessione sono la
percezione dell’insicurezza urbana e la partecipazione politica. Detto in altri termini, si tratta
dell’essere a proprio agio nell’esperienza del quotidiano e dell’essere capaci di utilizzare a pieno i
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propri diritti. Un notissimo adagio medievale afferma che l’aria della città rende liberi. Ciò significa
che la persona che vive la città diventa a tutto tondo un cittadino ossia manifesta liberamente il
proprio modo di essere e di pensare partecipando: e chi la città non la vive a pieno perché non si
sente sicuro?
Esiste un collegamento tra la diffusione dell’insicurezza urbana e la diminuzione della
partecipazione politica? Di che tipo di collegamento si tratta? Che parte hanno le donne in tutto
ciò? A queste domande si tenterà di trovare risposta.
Recenti indagini svolte sui giovani del territorio fiorentino, una campionaria ed una
qualitativa2, hanno fornito l’occasione per riflettere su queste complesse dinamiche che una
precedente ricerca nazionale ha avuto il merito di porre in evidenza 3. Le risposte fornite dal
campione locale hanno mostrato una situazione di attenzione nei confronti della sicurezza,
particolarmente avvertita tra le giovani donne e tra i giovani lontani dall’impegno politico.
L’approfondimento qualitativo condotto nello stesso contesto territoriale tra i giovani
politicamente attivi ha mostrato come la loro maggiore propensione all’informazione e alla
partecipazione sembri ridurne la percezione d’insicurezza.
Analizziamo distintamente i due fenomeni, ossia l’ampia insicurezza urbana e la bassa
partecipazione politica, per poi tentare di trovare un collegamento.
Conviene opportunamente separare il concetto di insicurezza urbana (Selmini 2004) da
quello di rischio (Lupton 2003), poiché ne costituisce una parte specifica e ben precisa. Sono la
vittimizzazione, ossia la paura di essere vittima di episodi criminali, e l’attenzione per la
criminalità, ossia la preoccupazione per la diffusione del crimine nella società, a costituire i cardini
della sindrome di insicurezza urbana, una presenza sempre più tangibile nella società
contemporanea. Provocando una sorta di cortocircuito che spesso non tiene conto
dell’andamento effettivo delle denunce e dei delitti (Palidda 2000; Amendola 2003; Barbagli
2003), e agendo in un quadro di più generale incertezza innescato dalla trasformazione dei
processi sociali e dei ruoli individuali della tarda modernità (Giddens 1994; Bauman 1999; Beck
2000), l’insicurezza urbana incide a fondo sugli orientamenti e sulle scelte di vita individuali. La
società è parte attiva di questo meccanismo, poiché contribuisce a creare norme specifiche ed a
diffondere determinate credenze (Mongardini 2004), ma non è però detto che ciò si traduca in
un’omogeneità di percezioni e di reazioni. L’insicurezza urbana non è un dato uniforme, viene
avvertita in modo molto diverso e varia a seconda della natura e delle condizioni del contesto
sociale, delle risorse cognitive e materiali individuali, della condizione anagrafica e di genere delle
persone.
Nel descrivere le dimensioni di questo stato e le sue ricadute sociali, così come nel
sottolineare il convivere quotidiano con un’elevata percezione della criminalità e con un
altrettanto forte coinvolgimento emotivo dei cittadini, sia di attrazione, che di paura, si parla
sempre più spesso di “complesso del crimine” (Garland 2004). La domanda di sicurezza che ne
scaturisce amplifica l’attenzione delle autorità e dei media, innesca una drammatizzazione del
problema e prepara il terreno per un’istituzionalizzazione dei temi legati al controllo del territorio,
Si tratta delle indagini Una generazione che cambia e Scegliere di partecipare, curate dall’autore, coordinate da Gianfranco
Bettin Lattes, promosse dalla Provincia di Firenze e realizzate dal Centro Interuniversitario di Sociologia Politica. La
prima è stata condotta su un campione di 425 giovani composto da studenti universitari, imprenditori, liberi
professionisti, disoccupati e lavoratori atipici stratificati in base al genere, all’età e alla zona di residenza. La seconda si
è concentrata nella realizzazione di 36 interviste in profondità a giovani coinvolti attivamente in esperienze di
partecipazione civica e politica all’interno di partiti, movimenti e comitati cittadini stratificati in base al genere, all’età,
al livello d’istruzione e all’identità politica e di un focus group che ha coinvolto altri 8 giovani impegnati in esperienze di
partecipazione politica e di democrazia deliberativa. In entrambi i casi, le interviste sono state effettuate nel territorio
che comprende Firenze e la sua provincia ed hanno riguardato soggetti di età compresa tra i 18 e i 35 anni.
3 Il riferimento va alla ricerca Prin 2001 I nuovi cittadini dell’Italia in trasformazione coordinata da Gianfranco Bettin
Lattes e realizzata dal Centro Interuniversitario di Sociologia Politica. L’analisi del campione – rappresentativo del
contesto nazionale e composto da 1601 giovani tra i 25 ed i 34 anni di età, prevalentemente imprenditori, liberi
professionisti e iscritti ai centri per l’impiego – ha messo in evidenza come all’insicurezza percepita dal soggetto si
accompagnino la sfiducia nel prossimo e la scarsa disponibilità alla partecipazione politica (Baglioni 2007a).
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al funzionamento della giustizia e alla rassicurazione delle vittime di reati. Il riferimento
all’insicurezza si fa tangibile nel discorso pubblico e per esorcizzarla si prendono misure
straordinarie, sia a livello istituzionale (maggiore visibilità delle Forze dell’Ordine, retate e
operazioni clamorose di Pubblica Sicurezza, revisione e ampliamento dei reati imputabili,
inasprimento delle pene), che nel privato (sistemi di sicurezza domestici, ampio ricorso alla
vigilanza privata, corsi di difesa personale).
È noto come il sentimento d’insicurezza si declini generalmente nelle sindromi della
“paura personale” e della “preoccupazione sociale”4. La paura personale rappresenta la
valutazione soggettiva rispetto al concretizzarsi di rischi per l’incolumità fisica individuale. Si
tratta di una percezione dell’insicurezza che si collega al timore per la vittimizzazione personale e che
riguarda direttamente il singolo nell’ambito del proprio vivere quotidiano. La preoccupazione
sociale si riferisce invece alla valutazione soggettiva dello stato generale dell’insicurezza urbana. Si
tratta di una percezione che si fa più mediata, meno diretta, e che per questo risulta forse più
generica e meno ansiogena. È però possibile che i due fenomeni possano sovrapporsi, dando luogo
ad un’ancora più allarmata sensazione di vulnerabilità in chi li esperisce5. Queste sindromi
colpiscono, rispettivamente, il 6,6%, il 36,0% ed il 33,8% del campione analizzato, dando luogo
ad una sensazione d’insicurezza che, nel suo complesso, riguarda oltre i tre quarti dei giovani del
territorio fiorentino. Ciò evidenzia l’esiguità della porzione di coloro che si sentono al sicuro:
sono solo il 23,6%. In particolare, si dichiarano più sicuri gli uomini (33,0%) delle donne (15,6%),
secondo un rapporto che è sostanzialmente di due a una. L’insicurezza femminile si nutre in
specie della paura della vittimizzazione: la somma di paura personale e vulnerabilità (quest’ultima
vede la compresenza di paura personale e preoccupazione sociale) dà luogo ad un 61,2% di
giovani donne che temono per la propria incolumità, contro solo il 16,0% di giovani uomini. Si
tratta di un ulteriore dato che non può non far riflettere.
Veniamo all’altro tema, quello della partecipazione politica ossia a quell’insieme di
atteggiamenti, di scelte e di azioni individuali, ma nel loro complesso collettive, che mirano ad
influenzare i decisori (Pasquino 1986). L’impegno individuale rispetto alle vicende della politica è
parte di un più ampio meccanismo di libera attivazione del cittadino nell’ambito della sfera
pubblica. Si tratta quindi di un’esperienza che rende concreto il confronto della persona con gli
altri suoi simili e con le istituzioni. I giovani d’oggi sembrano prendere le distanze dalla politica
intesa in senso convenzionale, si direbbe dalla politica degli adulti, mostrando disinteresse, ma
anche forme innovative di mobilitazione individuale. Accanto ai fenomeni del ritiro e
dell’invisibilità (Diamanti 1999), sorgono infatti forme di partecipazione giovanile che più spesso
assumono i contorni dell’impegno sociale o di quello latentemente civico-collettivo (Montanari
2011). Ciò nonostante, la maggioranza dei giovani non si dimostra incline alla partecipazione
(Bontempi, Pocaterra 2007), e questo al di là della propria collocazione sociale e delle proprie
risorse personali.
La distinzione tra fear of crime e concern about crime è stata introdotta da Furstenberg (1971). Roché (1998) parla a tale
riguardo di peur personnelle e préoccupation sociale. La rappresentazione empirica della paura personale si effettua
generalmente tramite la verifica delle risposte all’affermazione non mi sento al sicuro quando esco da solo la sera (Barbagli
1999), come è stato fatto anche in questa sede. Non esiste invece un criterio univocamente accettato per la rilevazione
empirica della preoccupazione sociale. Allo scopo di valutare la rilevanza sociale del problema criminalità si può difatti
chiedere all’intervistato di indicare i primi tre problemi sociali che sono prioritari del Paese e quindi controllare che la
sicurezza sia inserita tra questi (Barbagli 1999; Nardi 2003) oppure valutare la posizione dell’intervistato rispetto alla
questione della pena di morte (Lagrange 1995; Roché 1998) o ancora considerare lo stato della criminalità nella propria
zona di residenza, l’efficacia del controllo operato dalle Forze dell’Ordine, la soddisfazione per l’assetto presente e futuro
della sicurezza (Arcidiacono 2002). L’elenco qui indicato non è certo esaustivo, ma contribuisce a dare un’idea della
varietà delle dimensioni che danno forma al concetto di preoccupazione sociale. In questa sede si è scelto di sintetizzare
questo indicatore attraverso le risposte all’affermazione secondo me l’allarme per la sicurezza è oggi eccessivo.
5 Altrove, facendo ricorso ad una terminologia di derivazione freudiana, si è scelto di suddividere gli insicuri in tre
differenti profili: si sono definiti timorosi i giovani colpiti da “paura personale”, angosciati i giovani colpiti da
“preoccupazione sociale” e spaventati coloro che appaiono caricati sia da “paura personale” che da “preoccupazione
sociale” (Baglioni 2007a, 2007b, 2011).
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La condizione di debolezza economica non pare più costituire uno stimolo all’impegno
politico, alla condivisione di un progetto nuovo di società e alla lotta per l’emancipazione, ma
costituisce spesso un bacino di apatia nel cui contesto possono svilupparsi pericolose forme di
rigetto nei confronti della pratica democratica (Mete 2003). Oltre all’amplificarsi del fenomeno
della disaffezione politica tra coloro che occupano posizioni socialmente deprivilegiate, anche i
giovani che si trovano in condizioni di vantaggio economico o culturale, seppur con modalità e
motivazioni diverse, sperimentano spesso un distacco nei confronti della partecipazione. In
questo caso è la “salienza della politica”, e non il semplice interesse nei confronti della politica in
sé, che viene in qualche modo superata. La disponibilità di maggiori risorse personali di tipo
cognitivo e informativo ai livelli medio-alti della scala sociale produce di fatto una più ampia
autonomia d’azione e di giudizio, tale da consentire percorsi e strategie anche alternativi a quelli
della politica convenzionale (Van Deth 2000). In conseguenza di ciò, accade sempre più spesso
che la politica, ed in specie l’impegno attivo, venga a perdere di importanza, tanto che questo tipo
di coinvolgimento, seppur in presenza di livelli elevati di interesse per le vicende e per le questioni
politiche, viene ad essere valutato come sempre meno necessario o meno desiderabile.
L’attuale rapporto tra i giovani e la politica sembra interpretabile come consequenziale
rispetto al lungo processo di ricollocazione dell’identità partitica e della mobilitazione politica
venuto a maturazione sul finire degli anni Sessanta. Le tradizionali cornici di riferimento familiare,
sociale ed istituzionale entro cui era inserito il processo di socializzazione politica e di costruzione
dell’identità politica giovanile sono oggi superate dagli esiti di un più ampio mutamento
consumatosi in decenni di contestazione, poi di acquiescenza e quindi di autonomizzazione.
Questo significa che le appartenenze sociali e le logiche di identificazione partitica tramandate di
generazione in generazione non sono più quelle che veicolano la definizione dell’identità, dei
valori e dell’impegno politico dei giovani poiché rinviano ad eredità ideologiche oggi non più
coerenti con le necessità del panorama valoriale ed espressivo giovanile (Caniglia 2002). I giovani
del contesto fiorentino non fanno eccezione, pur dimostrando una spiccata propensione per il
centro sinistra (56,0%), riecheggiando così in modo sbiadito la subcultura rossa (Ramella 2001), e
pur dichiarando una proporzione di soggetti politicamente attivi tre volte maggiore del dato
italiano (il 9,9% contro il 3,8%) (De Luca 2007), ossia di un giovane ogni dieci6. Tra i
politicamente attivi gli uomini (13,0%) prevalgono sulle donne (7,5%).
In estrema sintesi: giovani uomini più sicuri e più attivi, giovani donne meno sicure e
meno impegnate. Ma il collegamento tra insicurezza urbana e partecipazione politica non può
essere solo questo. Vediamolo più nel dettaglio. I politicamente attivi, presi nel loro complesso e
quindi al di là delle differenze di genere, si dichiarano ben più sicuri di coloro che non
partecipano (50,0% contro il 20,7%). È bene rilevare come questa maggiore sicurezza non sia una
prerogativa soltanto maschile (sono sicuri il 56,0% degli uomini politicamente attivi contro il
29,9% degli inattivi), poiché tra le donne il collegamento tra partecipazione e sicurezza diviene
ancora più evidente (sono sicure il 41,2% delle attive contro solo il 13,4% delle inattive). Per la
precisione, nel confronto tra giovani attivi e inattivi la proporzione di sicuri risulta moltiplicata
per 1,87 tra gli uomini e per 3,07 tra le donne. L’effetto partecipazione, chiamiamolo così, è
particolarmente forte tra le donne. I dati ci dicono che chi partecipa ha meno paura e che chi ha
paura partecipa di meno. È però difficile scindere tra causa ed effetto ossia se la paura viene
sublimata nella partecipazione o se i partecipanti si autoselezionino tra i meno timorosi. La parte
quantitativa dell’indagine esaurisce qui il suo contributo e diviene necessario esplorare le
risultanze della parte qualitativa.
Dalle interviste in profondità è emerso come, oltre che sul versante della partecipazione, i
giovani politicamente attivi siano fortemente impegnati anche su quello dell’informazione, tanto
Si tratta della proporzione di coloro che hanno risposto mi considero politicamente impegnato. Si contano anche un
65,2% di giovani che si tengono al corrente della politica senza partecipare personalmente, un 13,9% che pensa sia giusto lasciare
la politica a persone più competenti ed un 10,9% che ritiene che la politica sia una ‘cosa sporca’ e preferisce starne alla larga (Alteri
2007).
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che le due cose vengono in parte a fondersi. Per informarsi non si affidano ad un medium
prevalente, ma mettono in pratica delle “diete multimediali” (Livolsi 1992) ossia dei processi
cumulativi di attenzione alle diverse fonti e alle diverse possibilità di fruizione e di
approfondimento, oggi possibili grazie alla ricchezza di mezzi di comunicazione esistenti. Pare
quindi che lo stesso consumo mediatico della politica sia a sua volta un comportamento di natura
politica, una forma di “quasi-interazione mediata” (Thompson 1998) che connota l’attivismo
politico e che crea una rete di soggetti orientata alla comunicazione, alla condivisione, alla critica e
allo scambio simbolico. Dalle interviste, emerge come i giovani attivi dedichino all’informazione
politica una parte importante del proprio tempo, in genere maggiore del tempo impiegato nella
partecipazione effettiva, con ciò evidenziando come questi due aspetti della partecipazione, quello
cognitivo e quello dell’azione, siano strettamente collegati e facciano parte del processo
complessivo di mobilitazione politica individuale. Ciò sembra limitare gli effetti propagandistici e
sensazionalistici degli attuali processi di comunicazione politica.
Appare utile fornire qualche esempio a riguardo estratto dalle interviste. «Per la mera
informazione utilizzo varie pubblicazioni on line, sia italiane che straniere (da Repubblica a BBC,
per intendersi). Leggo i quotidiani cartacei sempre più raramente e spesso con notevole disgusto
per il pietoso stato in cui versa il nostro sistema dell’informazione (molto saltuariamente leggo
Corriere della Sera, Il Manifesto, Liberazione). La televisione, telegiornali compresi, è ormai del
tutto assente nella mia vita, salvo rarissime eccezioni. Discorso a parte merita la radio, che ascolto
invece sempre più (in particolare Radio Tre, ad esempio trasmissioni come Radio Tre Mondo).
Per quanto riguarda l’informazione di secondo livello, fortunatamente più aperta alle questioni
internazionali e meno provinciale, cerco almeno di sfogliare con regolarità alcune riviste (come
Limes, Democrazia e Diritto, Quale Stato) o mensili di attualità politica (come Aprile) o
settimanali di movimento (come Carta)» (int. 11). «Leggo i quotidiani (quando posso e ho i soldi,
tutti i quotidiani), ascolto i telegiornali, uso molto la mail (sono iscritto a molte mailing list, da
quelle di movimento locale a quella dell’organizzazione Radical Social Workers statunitense),
guardo notizie in internet quando qualcuno le segnala. Ascolto la radio. Uno dei principali
strumenti di informazione per me, e soprattutto a livello locale, è la rete di
conoscenze/amicizie/militanza che nel tempo mi sono costruito» (int. 20). «Mi tengo in contatto
con le altre realtà sociali della destra, internet è uno strumento prezioso per la
controinformazione e poi leggo, leggo molto, di tutto, sto attento a non farmi fregare» (int. 4).
È probabilmente possibile affermare come la tendenza all’informazione dei giovani
politicamente impegnati, diversificata e costante, sviluppi un forte senso critico capace di
veicolare, attraverso l’obiettività, una più ampia sicurezza. Gli attivi sembrano perciò più immuni
al battage mediatico della paura, tanto da essere capaci di discernere più agevolmente tra i fatti e la
loro rappresentazione giornalistica. Quello della sicurezza è infatti uno dei temi tra i più
frequentati del processo comunicativo, al suo interno informazione, pregiudizio, condizionamenti
ideologici, di audience e di mercato politico risultano così intrecciati da richiedere un notevole
impegno cognitivo per la comprensione del fatto oltre la notizia. È forse per questo che la
partecipazione politica, accompagnandosi strettamente alla tendenza all’informazione, ha come
effetto la maturazione di una consapevolezza e di una vis critica che si traduce in una più forte
sensazione di sicurezza.
I giovani politicamente attivi intervistati in ambito fiorentino indicano infatti nei media un
attore fondamentale per la definizione della sicurezza. L’immagine della sicurezza veicolata dai
media appare loro viziata da molti interessi in gioco, soprattutto di natura politico-amministrativa,
così come appare sovradimensionata la gravità dei problemi che le sono collegati. Dalle loro
parole emerge che, in genere, «si parla di sicurezza come repressione, come moltiplicarsi di reati
violenti, non si parla mai di sicurezza sociale, sicurezza lavorativa, sicurezza ambientale, vi è in
pratica un uso molto strumentale del senso di sicurezza delle persone» (int. 19) o ancora
«l’emergenza sicurezza è palese, ma i media e i partiti politici la strumentalizzano per fini di natura
elettorale» (int. 25). È una sicurezza che viene declinata nei termini della lotta alla criminalità e
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nella difesa dell’incolumità personale, che mette l’accento quasi esclusivamente sulla dimensione
della sicurezza urbana. Ciò genera una «trasformazione semantica della sicurezza in termini di
ordine pubblico e di costruzione mediatica della paura, che identifica negli immigrati il simbolo
della criminalità e individua nella microcriminalità i pericoli maggiori per il cittadino» (int. 11).
«Per i media, nessuno escluso, è come se esistesse un’equazione tra immigrazione e criminalità»
(int. 7), che spesso «lascia spazio a interventi decisamente autoritari, nonché a comportamenti di
intolleranza nei confronti delle minoranze etniche, culturali e religiose» (int. 15).
La riflessione si fa amara quando gli intervistati affermano che «per approdare ai media ci
vuole una notizia forte, negativa. Tensione, pericolo, preoccupazione: i media se ne cibano e li
danno in pasto allo spettatore» (int. 5). È così che «non sempre si racconta la verità, ma viene
dato risalto solo a fatti ben determinati» (int. 13). Questo meccanismo di parzializzazione appare
pernicioso perché ha un riflesso reale sull’azione politica e amministrativa, per cui «vengono
costruite delle politiche che producono effetti perversi per le persone e per le loro relazioni,
specie nelle zone cosiddette a rischio» (int. 20) e ciò «spiega come mai la percezione
dell’insicurezza da parte della popolazione cresca» (int. 18). L’effetto più rilevante del
sensazionalismo è quello di produrre molto spesso disinformazione. «La sicurezza è un
argomento da campagna elettorale, il cittadino si ritiene coinvolto in prima persona da questo
tema, ma facilmente ne nasconde altri più delicati politicamente» (int. 8), e ancora «la
strumentalizzazione della sicurezza diventa una scusa per non parlare dei problemi sociali, come
la disoccupazione e il precariato» (int. 30), tanto che «la maggior parte delle volte la cronaca
sembra un’accozzaglia di generalizzazioni e superficialità» (int. 14). Questa catena di riflessioni
personali lascia poco spazio alla credibilità del circuito dei grandi media, mostrando come
l’insicurezza urbana sia un tema di punta, che fa audience, e che quindi viene semplicemente
assorbito da chi non si informa a fondo, mentre viene razionalizzato da chi è capace di scavare
nella notizia e tra le notizie. Questo è proprio quello che sembrano fare i giovani politicamente
attivi, uomini o donne che siano.
I giovani intervistati nel corso delle due ricerche condividono lo stesso territorio e gli
stessi problemi generazionali, ma i più attivi politicamente dimostrano una minore insicurezza
urbana e una maggiore attitudine all’informazione. Per la precisione, si informano tutti i giorni il
78,8% degli attivi contro il 38,8% degli inattivi, ossia ben il doppio, così come il 49,2% dei maschi
contro il 37,3% delle donne. L’informazione è perciò una prerogativa principale degli attivi ed
appare più debolmente ricollegabile al genere. Al di là dell’essere uomo o donna, a fare la vera
differenza è quindi la partecipazione: amplifica l’attitudine all’informazione e riduce la paura.
L’effetto positivo della partecipazione si rivela particolarmente forte tra le donne, così
tanto da ridurre la maggiore vulnerabilità percepita e da rendere l’insicurezza femminile
confrontabile con quella maschile. Ciò accade perché insieme alla mobilitazione politica si attiva
una dimensione cognitiva importante. I dati evidenziano come alla base della dedizione alle
questioni del civismo e della politica ci sia una maggiore informazione, più profonda e ben
diversificata, che fa supporre come i giovani politicamente impegnati riescano a mettere in campo
una riflessività ed una capacità critica maggiori, tali da consentire un’osservazione più obiettiva
dei fenomeni sociali. È proprio in questo senso che la partecipazione politica costituisce una sorta
di antidoto all’insicurezza urbana, soprattutto tra i soggetti apparentemente più vulnerabili come
le giovani donne. Le donne attive tornano così ad impadronirsi della cittadinanza.
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