Salari e merito Su Liberazione del 29 novembre Luigi Cavallaro spiega in modo limpido e rigoroso quali siano le ragioni della sinistra tradizionale per rifiutare l’idea della sinistra liberista secondo cui la retribuzione debba in qualche misura dipendere dal merito. È un tema focale del dibattito politico da cui dipendono, tra l’altro, le strategie del Partito Democratico. Cavallaro è categorico: “Merito e salario non possono essere legati in alcun modo salvo che accollando al lavoratore il rischio di impresa” a cui egli “è per definizione estraneo”. E questo, oltre ad essere concretamente impossibile per la non misurabilità del merito, è incompatibile con l’art. 36 della Costituzione secondo cui la retribuzione deve essere “in ogni caso sufficiente” ad assicurare “un’esistenza libera e dignitosa” al lavoratore e alla sua famiglia. Richiamando Marx, il salario non è il prezzo del “lavoro” effettivamente erogato, ma della “forza lavoro” intesa come “astratta capacità umana di erogare energie fisiche e mentali”, assunta uguale per tutti. Quindi il contratto collettivo nazionale deve esistere per assicurare a ogni lavoratore quella stabilità e quella retribuzione che soddisfino la seconda parte dell’Art. 36. Anzi, aggiunge Cavallaro, un trattamento contrattuale uniforme per tutti migliora l’efficienza delle imprese costringendo quelle meno produttive a ristrutturarsi: Se il salario contrattato non è compatibile con profitti positivi è colpa del “padronato nullafacente” che non sa gestire e sviluppare tecnologicamente le imprese. Il ragionamento di Cavallaro, pur nella sua chiarezza, ha due difetti. In primo luogo, confonde il “dover essere” con l’“essere”. In secondo luogo, dimentica quello che la “teoria economica dominante”, come lui la chiama, ha prodotto da quando negli anni ’920 ha iniziato a incorporare nei suoi ragionamenti proprio quelle imperfezioni del mercato e quelle asimmetrie informative che a suo avviso impediscono nei fatti di commisurare il salario al merito. Se la produttività di un lavoratore (anche nel senso dell’“astratta capacità” di Cavallaro) fosse una caratteristica innata che un lavoratore non può modificare con un minore o maggiore impegno, il ragionamento di Cavallaro sarebbe perfettamente compatibile con “la teoria economica dominante” perfino nel caso (realistico) in cui questa caratteristica fosse diversa da persona a persona. La produttività di ciascuno sarebbe, infatti, un dono ricevuto dalla natura “senza merito” per il ricevente. Dietro il “velo dell’ignoranza” Rawlsiano, una collettività potrebbe benissimo accordarsi per pagare tutti nello stesso modo, dal momento che nessuno può sapere ex-ante chi sarà bravo e chi no. Ex post, i più dotati cercherebbero e troverebbero imprese disposte a pagarli di più, ma la Costituzione avrebbe proprio lo scopo di costringere tutti a non abbandonare ex post il “patto assicurativo” contrattato ex ante (ossia, di fare in modo che l’“essere” si pieghi al “dover essere”). Ma è ragionevole assumere che la produttività individuale non possa essere modificata da un maggiore o minore impegno del lavoratore? Questo è il nocciolo del problema che divide sinistra tradizionale e sinistra liberista. I tradizionalisti ritengono che le dotazioni innate (immeritate) e il contesto (ad esempio, l’imprenditore fannullone) siano gli unici fattori che determinano la produttività individuale effettiva, e che quindi sia non solo eticamente ingiusto, ma anche inutile pagare i lavoratori in modo diverso perché questo non influirebbe sulla loro produttività. E se così fosse il mondo concorderei con loro senza esitazioni. Tuttavia se Cavallaro rifiuta l’equazione “salario = produttività marginale” perché esistono imperfezioni del mercato, allora le imperfezioni le deve considerare tutte, non solo quelle che fanno comodo al suo ragionamento! In particolare, deve accettare la possibilità che ciascuno di noi lavori con maggiore o minore impegno a seconda del vantaggio, comunque definito, che dal nostro lavoro deriviamo (quello che gli economisti chiamano rischio etico). In questo contesto il modello economico su cui dovremmo ragionare è quello in cui la produttività del lavoratore dipende non solo dalle sue caratteristiche innate e da eventi di contesto a lui estranei (tra cui la “nullafacenza” del padrone), ma anche dall’impegno che il lavoratore decide di esercitare. La soluzione di questo modello proposta dalla teoria economica prevede un contratto in cui la retribuzione sia composta da una parte fissa, per assicurare il lavoratore dagli eventi a lui estranei, e una parte variabile in funzione del prodotto, per incentivare il lavoratore ad esercitare l’impegno socialmente ottimale. Notate: sembra proprio quanto prescrive l’Art. 36 della Costituzione nelle sue due parti. Discutiamo pure di quanto sia giusto privilegiare la componente assicurativa e quanto quella incentivante, ma, come la stessa Costituzione suggerisce, entrambe sono necessarie. Anche perché il “dover essere” non può prescindere dall’“essere”. Ossia il contratto non solo deve dare gli incentivi ottimali alle parti, ma deve anche assicurare che le parti abbiamo voglia di partecipare al contratto. Ma il merito non è misurabile, dice Cavallaro, e anzi secondo la sua intepretazione delle sentenze della Cassazione, non dobbiamo nemmeno cercare di misurarlo mediante paragoni tra lavoratori. Qui non seguo più il suo ragionamento, così lucido altrove. Le promozioni o i concorsi pubblici (che gli economisti analizzano con la teoria dei tornei di Lazear and Rosen, che certo Cavallaro conosce) non sono forse paragoni tra lavoratori di cui è palesemente lecita, prima ancora che desiderabile, l’esistenza? Nulla da eccepire, invece sull’idea che salari più alti costringano i “padroni nullafacenti” a darsi una mossa o a soccombere. Ma è disposto il sindacato a lasciare che gli imprenditori facciano le loro libere scelte su come ristrutturare e potenziare le loro imprese, decidendo quindi anche su come e quanta forza lavoro utilizzare? Ed è disposto a lasciar soccombere le imprese mal gestite? Così deve essere allora, perché non si possono avere la “botte piena e la moglie ubriaca”. Andrea Ichino [email protected] 29 novembre 2007