“Giovani e mondo del lavoro: un futuro da precari?” Andrea Olivero Presidente nazionale Acli 1 - Giovani e lavoro: il contesto Il lavoro flessibile, che pian piano si sta sovrapponendo al sistema di lavoro taylor-fordista, coinvolge nelle sue novità sia positive che negative soprattutto i giovani. Proprio loro si misurano con un nuovo paradigma dei processi produttivi in un mercato competitivo in quella che il sociologo Manuel Castells chiama la società della rete. Penso che il passaggio di secolo segni una linea di demarcazione. Sono tante le cause: la globalizzazione, i flussi migratori, le innovazioni tecnologiche, le riorganizzazioni aziendali. Un tempo le imprese si ispiravano ai modelli altamente standardizzati e centralizzati del fordismo e della sua produzione di scala simbolizzato dalla FORD: “Un tipo di macchina, nera, per tutti”. Oggi esistono sistemi flessibili che permettono di costruire su ordinazione del cliente come ad esempio è stato lo Swatch: “un orologio, diverso, per ognuno”. Così l’azienda non ha più bisogno di prevedere la quantità di merce, ma si concentra sui gusti dei consumatori. Nel frattempo sono cadute le barriere che legavano il lavoro ai territori che abitava: la città e la campagna, il centro e la periferia. Ognuno aveva ambienti precisi: i campi, le fabbriche, i palazzi dell’amministrazione pubblica, i grattacieli del business. Oltre all spazio cambia la misura temporale tanto che Luciano Gallino sostiene che siamo entrati in una società aperta 24 ore su 24 per 7 gironi alla settimana. I giovani affrontano tutti questi cambiamenti senza potersi basare sul background esperienziale dei loro genitori, che si sono avvicinati al lavoro in un contesto estremamente differente, né tanto meno su un bagaglio proprio di professionalità e knowhow che si acquisisce con il tempo. I n questo scenario stiamo oggi affrontando una sfida: la flessibilità lavorativa che per l’entrata nel mondo del lavoro è una possibilità non deve diventare precarietà a “tempo indeterminato”. CI sono dati contradditori: da una parte, come viene descritto da “Rapporto Giovani”, la Sesta indagine dello Iard sulla condizione giovanile in Italia, emerge che le nuove generazioni si confrontano con il sistema lavorativo in modo realistico. Rispetto all’inserimento lavorativo i giovani non sono spaventati dalla “frammentazione attuale del mercato lavorativo”. Dall’altra parte, però, alcuni sociologi osservano che in Italia «i giovani assorbono quasi interamente la flessibilità del mercato del lavoro, soprattutto quelli fino a 24 anni. Il contratto a tempo indeterminato è la modalità tra l’80% e il 90% per gli adulti, ma solo per il 36% dei giovani a 24 anni e per il 68% dei giovani fino a 34 anni» (in “Il lavoro che cambia. La più vasta ricerca sui lavoratori italiani”). Così dobbiamo essere consapevoli che la precarietà può essere un rischio reale per i giovani come scrive Accornero in San Precario lavora per noi: «le probabilità dei venticinquenni di avere un impiego permanente sono la metà di quelle che hanno avuto i cinquantacinquenni». Tre nodi critici da affrontare per aiutare i giovani a superare la precarietà Per conciliare giovani e lavoro si dovrebbero affrontare tre nodi critici, che evidenziano come il lavoro sia non solo questione sociale, ma soprattutto questione antropologica. La prevedibilità di un futuro di vita: La flessibilità del lavoro porta le persone ad una maggiore percezione del rischio e ad una minore capacità di programmare quel che avverrà. Terminata l’Università nel nostro Paese le prospettive si rivelano assai povere. Dall’ultima indagine di Alma Laurea sulla condizione occupazionale dei laureati italiani si evince che in Italia lo studio non paga: “il numero di persone che trova lavoro ad un anno dalla discussione della tesi non cresce negli anni, ma anche che con il suo primo impiego, atipico, e quindi precario, per il 48% dei dottori, un laureato guadagna mediamente 1 040 euro al mese. Se la cifra si confronta con il potere di acquisto delle prime buste paga percepite nel 2001 si rileva un cala del 7%”. Ci dovremmo chiedere dove sono finite le prospettive della tanto invocata società della conoscenza, nella quale i “saperi” dovrebbero essere appetibili e ricercati per il mondo della produzione? Ci si chiede, allora, a cosa possa servire studiare se si guadagna poco, se il lavoro quasi sempre non corrisponde al curriculum studiorum. Il passaggio nel guado della precarietà durante l’ingresso lavorativo sembra quasi indilazionabile. Questo apre notevoli dubbi proprio sulla capacità dei giovani di immaginare il loro futuro: come acquistare casa, quanto si potrebbe guadagnare tra qualche anno, se si lavorerà ancora, quando si potrà iniziare a vivere in autonomia dai propri genitori… Penso siano significative in questo senso le parole del messaggio di Benedetto XVI rivolto ai partecipanti alle settimane sociali dei cattolici italiani ci ricordava che “quando la precarietà del lavoro non permette ai giovani di costruire una famiglia, lo sviluppo autentico e completo di una società risulta seriamente compromesso”. Il richiamo del Papa ci aiuta a spingere in avanti il nostro impegno: la precarietà non è solamente l’urgenza del momento, ma minaccia il nostro futuro, perché impedisce ai nostri giovani di immaginare la loro vita con serenità, di condividere un disegno di coppia e un’aspirazione alla genitorialità. Le relazioni lavorative: Il processo di individualizzazione del lavoro e l’impresa virtuale portano fisiologicamente ad una frammentazione dei legami all’interno dei luoghi di lavoro. Oggi si moltiplicano le figure professionali, si diversificano le modalità di lavorare. Non si favorisce la condivisione di gruppo. Ci si sente più soli. Il clima sul lavoro è solitamente quello della competizione, difficilmente il proprio collega è visto anche come compagno, come amico: le monopostazioni racchiuse in un box, dove il proprio compagno si può vedere solo di spalle offorno un’immagine chiara di quello che si sta costruendo. Come ricordava Richard Sennet in un suo libretto dal significativo titolo “l’uomo flessibile”: le persone che non sanno per quanto tempo rimarranno nello stesso posto e aspirano a trovare un’occupazione migliore, non hanno grande interesse ad allacciare legami solidali con quelli con cui lavora. Questi stessi processi di individualizzazione del lavoro possono arrivare a conseguenze dilanianti per le persone. Penso allo stress da iper-lavoro, penso all’ansia da prestazione che un clima di continua competitività provoca, penso alla difficoltà di “staccare quando si torna a casa”. Ci sono ricadute drammatiche sulle persone degli effetti di questa individualizzazione del lavoro come ad esempio il mobbing: una nuova piaga che va affrontata con coraggio. Rivendicare la centralità sociale del lavoro è la base per ipotizzare la creazione di un’economia solidale e personalistica che, a livello globale, riconosca l’esistenza di diritti vitali degli esseri umani, costituendo forma di riequilibrio delle ingiustizie sociali e di redistribuzione della ricchezza, che ristabilisca un equilibrio tra le generazioni. Le capacità di scelta: Stiamo verificando che i giovani non sono passivi allo status quo. Loro manifestano strategie di azione ampie e complesse: non optano per un’unica via, ma sperimentano più percorsi. Ci dobbiamo allora chiedere come le persone indirizzano le proprie scelte? Il lavoro di oggi propone piste del tutto nuove su cui impegnarsi a partire dalle prospettive lavorative: ad esempio se è vero che oggi i giovani appaiono disorientati nel periodo del loro inserimento nel mondo del lavoro è altrettanto vero che i percorsi possibili si sono moltiplicati e il ventaglio delle scelte è enormemente più vario di un tempo. Penso sia importante comprendere l’importanza di offrire criteri intelligenti di scelta per indirizzare la propria carriera professionale: dobbiamo ricordare che per crescere non è più determinante l’anzianità di servizio. Nei passaggi da un’occupazione all’altra l’esperienza fa curriculum più di prima, se coniugata ad un aggiornamento costante. Per questo sosteniamo che il cittadino non può essere lasciato solo, quando sceglie sul suo futuro possibile appare opportuno sostenerlo mediante un periodo di accompagnamento e tutela costante al momento dell’inserimento lavorativo, come invitarlo ad un aggiornamento continuo, occorre metter mano ai diritti di formazione per i lavoratori (le 150 ore sono anacronistiche per la società della conoscenza). Per noi in questo modo si gettano le basi per costruire una politica dell’occupabilità. Servire il futuro L’attualità e la nostra fede ci chiede di non schiacciarci sul presente, ma di affrontarlo per guardare con speranza al futuro. Come si possono affrontare i nodi critici per non accettare la profezia “che si auto-avvera” di lavoro precario, ma agire per costruire una società del lavoro liberato. In primo luogo bisogna iniziare a difendere i lavoratori più deboli a partire dalla soppressione delle varie forme di illegalità e di sfruttamento che sono il primo attentato alla sicurezza dei lavoratori fino ad arrivare alla tutela di tutte le forme di lavoro, in particolare quelle atipiche. Bisogna definire uno Statuto dei nuovi lavori per uscire dal rischio di una precarietà cronica” (come abbiamo ribadito pochi giorni fa durante il nostro 23° Congresso nazionale). Poi abbiamo l’opportunità di costruire una società del lavoro libero. Perché costruire una società più equa, è importante riconsiderare il ruolo ed il valore del lavoro. Dobbiamo essere consapevoli che il lavoro è una modalità di espressione della dignità umana e per questo non può limitarsi alla soddisfazione dello status di necessità economica e diventa una modalità per l’affermazione della soggettività di ogni persona. Come ha spiegato Benedetto XVI citando la Centesimus Annus, nella quale è scritto che vasto è il campo di impegno e di lotta delle forze sociali contro un sistema che privilegia il capitale sul lavoro. Un’altra strada è possibile è si può trovare nella costruzione di una società del lavoro libero, dell’impresa e della partecipazione. Questa società da costruire propone il lavoro libero come titolare di diritti specifici, a partire dal diritto – riconosciuto dalla Costituzione – di una politica realmente finalizzata alla piena e buona occupazione, alla concreta esigibilità dei diritti di cittadinanza, anche sul posto di lavoro, e alla sicurezza come tutela del diritto alla vita e alla salute. Propone l’impresa come comunità di persone che non è un valore a sé ma deve essere valutata nella sua capacità di rispondere alle esigenze delle persone per le quali esiste. E quindi è consapevole di tutte le sue responsabilità sociali, ambientali, economiche. Propone la partecipazione come elemento essenziale tra garanzie formali e sostanziale esigibilità dei diritti. Considerare il lavoro nelle sue molteplici dimensioni è un anticorpo fondamentale di un modello che non sia concepito solamente nella logica del profitto della rendita o degli scambi finanziari. Perché partire dal lavoro e non dalle teorie economia significa partire dalle persone e dai loro bisogni. Rimangono quanto mai attuali le parole, con le quali vorrei concludere, di un grande testimone della fede come Giorgio La Pira: “Il problema del lavoro è in certo senso, dopo quello della preghiera, il problema che investe più profondamente la vita spirituale e religiosa della persona umana. L’uomo che lavora è come l’albero che produce frutto: i suoi talenti si moltiplicano: egli dona al corpo sociale come il corpo sociale dona a lui, così è immesso nel circuito creativo della vita”. Nel lavoro ritroviamo un’intima connessione tra la vocazione propriamente umana di custodire e coltivare il creato e la capacità di costruire relazioni tra persone per questa via riusciremo a promuovere un umanesimo del lavoro.