Testimonianza della fede e prossimità diaconale nel vissuto

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Testimonianza della fede e prossimità diaconale nel vissuto
ecclesiale: La carità come giustizia
(Aspetto patristico)
Premessa
Il tema proposto non ha pretese di scientificità, né tanto meno di esaustività. È una
breve indagine in funzione pastorale, che individua solamente alcune direttrici presenti
nella Chiesa dei primi secoli e le illustra alla luce delle testimonianze dell’epoca
patristica, liberamente e forse arbitrariamente scelte, con l’intento di favorire una
riflessione in chiave pastorale a servizio della Chiesa locale.
I.
La situazione ecclesiale nei secoli III e IV
Nei secoli III e IV la Chiesa intensifica la sua attività e si espande sia nelle regioni
orientali che in quelle occidentali: da Alessandria a Cartagine, dalla Spagna alla Gallia,
dall’Irlanda alla Mesopotamia. La nuova religione provoca un lento e inarrestabile
mutamento sociologico e culturale, rompendo le stratificazioni consolidate della società
pagana e penetrando gradualmente in tutti gli ambiti della società romana. Le comunità
cristiane sparse in tutto l’impero romano, accolgono uomini e donne appartenenti ad
ogni condizione e rango sociale, lingua e razza.
In questa mutata situazione, i cristiani instaurano rapporti profondamente rinnovati
tra di loro e con il mondo esterno e si assumono le loro responsabilità in ambito sociale
e politico.
Fin dall’inizio, cioè già prima della pace costantiniana, si radicalizza lo scontro tra i
costumi cristiani e quelli pagani. Quale linea di condotta si dovrà tenere nei confronti
della società pagana? La pastorale cerca rispondere a questo quesito.
Tertulliano e Cipriano, Clemente d’Alessandria e Origene si fanno interpreti delle
esigenze cristiane, sia nella vita personale e familiare che sociale e politica. Dal punto di
vista organizzativo la Chiesa, in questo periodo, si rafforza e si struttura, guidando le
scelte pratiche dei credenti nella vita quotidiana (vedi, il problema della schiavitù, della
povertà e ricchezza e del rapporto uomo-donna). Ma anche dal punto di vista dottrinale
e morale i Padri prendono posizione nelle controversie teologiche e intervengono in
ordine alla formazione morale dei cristiani richiamando i grandi temi della giustizia, del
rispetto dell’uomo, e gettando così le basi di un nuovo ordine sociale.
Tracciando un quadro della vita ecclesiale, nel De opere et eleemosynis (cc. 25ss),
Cipriano denuncia la sordità dei fratelli che non si rendono disponibili a soccorrere i
poveri e i bisognosi e il comportamento prevalente della comunità cristiana, che
considera poco evangelico. Ciononostante, tra luci e ombre, gradualmente le comunità
cristiane primitive imparano a testimoniare la carità in ambito sociale (assistenza ai
poveri), a promuovere la ministerialità, volta a rispondere alle diverse esigenze e ai
bisogni emergenti all’interno della comunità ecclesiale e della società civile, e a
proporre itinerari propedeutici alla fede basati sull’ascolto della parola di Dio e
sull’incontro personale con Cristo (catecumenato).
1
II. La fede della Chiesa
1.
Definizione di fede
La fede ispira e motiva i comportamenti e le scelte del cristiano. La fede, intesa
come affidamento a Dio e adesione al mistero di Cristo, è una sorta di «presa» amorosa
che consente al credente di tenersi stretto a Colui che si nasconde nella notte.
«Con la fede trovai colui che amavo; non lo abbandonerò più; con la presa della fede
starò da presso a colui che ho trovato, fino a quando egli non sia dentro i miei penetrali» 1.
Infiammata dal desiderio di raggiungere lo Sposo, l’anima/ Chiesa lo cerca con
rinnovato ardore e, mediante la fede, s’affretta ad andargli incontro.
«La Chiesa chiede... che dalle figlie di Gerusalemme per quella fede, per quella
devozione sia risvegliato il suo sposo, perché si affretti a raggiungere la sposa, e sia
risvegliato in lei l’amore per lui o anche sia risvegliato lui stesso, perché lo sposo è amore.
Dio, infatti, è amore, come ha detto Giovanni. Ma egli non sopportò di essere risvegliato
dagli altri, perché si affrettava spontaneamente e “uscito dal suo talamo esultava come un
gigante pronto a percorrere la sua via” (Sal 18,6)2. Lo vide la sposa, udì la voce di lui che
veniva, e subito, rivolgendosi a lui, disse: “Ecco questi arriva saltando sui monti, balzando
sui colli” (Ct 2,8)»3.
Infine, dopo averlo trovato, cerca di trattenerlo, per non dover più separarsi da Lui.
Secondo i Padri dei primi secoli dell’era cristiana, la fede cristiana non consiste
nell’accettazione passiva di una dottrina ma nell’adesione a un evento, al mistero del
Verbo incarnato, riconosciuto come Salvatore e redentore dell’uomo.
«Noi – afferma Gregorio di Nissa – accettiamo il fatto»4.
Il vescovo di Cesarea, san Basilio, sintetizza i punti fondamentali della professione
di fede, secondo il simbolo di Nicea, sottolineando contemporaneamente la fedeltà alla
Scrittura e alla tradizione apostolica.
«Noi crediamo in un solo Dio, Padre Onnipotente, creatore di tutte le cose visibili e
invisibili. E in un solo Signore Gesù Cristo, il Figlio di Dio Unigenito, che è stato generato
dal Padre, cioè dalla sostanza del Padre. Dio da Dio, Luce da Luce. Dio vero da Dio vero;
che è stato generato, non creato; consustanziale (homooúsios) al Padre; per mezzo del quale
tutto è stato fatto, sia le cose del cielo come quelle della terra; che per noi uomini e per la
nostra salvezza è disceso e si è incarnato, si è fatto uomo, ha sofferto ed è risuscitato il terzo
giorno, è salito al cielo e verrà a giudicare i vivi e i morti. E allo Spirito Santo» 5.
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Gregorio di Nissa, Commento al Cantico dei Cantici, Or. IV, trad. it di C. Moreschini in: Gregorio di Nissa,
Omelie sul Cantico dei Cantici, Roma 1988, 158.
L’espressione è contenuta anche nell’Inno 5 di Ambrogio (Intende, qui regis Israel), str. 5 (W. Bulst [ed.],
Hymni Latini Antiquissimi LXXV. Psalmi III, Heidelberg 1956, 43). Cf. A. Bonato, S. Ambrogio. Inni, Milano
1992, 153-169; Ambroise de Milan. Hymnes, texte établi, traduit et annoté sous la direction de J. Fontaine,
Paris 1992, 263-301.
Ambrogio, Rim. Giobbe 4,1,3 (SAEMO 4,224-225).
Gregorio di Nissa, Grande Catechesi 11,2, tr. it. di C. Moreschini, Gregorio di Nissa, Opere, Torino 1992,
158.
Basilio, Lett. CXXV (ed. C. II,33s).
2
La riflessione teologica di Basilio e degli altri due Cappadoci (Gregorio di Nissa e
Gregorio di Nazianzo) contribuìsce notevolmente allo sviluppo della fede nicena.
Grazie al loro approfondimento della terminologia trinitaria e cristologica, svolto sulla
base del simbolo niceno, si giunge, nel 381, a una professione di fede comune della
Chiesa d’Oriente e d’Occidente.
La preoccupazione fondamentale dei Cappadoci è quella di approfondire il rapporto
tra le tre Persone divine e l’unità divina nell’ambito della Trinità. In questa prospettiva,
la doppia formula «una sostanza-tre ipostasi» (mía ousía - treîs hypostáseis), che
sintetizza e riformula la dottrina origeniana delle tre ipostasi e quella unitaria dei Padri
occidentali, risulta più soddisfacente dell’homooúsion niceno6.
La stessa professione di fede, ispirata al credo battesimale, è affidata da Gregorio di
Nazianzo al battezzando.
«Oltre a tutte queste cose, e prima di tutte, conservami il buon deposito…; esso
consiste nella confessione di fede nel Padre, nel Figlio, nello Spirito Santo. Questa
confessione di fede te l’affido oggi… e te la consegno come compagna di tutta la vita»7.
Così pure Gregorio di Nissa, nella Confutazione della professione di fede di
Eunomio, un esponente ariano della terza ora, pone come riferimento essenziale della
professione di fede del cristiano la fede battesimale.
«Noi crediamo, come abbiamo appreso dalle parole del Signore (cf. Mt 28,19), nel
nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, confessando, insieme con questa fede,
anche l’economia attuata per il bene degli uomini dal Signore del creato»8.
Da questa breve rassegna di testi emerge lo stretto legame tra teologia ed economia
salvifica, tra il Dio uno e trino e la salvezza realizzata da Cristo e sperimentata dal
battezzato che accoglie con fede la sua Parola e intraprende la via della conversione.
2.
Implicanze della fede
La fede è dono di Dio e risposta dell’uomo. C’è quindi un legame inscindibile e un
reciproco rimando tra iniziativa divina e impegno dell’uomo.
«Le azioni giuste e la grazia dello Spirito, quando si trovano insieme, riempiono di
vita beata l’anima su cui convergono, purché restino unite: se si separano non sono di
nessuna utilità all’anima»9.
Le opere buone, che l’uomo compie, non gli assicurano la ricompensa divina,
perché nessun sforzo umano può essere equiparato ai beni promessi10; tuttavia, la fede
6
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10
La riflessione pneumatologica che porta all’affermazione della divinità della terza Persona, è più tardiva e ha
come riferimento fondamentale l’esperienza battesimale. Su questo argomento e, in particolare, sul contributo
di Basilio, si veda M. Simonetti, Genesi e sviluppo della dottrina trinitaria di Basilio di Cesarea, in: Basilio
di Cesarea, la sua età, la sua opera e il basilianesimo in Sicilia, I, Messina 1993, 169-197. Per una sintesi di
tutta la problematica: B. Studer, Dio salvatore nei Padri della Chiesa (Trinità-cristologia-soteriologia),
Borla, Roma 1986, 198ss.
Gregorio di Nazianzo, Or. 40,41 (Moreschini, 146).
Gregorio di Nissa, Confutazione della professione di fede di Eunomio 4,18 (Moreschini, 595).
Gregorio di Nissa, Il fine, professione e perfezione del cristiano, Roma 1979, 28.
Cf. Gregorio di Nissa, Il fine, professione e perfezione del cristiano, 45: «Si gode della promessa non in
proporzione degli sforzi compiuti, ma in proporzione della fede e dell’amore per essa. Data la grandezza dei
doni non si possono trovare degli sforzi proporzionati: solo una grande fede e una grande speranza sono in
grado di misurare la ricompensa, prescindendo dagli sforzi; e il fondamento della fede è rappresentato dalla
povertà di spirito e dall’amore smisurato per Dio».
3
nel suo stesso dinamismo implica l’unità profonda tra iniziativa di Dio e risposta
dell’uomo, che si traduce nella testimonianza credibile del Vangelo.
«Come la Parola vuole che siano i cristiani, quali discepoli del Cristo: modellati solo
su ciò che vedono in lui o che da lui odono… Come tralci del Cristo che sono radicati in lui
e in lui portano frutto e fanno tutto ciò che conviene a lui e di lui è degno… Come membra
del Cristo, resi perfetti in ogni operazione dei comandamenti di Dio o dei carismi dello
Spirito Santo, a onore del capo, che è il Cristo… Come figli di Dio, formati a immagine di
Dio, secondo la grazia concessa in grazia agli uomini… Come luce del mondo, in modo da
non ammettere il male e da illuminare coloro che ad essi si accostano affinché conoscano la
verità, e divengano ciò che devono essere o mostrino ciò che sono… Quali la Parola vuole
che siano quelli cui è affidato l’annuncio del vangelo: come apostoli e servi del Cristo ed
encomi fedeli dei misteri di Dio, che adempiono incessantemente, con l’opera e la parola,
soltanto ciò che il Signore ha comandato»11.
Per la sua intrinseca natura, la fede non può essere disgiunta dalle opere12. Su
questo tema ritorna frequentemente il vescovo Ambrogio di Milano (+397), il quale,
nell’opera Caino e Abele, esalta il coraggio di Zaccheo che rinuncia alla propria avarizia
e devolve parte dei suoi beni ai poveri.
«[… ] Zaccheo, rinunciando alla sua avidità, accolse in sé Cristo. (…) In realtà,
accogliendo Cristo respinse l’avarizia, cacciò l’inganno, rinunciò alla frode. Infatti non
entra altrimenti Cristo se non per allontanare i vizi: perché non coabita assieme ai peccati
(…). Per cui Zaccheo, con i sentimenti di un tempo, costrinse gli antichi vizi ad uscire dalla
sua dimora, perché vi entrasse Cristo. Con ragione, dunque, mentre la gente mormorava
perché il Signore si era fermato per andare presso un peccatore, disse al Signore: “Ecco do’
ai poveri la metà dei miei beni: e se ho portato via qualcosa a qualcuno con la frode gli
rendo il quadruplo” (cf. Lc 19,7). Con queste parole rispose a coloro che dicevano che non
avrebbe dovuto offrire ospitalità a Cristo, dicendo cioè: “Ormai non sono più un
pubblicano, non sono più lo Zaccheo di una volta, non rubo, non frodo. Rendo quello che
ho sottratto, rendo mentre ero abituato a portare via. Ora distribuisco ai poveri che prima
spogliavo; ora elargisco i miei averi, io che prima dissipavo quelli altrui”. Fuggirono i
peccati dopo che Cristo entrò e fu dissipata la cecità delle passioni della carne, là dove si
diffuse la luce della vita eterna»13.
Ciò che determina questo radicale cambiamento di vita è l’incontro con Cristo, che
lo ha trasformato e gli ha consentito di riscoprire la propria dignità e di entrare in un
nuovo rapporto di amore e di fiducia con il Signore. Ciò dimostra che il Figlio
dell’uomo non ha esitato a farsi servo, per amore dell’umanità. Ma l’adesione a Cristo
non è il punto di arrivo del cammino di fede. Essa comporta per il discepolo un
progressivo cammino di crescita spirituale e di impegno a vivere conformemente al
Vangelo.
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13
Basilio, Morali, Regola LXXX,1.3-4.8-9.12 (trad. it. a cura di U. Neri, Opere acsetiche di Basilio di Cesarea,
UTET, Torino 1980, 201-204).
Cf. Giovanni Crisostomo, Omelie su Matteo 24 (25),1-2 (PG 57,321-323).
Ambrogio, Caino e Ab. II,16 (SAEMO 2/1,275).
4
Poiché «dalla fede procede la carità, dalla carità la speranza, le quali continuamente
rifluiscono l’una nell’altra come in un’orbita divina (rursus in se sancto quodam circuitu
refunduntur)»14.
Le virtù “teologali” della fede, della speranza e della carità s’inseriscono in un
dinamismo circolare, fonte di continuo rinnovamento per il cristiano e di indomito
slancio missionario. Le medesime aiutano il credente a superare gli ostacoli e le fatiche
del cammino e ad aprirsi alla vita nuova, come emerge dall’interpretazione della figura
di Levi Matteo, il pubblicano convertito (Lc 5,33-39), fatta dal vescovo milanese.
«“E nessuno getta vino nuovo in otri vecchi” (Lc 5,37). Ecco palesata tutta la fragilità
della condizione umana: il nostro corpo è paragonato alla pelle essiccata di animali morti. E
magari fossimo in grado di adempiere le funzioni di otri buoni, per poter conservare con
cura il mistero che abbiamo ricevuto! L’industriosità attenua il deterioramento, se, rinnovati
gli otri, il vino nuovo viene introdotto in essi. Perciò dobbiamo conservare sempre pieni
questi otri; se sono vuoti, la tignola e la ruggine fanno presto a rovinarli; la grazia li
mantiene colmi. Siffatti consigli si accordano bene con quest’azione [la chiamata di Levi];
si tratta infatti della sesta opera di Gesù, nella quale è data come una nuova immagine
tipologica di Levi. (...) È per prepararlo che il Signore gli dà questi consigli: infatti egli lo
stava ormai seguendo tutto lieto, risoluto e con passo baldanzoso, dicendo: Ormai non
faccio più il pubblicano, non porto più Levi. Mi sono svestito di Levi da quando ho rivestito
Cristo... seguo soltanto te, Signore Gesù, che sani le mie ferite. (...) Sono tenuto stretto dalla
fede come dai chiodi e sono avvinto come dalle belle catene dell’amore. Terrò impresso in
me ogni tuo comando come un marchio rovente»15.
Questo radicale cambiamento di vita ha evidenti riflessi sul piano ecclesiale.
«È la Chiesa infatti che custodisce la fede nell’intimo dello spirito, quando professa la
Trinità della medesima divinità, quando adora in uguale misura e con uguale venerazione il
Padre, il Figlio e lo Spirito Santo e li celebra insieme nell’unica maestà, distinguendo
secondo ciò che è proprio di ciascuna persona»16. «E siccome “porta” è Cristo, che
esclama: “Colui che passerà attraverso me, sarà salvo” (Gv 10,9), anche la Chiesa può
essere chiamata “porta”, perché essa spalanca ai popoli l’accesso alla salvezza»17.
3.
La fede che opera mediante la carità
Professare la fede significa, secondo Agostino (+430), entrare in intima relazione
con Cristo e amare le membra del corpo mistico.
«Che significa dunque credere in lui? Credendo amarlo e diventare suoi amici,
credendo entrare nella sua intimità e incorporarsi alle sue membra. Questa è la fede che Dio
vuole da noi; ma che non può trovare in noi, se egli stesso non ce la dà»18.
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18
Ambrogio, Esp. Luc. VIII,30 (SAEMO 12,307-309).
Ambrogio. Esp. Luc. V,26-27 (SAEMO 11,385).
Ambrogio, Abramo I,38 (SAEMO 2/2,77).
Ambrogio, Comm. Sal. 118 22,38 (SAEMO 10,423).
Agostino, In Ioh. 29,6 (NBA 24/1,656s).
5
La fede ci unisce a Cristo e ci incorpora alle sue membra; ma la fede implica
l’amore, poiché senza la carità non si può aderire a Lui.
«Crede infatti in Cristo colui che ripone la sua speranza in Cristo e ama Cristo. Poiché,
se ha una fede senza speranza e senza amore, crede nell’esistenza di Cristo, [ma] non crede
in Cristo. Perciò in chi crede in Cristo, in lui Cristo viene, proprio per la fede in Cristo; egli
in certo qual modo si unisce a Cristo e risulta quale membro nel corpo di lui (membrum in
corpore eius). Ciò non si può verificare, se non si aggiunge e la speranza e la carità» 19.
Agostino sostiene che chi ama il fratello, ama necessariamente Dio, perché Dio è
amore; e che chi non ama il fratello, non può vedere Dio, perché non ha la carità. Di qui
l’invito ad avere la carità, senza la quale non si può avere lo Spirito di Dio20.
«“Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate l'un l’altro” (Gv 13, 34). Tu
affermi di amare Cristo: osserva il suo comandamento ed ama il tuo fratello. Se non ami il
fratello, come puoi amare uno di cui disprezzi il comandamento? O fratelli, non mi sazio di
parlare della carità, nel nome di Cristo. Più voi siete avari di questo bene, più speriamo che
esso cresca in voi, scacci il timore, perché rimanga quel casto timore che dura per sempre.
Cerchiamo di tollerare il mondo, le tribolazioni, gli scandali delle tentazioni. Non
abbandoniamo la giusta via, manteniamo l’unità della Chiesa (teneamus unitatem
Ecclesiae), teniamoci uniti a Cristo (teneamus Christum), conserviamo la carità (teneamus
caritatem). Non separiamoci dalle membra della sua sposa, non strappiamoci dalla fede,
perché possiamo gloriarci quando egli si farà presente; resteremo in lui senza turbamenti,
ora con la fede, più tardi con la visione, di cui abbiamo come caparra certissima il dono
dello Spirito Santo»21.
Praticare l’amore fraterno significa, in effetti, sperimentare la presenza dello
Spirito, che abita in noi.
«“Dio è amore. Quale volto ha l’amore? quale forma, quale statura, quali piedi,
quali mani? nessuno lo può dire. Esso tuttavia ha i piedi, che conducono alla Chiesa; ha le
mani, che donano ai poveri; ha gli occhi, coi quali si viene a conoscere colui che è nel
bisogno; dice il salmo: Beato colui che pensa al povero ed all’indigente (Sal 40, 2). La
carità ha orecchi e ne parla il Signore: “Colui che ha orecchi da intendere, intenda” (Lc 8,
8). Queste varie membra non si trovano separate in luoghi diversi, ma chi ha la carità vede
con la mente il tutto e allo stesso tempo. Tu dunque abita nella carità (habita) ed essa
abiterà in te (inabitaberis); resta in essa (mane) ed essa resterà in te (manebitur in te)»22.
19
20
Agostino, Serm. 144,2,2 (NBA 31/1,380s).
Cf. In Io. Ep. tr. 6,9 (NBA XXIV,1760s): «Quando parla del comandamento egli aggiunge: “Questo è il suo
comandamento: che crediamo al nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo a vicenda. E chiunque
adempia al suo comandamento rimane in Dio e Dio in lui” (1Gv 3,23-24; cf. 15,12). “Con ciò noi
conosciamo che in noi egli dimora, per mezzo dello Spirito che ci ha dato” (Gv 13,34). Se infatti troverai di
possedere la carità, tu hai lo Spirito di Dio che ti aiuta a comprendere: ed è questa una cosa assolutamente
necessaria».
21
In Io. Ep. tr. 9,11 (NBA XXIV, 1832s).
22
In Io. Ep. tr. 7,10 (NBA XXIV,1782-1785).
6
Per lo stesso motivo, «nessuno [pertanto] dica: io pecco contro un uomo, quando
non amo il fratello (sentite!); e peccare contro un uomo è cosa da poco; purché non pecchi
contro Dio! Ma come non pecchi contro Dio, quando pecchi contro l’amore? “Dio è
amore”. Lo diciamo forse noi? Se fossimo noi a dire: “Dio è amore”, forse qualcuno di voi
si scandalizzerebbe e direbbe: che cosa ha detto? Che cosa ha voluto dire, affermando che
“Dio è amore?”. Dio ci ha dato il suo amore, ci ha donato il suo amore. “L'amore proviene
da Dio”: “Dio è amore”. Eccovi, o fratelli, nelle vostre mani le Scritture di Dio: questa
Epistola è una di quelle canoniche; si legge in tutte le chiese, è ammessa sull'autorità del
mondo intero, essa stessa ha edificato il mondo. Senti ciò che ti vien detto da parte dello
Spirito di Dio: Dio è amore. Se osi, ormai, agisci pure contro Dio e non amare il fratello»23.
Agostino ripete continuamente che solo l’amore fa sì che Dio inabiti nei nostri
cuori; solo amando il prossimo si ama Dio. Commentando 1Gv 4,20 («Chi non ama il
suo fratello che vede, come potrà amare Dio, che non vede?»), il Vescovo d’Ippona
osserva:
«Si può forse amare il proprio fratello (diligere fratrem) e non amare l’amore (non
diligere dilectionem)? È inevitabile che ami l’amore. Ma costui ama Dio appunto perché
ama l'amore stesso? Proprio così. Amando l'amore (quia diligit dilectionem), ama Dio
(dirigit Deum). Hai forse dimenticato che poco prima Giovanni ha detto: “Dio è amore?”
Se Dio è amore (Deus dilectio), chiunque ama l’amore ama Dio (quisquis diligit
dilectionem Deum diligit). Ama dunque tuo fratello e sta’ sicuro (cf. 1 Gv 4, 8-16). Tu non
puoi dire: Amo il fratello ma non amo Dio. Allo stesso modo che menti quando dici: Amo
Dio, se non ami il fratello; così ti inganni, quando dici: io amo il fratello, e poi ritieni di non
amare Dio. Necessariamente (necesse), amando il fratello, ami l’amore stesso (diligas
ipsam dilectionem). L’amore infatti è Dio; e chi ama il proprio fratello, necessariamente
ama Dio. Ma se non ami il fratello che vedi, come puoi amare Dio che non vedi? Perché
questi non vede Dio? Perché non possiede l’amore stesso. Perciò non vede Dio, perché
appunto non possiede l’amore; e non possiede l'amore perché non ama il fratello; quindi
non vede Dio, proprio perché non possiede l’amore»24. Quindi, aggiunge: «Potresti dirmi
che non hai mai visto Dio; non potrai mai dirmi che non hai visto gli uomini. Ama dunque
il tuo fratello. Se amerai il fratello che tu vedi, potrai contemporaneamente vedere Dio,
poiché vedrai la carità stessa (ipsam caritatem), e Dio abita nella carità (intus inhabitat
Deus)»25.
L’amore del prossimo è dunque inseparabile dall’amore di Dio, perché non si può
amare il fratello, se non si ama Dio, che è la fonte dell’amore.
«Di qui appunto (cioè da quel che avviene nel corpo umano) l’Apostolo ha tratto
l’esempio che ha voluto darci della carità, esortandoci ad amarci a vicenda a quel modo che
23
In Io. Ep. tr. 7,5 (NBA XXIV,1776-1779).
24
In Io. Ep. tr. 9,10 (NBA XXIV,1830s).
25
In Io. Ep. tr. 5,7 (NBA XXIV,1736s).
7
nel corpo si amano le membra: “Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e
se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui. Ora voi siete corpo di Cristo e
sue membra, ciascuno per la sua parte” (1Cor 12,26s). Se si amano in tal modo le membra
che hanno un capo sulla terra, come dovranno amarsi le membra il cui capo è nel cielo?»26.
Per la strettissima unione che c’è tra le membra e il Capo, amare il prossimo è
amare e accogliere Cristo, che si nasconde nel povero e nel bisognoso (Mt 25,35-40).
«Quando un cristiano accoglie un cristiano, le membra servono alle membra e il capo
ne gioisce e conta come dato a sé ciò che si dona a un membro suo. Quaggiù dunque sia
nutrito Cristo affamato, assetato riceva la bevanda, nudo sia vestito, forestiero sia accolto,
infermo sia visitato. Questo è necessario durante il viaggio. Così si deve vivere in
quest’esilio, dove Cristo è bisognoso. È bisognoso nei suoi, ricco d’ogni cosa in se
stesso»27.
L’amore del prossimo deve abbracciare ogni persona, anche quella meno meritevole
di aiuto, perché «l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello
Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5).
A quest’amore disinteressato di Dio fa sovente appello Agostino, augurandosi che
esso susciti nei cuori sentimenti di pietà, di giustizia, di carità fraterna e operi una
radicale trasformazione nella nostra esistenza.
«Pertanto, se il mio discorso ha trovato nei vostri cuori una qualche scintilla di puro
amore per Dio (aliquam scintillam gratuiti amoris Dei), alimentatela. Per farla crescere,
ricorrete alla preghiera, all’umiltà, al dolore della penitenza, all’amore della giustizia, alle
opere buone, alle implorazioni sincere, ad una condotta di vita irreprensibile, all’amicizia
fedele. Sollevate in voi questa scintilla di autentico amore (hanc scintillam boni amoris),
aumentatela in voi; quando questa si sarà sviluppata ed avrà suscitato una fiamma
adeguatissima e vivacissima, consuma il fieno di tutte le passioni carnali»28. Quindi,
aggiunge: «Perciò giustamente è stato detto: “La più grande di queste è la carità” (1Cor
13,13), perché alla fede succede la visione, alla speranza la sua realizzazione, alla carità
non succede un’altra cosa. È lei che cresce (ipsa crescit), che aumenta (ipsa augetur), lei
stessa che si perfeziona nella contemplazione (illa contemplatione perficitur)»29. E
conclude: «È dunque la fede in Cristo, la fede della grazia cristiana, cioè la fede che opera
per mezzo dell’amore e che, posta nel fondamento, non permette a nessuno di perdersi»30.
L’Ipponense è infatti convinto che solo amando il prossimo si può vedere Dio.
«Sempre, in ogni istante – ammonisce – dovete ricordarvi che dovete pensare sempre,
meditare sempre, ricordare sempre, praticare sempre, compiere sempre alla perfezione.
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29
30
Agostino, Serm. 162/A,1 (NBA XXXI/2,656s). Secondo il Santo Dottore, Serm. 359,9 (NBA XXXIV,316s),
la stessa Chiesa è formata da tutti coloro che vivono la carità e si amano reciprocamente: «La Chiesa consta
di tutti coloro che sono in concordia con i fratelli (ex his omnibus concordiam tenentibus cum fratribus) e che
amano il prossimo (amantibus proximum)».
Agostino, Serm. 236,3 (NBA XXXII/2,596s).
Agostino, Serm. 178,10.11 (NBA XXXI/2,910s).
Agostino, Serm. 359/A,4 (NBA XXXIV,324s).
Ibid.
8
L’amore di Dio è il primo che viene comandato, l’amore del prossimo è il primo che si
deve praticare. Enunciando i due precetti dell’amore, il Signore non ti raccomanda prima
l’amore del prossimo e poi l’amore di Dio, ma mette prima Dio e poi il prossimo. Amando
il prossimo rende puro il tuo occhio per poter vedere Dio, come chiaramente dice
Giovanni: “Se non ami il fratello che vedi, come potrai amare Dio che non vedi?” (1Gv
4,20). Ti vien detto: ama Dio. Se tu mi dici: mostrami colui che devo amare, ti risponderò
con Giovanni: “Nessuno ha mai veduto Dio” (Gv 1,18). Con ciò non devi assolutamente
considerarti escluso dalla visione di Dio, perché l’evangelista afferma: “Dio è carità, e chi
rimane nella carità rimane in Dio” (1Gv 4,16). Ama dunque il prossimo, e mira [scil.
contempla] dentro di te la fonte da cui scaturisce l’amore del prossimo: ci vedrai, in quanto
ti è possibile, Dio»31.
Ciò che ci spinge al bene è l’attrazione dell’Amore/ Spirito Santo (cf. Gv 6,44),
che infonde nei nostri cuori il piacere del bene e il desiderio di amare fino alla
perfezione.
«Questo significa “saranno tutti ammaestrati da Dio”. Tutti chi? “Chiunque ha
ascoltato il Padre ed ha accolto il suo insegnamento, viene a me” (Gv 6, 45). Ecco, come
esercita la sua attrattiva il Padre: attrae col suo insegnamento, senza costringere nessuno.
Ecco come attrae. “Saranno tutti ammaestrati da Dio”: attrarre è l’arte di Dio (trahere Dei
est). “Chiunque ha ascoltato il Padre ed ha accolto il suo insegnamento, viene a me”. Sì,
attrarre è proprio di Dio»32.
4.
È lo Spirito Santo che ci rende capaci di amare il nostro prossimo
Il Vescovo-pastore è convinto che l’esercizio della carità è possibile solo grazie
all’azione dello Spirito, che con la sua soavità e dolcezza ci facilita la conoscenza delle
realtà invisibili e ci attira nel dinamismo dell’amore trinitario, rendendoci così capaci di
vivere da figli di Dio. Compito dello Spirito è, dunque, quello di orientare l’uomo verso
l’incontro con Dio, suscitando in lui l’amore per la vita definitiva e il desiderio dei beni
eterni.
«Il tuo Dono ci accende (dono tuo accendimur) e ci porta verso l’alto (sursum
ferimur). Noi ardiamo e ci muoviamo. Saliamo “la salita del cuore” (ascensiones in corde,
Sal 83,6) cantando il cantico dei gradini (cf. Sal 119,1 et al.). Del tuo fuoco (igne tuo), del
tuo buon fuoco ardiamo (inardescimus) e ci muoviamo, salendo “verso la pace di
Gerusalemme. Quale gioia per me udire queste parole: "Andremo alla casa del Signore”
(Sal 121,6.1)! Là collocati dalla buona volontà, nulla desidereremo, se non di rimanervi “in
eterno” (Sal 60,8)»33.
Lo Spirito trasforma il fedele, nel quale abita, in “tempio di Dio”, azione questa
che si addice solo a Dio.
31
32
Agostino, In Io. tr. 17,8 (NBA XXIV,400s).
In Io. Ev. tr. 26,7 (NBA XXIV,602s).
33
Conf. 13,9.10 (NBA I,458s).
9
«[…] Se lo Spirito Santo non fosse Dio, certamente non avrebbe noi come tempio.
Però l’Apostolo ha scritto: “Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita
in voi?” (1Cor 3,6). E ancora: “Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo
che è in voi e che avete da Dio? (1Cor 6,19)»34. Quindi, osserva: «Infatti, se non fosse
nostro Dio, non avrebbe potuto averci come tempio»35.
Ma, se Dio è presente in noi mediante lo Spirito, è Dio che ama in noi, per cui
paradossalmente si può affermare che, quando noi amiamo Dio, «amiamo Dio
attraverso Dio», cioè lo possiamo amare solo per mezzo dello Spirito Santo che ci è
stato dato (cf. Rm 5,5).
«Cerca come possa l’uomo amare Dio: assolutamente non lo troverai se non nel fatto
che egli ci ha amati per primo. Ci ha dato se stesso come ogetto da amare (dedit se ipsum
quem dileximus), ci ha dato le risorse per amarlo (dedit unde diligeremus). Cosa ci abbia
dato al fine di poterlo amare ascoltatelo in una maniera più esplicita dall’apostolo Paolo,
che dice: “La carità di Dio è diffusa nei nostri cuori” (Rm 5,5). Ma come? Forse per opera
nostra? No. Ma allora come? “Attraverso l’azione dello Spirito Santo che ci è stato dato”
(ib.). Poiché dunque tanto grande è la fiducia che abbiamo, amiamo Dio attraverso Dio
(amemus Deum de Deo). Senz’altro! Siccome lo Spirito Santo è Dio, noi amiamo Dio
attraverso Dio… Effettivamente, se ho potuto affermare “l’amore di Dio è diffuso nei nostri
cuori attraverso l’azione dello Spirito Santo che ci è stato donato” (ib.), ne segue che,
essendo lo Spirito Santo Dio, noi non possiamo amare Dio se non per mezzo dello Spirito
Santo, cioè non possiamo amare Dio se non attraverso Dio»36.
Per lo stesso motivo, possiamo dire con Gregorio di Nissa che quando noi amiamo,
non facciamo altro che imitare il buon Samaritano/Cristo, che prende su di sé la miseria
umana (caricando l’uomo piagato sulla sua cavalcatura) e lo ospita nella locanda del
suo amore, per curarne le ferite causate dal peccato
«Ma colui che si era rivestito di tutta la natura umana… costui con il suo corpo (che è
rappresentato dalla sua cavalcatura), fermatosi nel luogo della miseria umana, ne curò le
ferite e lo adagiò sulla sua bestia, e fece in modo che divenisse locanda per l’uomo il suo
amore per l’umanità, nella quale si riposano tutti coloro che sono affaticati e afflitti»37.
Così, in virtù della condiscendenza divina, l’uomo può finalmente attuare il
comandamento, perché lo Spirito, inabitando in Lui, lo rende partecipe della vita nuova.
5. Ambiti e manifestazioni della carità
La carità si estende ad ogni ambito umano, poiché cerca di venire in aiuto a
chiunque si trovi nel bisogno.
«Ecco perché la carità, avendo di mira più l’interesse comune che quello privato (in
comune magis quam in privatum), si dice che non cerca il proprio tornaconto (quae sua)…
La carità [… ] si esercita a volte nelle opere buone dell’amore, per cui si estende in tutte le
34
Coll. Max. 14 (NBA XII/2,124s).
35
C. Max. 1,11 (NBA XII/2,200s).
36
Agostino, Serm. 34,2-3 (NBA XXIX,622-625).
10
direzioni possibili per venire in aiuto, e questa è la sua larghezza; altra volta con la sua
natura longanime sopporta le avversità e persevera nella difesa della verità, e questa è la sua
lunghezza; tutto ciò essa compie per il conseguimento della vita eterna, a lei promessa
nell’alto dei cieli, e questa è la sua profondità. Questa carità, nella quale in qualche modo
siamo radicati e fondati (Ef 3,17), ha un’origine recondita dove non si possono scandagliare
le cause della volontà di Dio per grazia del quale siamo stati salvati, non per le opere di
giustizia fatte da noi, ma in virtù della sua misericordia (Tt 3,5). Egli per sua volontà ci ha
generati mediante la parola di verità (Gc 1,18) e questa sua volontà è nascosta nel mistero.
L’Apostolo, quasi spaventato dalla profondità di questo segreto, dice: “O profondità della
ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio! Come sono imperscrutabili i suoi
disegni e imperscrutabili le sue vie! Chi mai ha conosciuto il pensiero del Signore?” (Rm
11,33-34). E questa è la profondità dell’amore»38.
Questa carità, che permea l’intera esistenza del cristiano e si esprime in tanti modi,
consiste essenzialmente nel servizio del prossimo. Ora non c’è nessuno, osserva in
proposito il Santo d’Ippona, che non abbia qualcosa da dare a un altro.
«Camminando per mezzo della fede, cerchiamo di compiere il bene. Mediante le
opere buone sia gratuito l'amore verso Dio, sia benefico l'amore verso il prossimo. Noi
infatti non abbiamo nulla da dare a Dio, ma poiché abbiamo di che dare al prossimo, dando
a chi ha bisogno meriteremo di possedere Colui che possiede ogni bene. Ciascuno quindi
dia ad altri ciò che ha, dia generosamente al povero il superfluo dei suoi averi. Uno ha beni
di fortuna? Ebbene, dia da mangiare ai poveri, da vestire agli ignudi, edifichi la chiesa, con
il denaro compia tutte le opere buone che può fare. Se un altro ha il dono del consiglio, sia
guida del prossimo, cerchi di dissolvere con la luce del suo spirito di fede le tenebre del
dubbio. Se un altro ha il dono della scienza, prelevi dalla dispensa del Signore e
somministri l'alimento ai propri simili, rianimi i fedeli, richiami gli erranti, vada in cerca
degli sperduti, faccia tutto ciò che gli è possibile. Perfino i poveri hanno la possibilità di dar
qualcosa l'uno all'altro; uno presti i propri piedi allo zoppo, un altro offra al cieco i propri
occhi per guidarlo; un altro visiti chi è infermo, un altro dia sepoltura a chi è morto. Tutti
possono rendere tali servizi, sicché è del tutto difficile trovare uno che non abbia qualcosa
da dare a un altro. C'è infine da osservare il grande precetto insegnato dall'Apostolo:
Aiutatevi a portare i pesi gli uni degli altri e così adempirete la legge di Cristo (Gal
6,2)»39.
In questa carità noi siamo «radicati e fondati» (cf. Ef 3,17), per costruire un
progetto stabile e duraturo, che ci renda partecipi della vita eterna.
Dichiara infatti il Retore africano: «“In questo profondo amore di Dio siamo radicati e
fondati” (Ef 3,17): Siamo radicati, per essere il campo da coltivare; siamo fondati, per
essere l’edificio da costruire, e poiché questa non è opera dell’uomo, lo stesso Apostolo
avverte in un altro passo: “Voi siete il campo di Dio, voi siete l’edificio di Dio” (1Cor 3,9).
Tutto si compie quando, durante il nostro pellegrinaggio terreno, la fede agisce per mezzo
della carità. Ma nella vita futura la perfetta e completa carità, senza soffrire più alcuna
pena, non cede per fede ciò che non vede, ne desidera nella speranza ciò che non possiede,
ma contempla in eterno la bellezza della Verità che non muta mai, e l’unica sua eterna
37
38
39
Gregorio di Nissa, Omelie sul Cantico dei Cantici XIV (Moreschini,328s).
Agostino, Lett. 140,25.62 (NBA XXII,274-277).
Serm. 91,7.9 (NBA XXX/2,128-131).
11
occupazione, priva d’inquietudini, sarà quella di lodare ciò che ama e di amare ciò che
loda»40.
Agostino sostiene, in definitiva, che il cristiano si realizza in pienezza, solo se
pratica la carità e la traduce in atteggiamenti e scelte concrete.
III. Testimonianza
ecclesiale
evangelica
e
assistenza
ai
poveri
nel
vissuto
1. Carità come giustizia
La giustizia consiste, secondo il vescovo Ambrogio, nella virtù della gratuità che
ricerca l’utile altrui, non quello proprio. Secondo il pastore milanese, colui che la
pratica si apre generosamente agli altri e si adopera per promuovere il bene comune,
anche a scapito del proprio interesse.
«Solo la giustizia è quella virtù che in ogni circostanza, proprio perché la sua natura è
di aprirsi agli altri più che di rinchiudersi in sé, ha utilità quotidiana e vantaggio comune;
salvaguarda l’utilità degli altri anche a costo di un personale svantaggio (suo damno alienas
custodit utilitates). È la sola che non ricavi il minimo vantaggio e che abbia invece il
massimo merito»41.
Confrontando il testo delle beatitudini di Matteo (cap. 5,6: «Beati quelli che hanno
fame e sete della giustizia») con il parallelo di Luca (cap. 6,21: «Beati voi che ora avete
fame»), il presule si convince che i termini «fame» e «sete» nel primo Vangelo vanno
intesi in senso spirituale, come partecipazione alla condizione di chi soffre. Il ricco
«solo elargendo diventa giusto (largiendo… iustus)». Così intesa, la virtù della giustizia
diventa «fondamento delle altre virtù, facendo sì che il giusto si renda uguale a chi gli è
inferiore (aequalem…inferioribus praestet), non ricorra all’inganno e vada in cerca
della verità»42.
La giustizia, secondo il Vescovo milanese, si traduce in atti di misericordia. Essa
infatti presta aiuto all’indifeso, soccorso al bisognoso e manifesta compassione nei
confronti del miserabile. L’occhio dell’uomo misericordioso è per tutti fonte di giustizia
(fons… iustitiae), fonte di bene.
«[… ] Ecco che l’occhio è diventato per te una fonte di bene (fons bonorum). Hai
gettato sulle proprietà di orfani minorenni uno sguardo non di avidità, ma di tutela, e hai
levato un profondo e sentito grido di sdegno, quando hai visto calpestato qualche interesse
di minorenni; ti sei opposto alla persona che voleva occupare i loro terreni (cf. Sal 9,39);
hai reso giustizia all’orfano minorenne (cf. Is 1,17): ecco che l’occhio per te è stato fonte e
scaturigine di giustizia (fons… et origo iustitiae). Hai reso giustizia alla vedova: come una
moneta falsa non è una moneta, così un cattivo giudizio non è un giudizio. L’hai giudicata
dunque da giudice giusto e buono. Hai visto un disonesto profittatore che pensava di fare
bottino d’una donna priva del sostegno d’un marito (cf. Is 10,2), non hai tollerato l’abuso,
hai portato soccorso all’indifesa, ed ella – con l’aiuto della tua protezione – ha potuto
continuare senza danno la sua casta vedovanza, senza vedersi costretta a ricercare sostegno
40
41
42
Agostino, Lett. 140,26.63 (NBA XXII,278s).
Ambrogio, Com. Sal. 118 16,14 (SAEMO 10,182s).
Ambrogio, Esp. Luc. 5,65 (SAEMO 11,410s).
12
in un nuovo marito. Il Signore dice per te: “Venite e discutiamo” (Is 1,18), perché tu hai
trattato con giustizia la vedova (cf. Is 1,17). Ecco che il tuo occhio è diventato per te fonte
di grazia (fons gratiae)! Hai visto nudo per terra il corpo morto di un miserabile; non sei
passato oltre, come quel sacerdote e quel levita di cui si narra nel Vangelo (cf. Lc 10,3132), ma subito ne hai avuto compassione e l’hai affidato al conforto della sepoltura: ecco
che l’occhio ti ha generato un motivo di redenzione (materiam redemptionis)»43.
Fons iustitiae et gratiae, il giusto lotta per difendere i diritti dell’orfano e della
vedova, non s’arrende di fronte al sopruso del potente che sfrutta e calpesta l’indifeso,
protegge i deboli, soccorre i miserabili e i senza tetto. In ogni necessità e situazione di
bisogno interviene come buon samaritano (cf. Lc 10,30-34), che si china a curare le
ferite del prossimo alleviandone la condizione di umiliazione con la sua misericordia.
Così, con la sua presenza diventa motivo di consolazione e di riscatto per quanti sono
oppressi da miserie e disgrazie, e, con il suo modo di agire, «rallegra il cuore degli
onesti» ed è motivo di rimprovero nei confronti dei disonesti44.
2. Carità come misericordia
La misericordia, come la compassione, nasce da un animo benevolente ed è un
modo di partecipare alla sofferenza del fratello bisognoso offrendogli aiuto e conforto.
«Tu vedi la povertà di ciascuno là dove a ciascuno manca qualcosa, e troverai, forse,
che dove quel tale è povero tu sei ricco e hai di che aiutarlo. Forse puoi mettere a sua
disposizione le tue membra, e questo è più che non dargli del denaro. Un altro ha bisogno di
consiglio, e tu hai una riserva di consigli: sotto questo aspetto tu sei ricco, mentre lui è
povero. Ecco tu gli dai un consiglio: non compi nessuno sforzo, non perdi del denaro, e
compi un’elemosina…. Così si tiene unito il corpo di Cristo, così sono fra loro solidali le
sue membra; la carità nel vincolo della pace le cementa in modo che, se uno ha qualcosa, ne
rende partecipe anche chi non ne ha. E ciascuno è ricco per quel che ha, è povero per quel
che non ha. È così che dovete amarvi e volervi bene. Non badate a voi esclusivamente, ma
badate ai bisognosi che vi circondano»45.
In tal modo si edifica il corpo di Cristo e si rinsalda l’unità delle sue membra nella
carità. Senza questa solidarietà non vengono salvaguardati il bene reciproco e la pace,
perché tutti siamo al tempo stesso ricchi e poveri: ricchi, perché abbiamo qualcosa che il
fratello non ha; e poveri, perché manchiamo di altre possibilità o qualità. Per questo il
cuore sensibile si curva sul povero e soffre con lui. Di qui il pressante invito di Agostino
a praticare l’elemosina.
«Date dunque ai poveri; ve ne prego, vi esorto, ve lo raccomando, ve lo comando.
Date ai poveri tutto ciò che vorrete. Non terrò nascosto alla Carità vostra il motivo per cui
ho avuto bisogno di farvi questo discorso. Da quando io sono qui, mentre mi reco in chiesa
e me ne torno, i poveri m'implorano d'intervenire in loro favore dicendomi di
43
44
45
Ambrogio, Com. Sal. 118 16,6 (SAEMO 10,174s).
Ambrogio, Com. Sal. 118 10,24 (SAEMO 9,424s): «[…] Per i disonesti diventa un tormento conoscere
uomini giusti, perché il comportamento dei santi suona per loro come un sia pur tacito rimprovero. La castità
è un tormento per la licenziosità, la generosità è un tormento per l’avarizia, la fede è un tormento per
l’incredulità». Cf. Ilario, Tract. Ps. CXVIII 10,10 (CSEL 22,444).
Agostino, En. in ps. 125,13 (NBA XXVIII,132s).
13
raccomandarvi di dar loro qualcosa. Mi hanno esortato a dirvi ciò: quando vedono che da
voi non ricevono nulla, giudicano che le mie fatiche spese tra voi sono inutili. Aspettano
qualcosa anche da me: io do quanto possiedo, do secondo le mie possibilità, ma sono forse
in grado di soddisfare le loro necessità? Poiché dunque non sono capace di soddisfare le
loro necessità, sarò almeno loro ambasciatore presso di voi. Avete ascoltato, avete lodato.
Sia ringraziato Dio. Avete ricevuto il seme e risposto con le parole. Queste vostre lodi ci
sono piuttosto di peso e ci mettono in pericolo: le sopportiamo e tremiamo nell'ascoltarle.
Tuttavia, fratelli miei, queste vostre lodi sono soltanto le foglie degli alberi; noi andiamo in
cerca del frutto»46.
Molteplici sono le iniziative dei Padri della Chiesa a favore dei poveri e dei
bisognosi. Essi testimoniano la loro prossimità nei confronti delle persone più indifese
economicamente e socialmente, vendendo i loro beni e devolvendone il ricavato ai
deboli e ai più disagiati, difendendo le persone meno tutelate, vittime di soprusi e
ingiustizie, creando istituzioni benefiche, come le cittadelle ospedaliere e le foresterie,
per accogliere i malati e i senzatetto.
San Basilio, nell’Epistola 74, si difende dalle accuse delle male lingue, che lo
criticano per le spese sostenute per la costruzione di ospizi a favore dei poveri di
Cesarea.
«A chi facciamo torto costruendo dei rifugi per gli stranieri, sia che siano di passaggio
(viaggiatori) sia che abbiano bisogno di qualche cura a causa della malferma salute? A chi
rechiamo offesa procurando a costoro il necessario conforto, cioè le infermiere che si
curano degli ammalati, i medici, gli animali da trasporto con le persone di scorta? Per
queste costruzioni è necessario il concorso dei mestieri, di quelli che procurano il
necessario per vivere e di quelli che sono stati inventati per ottenere un migliore tenore di
vita».
E Gregorio di Nissa, suo fratello minore, descrive con grande realismo le miserabili
condizioni di vita delle file di poveri che quotidianamente popolano le città di Cesarea
di Cappadocia e di Antiochia.
«In questi giorni è arrivata una folla di ignudi e di derelitti. Un’infinità di prigionieri
sta bussando alla porta di ciascuno di noi. Non ci mancano dunque forestieri ed esuli, e da
ogni parte ci voltiamo, vediamo mani tese. La casa di questa gente è il cielo limpido. Il loro
tetto sono i porticati, i crocicchi delle vie, i cantoni più deserti della piazza pubblica. Si
alloggiano nei pertugi delle rocce, come se fossero pipistrelli o civette. Vestono cenci a
brandelli; le loro mietiture consistono nella volontà di quelli che allungano loro
un’elemosina; il loro cibo è quel che cade dalla mensa del primo che passa; la loro bevanda:
la fontana pubblica, non diversamente dagli animali; la loro coppa: il cavo della mano; la
loro dispensa: le pieghe dell’abito che indossano (sempre che questo non sia strappato...); il
loro tavolo: le ginocchia rattrappite; il loro divano: il suolo santo; il loro bagno: il fiume...
46
Agostino, Serm. 61,13 (NBA XXX/1,242s).
14
Conducono questa vita errabonda e selvatica, non perché tale sia da sempre il loro progetto
di vita, ma per un’imposizione dettata dalla disgrazia e dalla necessità»47.
E, ancora, ecco in proposito il racconto di San Giovanni Crisostomo, vescovo di
Costantinopoli (+ 407).
«Veniamo fuori di chiesa e osserviamo file di poveri che formano come delle muraglie
da una parte e dall'altra della porta d’uscita. E tiriamo diritto, senza provare compassione,
come se vedessimo colonne e non corpi umani... Voi ve ne andate di gran carriera alla
vostra mensa, che è già pronta..., e intanto il povero se ne sta qui, in piedi, finché non
trascorra il giorno, a vedere se così facendo riesce a mettere assieme il proprio
sostentamento quotidiano... E dopo una mancanza di umanità così grande, noi oseremo
comunque levare le mani al cielo e domandare a Dio misericordia e perdono per i nostri
peccati. Ma come facciamo a non temere, dopo una simile crudeltà e una tale inumanità,
che, per tutta risposta a questa preghiera, non ci venga scagliata addosso dal cielo una
saetta?»48.
Infine, lo stesso Agostino, giunto a Milano, dichiara di essere rimasto fortemente
impressionato dall’incessante processione di poveri, che Ambrogio soccorreva con
carità esemplare.
«Mi teneva separato dal suo orecchio e dalla sua bocca – scrive Agostino a proposito
di san Ambrogio – una caterva di gente piena di angustie alle cui necessità egli
sovveniva»49.
3.
Forme di solidarietà verso le categorie più disagiate della società
Qual è l’atteggiamento assunto dai Padri nei confronti dei diseredati, dei senza
diritti, degli orfani, degli schiavi, dei malati senza assistenza e senza cure?
I Padri-pastori nelle loro omelie annunciano anzitutto il Vangelo della carità;
quindi, denunciano con forza le ingiustizie sociali e lo stridente contrasto fra coloro che
vivono nel lusso e nell’agiatezza e la folla di mendicanti e invalidi che chiedono un
tozzo di pane agli angoli delle piazze o alle porte delle Chiese; infine, esortano i fedeli a
servire Cristo nei poveri e a farsi carico delle loro necessità, praticando l’elemosina e
promuovendo iniziative di solidarietà.
Essi indicano sovente ai fedeli nei loro sermoni le strade della carità (collette,
elemosina, digiuno, donativi, cassa comune), come via sicura da seguire, per poter dirsi
ed essere veramente cristiani. Il Nisseno esorta il fedele dicendo:
«Soccorrili col tuo digiuno. Sii generoso con questi fratelli, vittime della sventura. Dà
all'affamato ciò che togli al tuo ventre. Modera con saggia temperanza due forme di
appetito, che sono tra loro contrarie: la fame e quella del tuo fratello... Non consentire che
siano altri a soccorrere chi ti sta vicino...» 50.
E Sant’Agostino ammonisce:
«Date dunque ai poveri: lo prego, lo esorto, lo comando, lo ingiungo. Quel che vi
pare, ma date ai poveri. Non nasconderò infatti alla carità vostra la ragione per la quale ho
avuto necessità di rivolgervi questo discorso. Da quando siamo qui, ogni volta che entriamo o usciamo di chiesa, i poveri ci assediano con le loro richieste, e ci raccomandano
affinché noi vi chiediamo, perché da voi essi ricevano qualcosa. Ci hanno esortato a
47
48
49
Gregorio di Nissa, Discorso sull'amore ai poveri I, in: J. I. Gonzalez Faus, Vicari di Cristo, Bologna 1995, p. 33.
Giovanni Crisostomo, Sulla Genesi, horn. 5 (PG 54,602-604; in J. I. Gonzalez Faus, o.c., p. 38).
Agostino, Conf. 6,3.
15
parlarvene: e se vedranno che non ricevono da voi, ecco che allora reputeranno che noi ci
siamo inutilmente sforzati con voi. Anche da noi si aspettano qualcosa: e noi diamo quanto
abbiamo, diamo secondo quel che possiamo. E tuttavia, forse che noi siamo in grado di
soddisfare la loro indigenza? Proprio per la ragione che non ne siamo in grado, ecco che
almeno siamo loro ambasciatori presso di voi»51.
Attraverso le omelie, rivolte ai cristiani delle varie comunità di appartenenza, i
Padri hanno cercato di esortare i fedeli a intervenire a favore di queste categorie più
disagiate, per difenderne la dignità e i diritti e ridurre così le ingiustizie sociali; solo a
queste condizioni, secondo loro, una società può dirsi cristiana. Ecco alcuni esempi:
«Gesù dichiara dato a sé quel che il povero riceve; dice che è Lui a mangiare ciò che
ha mangiato il povero»52.
«Esorto ciascuno di voi a voler ricordarsi e dei poveri e di se stesso, e, per quanto
glielo permettano le sue risorse, di riconoscere negli indigenti Cristo, il quale ci ha tanto
raccomandato i poveri da dichiarare di esser lui stesso e vestito ed accolto e nutrito in
essi»53.
«Considera chi sono, e scoprirai quale è la loro dignità: essi ci rappresentano la
persona del Salvatore. Ed è così: perché il Signore, nella sua bontà, prestò loro la sua stessa
persona...»54.
«Se volete sul serio onorare il corpo di Cristo, non consentite che stia nudo. Dal momento
che certo non lo onorate, vestendolo qui di seta, e fuori, invece, lasciandolo morire nella sua
nudità, di freddo. Perché lo stesso che disse: “Questo è il mio corpo” (Mt 26,26), è quello
che ha detto: “Mi vedeste affamato e non mi deste da mangiare” (Mt 25,42). Il sacramento
non ha bisogno di preziosi mantelli, quanto piuttosto di anime pure. Viceversa, i poveri sì che
richiedono molta cura. Impariamo, dunque, ...a onorare Cristo come egli vuole essere
onorato....Così, dunque, dà al Signore l'onore che Egli stesso vuole, spendendo la tua
ricchezza per i poveri, perché Dio non ha necessità di coppe d'oro, ma d'anime d'oro....Che
vantaggio ne deriva al Signore dal fatto che la sua mensa sia piena di coppe d'oro, se egli si
consuma per la fame? Saziate prima la sua fame, e solo poi, se avanza, adornate anche la
sua mensa»55.
«Comincia ad amare il prossimo. Spezza il tuo pane con chi ha fame, introduci in
casa i miseri senza tetto, vesti chi vedi ignudo... Prendendoti cura del pros simo, tu
cammini. E dove ti conduce il cammino se non al Signore, a colui che dobbiamo amare
con tut-to il cuore?»56.
Testimoniare la carità significa diventare imitatore di Dio
50
51
52
53
54
55
56
Gregorio di Nissa, Discorso sull'amore dei poveri, 1.
Agostino, Disc. 61,12,13.
Pietro Crisologo, Discorso sul digiuno della Quinquagesima 8,4.
Leone Magno, Discorso 6.
Gregorio di Nissa, Discorso sull'amore ai poveri, 1.
Giovanni Crisostomo, Comm. a Matteo, hom. 50 (PG 58,508-509).
Agostino, In Io. tr. 17,7-9.
16
«Chi dona ai bisognosi quello che ha ricevuto da Dio, diventa come Dio per coloro
che sono stati beneficati: egli è imitatore di Dio» 57.
La sequela di Cristo implica la rinuncia al possesso dei beni e il servizio dei poveri.
Si tratta, secondo Basilio di Cesarea, di una scelta evangelica, che libera l’uomo
dall’attaccamento alle ricchezze e dall’assillo dell’accumulo egoistico, e lo rende
disponibile a servire Cristo negli indigenti.
«Non sempre la povertà (
) è lodevole, ma solo quando è scelta
volontariamente in funzione del Vangelo. Molti sono poveri di sostanze, ma predisposti
all’avarizia più gretta: costoro non sono salvati dall’indigenza (
condannati dall’indole. Non qualsiasi indigente
(
), bensì
è degno di lode
), ma solo chi pone il precetto di Cristo al di sopra dei tesori del
mondo. Costoro il Signore proclama beati dicendo: “Beati i poveri in spirito, perché di essi
è il regno dei cieli” (Mt 5,3); non i miseri (
) nelle sostanze, ma coloro che
hanno scelto la povertà dello spirito (
Nulla di ciò
che è involontario è degno di beatitudine
: ogni virtù, e
soprattutto questa, si caratterizza per la volontarietà della scelta»58.
La “povertà evangelica” è la scelta libera e volontaria di rinunciare ai beni terreni
per vivere la vita «secondo Dio», imitando Cristo nella via del servizio e della cura
amorosa dei fratelli bisognosi.
«Colui che spartisce i suoi beni con il povero si stabilirà dalla parte di colui che si fece
povero per noi. Si fece povero il Signore: non aver paura neanche tu della povertà!» 59.
5.
Povertà e ricchezza negli scritti dei Padri
Il soccorso all’indigente mostra, secondo Ambrogio, che il diritto di proprietà, pur
legittimo, non va assolutizzato, perché Dio ha voluto che il possesso dei beni creaturali
fosse comune a tutti gli uomini (possessionem omnium hominum… communem), in
modo che tutti potessero fruirne in ugual misura.
«Ma [poiché] l’avidità ha ripartito i diritti di proprietà (auaritia possessionum iura
distribuit), è giusto [… ] che, se rivendichi per te qualche possesso privato, che in realtà è
stato attribuito in comune al genere umano, anzi a tutti gli esseri animati, è giusto che
almeno ne distribuisca una piccola parte ai poveri (aliquid… pauperibus aspergas), per non
rifiutare i mezzi di sussistenza (alimenta) ad esseri con i quali hai una comunanza di diritto
(iuris… consortium)»60.
Per combattere l’attaccamento ai beni di questo mondo il vescovo milanese
raccomanda la pratica dell’elemosina, intesa come testimonianza di carità e di
condivisione verso i poveri e come salutare rimedio che libera dalla morte (cf. Lc 11,41;
Tb 12,9; Sir 29,15).
57
58
59
60
A Diogneto 10,6.
Basilio, In ps. 35,5 (PG 29,361A-B). Sull’argomento, si veda M. Girardi, Basilio e Gregorio Nisseno sulle
beatitudini, in Vetera Christianorum 32 (1995) 91-129, soprattutto 94-96.
Basilio, Le beatitudini (GNO 7/2,88-89).
Ambrogio, Com. Sal. 118 8,22 (SAEMO 9,332s).
17
«“Date in elemosina, ed ecco, tutto sarà puro per voi” (Lc 11,41). Vedi quanto sono
grandi i rimedi (quanta remedia)? La misericordia ci purifica (mundat), la parola di Dio ci
purifica, secondo quanto sta scritto: “Voi siete già mondi per la parola che vi ho
annunziato” (Gv 15,3). E non soltanto in questo passo, ma anche in altri comprendi con
quale delicatezza si esprima questa realtà: effettivamente, “l’elemosina libera dalla morte”
(Tb 12,9); e ancora: “Rinserra l’elemosina nel cuore del povero, ed essa implorerà per te
nella disgrazia” (Sir 29,15)»61.
La condivisione verso i poveri è motivata dal fatto che noi siamo solo
“amministratori (villici)” dei beni della creazione, del cui uso dovremo un giorno
rendere conto al “gran padre di famiglia (magno patrifamilias) e giudice universale (cf.
Lc 16,1-13 e 19,11-19; Gc 2,13). Si tratta, in effetti, di una responsabilità, che compete
in varia misura a tutti e a ciascuno, a seconda dei doni e degli incarichi ricevuti. Nello
svolgimento della propria missione, si può tuttavia contare sulla consolante certezza che
Cristo s’identifica con i poveri e i miseri (cf. Mt 10,42)62 e sulla beatitudine, riservata a
chi generosamente presta soccorso ai miseri (Mt 5,7).
«Che cosa ha comandato il Signore? “Procuratevi amici con l’iniqua mammona,
perché, quando verrete a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne” (Lc 16,9). È facile
dedurne che bisogna fare elemosine (eleemosynas… faciendas), elargire ai bisognosi
(tribuendum… egentibus) , perché in essi è Cristo che riceve. L’ha detto lui: “Ogni volta
che avete fatto [queste cose] a uno solo dei miei fratelli più piccoli, le avete fatte a me” (Mt
25,40). E dice anche, altrove: “Chiunque avrà dato anche un solo bicchiere d’acqua fresca
a uno dei miei discepoli in quanto mio discepolo, in verità vi dico, non perderà la sua
ricompensa” (Mt 10,42). Abbiamo capito che bisogna fare elemosina senza stare lì molto a
scegliere a chi farla, perché non si può arrivare a un giudizio delle coscienze. Se la fai a
tutti giungerai anche a quei pochi che la meritano. Tu, pensiamo, vuoi praticare l’ospitalità
e prepari la casa per i forestieri. Ebbene, sia ammesso anche chi non ne è degno perché non
sia escluso chi ne è degno. Tu non puoi essere giudice ed esaminatore delle coscienze.
D’altra parte, anche se tu potessi discriminare: “Costui è cattivo, costui non è buono”, io
aggiungerei: “Potrebbe perfino essere un tuo nemico”. “Se il tuo nemico ha fame dagli da
mangiare” (Rm 12,20). Se bisogna fare del bene anche al nemico, quanto più a uno
sconosciuto che, anche se cattivo, non arriva tuttavia ad essere nemico. Noi comprendiamo
queste cose, cioè sappiamo che chi agisce così si procura gli amici che accoglieranno nelle
dimore eterne, quando si sarà esonerati da questa “amministrazione” (ab isto actu). Siamo
tutti come dei fattori (villici) infatti e ci è stato affidato qualcosa da fare in questa vita: di
questo dobbiamo rendere conto al grande padre di famiglia. E colui a cui è stato affidato di
più dovrà rendere un conto maggiore… Ciascuno renderà conto della sua amministrazione
(de actu suo) al Padre di famiglia. L’amministrazione che si compie qui è temporanea, la
ricompensa che ti dà l’economo è eterna... Ma poiché è difficile, in una vasta
61
Ambrogio, Esp. Luc. 7,101 (SAEMO 12,168s).
62
Cf. H. Derycke, Le Christ universel selon saint Augustin, in «Bulletin de Lettérature Ecclésiastique» 91
(1990) 163-174; O. Gonzáles de Cardenal, Cristo en el itinerario espiritual de San Augustín, in
«Salmaticensis» 40 (1993) 21-56.
18
amministrazione, essere esenti da svariate mancanze, così non bisogna cessare di fare
elemosine (eleemosyna cessari), in modo che al momento del rendiconto, non ci troviamo
davanti a un giudice severo ma a un padre misericordioso. Se infatti comincerà ad
esaminare una per una le cose, molte ne troverebbe da condannare. Bisogna su questa terra
essere di aiuto ai miseri (miseris subvenire), perché avvenga in noi quello che è stato
scritto: “Beati i misericordiosi, perché di essi Dio avrà misericordia” (Mt 5,7). E in un altro
luogo: “Ci sarà un giudizio senza misericordia per chi non ha avuto misericordia” (Gc
2,13)»63.
«Fate elemosina (eleemosynam facis), e riceverete elemosina (eleemosynam accipis).
Perdonate, e sarete perdonati. Donate, e vi sarà donato. Ascoltate Dio che dice: “Perdonate
e vi sarà perdonato, date e vi sarà dato” (Lc 6,37-38). Dovete avere ben presenti nella
vostra mente i poveri (in mente habete pauperes). Lo dico a tutti: Fate elemosina (facite
eleemosynas), fratelli, fatela e non andrà perduta. Fidatevi di Dio. Non dico solo che non
andrà perduto quello che fate per i poveri, ma vi dico addirittura che solo questo non va
perduto, mentre va perduto tutto il resto. Vediamo se oggi sapete rallegrare i poveri. Voi
siete per loro come granai (horrea ipsorum): possa Dio darvi di che dare (det vobis Deus ut
detis). E vi perdoni se mai pecchiate. Riponete elemosine nel cuore dei poveri (includite
eleemosynam in corde pauperum), e diventeranno preghiere per voi al Signore (cf. Eccli
29,15)»64.
Riprendendo al monito di Gesù: «Procuratevi amici con l’iniqua ricchezza, perché
quand’essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne» (Lc 16,9), il Santo
Dottore sostiene che occorre usare le ricchezze, per fare elemosine e soccorrere i
bisognosi, perché in essi è presente Cristo. Egli è convinto che il cristiano, che pratica
la carità evangelica, sente l’urgenza di far del bene a tutti, senza discriminazione, per
attuare il comandamento di Cristo e ottenere così la ricompensa eterna. Il medesimo
insiste nel dire che ciò che viene dato in elemosina si tramuta per chi lo compie in
rendita eterna presso il Signore.
«I poveri ai quali diamo aiuto diventano i nostri corrieri che compiono per noi
questo trasferimento dalla terra al cielo... Non si dimentichi quello che è scritto: “Venite,
benedetti del Padre mio, ricevete il regno. Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare”. E
poi: “Ogni volta che avete fatto questo a uno solo di questi miei fratelli più piccoli l'avete
fatto a me” (Mt 25,34.35.40). Se non hai rifiutato di dare al mendicante che ti stava davanti,
fa' attenzione a chi è pervenuto quello che hai dato: “Ogni volta che avete fatto questo a
uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me”. Cristo riceve l'aiuto che avete
dato, lo riceve lui che ci ha fatto dono di fare dono a lui, lo riceve lui che nella nostra fine ci
farà dono di se stesso»65. E ancora: «Questo desiderate, questo procuratevi, per questo
scopo date in prestito. Voi avete Cristo che in cielo siede in trono, ed in terra chiede»66.
63
65
Agostino, Serm. 359A,11 (NBA XXXIV,334-337).
Agostino, Serm. 376/A,3 (NBA XXXIV,548s).
Agostino, Serm. 389,4 (NBA XXXIV,642s).
66
Agostino, En. in ps. 36,s. 3,6 (NBA XXV,820s).
64
19
Agostino ricorda, in proposito, l’ammonimento dell’Apostolo a Timoteo: «Ai
ricchi di questo mondo raccomanda di non essere orgogliosi e di non riporre la
speranza nell'instabilità della ricchezza, ma nel Dio vivo che ci offre abbondantemente
ogni bene perché ne godiamo; raccomanda di essere ricchi di opere buone, di essere
propensi a dare, di mettere gli altri a parte dei loro beni, di accumulare un bel capitale
per il futuro e poter così acquistare la vita vera (1 Tm 6,17-19)»67.
Il tema della povertà e ricchezza è trattato efficacemente anche da san Basilio, il
quale considera le disuguaglianze sociali (la condizione sociale del povero e del ricco,
di chi non ha e di chi ha anche il superfluo) come frutto del peccato dell’uomo e, in tale
contesto, denuncia il comportamento dell’avaro, che muta in possesso ciò di cui ha
soltanto l’amministrazione, incurante dei poveri e dei senza tetto, costretti a mendicare
e, perfino, a morire di stenti, perché non hanno il necessario per vivere. Con toni severi,
nell’Omelia sul ricco insensato (cf. Lc 12,16-21), egli accusa i ricchi di trasformare la
loro ricchezza in strumento di tirannia e li invita a conquistarsi la vita eterna
condividendo i loro beni con i più poveri.
«“Demolirò i miei granai e ne costruirò di più grandi” (Lc 12,18). Ma sì, vorrei dirgli,
tu fai bene, perché meritano d’essere demoliti i depositi dell’ingiustizia. Abbattili con le tue
mani, tu che malamente li hai costruiti; distruggi quei granai, da cui mai nessuno partì con
qualche sollievo; radi al suolo la casa guardiana dell’avarizia, rovescia i tetti, demolisci i
muri, esponi al sole il frumento ammuffito; conduci fuori dal loro carcere le ricchezze che
vi stavano prigioniere; spalanca al pubblico i tenebrosi recessi di Mammona. “Demolirò i
miei granai e ne costruirò di più grandi”… Ecco, se vuoi, i granai: sono le case dei poveri.
Mettiti in serbo un tesoro nel cielo; i beni riposti lassù non li rodono i tarli, non marciscono,
non li rubano i ladri. […] Non sei ladro tu, che converti in una proprietà ciò che hai
ricevuto in amministrazione?… Il pane che tu tieni per te è dell’affamato: il mantello che tu
custodisci nel guardaroba è dell’ignudo; le scarpe che marciscono in casa tua sono dello
scalzo; l’argento che conservi sotterra è del bisognoso. Sicché tanti sono quelli a cui fai
ingiustizia, quanti quelli che potresti soccorrere»68.
Infine, nella stessa Omelia VI, Sull’avarizia, Basilio ammonisce:
«Non sfruttare chi è nelle ristrettezze vendendo a prezzo maggiorato; non aspettare la
carestia per aprire i granai. Infatti, “chi accaparra il grano è maledetto dal popolo” (Pr
11,26). Non augurarti la fame della gente per poterti arricchire, né la miseria pubblica per i
tuoi interessi personali. Non trafficare guadagnando sulle catastrofi umane; non approfittare
dell’ira di Dio per aumentare le tue ricchezze; non inasprire le ferite aperte dalla sferza
delle avversità. Tu contempli il tuo oro e non volgi lo sguardo al tuo fratello; tu conosci
ogni specie di moneta e sai riconoscere quella falsa da quella vera, ma ignori
completamente il compagno che si trova nel bisogno» (c. 3).
Con grande concretezza e incisività lo stesso Gregorio di Nazianzo invita i cristiani
a prendersi cura dei poveri e ad aiutare i bisognosi.
67
Agostino, Ep. 130,1.2 (NBA XXII,74s).
68
Basilio, Omelia sul ricco insensato, 5-8, trad it. di M. Simonetti, con la collaborazione di E. Prinzivalli,
Letteratura cristiana antica. 2. Dall’epoca costantiniana alla crisi del mondo antico (quarto secolo),
Piemme, Casale Monf. 1996, 236-247.
20
«Tu che sei in salute e ricco soccorri chi è ammalato e povero; tu che non hai urtato
[contro nessun ostacolo], soccorri colui che è caduto ed è stato calpestato; tu che sei allegro
soccorri l’afflitto; tu che sei prospero grazie a favorevoli condizioni soccorri chi è
angustiato da quelle avverse. Da’ qualcosa a Dio in segno di gratitudine, poiché appartieni a
coloro che sono in grado di far del bene agli altri, non a coloro che hanno bisogno
dell’altrui beneficenza; poiché non sei tu a guardare nelle mani degli altri, ma sono gli altri
a guardare nelle tue. Non ti arricchire solo di beni, ma anche di pietà [cristiana]
); non solo d’oro, ma anche di virtù, anzi, piuttosto, di questa
(
soltanto. Diventa più meritevole del tuo vicino col mostrarti più buono: diventa dio
) per lo sventurato, avendo imitato la misericordia di Dio»69.
(
Analogo insegnamento è contenuto nel Sermone 14 di Sant’Agostino, il quale esorta
i ricchi a non attaccare il cuore alle ricchezze, ma a servirsene come il viandante che
entra in una locanda per ristorarsi e, quando riprende il cammino, non porta via nulla di
ciò che ha trovato, ma lo lascia al suo posto per altri viandanti che giungeranno dopo di
lui.
«Quelle ricchezze che ci paiono piene di piaceri sono in realtà cariche di pericoli. Chi
è povero dorme più sicuro. Il sonno si avvicina più facilmente alla dura terra che non ad un
letto d’argento. Osservate le preoccupazioni dei ricchi e confrontateli con la serenità dei
poveri. Il ricco impari a non essere superbo e a non confidare nelle ricchezze instabili. Usi
del mondo come colui che se ne serve (cf.1Cor 7,31); si convinca di essere un viandante in
cammino (se viam ambulare) e che è entrato in queste ricchezze come [si entra] in una
locanda (in stabulo). Si ristori, perché deve proseguire; si ristori e prosegua la sua strada,
senza portare con sé quanto trovato nella locanda. Verrà un altro viandante (viator), se ne
servirà anche lui, ma non prenderà via nulla. Tutti lasceranno qui ciò che hanno acquistato.
Dice la Scrittura: “Nudo uscii dal seno di mia madre, e nudo ritornerò alla terra. Il Signore
ha dato, il Signore ha tolto” … (Gb 1,21)» 70.
Conclusione
Dopo aver sottolineato le implicanze della fede in generale, si è cercato di chiarire
le implicazioni antropologico-morali della fede battesimale, intesa come risposta
dell’uomo all’iniziativa di Dio.
Si sono potuti così individuare i riflessi della fede sul piano individuale ed
ecclesiale e si è evidenziata l’intima relazione che sussiste tra fede e vita, fede e carità,
partendo dalla considerazione che, se non si ama, non si può aderire a Cristo, né si può
amare Dio, se non si amano i fratelli, poiché, solo amando il prossimo, si può vedere
Dio.
È stato, quindi, ribadito il primato dell’amore di Dio, inteso, secondo la concezione
agostiniana, come condizione perché noi possiamo amarci reciprocamente. La carità ha
infatti la sua sorgente in Dio, il quale non solo ci trasforma e ci rende capaci di amare,
ma opera anche per mezzo nostro, cosicché, quando amiamo, amiamo Dio per mezzo di
Dio. Ciò risulta ancor più evidente alla luce del mistero dell’Incarnazione, mediante il
quale il Figlio di Dio manifesta l’«economia d’amore per l’umanità»: si china sull’uomo
69
70
Gregorio di Nazianzo, Or. 14,26 (Moreschini, 358s).
Agostino, Serm. 14,6 (NBA XXIX,248s).
21
caduto nelle mani dei briganti, per curarne le ferite causate dal peccato con il balsamo
della sua misericordia senza limiti; quindi, lo ospita nella locanda del suo amore,
affinché si ristori e trovi in Lui la forza di vivere il comandamento nuovo.
In virtù della Redenzione operata da Cristo, noi siamo effettivamente «radicati e
fondati» nella carità (cf. Ef 3,17), e possiamo realizzarci secondo il progetto di Dio,
ricercando non il bene egoistico ma l’amore gratuito e disinteressato.
In tale prospettiva, si è affrontato il tema della testimonianza evangelica nel vissuto
ecclesiale. E si sono individuate quattro direttrici principali della diaconia e/o
testimonianza evangelica in ambito ecclesiale.
Il primo aspetto riguarda il senso della carità come giustizia, ossia la carità e
misericordia come soccorso dei deboli e aiuto ai bisognosi. Su questa linea evangelica
si muove il vescovo Ambrogio di Milano, che invita l’ascoltatore a porsi alla scuola
della parola di Dio e ad osservare i comandamenti, per soddisfare le esigenze della
giustizia. Consapevole dell’inscindibile binomio: giustizia-carità (cf. Rm 13,10), il
vescovo-pastore definisce la giustizia come la virtù che ricerca l’utile altrui, non quello
proprio, e consiglia al ricco di destinare i propri beni ai poveri, per ristabilire l’equità e
la giustizia. A tal fine, egli invoca un radicale cambiamento di stile di vita, possibile
solo se ci si cala nelle concrete situazioni di precarietà e di miseria presenti nella
società, poiché non potrà certo essere considerato soccorritore del povero e del
bisognoso chi non soffre con chi soffre e non prova compassione della miseria altrui.
Conseguentemente può essere definito fonte di grazia per tutti solo il giusto, che, come
buon samaritano, soccorre i deboli e gli indifesi.
Continuando a esplorare questo argomento sotto altra angolatura, si è poi esaminato
il secondo aspetto, ossia il tema della carità come misericordia. Sotto il profilo
spirituale, Basilio di Cesarea considera la “povertà evangelica” una scelta volontaria,
motivata non dall’attaccamento alle ricchezze materiali ma dal desidero dei beni eterni.
Sul piano pratico, invece, egli è convinto che solo la rinuncia al possesso egoistico delle
ricchezze consenta al discepolo di vivere la vita nuova praticando l’elemosina come
condivisione e testimoniando la cura amorosa verso i poveri e i bisognosi.
Il terzo aspetto concerne quindi le forme di solidarietà verso le categorie più
disagiate della società. L’indagine ha evidenziato le diverse soluzioni escogitate dai
responsabili della Chiesa per venire incontro ai bisogni dei diseredati, degli schiavi, dei
senza tetto e dei malati: predicazione, costruzione di ospizi e di centri assistenziali per
mendicanti e invalidi, pratica dell’elemosina e iniziative di solidarietà a diversi livelli. I
Padri sottolineano, in proposito, la necessità d’intervenire a favore di queste categorie
più disagiate, non solo per ridurre le ingiustizie sociali ma anche per poter dirsi cristiani.
Infine, il quarto aspetto fa il punto sulla povertà e ricchezza negli scritti dei Padri.
Nei testi patristici del III-V secolo si evidenzia sovente come il possesso dei beni sia
comune a tutti gli uomini. Questa considerazione porta gli autori a relativizzare il diritto
di proprietà e a raccomandare l’elemosina, intesa come testimonianza di carità e di
condivisione verso i poveri.
Agostino suggerisce, tra l’altro, di estendere questa pratica a tutti indistintamente,
senza preoccuparsi se colui che riceve il frutto della carità altrui è degno o meno, perché
è il Signore che ce l’ha comandato (Mt 25,40) e un giorno ci chiederà conto del nostro
operato quali fattori/amministratori dei beni della creazione. Memore del monito di
Gesù: «Procuratevi amici con l’iniqua ricchezza, perché, quand’essa verrà a mancare,
vi accoglieranno nelle dimore eterne» (Lc 16,9), il laico cristiano o l’operatore della
Caritas dev’essere assolutamente convinto che il soccorso prestato ai bisognosi è un
prestito fatto a Dio, che s’identifica con i poveri. Egli dovrà, dunque, imparare a fare
buon uso delle ricchezze e a praticare la carità come condivisione/elemosina, sapendo
che quanto si dona ai diseredati e agli indigenti fruttifica nei granai del cielo. Ben
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diversa è la sorte del ricco il quale, per la sua insaziabile avidità e indifferenza verso il
prossimo, non solo sbaglia i suoi calcoli per il futuro, ma viene addirittura colto da
morte improvvisa, andando così incontro al giudizio di Dio e alla rovina eterna.
Commentando la parabola evangelica del ricco insensato (Lc 12,16-21), Basilio invita i
suoi interlocutori a servirsi delle ricchezze non solo per soccorrere i poveri, ma anche
per ridurre le ingiustizie sociali e per assicurarsi un tesoro in cielo.
Con altrettanta forza ed determinazione il vescovo d’Ippona, Agostino, esorta i
ricchi ad amministrare saggiamente delle ricchezze, imitando il viandante che entra
nella locanda per ristorarsi e poi riprende il cammino, lasciando poi ogni cosa al suo
posto per i futuri visitatori e/o pellegrini.
Concludendo, si può dire che la presenza di differenti ministeri nella Chiesa antica
testimonia la vitalità delle comunità cristiane, che, attingendo al Vangelo della carità, lo
traducono in varie forme di servizio, corrispondenti ai bisogni della comunità stessa.
L’esercizio della carità non si limita alla funzione assistenziale, ma si tramuta in
efficace strumento pastorale di evangelizzazione e di crescita nella fede di tutta la
comunità ecclesiale.
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