La crisi delle certezze e l’espressionismo La cultura artistica e letteraria europea del primo Novecento tende ad abbandonare l’ottica realistica, cioè il tradizionale dualismo soggetto / oggetto (in cui entrambi i poli restavano ben definiti ed il primo si proponeva come “rispecchiamento” sostanzialmente fedele del secondo), per rivolgersi ad una visione della realtà che non consente più di separare i due momenti, e nella quale l’azione conoscitiva del soggetto struttura e definisce l’oggetto. Ma proprio perché il momento soggettivo si rivela instabile, provvisorio, vicenda interpretativa in continuo sviluppo1, appare sempre più difficile attribuire al reale quei tratti di “solidità” e “definitività” che avevano costituito il criterio base della ricerca filosofica e scientifica – ma anche artistica – dei secoli precedenti (almeno fino alla metà dell’Ottocento). La filosofia di Nietzsche è un aspetto chiave di questa rivoluzione prospettica, anche perché costituisce uno dei rari momenti in cui affiora la consapevolezza dei motivi che la rendono inevitabile. La perdita di punti di riferimento stabili, e quindi la mancanza di senso dell’esistenza umana possono indurre, di volta in volta, una visione tragica o all’opposto euforica (senso di liberazione da ogni schema e da ogni condizionamento esterno): si può dire che entrambi gli atteggiamenti coesistano nel pensiero di Nietzsche, sfumando spesso l’uno nell’altro; anche se è il secondo che programmaticamente torna a proporsi come esito globale. L’ambiguità appare ineliminabile: essa si lega strettamente alla perdita di “gravità” da parte dell’uomo contemporaneo, perdita che non consente più neanche di definire in modo univoco la portata tragica – o d’altro canto comica – di certe situazioni. In un contesto del genere si sviluppano anche il “nichilismo” ed il “relativismo” delle commedie pirandelliane o, successivamente, il “teatro dell’assurdo” di Beckett, Genet e Ionesco. A Nietzsche, soprattutto, si richiamano anche gli esponenti dell’espressionismo: con questo termine si indica una corrente artistico-letteraria dai confini non sempre definiti – in cui possono rientrare ad esempio la pittura di Kokoschka, dei “Fauves” francesi, le poesie di Trakl, la musica di Schönberg, il cinema di Wiene e di Lang – ma che ha indubbiamente il suo centro nei maggiori movimenti pittorici che, in Germania, precedono e seguono immediatamente il primo conflitto mondiale. Caratteri essenziali della pittura espressionista sono la distorsione dell’immagine, l’uso di tratti e colori duri, spesso violenti, tesi a coinvolgere lo spettatore in una nuova vicenda comunicativa, basata anzitutto sul rifiuto dei canoni tradizionali. Si tratta cioè di un’arte intesa non più come rappresentazione di un mondo già dato, autonomo, bensì come azione, come invenzione (piuttosto che scoperta) di una realtà che risulta dunque inscindibile dal sentimento dell’artista. D’altra parte, questa nuova realtà rivelata o costruita così repentinamente non appare in genere “padroneggiata” dalla soggettività ordinaria, cioè da quell’Io cosciente, razionale, che aveva costituito il punto di riferimento della tradizione filosofica, estetica e scientifica: il vecchio dualismo soggetto / oggetto si costituiva infatti come rassicurante corrispondenza, 1 E’ evidente la matrice idealistica di questa impostazione: tuttavia, l’idealismo hegeliano, pur sostenendo la natura “soggettiva” – cioè spirituale – della realtà e dunque il carattere dinamico, fluido di ciò che consideriamo il “mondo oggettivo”, ricostituiva ad un più alto livello l’oggettività e la stabilità del Reale, identificato appunto con il Razionale. (Pur se in un ambito assai diverso, anche Einstein persegue un progetto del genere; per cui sarebbe del tutto fuori strada chi considerasse la teoria della relatività una forma di relativismo). A indirizzare la filosofia idealistica verso quella “distruzione degli immutabili”, e dunque verso quella “crisi delle certezze” che caratterizzano sempre più la cultura contemporanea provvederà, in particolare, il pensiero del grande filosofo italiano Giovanni Gentile (molto vicino a Nietzsche nella sostanza, anche se non nello stile). come armonia; la distanza tra i due poli appariva cioè facilmente colmabile dall’intelligenza, dal sentimento e dalla determinazione umana. La “soggettività” che viene in luce nella nuova invenzione pittorica è invece qualcosa di arcano, di enigmatico: non tanto “Io” quanto “Es” (nell’accezione sia freudiana che nicciana del termine)2. Lo scarto tradizionale – per nulla inquietante – tra “soggetto” ed “oggetto” si traduce ora in quello tra istanze diverse presenti nella stessa soggettività: l’elemento psichico cosciente e razionale è decentrato, spinto ai margini dall’emergere di una soggettività più profonda, che non mostra peraltro un volto preciso ed unitario. E’ il disagio della civiltà di fronte all’affiorare dell’elemento primitivo, che è tuttavia anche affascinante scoperta di una dimensione più originaria (lo “Ur-Mensch”) che aveva già costituito il tema essenziale della ricerca di Gauguin e che guiderà ad es. la produzione teatrale di Artaud. Le premesse di questo atteggiamento sono chiaramente individuabili anche nelle opere di Van Gogh o di Munch, in cui la re-invenzione della realtà, modellata secondo linee inquiete, drammatiche, esprime l’urgenza ed insieme l’impossibilità di dare un senso stabile alle cose: la fluidità del tratto rappresenta da un lato lo sforzo in tal senso dell’artista, dall’altro l’elusività di un “reale” che non si lascia mai cogliere e definire in modo preciso. In questi due autori la crisi delle certezze tradizionali mostra i suoi risvolti più tragici, fino ad oltrepassare le soglie stesse della follia. L’aspetto del disagio, dello scacco della razionalità di fronte a tale crisi, sembra costituire l’atteggiamento prevalente nella cultura espressionistica, e la cosa si può almeno in parte spiegare facendo riferimento al difficile e travagliato periodo storico in cui tale cultura fiorisce. Ma vi sono anche esponenti di questa corrente nei quali prevale l’atteggiamento opposto: quello euforico, riconducibile alla “volontà di potenza” del super-uomo nicciano. È il caso, in particolare, di Franz Marc – pittore tedesco formatosi con studi filosofici, fondatore insieme a Kandinskij del movimento “Der Blaue Reiter”. Da notare che sia Marc che Kandinskij sono attenti lettori e convinti estimatori di Nietzsche. Marc (distaccandosi su questo punto dal pensiero di Nietzsche) individua nella scienza un veicolo di liberazione dalla forma usuale, naturale, “menzognera” delle cose, verso un rinnovamento radicale del mondo, di cui Cézanne sarebbe stato il profeta (peraltro non pervenuto alla terra promessa). Tale impostazione lo conduce ad avvicinarsi anche alle tematiche futuriste, in particolare per quanto riguarda la concezione della guerra, vista come purificazione della vecchia Europa e preparazione del nuovo dominio dell’uomo sulla realtà (partito volontario per il fronte, Marc muore colpito da una scheggia di granata, nel 1916). Nelle opere di Marc è evidente proprio il rifiuto del dato naturalistico: la gestione spregiudicata di forme e colori trasforma il significante (l’opera pittorica) in significato. Non si tende più, appunto, al rispecchiamento di una realtà già data e fissata, ma alla libera invenzione di un mondo nuovo: Marc parla di una “seconda vista”, che è la stessa capacità di oltrepassare l’ordine convenzionale delle cose, e che renderà l’uomo “più potente della natura”. Franz Marc: “Cavallo che sogna”, 1913 2 Rilke esprimeva efficacemente la svolta in atto quando, commentando le nature morte di Cézanne, parlava di un passaggio da: “io amo questa cosa” a: “la cosa è qui”. Cioè: qui sulla scena di cui faccio parte, non più come oggetto pacificamente fruibile, ma come presenza urtante, provocatoriamente incomprensibile, ma che inevitabilmente mi coinvolge (cfr. Lacan: l’Es, l’inconscio, come inciampo). 2