IN CORSO DI PUBBLICAZIONE SU BULLETTINO SENESE DI STORIA PATRIA, 116, 2009 ADRIANO PERONI, GRAZIA TUCCI (a cura di), Nuove ricerche su Sant’Antimo, Firenze, Alinea editrice, 2008, pp. 174 (Architetture di città/85). Il volume curato da Peroni e Tucci si pone come rilettura critica di quanto si conosce sulla vicenda storica e architettonica dell’abbazia di Sant’Antimo, che la leggenda vuole fondata da Carlo Magno e che, invece, è, almeno nella sua prima fondazione, longobarda, anche se non sembra nemmeno da escludersi un primitivo impianto di edificio ecclesiastico precedente. La stessa epoca di intitolazione ci sfugge, come sottolinea nell’introduzione Giovanni Leoncini, per non dire che perfino l’identificazione precisa del santo cui è intitolata lascia incertezza. Quale dei due santi che portano questo nome è il titolare del monastero toscano? Antimo martirizzato sulla via Salaria in età dioclezianea nel 303? o l’omonimo (e meno popolare) compagno di San Donato vescovo e martire di Arezzo, che, con lui, compartecipa al miracolo del calice spezzato? Non è azzardato, suggerisce l’autore, che in origine proprio di quest’ultimo si tratti (anche in considerazione che la costruzione sorge in un’area confinaria fra le diocesi di Chiusi, Siena e, appunto Arezzo) e che, successivamente, il suo culto sia stato soppiantato da quello del più famoso omonimo. Perfino la committenza dell’edificio attuale sembra necessitare di qualche revisione. L’attenta analisi delle epigrafi, infatti, suggerisce l’ipotesi che non ci sia stata un’unica donazione fondante ma, piuttosto, una pluralità di interventi economici da parte di vari aristocratici tesi a rafforzare, tramite questa fondazione, una sorta di cuscinetto nei confronti delle avanzanti pretese senesi nel territorio. Gli autori procedono, poi, ad una ben fatta ricostruzione delle vicende storiche che riguardano l’abbazia, con importanti correzioni nei confronti di alcune interpretazioni non più avvertite come accettabili, e con solo qualche lievissimo e insignificante peccatuccio veniale di lettura di alcuni elementi (il peso della Constitutio dei feudis del 1037 come atto che pone “le basi per la disgregazione feudale dell’Impero” è ormai da tempo ampiamente declassificato dalla storiografia; la politica ottoniana di appoggio alle fondazioni monastiche in funzione antagonista all’aristocrazia laica è un concetto applicabile alla realtà germanica, mentre per quella italiana è vero l’esatto opposto, dato che l’imperatore si trova nella necessità di ricercare in un’aristocrazia - a volte addirittura pre-carolingia - gli strumenti per opporsi ad un potere delle signorie ecclesiastiche fin troppo pericoloso per l’Impero stesso. Ma si tratta, appunto, di correzioni di assoluta irrilevanza per il contesto di questo bel volume). L’edificio di Sant’Antimo risente, com’è stato sostenuto fin dalle analisi ottocentesche dell’Enlart, degli stilemi del romanico francese. Né l’acquisizione sembra passibile di essere rimessa in discussione. La stessa presenza in terra toscana del Maestro di Cabestany, autore del capitello che porta la sua attribuzione (opera di un solo autore e non di una bottega, come da qualche parte si è sostenuto, specifica Marco Burrini al proposito) non fa che consolidare questo dato. Tuttavia, non vanno sottovalutati i contatti con maestranze locali, esponenti di quel romanico che per lungo tempo si è definito, in modo generico, “lombardo” e che invece va riconosciuto per quello che è: uno stile autoctono dal quale non sono assenti gli influssi lucchesi. Da questo punto di vista sono importanti le comparazioni con altri edifici più o meno vicini, come nel caso della Pieve di Santa Maria di Confine, presso Tuoro sul Trasimeno, analizzata da Anna Tüskes, o come fa Marco Frati che traccia una mappa degli influssi architettonici antimiani sui molti edifici di pertinenza patrimoniale dell’abbazia, estesi su un territorio che spazia dall’Orcia all’Aretino, dal Chiusino alla Maremma, con appendici fino alla Lucchesia e al Pistoiese (solo a mo’ di curiosità, si ricorderà, fra questi, all’interno della città di Siena, la chiesa di San Desiderio – oggi trasformata in ristorante – già esistente nel 1012 e confermata a Sant’Antimo, una prima volta nel 1051 e una seconda nel 1216). Lo stesso Frati è autore di un ampio saggio sul cantiere dell’abbazia, ricostruito non in sequenza cronologica, ma, al contrario, srotolando alla rovescia la pellicola della sua storia. Frati, infatti, parte dai restauri che, dal 1870 in poi, crearono la faccia più recente dell’edificio, e da essi procede all’indietro in una ricerca del rapporto cronologico della chiesa con gli edifici circostanti; ricostruendo le fasi costruttive; cercando di arrivare, a conclusione di questo “spoglio”, alla identificazione o, almeno, all’ipotesi del progetto architettonico originale. Si tratta, come specifica lo stesso autore illustrando la propria metodologia, di “una sequenza ‘stratigrafica’ dell’acquisizione critica degli elementi di conoscenza finalizzati alla lettura e interpretazione delle fasi medievali del cantiere”. Impossibile concretizzare risultati per la fase longobarda (almeno fin quando non sarà effettuata una campagna di scavi mirata), quella che emerge è, comunque, una serie di edificazioni-demolizioni-ricostruzioni abbastanza inspiegabile nella sua relativamente ravvicinata sequenza. Le acquisizioni più importanti sono, comunque, quelle relative al cantiere romanico iniziato nel XII secolo, quando scompare una doppia dedicazione che coinvolge accanto ad Antimo anche San Sebastiano, e che procede fino al terzo quarto del XII secolo. A tale proposito, tanto Frati quanto Guido Tigler sfatano il valore attribuito al famoso documento del 1163 che dovrebbe dimostrare, a quell’anno, lo stato di crisi economica dell’abbazia. Non di una prova di povertà, si tratta, ma della strumentale ed enfatizzata lamentela dei monaci antimiani davanti al rappresentante imperiale per impetrare il suo aiuto nel recupero di certi loro diritti sulle rendite di Castiglion della Pescaia. In realtà, la crisi del monastero c’è, ma è posteriore e risale all’inizio del ‘200 quando la fondazione ecclesiastica deve cedere molto del suo controllo sul territorio all’invadente comune di Siena. Fra il 1292 e il 1308, l’abbazia di Sant’Antimo si unisce a quella maremmana di San Guglielmo di Malavalle, senza, peraltro, riuscire a riconquistare il peso avuto in passato. Probabilmente ad un terremoto intorno al 1320 si devono i vistosi danneggiamenti ai quali, successivamente, abati della famiglia senese dei Tolomei cercheranno di porre, alla meglio, rimedio. Verosimilmente, inoltre, il prosieguo del secolo non aiutò il monastero a riprendersi: i restauri dell’Ottocento hanno distrutto pressoché ogni traccia delle fortificazioni delle quali l’edificio si dovette dotare per resistere (come altri coevi dello stesso tipo) alle guerre e alle scorrerie degli eserciti che costellarono la seconda metà del Trecento. L’ultima parte del volume è dedicata all’illustrazione degli interventi tecnici in materia di rilevamento e di restauro, conclusisi nel 2006. Il libro, come Frati specifica, non ha la pretesa di esaustività, né ambisce ad essere considerato una nuova storia completa dell’edificio, poiché “lascia intatta la necessità di una monografia sul complesso monumentale, integrando le più recenti acquisizioni scientifiche con la tradizione erudita degli studi”. Tuttavia, non è esagerato sostenere che ogni futura storia di Sant’Antimo non potrà che ripartire dal complesso di acquisizioni, correzioni di ipotesi, rilettura di documenti (scritti o in elevato che essi siano) e nuovi indirizzi offerti da questo importante volume. DUCCIO BALESTRACCI