LE RAGIONI IN FAVORE DI UNO "STATUTO DEI NUOVI LAVORI"
di Marco Biagi
Nel ricordare la figura del professor Marco Biagi e il suo impegno nel cammino delle riforme, ripubblichiamo qui di
seguito uno degli articoli da lui scritti per Impresa & Stato, rivista che ha avuto il privilegio di averlo tra i suoi
collaboratori. L'articolo, apparso nel numero 46 del 1998, è di grande attualità e testimonia il valore di un impegno
sempre rivolto alla modernizzazione del nostro Paese.
Affrontare la questione dal lato delle tutele, abbandonando vecchi schemi che non corrispondono più alla realtà da
regolamentare.
Dopo decenni di relativa stabilità – caratterizzati da una progressiva dilatazione dello statuto giuridico del lavoro
dipendente e da un corrispondente processo di fuga nel lavoro irregolare e sommerso – il diritto del lavoro è stato
recentemente attraversato da un profondo processo di riforma.
Con la Legge n. 196/1997 (c.d. "Pacchetto Treu") e i provvedimenti regolamentari ad essa correlati è stata estesa e
potenziata la gamma dei contratti c.d. "atipici": lavoro interinale, lavoro a tempo parziale, apprendistato, contratto
di formazione e lavoro, tirocini formativi e di orientamento, borse lavoro. Con la Legge n. 59/1997 (c.d. "Legge
Bassanini") e il successivo Decreto Legislativo n. 469/1997 sono stati ridisegnati i confini tra pubblico e privato
nella gestione del mercato del lavoro e nei servizi per l’impiego, ponendo definitivamente termine alle pesanti
rigidità e inefficienze del monopolio pubblico del collocamento. Già avviati o comunque in via di definizione sono poi
gli interventi di sostegno alla ricerca e alla innovazione tecnologica, i finanziamenti per lo sviluppo imprenditoriale
nelle aree depresse o di degrado urbano, il riordino della materia degli incentivi alle imprese e alle assunzioni, le
politiche sulle infrastrutture attraverso investimenti qualificati e produttivi di spesa pubblica, le politiche di
qualificazione della domanda pubblica, la riorganizzazione del sistema di formazione professionale e in particolare
della formazione continua come strumento per massimizzare la qualità dell’offerta di lavoro, ecc. Pronti a decollare
definitivamente sono poi, pur tra le non poche difficoltà e resistenze, strumenti di sicuro rilievo quali i contratti
d’area e i patti territoriali, mentre solo ora si cominciano ad apprezzare gli esiti e i futuri sviluppi di una precedente
riforma: la cosiddetta privatizzazione del pubblico impiego.
Questi e altri interventi ancora indicano con chiarezza che il diritto del lavoro, inteso come tecnica unilaterale di
tutela fondata per regolare un unico modello di lavoro dipendente, è già oggi sostanzialmente superato anche per il
legislatore e non soltanto per gli operatori economici che da tempo si sono trovati a sperimentare – talvolta ai
margini della legalità – nuovi modelli di organizzazione del lavoro e di gestione delle risorse umane.
Un nuovo sforzo progettuale
Il processo di riforma non può tuttavia fermarsi qui. Si deve francamente riconoscere che la transizione dal diritto
del lavoro ad un più ampio e comprensivo diritto dei lavori che tenga conto dei reali assetti evolutivi dell’economia
e della società è appena iniziata. Fenomeni costantemente richiamati da sociologi ed economisti, quali
l’internazionalizzazione dei mercati e l’incessante innovazione tecnologica, unitamente a mali di antica data come
l’economia sommersa e la fuga dal lavoro subordinato, impongono ora un nuovo sforzo progettuale che consenta il
definitivo ammodernamento della disciplina dei rapporti di lavoro.
Paradossalmente, sono proprio le stime del lavoro "atipico" e irregolare a dimostrare come non sia tanto il lavoro a
mancare: quello che manca, piuttosto, sono regole e schemi giuridici in grado di interpretarne forme e
manifestazioni in modo da consentirne l’emersione e l’equa ripartizione tra tutti coloro che partecipano al mercato
del lavoro.
Sempre più inadeguata, in particolare, è la tradizionale contrapposizione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato.
Il lavoro del futuro richiede regole semplici e flessibili, capaci di attenuare incertezze qualificatorie e possibili fonti
di contenzioso. La compressione delle molteplici forme di lavoro nei rigidi schemi dell’autonomia o della
subordinazione relega invece tutte le forme contrattuali atipiche o sui generis in una vasta area di lavoro grigio
anche laddove manchino intenti fraudolenti o di evasione legale, fiscale e contributiva, e anzi lo schema negoziale
risponda a reali esigenze delle imprese e/o dei lavoratori. Per superare questa impostazione occorrono interventi
realmente innovativi e coraggiosi, come la recente circolare n. 43/1998 del Ministero del lavoro che ha riconosciuto
la legittimità di uno schema contrattuale come il job sharing sin qui praticamente mai sperimentato per i timori di
possibili controversie sulla esatta qualificazione del rapporto. Con questa circolare è stato dimostrato che non è
necessario attendere i tempi lunghi di una legge per disciplinare una nuova modalità di organizzazione del lavoro,
ma è sufficiente un intervento amministrativo che ne chiarisca i contorni e le regole essenziali, rinviando alla
contrattazione collettiva e alle stesse parti del rapporto di lavoro il compito di fornirne una più compiuta e
dettagliata regolamentazione.
Non si tratta peraltro di rimuovere le tutele fondamentali che, nel nostro ordinamento, accompagnano le diverse
tipologie di lavoro subordinato. Pare invece necessario sperimentare dosi di "flessibilità normata", che, nel
contribuire a rimuovere alcuni ostacoli al funzionamento del mercato del lavoro regolare, concorrano a determinare
un clima favorevole alla creazione di occupazione aggiuntiva e alla canalizzazione di quella domanda e offerta di
lavoro che è oggi dispersa e frammentata per la mancanza di adeguate informazioni o per la mancanza di
strumenti di valorizzazione della forza-lavoro. L’impegno del Governo, formalizzato negli accordi con le parti sociali,
è infatti quello di allentare talune rigidità reali del diritto del lavoro italiano, senza però destrutturare il mercato del
lavoro stabile e a tempo pieno.
In questo ampio contesto, caratterizzato da precisi vincoli di compatibilità economica e sociale, il problema della
ridefinizione dei confini tra lavoro autonomo e lavoro subordinato non può semplicisticamente – e irrealisticamente
– consistere in un intervento diretto ad appesantire e penalizzare il lavoro atipico, le prestazioni coordinate e le
nuove forme di organizzazione del lavoro. Né pare invero rilevante un intervento definitorio da parte del legislatore,
mediante la tipizzazione di un nuovo schema negoziale (il lavoro coordinato). Il mercato richiede flessibilità, regole
semplici, certezza del diritto: una nuova definizione che introducesse un tertium genus contrattuale non farebbe
altro che alimentare i motivi di contenzioso, le incertezze qualificatorie e la fuga nel sommerso.
Lo statuto dei nuovi lavori
Più convincente e realistica pare invece l’idea di uno Statuto dei nuovi lavori che, con atteggiamento pragmatico,
affronti la questione dei nuovi lavori dal lato delle tutele (e della loro rimodulazione rispetto a tutti i rapporti di
lavoro), piuttosto che da quello delle definizioni formali e dei concetti. L’idea su cui si dovrebbe lavorare è quella di
rinunciare ad ogni ulteriore intento definitorio e classificatorio di una realtà contrattuale in rapido e continuo
mutamento, per predisporre invece un nucleo essenziale (e abbastanza limitato) di norme e di principi inderogabili
(soprattutto di specificazione del dettato costituzionale) comuni a tutti i rapporti negoziali che hanno per contenuto
il lavoro.
In sintesi lo Statuto dovrebbe operare su due piani distinti destinati però a sostenersi l’uno con l’altro. Da un lato si
potrebbe ipotizzare uno strumento volontario e incentivante di certificazione in sede amministrativa della
qualificazione assegnata dalle parti ad un determinato rapporto di lavoro; dall’altro lato, al fine di rendere effettivo
tale meccanismo, si dovrebbe conseguentemente procedere a rimuovere alcune delle cause che concorrono ad
alimentare il contenzioso in materia di rapporti di lavoro e la fuga fisiologica nel sommerso e nell’atipico (altra cosa,
invece, è la fuga patologica, che, oltre a erodere le garanzie del lavoro, è anche un elemento di distorsione della
concorrenza tra le imprese e come tale va repressa), delineando un percorso di tendenziale riduzione delle
differenze di trattamento normativo e soprattutto contributivo che, attualmente, accompagnano i rapporti di lavoro
autonomo e quelli di lavoro subordinato. Il meccanismo di certificazione dei rapporti di lavoro può ragionevolmente
funzionare solo se, al contempo, viene reso meno squilibrato il "gioco" delle convenienze (per entrambe le parti)
circa la riconduzione del rapporto di lavoro in uno schema negoziale piuttosto che in un altro. In questa prospettiva
uno Statuto dei lavori potrebbe consentire di modulare e graduare (in via tipologica) le tutele applicabili ad ogni
fattispecie contrattuale a seconda degli istituti da applicare secondo una serie di cerchi concentrici che – lungo un
continuum di modalità di esecuzione del lavoro – vanno dalla tutele minime e inderogabili applicabili a tutti i
rapporti di lavoro alle garanzie "forti" del solo lavoro subordinato (tutela contro i licenziamenti).
La questione della certificazione dei rapporti di lavoro come risposta al sovradimensionamento del contenzioso
giurisprudenziale in materia di qualificazione del contratto non pare comportare problemi particolari, a condizione
naturalmente che il programma negoziale concordato ex ante dalle parti venga rispettato in sede di esecuzione del
rapporto di lavoro. Per incentivare la certificazione e sostenere la volontà delle parti si potrebbe peraltro
distinguere tra una area di inderogabilità assoluta o di ordine pubblico (relativa cioè a diritti fondamentali del
lavoratore), come tale non disponibile dalle parti pena la riqualificazione del rapporto in sede giudiziale, e una area
di inderogabilità relativa, gestibile dalle parti collettive in sede di contrattazione collettiva e/o dalle stesse parti
individuali in sede di costituzione del rapporto di lavoro ma, in quest’ultimo caso, solo davanti all’organo
amministrativo abilitato alla certificazione (retribuzioni sopra la soglia della sufficienza, gestione dei percorsi di
carriera, durata del preavviso, stabilità del rapporto, trattamento in caso di sospensione del rapporto, modulazione
dell’orario di lavoro, ecc.).
Riscrivere le tutele
Più critica, indubbiamente, è la parte relativa alla rimodulazione delle tutele rispetto alla quale non solo stenta
ancora a realizzarsi un adeguato consenso politico e sociale, ma sorprendentemente riemergono tabù e
contrapposizioni ideologiche. Eppure è chiaro che la regolamentazione del lavoro atipico impone di riscrivere
(almeno in parte) anche le tutele tradizionali del lavoro subordinato e di procedere ad un corrispondente riassetto
normativo delle prestazioni previdenziali, delineando uno zoccolo previdenziale comune per i lavoratori autonomi e
per i lavoratori subordinati che, nel garantire un gettito contributivo di base per tutti i rapporti di lavoro,
contribuisca a sdrammatizzare il problema qualificatorio delle singole fattispecie anche per gli istituti previdenziali.
Un intervento di mera regolamentazione del lavoro atipico senza una corrispondente ridefinizione dello statuto del
lavoro dipendente non può infatti che contribuire ad appesantire le regole di gestione del lavoro incentivando
presumibilmente una ulteriore fuga nel sommerso se non una risposta in termini di esternalizzazione del lavoro e di
delocalizzazione delle imprese.
Un serio progetto di riforma non può dunque prescindere da questo punto. A questo proposito lascia francamente
perplessi la pregiudiziale ideologica sui licenziamenti avanzata da alcune forze politiche e sindacali rispetto ad un
quadro normativo e sociale che già prevede ampie forme di evasione della regola della stabilità del lavoro. Anche a
prescindere dal lavoro nero, grigio, ecc., non v’è nessuno che possa negare come oggi l’ingresso nel mercato del
lavoro subordinato avvenga nella maggior parte dei casi mediante il ricorso legittimo a tipologie di lavoro
temporaneo, a contratti fittizi di formazione (apprendistato, formazione e lavoro) e a contratti di lavoro autonomo e
coordinato rispetto ai quali le regole sui licenziamenti non trovano applicazione. Perché accettare questa ipocrisia,
pur di non toccare la materia dei licenziamenti, invece di mettere seriamente mano ad una politica tesa a rilanciare
veramente il contratto di lavoro a tempo indeterminato e l’occupazione giovanile? Le idee, in proposito, non
mancano. Fatti salvi i divieti dei licenziamenti discriminatori ovvero per malattia o maternità, si potrebbe escludere
l’applicazione della disciplina sui licenziamenti individuali, senza intaccare le tutele della forza-lavoro adulta e
stabilmente inserita in un contesto aziendale: a) per i lavoratori alla prima esperienza di lavoro con contratto di
lavoro subordinato a tempo indeterminato e comunque non oltre il compimento del trentaduesimo anno di età del
lavoratore; b) per tutte le nuove assunzioni effettuate, per i primi due anni di lavoro, nelle province nelle quali il
tasso medio annuo di disoccupazione, secondo la definizione allargata ISTAT, rilevato per l’anno precedente
all’assunzione, è superiore di almeno il 3 per cento alla media nazionale risultante dalla medesima rilevazione; c)
per i lavoratori che abbiano maturato una anzianità di servizio presso lo stesso datore di lavoro inferiore a due
anni.
Le idee non mancano, ripeto. Quello che manca ancora è la capacità (il coraggio?) di abbandonare vecchi schemi e
paradigmi consolidati che non corrispondono più alla realtà che si intende disciplinare.