Per guardare al futuro

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CODURELLI -- Per guardare al futuro, non uno scontro sull’articolo 18 ma lavorare per uno
sviluppo economico e sociale sostenibile.
In queste ultime settimane la situazione politica ha subito una forte accelerazione, e meno male
dopo che per 4 anni si sono susseguite dichiarazioni per cui tutto andava bene, l’Italia non era in
crisi, poi l’aveva già superata, per arrivare infine al risveglio delle “lettere Europee”.
Lettere che segnalano il predominio della moneta sulla politica, come bene l'ha definito il giurista
Guido Rossi “ il punto centrale è il riequilibrio dei flussi della ricchezza, la politica non può essere
delegata alla Bce, che ha per scopo istituzionale la stabilità dei prezzi e degli intermediari.” E
ancora: “Rimettono in discussione pensioni, licenziamenti, professioni. Non una parola sul
riequilibrio dei redditi e su una regolazione virile dei mercati finanziari, nonostante Dexia sia fallita
tre mesi dopo aver superato gli esami dell`Eba che boccia le banche italiane, ree di avere in pancia
i titoli del proprio Paese invece dei titoli tossici di Wall Street e della City".
Se il dibattito politico per fare quadrare i conti ancora una volta parte dallo stato sociale, ci obbliga
finalmente, a discutere nel merito e senza scorciatoie. Obbiettivo deve essere la ricostruzione.
Nessuno, sia chiaro, vuole disconoscere l’esigenza di una quadratura dei conti pubblici, al
contrario, ma questo non può avvenire a spese dello stato sociale, respingo con forza la tesi, che
difendere le pensioni e non accettare la licenziabilità sarebbe una posizione conservatrice. No, non
ci sto. Chi vuole seguire ancora questa strada non fa altro che riproporre vecchie ricette liberiste
che hanno messo al centro il mercato e sostenevano l’esigenza del superamento di lacci e laccioli
compreso l’articolo18.
Il risultato di questa politica è sotto gli occhi di tutti. L’economia di carta ha sconfitto il lavoro e la
finanza creativa ha sottomesso la politica creando una diseguaglianza mai vista nella più grave
crisi economica dal 1929. Sarebbe auspicabile un mia culpa da parte dei tanti economisti
responsabili, anche di sinistra, me lo aspetterei visto il disastro prodotto, accompagnato da un
inversione di tendenza, evitando abbagli e scorciatoie liberiste, che non arrivano al cuore dei
problemi: partire dalle disuguaglianze drammatiche oggi presenti in Italia.
Sono oltre 7 milioni i giovani che hanno un rapporto di lavoro precario o altamente incerto, un
milione e 400mila lavoratori atipici, tra collaboratori a progetto dei settori privati, collaboratori
coordinati e continuativi della pubblica amministrazione, associati in partecipazione, collaboratori
occasionali e lavoratori che cedono i diritti d’autore nei settori dell’informazione e dello
spettacolo; due milioni e mezzo di contratti di lavoro a tempo determinato e in somministrazione
(quelli che fino a non molto tempo fa si chiamavano interinali); 400mila false partite Iva; tre
milioni di partite Iva individuali e professionisti senza tutele. A loro, in questa fase, si devono poi
aggiungere 70mila giovani vincitori di concorso (o idonei) che attendono di essere assunti nella
Pubblica amministrazione. In totale 7 milioni e 370mila persone. Una massa imponente. Ancor più
rilevante se messa in relazione col numero complessivo – circa 22 milioni – dei lavoratori italiani.
Eppure questa fotografia non dice ancora tutto. Perché se la disoccupazione giovanile, secondo le
più recenti rilevazioni dell’Istat, si mantiene poco sotto il 30%, i rapporti di lavoro a tempo
indeterminato continuano a diminuire e i contratti a termine aumentano.
A proposito di licenziamenti, solo in Lombardia sono stati oltre 167 mila dal 2008 ad oggi.
Dunque ci sono.
Anche in questo caso è bene lasciar parlare i numeri. Nel biennio 2009-2010 – l’ultimo per il quale
sono disponibili dati consolidati – oltre il 76% delle assunzioni è stata fatta a tempo determinato,
mentre i contratti di lavoro standard sono stati solo il 20,8% del totale. Su quattro lavoratori
neoassunti tre sono precari e ogni giorno s'ingrossa. La situazione colpisce soprattutto i giovani.
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Chi è disoccupato non trova lavoro. Chi lo trova, quasi sempre lo trova precario, senza
prospettive, con basso salario, pochi o zero diritti e incerto futuro e in questo quadro drammatico
le più colpite sono le donne.
Investire sui giovani, si diceva, significa investire sul futuro. Mentre viviamo in una società
precaria, come priorità questo governo al primo posto mette i licenziamenti facili, una prospettiva
drammatica, non solo per i diretti interessati, ma per l’intero Paese.
Nessuna politica per l’occupazione in 4 anni. Anzi, attraverso il “Collegato” ha provveduto a ridurre
i diritti e le tutele. Ed è intervenuto con drastici tagli nella scuola e nella pubblica amministrazione
penalizzando centinaia di migliaia di lavoratori precari, anche in questo caso in larga misura
giovani. Siamo di fronte a una ricerca drammatica di flessibilità – accompagnata da una volontà di
colpire, creando divisioni nel sindacato confederale – che non ha portato alcun beneficio né
all’occupazione né alla competitività, oggi, dopo il disastro, sentiamo dal presidente del Consiglio
la volontà di trattare con i Sindacati. Bene, speriamo trovi il tempo…ma credo che il tempo sia
scaduto visto il commissariamento dell’Europa.
I fatti. Nonostante la deregulation con i numeri sopra riportati, il tasso di occupazione, in Italia, è
al 56,7%, le donne solo al 46% uno dei più bassi d’Europa. I disoccupati sono 2,080 milioni, mentre
la disoccupazione giovanile è vicino al 30%. Un dato, quest’ultimo che ci deve fare riflettere,
ancora più grave e per certi versi paradossale, se pensiamo che i giovani nel nostro paese sono in
continua diminuzione – il Censis ci dice che negli ultimi dieci anni abbiamo perso due milioni di
cittadini tra i 15 e i 34 anni
Anche sul fronte della preparazione sono stati assunti provvedimenti raffazzonati e
controproducenti. Le scelte sulla formazione scolastica, la “riforma” dell’università, la
ristrutturazione dell’istruzione professionale ne sono la dimostrazione lampante. Il nostro resta
uno dei sistemi formativi peggiori d’Europa. E a pagare, anche in questo caso, sono le giovani
generazioni.
Allora è urgente e doveroso intervenire, sicuramente non attraverso maggiore precarietà e
insicurezza.
Il secondo Governo Prodi, pur nella sua breve e travagliata esistenza, ha lasciato in questo campo
un’eredità preziosa, che va ripresa e valorizzata a partire dal protocollo sul Welfare del luglio 2007
che puntava alla definizione di un sistema di interventi e di tutele finalizzato a una politica di
sviluppo in grado di offrire ai giovani una prospettiva di buona occupazione e, attraverso
l’adozione di misure solidaristiche a favore delle carriere discontinue, di garantire al termine della
vita lavorativa pensioni adeguate. Oggi, anche a causa delle scelte operate dalla destra, è più
attuale che mai. Per questo è utile riportare all’attenzione i principali provvedimenti allora
delineati e finanziati.
a. sostenere il reddito nei periodi trascorsi alla ricerca di un impiego tra un contratto e l’altro,
con uno stanziamento di 150 milioni per il triennio 2008-2010
b. fondi di microcredito erano stati istituiti per incentivare le attività innovative dei giovani e
delle donne e altri fondi erano stati previsti per favorire i finanziamenti finalizzati all’apertura
di attività autonome da parte di giovani lavoratori.
c. stabilizzazione dei rapporti di lavoro puntando a ridurre al massimo l’area della precarietà.
Con l’introduzione del credito d’imposta e la riduzione del cuneo fiscale il Governo Prodi ha anche
introdotto uno “sconto” sul costo del lavoro (3 punti percentuale, valore annuo di circa 5 miliardi
di euro), purché fosse lavoro a tempo indeterminato.
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Dalla primavera del 2008 a oggi invece il governo ha lavorato per smantellare pezzo dopo pezzo
quanto fatto dal centrosinistra a sostegno del lavoro. A cominciare da quello giovanile. Per questo
il P.D. ha presentato diverse proposte di legge con l’obiettivo di portarle a compimento ma dalla
maggioranza un muro, ora si scopre la proposta Ichino sul contratto unico, come se fosse l’unica
proposta in parlamento.
Una proposta che non condivido perché prevede per i neo assunti l’adozione di un contratto a
tempo indeterminato che contempla la licenziabilità in cambio di un risarcimento economico.
Sono invece, per la proposta votata dall’assemblea nazionale del PD sul lavoro, la quale prevede
che dopo un periodo di prova lungo (ad esempio 3 anni) vada assicurata la tutela dell’artic 18, in
caso contrario si riproporrebbe una forma di dualismo nel mercato del lavoro che spingerebbe le
imprese a liberarsi dei lavoratori più anziani per assumere i giovani senza tutela. Qualcuno mi
dovrebbe spiegare come si concilierebbe con l’innalzamento dell’età pensionabile. E poi chi li
riassumerebbe e con quale normativa?
Sul contratto unico ci sono più proposte di legge, esempio la N.2630 del 22 luglio 2009 a prima
firma MADIA, di cui sono firmataria, come quella di Damiano, ma tutte snobbate.
Come la madre di tutte le questioni, proposta di legge nostra, - il lavoratore assunto con contratti
di lavoro precari deve costare all’impresa più del lavoratore assunto con contratto a tempo
indeterminato come è previsto in Europa.
L’elaborazione nel Pd su questo tema è durata due anni e mi auguro che la regola democratica
sia ancora valida per il partito dei “Pionieri” teorizzato da Renzi e non solo.
Tanto ancora ci sarebbe da dire su questo tema, sui servizi, sulle pensioni su quale stato sociale,
ma voglio sottolineare con forza che le priorità oggi, non sono i licenziamenti facili o l’intervento
sull’articolo 18, ma bensì un intervento forte e condiviso attraverso regole e impegni precisi, non a
costo zero naturalmente, a sostegno del lavoro per giovani e donne, ripartire dal superamento
delle disuguaglianze e ricostruire una crescita sostenibile e solidale.
Per andare in questa direzione dunque più e non meno stato sociale, e per essere credibili e
coerenti, chi a parole parla dell’importanza di un welfare rinnovato dovrebbe anche sapere che a
regime la spesa sociale italiana dovrebbe aumentare e non diminuire, mentre da noi si è utilizzato
l’innalzamento delle pensioni delle donne e l’anno e mezzo in più sulle pensioni di anzianità per
fare cassa. 10 miliardi minimo.
Non un centesimo è andato per il lavoro dei giovani, non un centesimo per i servizi, per i nidi, per
la scuola a tempo pieno e per la non autosufficienza. Intanto l’evasione fiscale è al massimo
storico è non è nella lettera dell’Europa e nemmeno quella del Governo, come nemmeno la
patrimoniale.
4 novembre 2011
Lucia Codurelli
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