Le luci della centrale elettrica Umberto Palazzo N.73 Sufjan Stevens Weltraum, A Spirale, Zero Centigrade Napoli Caput Mundi digital magazine novembre 2010 Turn On p. 4 Small Black 5 Andreya Triana 6 Kelley Stoltz 8 Phantom Band Tune IN p. 10 Le Luci della Centrale Elettrica 14 Umberto Palazzo 18 Deerhunter Drop Out 22 Sufjan Stevens 32 Napoli Caput Mundi Recensioni 40 Blind Jesus, Antolini, Dark Star, Onorato, Traoré.... Rearview Mirror 92 The Manhattan Transfer Rubriche 84 Gimme Some Inches 86 Re-boot 88 China Underground 98 Giant Steps 99 Classic Album SentireAscoltare online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Direttore responsabile: Antonello Comunale Provider NGI S.p.A. Copyright © 2009 Edoardo Bridda. 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Della partita (hypnagogica) erano anche gli Small Black, lasciati in panchina in attesa dei primi risultati. Di lì a poco quartetto di Brooklyn avrebbe rilasciato un 7 pollici split con il sodale Washed Out - in cui ciascun act remixava un brano dell’altro – e un singolo di debutto raramente così azzeccato. Nei brevi solchi di Despicable Dogs (trecento copie per l’inglese Trasparent) due inni glo-pop che, per chi ebbe la fortuna di far propri, non si toglievano più dalla testa. Inutile dire che la tiratura andò bruciata in pochi mesi, portando i nostri a includere i brani del 7 pollici anche sull’EP omonimo 4 che a breve avrebbe visto la luce su Cass Club prima (e Jagjaguwar subito dopo). Peccato che i pezzi del nuovo vinile non vantassero il piglio irresistibile del primo singolo, lasciando i fan in attesa di un’uscita che gli restituisse le melodie da poco assaporate e già irrinunciabili. Per questo si è dovuto aspettare New Chain, album con cui i newyorkesi tornano a sfornare le piccole hit di pop fuori fuoco che gli sono proprie. Camouflage, Photojurnalist e la title-track dicono di come il sound femmineo ed etereo, spostato sull’asse più smaccatamente indie-rock da Wild Nothing e Beach Fossils, possa essere ancora appannaggio di gente che alle chitarre preferisce i synth e i campionamenti. Anche se di tempo ne è passato da Causers Of This e Psychic Chasms e, si sa, le mode musicali fanno presto ad accusare i segni dell’invecchiamento. Andrea Napoli e nuove reginette del blues inglese si fanno introdurre nel gotha da nomi alternativi, che producono con il cuore sapiente dei bluesman più scafati. Cresciuta nell'ambiente artistico di Leeds con la band funk Bootis, Andreya Triana si fa notare da Flying Lotus alla Red Bull Music Academy australiana del 2006: da lì nascerà un featuring (Tea Leaf Dancers) pubblicato nell'EP Reset dello stesso FlyLo. Oggi esce su Ninja Tune con Lost Where I Belong, album prodotto dall'amico Bonobo, con cui aveva già collaborato nelle parti vocali di Black Sands. L'incontro “è avvenuto in maniera naturale”, ci dice la giovane e bella cantante di South London “ci siamo conosciuti nel 2006. Lui stava cercando una cantante. Mi piaceva molto la sua musica e sapevo che avrebbe voluto collaborare con una persona sola nell'album, non con troppi produttori. Così gli ho chiesto se c'era spazio per me e lui ha detto di sì. Il resto è venuto da sè”. Un appoggio totale anche da parte della grande famiglia Ninja, che quest'anno compie vent'anni, ma che già nella supercompila riassuntiva dell'anniversario considera Andreya come un piccolo classico: “penso che lavorare con una label indipendente sia eccitante, dato che loro vogliono poprio far emergere il meglio di me. Mi sento libera a lavorare con loro”. L'etichetta inglese è la patria delle contaminazioni hop: il mesh non può che essere anche per Andreya un passaggio obbligato: è stata infatti recentemente remixata dalla next big thing del dubstep Mount Kimbie, anche se non prevede collaborazioni ulteriori su questo versante. Fra le sue coordinate cita ovviamente la soul music, ma ci dice di essere attratta dalla musica che “non definisce bene i confini. Tipo Jamie Lidell, che è soul, ma sperimentale ed elettronico. E anche Björk, che mi ha influenzato molto. Questi artisti non si incasellano in una scatola. Creano, tentano di esprimersi e basta. Dovrebbe essere così”. E' bello poi vedere che la ragazza non ha un'educazione formale: “non ho avuto un training musicale e mi considero un po' dislessica per quanto riguarda la teoria musicale. Sono sempre stata un po' maniaca della musica, ho passato giorni e giorni a sezionare voci, melodie, armonie e a sviluppare il mio stile personale”. Una tipa tosta, che ha già in mente numerosi progetti per il futuro: “Uno è The Dreamscape Soul Session, una collaborazione live con la mia amica illustratrice Sri McKinnon. Riprenderò le mie sperimentazioni con la voce e Sri disegnerà sul palco dei grandi dipinti quando canto. L'altro progetto è una band di rock psichedelico che si chiamerà Annie & the Duke. Il nostro EP dovrebbe uscire fra qualche mese”. Buon lavoro Andreya! Marco Braggion 5 Turn On Kelley Stoltz —L'arte del sogno— Brian Wilson fai-da-te o bricolage retrofurista? Andata e ritorno nello scombintato mondo dell’ultimo folletto pop "made in USA". C i sono artisti che piombano sulla scena musicale come fulmini a ciel sereno e la rivoluzionano da capo a fondo, forti di un'ineguagliabile carica innovativa. Ecco, Kelley Stoltz non è uno di questi. Il trentanovenne del Michigan, trapiantato a New York, è uno di quei songwriters innamorati della bella calligrafia applicata alla pop song, obbiettivo che negli anni ha perseguito con dovizia certosina, in barba alla povertà dei mezzi a disposizione. Kelley, che abbiamo contattato in occasione dell’uscita del suo ultimo lavoro To Dreamers, è il classico genietto che adora trastullarsi con giocattoli lo-fi e chincaglieria vintage, cosa che gli ha fatto perfezionare uno stile immediatamente riconoscibile ed estremente personale, dal mood intimamente psichedelico, fatto di suggestioni 60s e rumori della modernità. "Effettivamente penso che nei miei brani ci sia una particolare sensibilità costruita su riverberi, twang chitarristici, beat pesanti, suoni di synth… mi piace creare un collage sonoro integrato con il pop dei 60s. Passo molto tempo a lavorare sul feeling di ciascun brano, molto più che sulle liriche delle canzoni. Generalmente la melodia è la prima cosa 6 che prende forma e quando questa è pronta ci do dentro a manipolare i suoni di ogni strumento". Stoltz, è uno dei segreti meglio custoditi del panorama indipendente americano: appartiene al roster della Sub Pop già da qualche anno, anche se pochi fino ad ora se ne sono accorti. To Dreamers potrebbe essere il "turning point" di una carriera poliedrica, iniziata come curatore della “fan mail” di Jeff Buckley e proseguita con la realizzazione di ben otto album, per lo più suonati, registrati e prodotti in maniera autonoma, e fra i quali spicca una rivisitazione integrale di Crocodiles degli Echo & The Bunnymen. "E’ vero. Gli Echo & The Bunnymen sono sempre stata la mia band preferita, sin da quand’ero appena un ragazzino, ancora prima che iniziassi ad ascoltare David Bowie e Leonard Cohen e che decidessi di mettere in piedi la mia band. Sono i miei eroi, ho registrato tre dei loro primi quattro album. Spesso cerco di cantare come Ian McCulloch o di copiare le linee di chitarra di Will Sergeant, ma ogni volta mi accorgo che il risultato suona differente da come vorrei. A volte, musicalmente, credo di esser loro debitore, salvo poi accorgermi che sono altri interessi che indirizzano il mio stile". Nella sua bizzarra storia, tuttavia, ci sono elementi che ne fanno qualcosa di diverso del loser romantico e spiantato. Questo grazie ad alcuni brani utilizzati per spot televisivi e come colonne sonore di serie televisive. A tal proposito Kelley chiosa ironico: "Non ho nessun problema a tal proposito, anzi penso che sia una grande cosa! Mia madre poi si emoziona quando sente le mie canzoni in TV. A parte gli scherzi, questa cosa mi ha permesso di guadagnare abbastanza denaro per dedicarmi a tempo pieno alle mie canzoni. Ora lavoro per un paio di giorni alla settimana in un negozio di dischi, per il resto posso permettermi di mangiare e dormire grazie ai soldi di quelle pubblicità. Il bello è che negli spot le mie canzoni si riescono appena a sentire. Trovo incredibile che paghino così tanto per qualcosa che rimane così nascosto in sottofondo. Sub Pop, oggi nuova Mecca per ferventi spiriti DIY, sembra aver riposto in lui illimitata fiducia, dotandolo dei mezzi necessari per esprimere al meglio quell’aspirazione ad una grandiosità compositiva dal tiro wilsoniano, che si nutre di vecchi espedienti e di nuove tecnologie. Il risultato è che To Dreamers suona assai denso e stratificato, a dispetto della leggerezza delle melodie e dell'emotività frizzante che lo pervade. "Ci è voluto circa un anno e mezzo dal suo concepimento al risultato finale. Io per lo più registro a casa mia e suono personalmente tutti gli strumenti, per cui è naturale che a terminarlo ci abbia impiegato un pò di tempo. In questo senso non è cambiato molto rispetto alle mie prime produzioni, a parte il fatto che ora ho a disposizione microfoni migliori e, in generale, penso che tutto suoni meglio che in passato. In occasione del nuovo disco ho anche comprato un Mellotron". Il vizio del DIY dunque è duro a morire: "Sul disco la mia band suona solo in due occasioni - "Baby I got news for you" e "I Like, i like" - le abbiamo suonate dal vivo per un pò di mesi e ho pensato di far partecipare anche gli altri alle registrazioni. Mi sembra giusto che anche loro sentano di avere avuto un ruolo sull’album, in modo che possano andare in tour e suonare quei brani col cuore, come se fossero un pò anche loro". Tuttavia è inevitabile che la resa live dei brani dell’album sia differente rispetto alla loro genesi in studio: "Certo, è difficile replicare tutti i più piccoli rumori e gli effetti che si sentono sul disco, mi occorrerebbe un gruppo di 7 o 8 elementi per riprodurre tutte le percussioni e le armonie vocali. In effetti per me è fonte di frustrazione, ma non posso certo permettermi di portare tutte quelle persone con me, così lascio che le canzoni dal vivo prendano la loro strada. Mi sembra che generalmente i brani suonino più rock e meno sinfonici. Più Highway 61 Revisited che Pet Sounds". Recentemente Stoltz e la sua band sono stati visti di supporto ai Raconteurs, cosa che gli ha permesso di esibirsi di fronte a grandi platee e maturare quel genere di ambizione che porta songwriter come lui a confrontarsi con i più grandi. "È divertente suonare per un gran numero di persone. Cosa ho imparato andando in tour con i Raconteurs? Credo che mi abbia fatto venir voglia di scrivere canzoni più ambiziose che possano arrivare a più persone. Penso che il nuovo album risponda a questa esigenza. Inoltre i miei set precedenti avevano un po’ troppi mid tempo, ora ci sono rock song dal ritmo decisamente più sostenuto". Intanto il tour promozionale è già partito e il calendario dei concerti promette di portarlo in giro per il mondo. "Sarò in tour in Europa a novembre. Mi piacerebbe molto venire a suonare anche in Italia. In passato ci sono stato con i Dirtbombs, nel 2008, con cui abbiamo realizzato alcuni ottimi show. Ho suonato anche con i Father Murphy da qualche parte nelle vicinanze di Venezia. E’ lì che ho conosciuto Marco dei Jennifer Gentle, ottimo ingegnere del suono e incredibile songwriter. Spero proprio di tornare ad esibirmi nel vostro Paese". Un auspicio, questo, di cui ci facciamo convinti portavoce. Diego Ballani 7 Turn On The Phantom Band —Sono pazzi questi scozzesi!— Da quanto aspettavamo un gruppo che osasse sbatacchiare il passato dentro a un frullatore di memoria pop e cavandone qualcosa di fresco e spontaneo? The Phantom Band, da Glasgow, per servirvi. "L ’amicizia in questo gruppo risale all’epoca della scuola. Siamo grandi fan di musica e, in quanto tali, non avevamo interesse alcuno a pubblicare un disco che non ci trovasse soddisfatti.." Così affermava con unanime e benvenuta modestia la Phantom Band un annetto fa, allorché l’esordio Checkmate Savage vedeva la luce per Chemikal Underground. Era stata nondimeno lunga per quest’era distratta e frettolosa la loro gavetta, intrapresa grossomodo un lustro prima in quel di Glasgow da Duncan Marquiss e Greg Sinclair (chitarra), la sezione ritmica di Gerry Hart (basso) più Damien Tonner (batteria), il tastierista Andy Wake (tastiere, ultimo ad aggregarsi in ordine di tempo) e il cantante Rick Anthony. Ognuno “trenta-e-qualcosa” con lavori cui badare alla faccia degli sbarbatelli da cameretta con velleità arty, forti del disincanto cinico ma umoristico che si ha a quell’età. Quando puoi ancora giocarti delle carte ma un po’ di vita e di musica le hai masticate; quando ragioni prima di aprire bocca e, nello specifico, di scrivere canzoni. Si potrebbe partire anche da qui per provare a spiegare i motivi che stanno alla base di The Wants, replica datata 2010 che ci ha stregato; da come un disco buttato lì dentro una copertina banalmente low-fi (l’unico suo difetto…) ci abbia scombussolato nei primi ascolti e sia cresciuto man mano alla 8 luce dei suoi pregi. Che sono un raro senso sincretico, una tela sonora dettagliata, il mostrare i propri modelli smontati e ricomposti in qualcosa d’altro. Sarebbero però i diretti interessati per primi a buttarla non troppo sul serio, seppur astenendosi dalla caciara e prendendo seriamente quel che merita. Un atteggiamento evidente sin dai primi anni di esistenza spesi a cambiare nome senza sosta (NRA, Les Crazy Boyz, Tower Of Girls, Wooden Trees, Robert Redford, Robert Louis Stevenson: “Se non riuscivamo a tirare fuori un nome decente, dicevamo a quelli del locale di scrivere quel che gli pareva sul cartellone”.) e lasciarsi dietro un CD-R andato a ruba e una Crocodile ripescata nel debutto. Nel frattempo ecco la scelta di affidarsi all’attuale ragione sociale, a sottolineare l’assenza di protagonismo in un Regno Unito costantemente pronto a inventarsi sensazioni presto dimenticate e prono sotto vacuità sensazionaliste. Piace pensare che chiamarsi “il gruppo fantasma” indichi un volersi liberare del contorno per focalizzare l’attenzione sulla musica. E, magari, sul gusto per il tagliente nonsense dadaista comune nella cultura d’oltremanica (Monty Phython e Bonzo Dog Band, Television Personalities e gli stessi Beatles), che emerge da concerti in maschera (assecondando l’atavico senso di ritualità pagana che in Albione è retaggi e che ripropongono nell’approccio percussivo al ritmo) o dove si issa sul paco un’attrezzatura da body building invitando il pubblico a usarla. Colore e basta, se non vi fosse una sostanza sgusciante e spremuta da tanti differenti frutti: “Esiste un terreno comune composto da Led Zeppelin, Stooges, Bo Diddley, Capitan Beefheart, Beta Band e una bella dose di soul e blues, tuttavia i nostri gusti personali sono più influenti di quanto ci unisce, così tanti nomi che la lista diventerebbe una faccenda noiosa. Siamo testardi e questo si riflette nel modo in cui scriviamo e suoniamo assieme. Inoltre siamo appassionati di cinema, così che il tentativo di creare un’atmosfera caratterizza da sempre quel che facciamo. Abbiamo anche interessi più ampi nel campo dell’arte, dei videogiochi, della letteratura e della pornografia. Le solite cose, insomma. E a tutti piace il caffé." La quotidianità e lo sforzo di riderci sopra, di trascenderla inventandosi un linguaggio che esca dalle pastoie di una Scozia - ma vale per qualsiasi altra nazione - adagiata su fotocopie trash-pop e post-punk (“Prima tutti andavano in giro conciati come gli Strokes e poi come i Franz Ferdinand. Questa città ha un ‘giro’ chiuso e non piacevamo a nessuno, così ci siamo ritrovati assieme. Essendo soprattutto amici, la faccenda s’è evoluta organicamente e alcolicamente. Tutti i venerdì sera lasciavamo gli amici al pub e suonavamo fino a tarda ora: dalla jam settimanale siamo giunti a un singolo e agli album.” A un certo punto toccava decidersi per un nome: da lì, nel 2007 si stampa il 7" Throwing Bones per la londinese Trial & Error che attrae l’attenzione della concittadina Chemikal Underground. Ne risultava un primo lp acerbo, dove l’ex Delgados Paul Savage cercava di ordinare produttivamente l’eccesso di carne sulla brace. Non sfuggiva però il talento dei ragazzi ad allestire una fitta rete di rimandi che prometteva bene; i più attenti, anche alla luce della presenza dei Fantasmi ad alcuni prestigiosi festival, un asso se lo sarebbero attesi. Non della portata di The Wants, però, dove la scrittura gode di una naturalezza di sviluppo evidente solo dopo ripetuti ascolti, quando cioè si varca una complessità che attrae e anzi avvince in luogo di respingere. Danno dipendenza, queste canzoni che respirano: è folk che cavalca krauto (The None Of One) o sorge da un alveo limpido (Come Away In The Dark); è new wave che si rivolta in varchi spazio-temporali (Into The Corn, Everybody Knows It’s True); sono pugnalate all’ultimo grido da New York e da Londra (Mr. Natural, Walls). Il resto ce lo mettono una voce che, indecisa tra David Sylvian e Ian McCulloch, tra Ian Curtis e Bill Callahan, li lascia confluire nel fiume in piena di arrangiamenti calorosi e policromi. Si osa con trasporto emotivo, ripudiando la frigidità sin troppo smaliziata oggi di moda. Sperimentazione pop col sorriso e lo scudiscio: da quanto ne attendevamo la ricomparsa? “Siamo pieni di passione: il gruppo è una famiglia disfunzionale in cui discutiamo molto ma che tende a lavorare in maniera fluida. Le canzoni sono tirate in direzioni diverse finché non si tramutano in qualcosa che possiamo utilizzare, l’ispirazione arriva dagli ascolti passati e dalla voglia di migliorarsi. Cambiare nome ci permetteva di metterci ed era divertente. A lungo andare, però, ci siamo resi conto di come fosse un po’ perfido e potesse infastidire la gente, così ci siamo fermati a ‘The Phantom Band’. Avendo raggiunto un qualche obiettivo artistico, era tempo che ci legassimo a qualcosa. Per ora non abbiamo in mente di cambiare di nuovo nome: nel caso, ve lo faremo sapere.“ Quel che conta è che costoro rimangano tra chi conta, ora che un nuovo decennio è alle porte e qualche certezza servirà. Tra genio e sregolatezza, sanno cosa scegliere. Giancarlo Turra 9 Tune-In Le luci della centrale elettrica —Gli anni zero sono finiti?— Testo: Marco Boscolo Foto: Ilaria Magliocchetti Lombi Due anni che lo hanno trasformato in un'icona generazionale, ma a Ferrara "non mi caga nessuno" I l successo trasversale di Canzoni da spiaggia deturpata ha spinto Vasco Brondi nella casella delle icone, almeno sociologicamente parlando. Nell'era della comunicazione per memi sempre più brevi e di stampo sloganistico, i flussi di coscienza infarciti di immagini da sinistra storica che si reincarnano nella “gigantesca scritta COOP” hanno una forza tale da diventare punti di riferimento per una generazione indie cresciuta a Facebook. Una generazione che per certa parte ha visto in lui il menestrello di "questi cazzo di anni zero". Del fenomeno si è accorto il mainstream, che ha voluto il libro di Brondi, che lo ha fatto entrare nel mondo paludato del Premio Tenco, che in qualche modo si è interessato ai potenziali aspetti di marketing che ne scaturivano. Si potrebbe addirittura vedere in Brondi lo spettro di un altro Vasco, quello da Zocca che cantava la vita spericolata. O una vicinanza all'esaltazione di certa provincia che ha aperto le porte degli stadi a Ligabue. Come se i ventenni di oggi avessero trovato il proprio faro, come ai loro coetanei di trenta, venti o dieci anni fa era successo con Vasco Rossi e Luciano Ligabue Il secondo disco, Per ora noi la chiameremo felicità, non sposta la barra del timone e ripropone lo stesso immaginario raccontato “viscere sul tavolo” fornendo nuova linfa al fenomeno. Dietro all'icona, però, c'è un ragazzo schietto che questi ragionamenti sul marketing, sulla sociologia e sulla fenomenologia – forse – non li ha fatti mai. Dalle sue stesse parole, la sua sembra più una navigazione a vista, in un perfetto stile punk, in cui il dire e il fare coincidono. Se al momento il fenomeno susciterà ancora innamoramento e identificazione in una fetta importante del pubblico, e non mancherà di far uscire gli inevitabili “te l'avevo detto”, dove stia andando il progetto Luci della centrale elettrica lo può sapere solo Vasco Brondi. E per cercare di capirlo, non vi è altra via che leggere le sue stesse parole Com'è stato fare questo secondo disco dopo un esordio così visibile e accolto così positivamente da pubblico e critica? 10 In realtà ho cominciato a farlo mentre stavo ancora finendo di mixare il disco precedente. Le canzoni sono venute fuori in giro per i concerti in questi due anni. In generale quando è stato il momento mi sono rimesso nella situazione di non avere niente da perdere perché effettivamente è così. Fortunatamente ho anche altre cose e altre pensieri, dovere portare avanti una carriera è una cosa che non mi pongo e che mi ripugna anche un po'. In cabina di regia non c'è più Giorgio Canali. Chi ha prodotto il disco? Come sono nate queste scelte? Il disco se parliamo di produzione artistica direi che ho fatto molta roba io da solo. Con Giorgio c'è un rapporto di confronto continuo, ha sentito tra i primi i provini delle canzoni chitarra e voce, mi ha dato una mano a registrare le voci qui a casa e molti consigli. Le Luci della centrale elettrica è una sorta di collettivo e cambia sempre, cambia con me. È venuto da solo fare cose diverse. In generale cambio tutto quello che posso: ho traslocato quattro volte in un anno. Mi sentivo anche tranquillo da solo, ho ricostruito il momento di solitudine che ho quando faccio le canzoni, ma in studio, ho fatto io i premix che sono stati sostanzialmente un momento di arrangiamento. Poi Paolo Mauri, sempre a casa, ha mixato il disco dando un grande apporto. Le scelte di produzione sono state le uniche possibili, le più immediate e le più sincere. Non mi sono voluto inventare un suono in una settimana di studio, le canzoni anche questa volta nascevano chitarra e voce e ci sono rimaste. Le abbiamo suonate tutte in un giorno in presa diretta e quello che doveva essere un provino è diventata la base del disco perché andava bene così. I testi nuovi arrivano sull'onda del successo del primo disco e della pubblicazione del libro: questi fattori hanno cambiato il tuo processo creativo? Non credo. Quando scrivo, scrivo. E si crea una dimensione diversa. Poi devo dire che tutto questo supposto successo è per gran parte autosuggestione degli addetti ai lavori del micromondo indipendente musicale. 11 Mi sono ritrasferito a Ferrara e posso assicurarvi che nella realtà non mi caga nessuno. Dopo essere riuscito a costruire un immaginario coerente e riconoscibile, avevi paura di cadere nella tentazione di rifare lo stesso disco? Hai preso delle precauzioni in questo senso? Non mi sono posto il problema. Non avevo nessuna tentazione di rifare lo stesso disco, anzi, allo stesso tempo non avevo nessuna intenzione neanche di fare una cosa completamente diversa da quello che sono adesso solo per stupire o per sorprendere qualcuno. Non ho preso precauzioni di nessun tipo, se non di rispondere all'unica regola che vale in queste cose: viscere sul tavolo. Come diceva Pazienza. Nei testi nuovi ci sono molte citazioni più o meno esplicite. Ma quali sono le tue fonti di ispirazione? Sono maggiormente cantautori o scrittori? Sono sempre in difficoltà davanti a questa domanda rituale. Non è che mi ispiro a uno o ad un altro, non capisco neanche come si possa fare. Sicuramente ci sono cose fatte da altri che mi colpiscono a morte ma che magari non entrano in nessun modo in quello che faccio. Forse mi viene da mischiare tutto, i palazzi che ho di fronte ad una canzone di Fausto Rossi, una frase di Gianni Celati e la faccia di una passante, allo schermo del computer, una conversazione con mia madre e un film di Wim Venders. Tutte queste cose probabilmente. Non ti viene mai voglia di lasciare da parte la musica e dedicarti completamente alla scrittura? A volte penso che sarebbe più comodo che sarei più tranquillo. La parte pubblica della questione devo dire che un po' di rotture di cazzo me le ha procurate e per quasi un anno non ho fatto concerti perché non ne avevo più voglia. Però credo che non riuscirei, che mi mancherebbe la parte della condivisione, dell'immediatezza delle canzoni. Scrivo molto ma forse è solo un laboratorio per le canzoni, anche per questi testi a volte partivo da storie di quaranta pagine che diventavano una canzone, come per Una guerra fredda. Anche Cosa racconteremo di questi cazzo di anni zero è stato in questo senso un laboratorio, l'ultima parte di quel libro l'ho scritta mentre venivano fuori anche le canzoni di questo disco e si sono parlati a vicenda. Che effetto ti fa essere considerato il cantore di una certa fetta del mondo indie, non dico generaziona12 le, ma che effetto ti fa sentire la gente che canta a squarciagola le tue canzoni? La frase dei C.S.I. "trasformami in un megafono e mi incepperò" mi sembra perfetta. Facendo questa cosa a volte sono finito in questa dimensione dell'irrealtà dove ogni cosa diventa possibile e da questa dimensione dell'irrealtà però non è che provi grandi soddisfazioni: è come se non succedesse a te, banalmente. Gli unici momenti di gioia sconfinata è quando ti accorgi che dopo un bel po' di settimane che stai sopra una canzone, all'improvviso capisci che è finita. Come pensi che verranno accolte le nuove composizioni, o come vorresti che venissero accolte? Vorrei che fossero ascoltate, è un disco fuori tempo e fuori moda perché credo che per entrarci devi ascoltarlo un po' di volte. Sono tranquillo perché è proprio come lo volevo e può andare in qualsiasi modo: non ci sono recriminazioni. Credo che molti non le ascolteranno neanche e diranno la solita cosa che si dicono per i secondi dischi di chiunque o per i dischi di chiunque prima non aveva seguito e adesso ne ha un minimo. Dai CCCP ai Marlene Kuntz, agli Afterhours, ai Baustelle adesso. Il solito gioco di ruolo. Credo che ci siano anche tante persone con cui mi capisco e che capiranno le canzoni e che ci troveremo ai concerti e dopo i concerti e che ci accompagneremo a vicenda ancora per un po'. Com'è cambiata la tua vita privata? Com'è andare al bar a Ferrara oggi? Come ti dicevo, a Ferrara non mi caga nessuno, solo ogni tanto se viene qualcuno da fuori c'è questo cortocircuito che qualcuno mi ferma per strada e addirittura si stupisce che cammino così tranquillamente per la città, e poi mi chiede di fare una foto assieme e io mi vergogno gli dico di no per favore, che se vuole parliamo finché vuole ci abbracciamo o quello che vuole ma la foto mi vergogno, ci ho provato ma mi vergogno e allora questa persona se ne va presa male e probabilmente va poi su Facebook a scrivere che me la tiro. In generale la mia vita privata non è cambiata, ho gli stessi quattro amici di prima, gli unici che sono rimasti a Ferrara, frequento strettamente le stesse persone e gli stessi posti, solo che ogni tanto parto e vado a fare dei concerti e alcuni giornali e siti mettono delle mie foto brutte con la bocca aperta mentre urlo e alcuni che non conosco parlano di me quando non hanno di meglio da fare. Come hai vissuto il Premio Tenco? Questa è un'altra domanda ricorrente che mi mette in difficoltà. Il Premio Tenco sono stati due giorni in cui io, Giorgio, Enrico Molteni e Daniela che suonava il violoncello siamo andati a Sanremo a suonare e a bere la sera e ha sempre piovuto, ma ci siamo divertiti molto. Eravamo così disorganizzati e fuori dal mondo che nessuno di noi sapeva neanche che il disco era in finale al premio Tenco. Così una mattina che de Angelis mi ha chiamato per dirmi che Canzoni da spiaggia deturpata aveva vinto io stavo dormendo e quando mi ha richiamato che ero sveglio sono caduto dalle nuvole e lui c'è rimasto un po' male. È stata poi una cosa importante, un mondo diverso che si accorge di una cosa che viene da un'altra parte, una produzione da zero euro che vince davanti a produzioni da centomila. re, dopo tutto questo tempo in casa e in studio, di fare uscire le canzoni e incrociare gli occhi di un po' di persone mentre suoniamo e pensare cosa faranno delle loro serate e delle loro vite. Appena finito di registrare il disco ho ricominciato a scrivere e suonare in modo compulsivo direi, non so cosa succederà. Credo che andrò in qualche altra direzione e con qualcun altro. Poi ci sono alcune canzoni di altri che mi stanno accompagnando da tantissimo e mi piacerebbe registrarle ma forse le faremo solo dal vivo. Poi ho preso una batteria elettronica che fa un po' cagare, ma che passata negli effetti della chitarra e poi dentro l'ampli diventa una figata! Programmi per il futuro? Stiamo preparando i concerti e non vedo l'ora di inizia13 Tune-In Umberto Palazzo —Ciò che è più vicino— Passato e presente, psichedelia e sesso, globale e locale, social network e testate surriscaldate. Lo stato delle cose rock di Umberto Palazzo. Testo: Stefano Solventi U mberto Palazzo si aggira dove in Italia c'è rock da un bel pezzo. Narra la cronaca, almeno dagli anni ottanta, quando circa ventenne suonò garage negli Ugly Things, prima di condividere un pezzo di strada assieme ad Amerigo Verardi nei molto psichedelici Allison Run. Il colpo grosso lo stava per fare coi Massimo Volume, però li mollò un attimo prima che esordissero. A quel punto erano già gli anni novanta, e Umberto Palazzo aveva maturato un'idea rock precisa, piuttosto sintonizzata sulle frequenze di Seattle. Raccolse all'uopo una band attorno a sé, la chiamò Il Santo Niente ed esordì - 1995 - con La vita è facile per il Consorzio Suonatori Indipendenti. Una formula adulta come nel nostro paese non capita spesso di udire guadagnò al gruppo gli apprezzamenti del caso. Il re14 sto è storia: un altro album per il CSI, la soundtrack di Jack Frusciante è uscito dal gruppo, la crisi psicofisica del leader che preferisce investire energie nell'attività di DJ, quindi il ritorno - a dieci anni dal debutto - con lo stupendo Il fiore dell'agave su etichetta Black Candy. Il Santo Niente è cambiato nei suoi membri e nell'anima, ma continua a far perno sull'abruzzese - di Pescara - Palazzo, dalla calligrafia sempre più densa e incendiaria. E' passato un lustro da allora, e il destino non ha smesso un istante di scozzare le carte. Umberto è, tra le altre cose, uno dei rocker-dj più attivi sul grande social network blu, nel quale sembra trovarsi straordinariamente a proprio agio. Ma non ha smesso il vizio del fare musica. Ho avuto il piacere – stavo per scrivere il privilegio – di ascoltare una pre-release del debutto solista di Palazzo, Canzoni della controra. Un disco molto bello, nato quasi per caso durante la lavorazione di un altro album, Tuco (vedi in spazio recensioni), anch’esso un debutto per El Santo Nada, sorta di incarnazione texmex del Santo Niente. Canzoni della controra avrebbe dovuto uscire questo settembre, ma c’è stato un contrattempo piuttosto… prosaico. Canzoni della notte e della controra uscirà tra qualche mese, uno slittamento dovuto a strategie commerciali/promozionali o che altro? Lo slittamento è dovuto principalmente al diodo che comandava la ventola del radiatore della mia vecchia macchina e che la faceva entrare in funzione quando il motore raggiungeva una certa temperatura. Si è rotto, la ventola non è più partita e così la testata si è surriscaldata e deformata. Ho dovuto farla rettificare e nel frattempo ho anche comprato una Toyota Corolla un po' più giovane, ma di poco e il budget promozionale che avevo accantonato andrà via in gomme, cinghie, olio, filtri e passaggio di proprietà. Quindi per coprire il buco che si è creato devo vendere le edizioni, cosa che non volevo fare e che richiede una trattativa paziente. Nel frattempo abbiamo finito Tuco, il disco del Santo Nada e la band, che è in forma smagliante, scalpita per suonare. E allora avanti con El Santo Nada, roba da mariachi muti, da cugini malinconici dei Calexico. Ma anche qualcosa di più, un quid periferico irriducibile che torna ad ammiccare dalle parti dei balcani... Per la gente dell'adriatico le frontiere sono due: il sud e l'est. Il messico fantastico del Santo Nada è un allegoria del nostro sud. L'est è solo un altro tipo di sud ed El Santo Nada è gente di frontiera che non appartiene né a un mondo, né all'altro. San Severo, patria di Andrea Pazienza, è la nostra Ciudad Juarez. Da lì in poi inizia una terra incognita senza regole o con regole dif- ficilmente comprensibili ai non indigeni o iniziati. Un universo magico e selvaggio, ma soprattutto una terra di feroce sfruttamento e prepotenza. Tuco è un'allegoria dei problematici rapporti tra i nord e i sud del mondo sempre a vantaggio ovviamente dei più ricchi. Tuco non è solo l'erede bastardo del personaggio reso immortale da Eli Wallach e Sergio Leone. Tuco è qualsiasi persona che cerchi di sottrarsi ad una situazione svantaggiata tramite la forza di volontà. Tuco è un messicano che guada il Rio Bravo. E' un africano che attraversa il Ténéré su camion stracarico. E' un meridionale che si sottrae alla mafia. Tuco è un viaggio di emancipazione ed un romanzo di formazione. Quando e in quanti avete suonato su Tuco? Siamo partiti col progetto a maggio del 2007. All'inizio era semplice musica di circostanza per essere ugualmente presenti in una situazione in cui non ci saremmo potuti esibire come Santo Niente. Buona parte del repertorio, non tutto presente sul disco, è stato scritto nel primo mese di attività. La cosa ha preso a vivere di vita propria e ci ha fatto completamente trascurare il Santo Niente. Ci ha entusiasmato da subito. Poi abbiamo fatto due distinte sedute di registrazione, a distanza di un anno ed una terza sessione per il missaggio. Siamo stati rallentati dai molti impegni dei componenti la band che alla fine si è scissa in due e a quel punto la situazione si è sbloccata. La sezione ritmica ha fondato una nuova band che si chiama Caja Sonora ed è più operativa in Spagna che in Italia. Io, Alessio D'Onofrio e Christian Carano abbiamo continuato a suonare sia nel Santo Niente che nel Santo Nada, ma ora ci sono due sezioni ritmiche diverse. Nel Santo Nada ci sono Fabrizio Crecchio e Alberto La Torre, musicisti completi e veramente ottimi. Nel Santo Niente ci sono i giovani e agguerritissimi Tonino Bosco e Federico Sergente, che suonano anche negli Zippo e nei Death Mantra For Lazarus, due grandissime band. Sono perfetti per il Santo Niente e gli hanno restituito una grinta che solo dei ventenni possono avere. Con quali modalità uscirà Tuco? Ci sono state difficoltà per la distribuzione? Per Tuco sogno la pubblicazione all'estero. Dopotutto è la sua natura di emigrante che lo esige. E se non si dovesse trovare una distribuzione lo venderemo ai concerti e on line. Tornando a Canzoni della controra, hai definito una specie di "popolare profondo", un narrare ad altezza d'uomo, simbolico e carnale, che svela le ombre, le magie, i mostri del quotidiano. E' un modo - il tuo modo - di fare musica "impegnata"? Sì, il mio impegno è sempre stato quello di guarda15 re ciò che più mi è vicino. Da molti anni ho adottato il motto The reality of my surroundings, dal titolo di un album dei Fishbone. Penso che il modo migliore di parlare delle questioni generali, che sono sempre enormi e lontanissime, sia descrivere fatti minuscoli e vicinissimi. In questo particolare album si parla di sesso e quindi può sembrare che ci sia meno impegno, ma la politica dei sessi è importante. Fondamentale. Come è nata l'idea, come si è realizzata? Essendo Tuco un disco strumentale ed un lavoro collettivo, mi sono trovato con meno impegni a livello compositivo e soprattutto con il mio studio casalingo finalmente pronto. Quindi mentre lavoravamo a Tuco, io scrivevo e registravo altri pezzi. Nel frattempo insegnavo anche Storia della Popular Music al conservatorio e avevo voglia di mescolare linguaggi musicali antichi ed esotici che non avevo mai usato, ma di cui ho una conoscenza profonda, a quelli che uso da sempre. Suonare tutto da solo mi ha facilitato il lavoro perché in questo caso avevo bisogno di avere il controllo totale dell'arrangiamento e della produzione perché era tutta una questione di giustezza della miscela. E poi non sapevo dove stavo andando e lo scoprivo minuto per minuto. E' stata una bellissima avventura intellettuale. Mi hanno dato una mano Sandra Ippoliti che canta in tre pezzi, Tying Tiffany che canta in uno, Luca D'Alberto che suona la violectra in un pezzo e poi ho sfruttato un'antica drum track di Gianluca Schiavon, che non sa ancora di aver suonato in questo disco. Contiene nove pezzi per trentotto minuti di durata. Ne sono molto, ma molto fiero. E' un gran disco d'esordio secondo me. Se potessi scrivere degli emoticon qui andrebbe la faccina sorridente. Il rebetico come una bussola formale ed emotiva. Musica per anime in conflitto, voce di outsider senza possibilità di remissione. In effetti il rebetico potrebbe essere per l'Europa quello che il blues è (stato) per gli USA... No? Per la Grecia lo è certamente. Il rebetico nasce dall'esilio delle popolazioni greche che abitavano la costa turca. I greci di Smirne persero tutto e si ritrovarono a vivere in una terra che non li desiderava e l'unica cosa che riuscirono a portare con loro fu la musica di un altro continente. Nel rebetico c'è nostalgia, disperazione, senso di perdita, persecuzione, sensualità, droga e carcerazione, come nel blues e come nel blues c'è un contenuto musicale alieno che ha finito per colonizzare la musica del paese ospite. La discendente attuale del rebetico, la neo kyma, è una forma musicale molto interessante nel suo integrare presente e tradizione e andrebbe seguita con più attenzione di quanto non 16 succeda. In effetti è una delle poche forme di popular music moderne completamente autonome esistenti in Europa. C'è un elemento psichedelico che non demorde, anch'esso però terrigno, verrebbe da dire mediterraneo. Che pure innesca legami intensi col fare musica angloamericano. Il risultato è a mio parere apprezzabilissimo, è come trovare una base comune da premesse diverse, dribblando la tipica sudditanza del nostro rock. Sei d'accordo? Assolutamente sì. La sudditanza del nostro rock mi sembra un problema sottovalutato, quando non affrontato nella maniera più sbagliata. Mi lasciano perplesso le recensioni che dicono "questo è un disco italiano, ma sembra americano o inglese al 100%". In genere, lingua a parte, vuol dire che si tratta di musica totalmente assimilabile e assolutamente indistinguibile dall'ultima moda arrivata da oltremanica o oltreoceano. Mi viene da pensare: e allora? Come può essere questa una cosa buona? Come può essere buono che non trapeli nulla della vera personalità delle persone che hanno fatto questo disco? Che questa musica non appartenga a nessun luogo e a nessuna cultura se non ai cascami della globalizzazione e del consumismo? Che questi musicisti si siano talmente immedesimati nei panni di qualcun altro da risultare personalmente invisibili? Mi sembra che tutto ciò superi i confini del rock per entrare in quelli della pantomima, genere rispettabile e pure impegnativo, ma che non m'interessa. Sei molto presente su Facebook, hai un considerevole numero di amici (quanti?). Al di là delle ovvie e per certi versi inevitabili ragioni di carattere promozionale, pensi che ci sia un rapporto più profondo tra le tue attività artistiche e quelle di "social networking"? Ovvero: non hai la sensazione che i codici del web stiano rendendo il "momento" promozionale in qualche modo complementare a quello artistico? Ho 4477 amici su Facebook in questo momento e 300 richieste in attesa. Ho il terrore di arrivare a 5000 che è il limite. A me piace il fatto che possa prendere un pezzo inedito che ho sull'hard disc e in un click metterlo a disposizione di migliaia di persone. Ho reso disponibili i miei vecchi album e ho invitato i miei contatti a scaricarli e i blog a condividere i link e ho avuto 2000 download finora. Questa cosa non rende nulla (costa pure qualche euro in realtà), ma mi piace tantissimo, del resto faccio musica perché venga ascoltata il più possibile e quindi penso che il momento della condivisione sia importante quanto se non di più di quello della creazione. E poi ho conosciuto la mia innamorata grazie a Facebook. 17 Tune-In Deerhunter —Prove da rock star— Testo: Marco Boscolo 18 Bradford Cox dentro e fuori i Deerhunter, una figura essenziale per il pop anni zero N el mondo del rock esistono topoi che a volte si avvicinano pericolosamente ai luoghi comuni, perdendo qualsiasi sfumatura leggendaria, mitologica o – semplicemente – di coolness per trasformarsi in parodie, spesso involontarie (e quindi più gravi) della figura dell'indie-rocker. Per fare un esempio, un conto è l'estetica da slacker o da nerd che ha fatto la fortuna di molti gruppi e musicisti, capaci di prendersi in giro e prendere in giro con l'arma dell'ironia, spesso accompagnata da canzoni di ottima fattura come nel caso dei redivivi Pavement. Altra cosa è, invece, continuare a prendersi sul serio quando si è persa qualsiasi credibilità, quando il proprio mondo di riferimenti culturali è diventato un teatrino di plastica nemmeno più così luccicante. Guardando solo in casa, basti ricordare due nomi e si capisce a cosa ci si riferisce: Vasco Rossi e Luciano Ligabue. Anche per Bradford Cox c'era questo rischio, per lui nato nell'America che potremmo definire di provincia (Atlanta, Georgia) e cresciuto in una famiglia non propriamente coesa. Affetto dalla sindrome di Marfan, una rara condizione genetica ereditaria che oltre a presentare rischi gravi per la salute, fa allungare a dismisura arti e dita di mani e piedi (e sembra aver affetto, tra gli altri, personaggi storici come Charles de Gaulle e Abraham Lincoln, Niccolò Paganini e Sergei Rachmaninov, oltre a Joey Ramone), Bradford Cox non deve avere avuto un'infanzia e un'adolescenza particolarmente semplici, soprattutto perché conditi da un dubbio gusto per l'abbigliamento di Cobainiana memoria. La sua eccessiva magrezza è spesso stata confusa per anoressia (o forse c'è stato davvero anche qualche disturbo alimentare?) e la sua vita è stata segnata da un karaoke scovato in un sottoscala di casa. Insomma, c'erano tutti gli ingredienti per una classica mitologia americana da underground indie, invece Bradford se ne frega un po' di tutto e si concentra sui suoi esperimenti sull'Atlas Sound (il nome della marca che aveva prodotto il karaoke) che saranno la base della sua inclinazione musicale. Comincia così l'avventura sonora di Cox, con i Deerhunter ancora lì da venire e un progetto solista già pensato e immaginato nella propria cameretta. Ma è con altri quattro amici, anche loro figli della stessa marginale Atlanta che si ficca in garage, calcando l'eterna storia di sogni del rock: suonare, incidere un disco, andare in tour per il mondo. Una storia che potrebbe essere stata scritta nel 1965 o nel 1980, e invece è del 2001. La formula di quel consesso di “cacciatori di cervi” è una mutevole variazione di garage-indie-pop con forti inserti shoegaze e qualche accenno d'ambient, un tocco che diverrà via via più importante nel corso della vicenda Deerhunter. Il disco di debutto, omonimo o noto anche con il titolo di Turn It Up, Faggot, arriva quattro anni più tardi per la piccola Stickfigure. Le chitarre possenti fanno pensare a un misto di Dinosaur Jr. e Jesus & Mary Chain adagiato su una ritmica robotica, forse figlia di quel giocare di Cox con le macchine fin dalla più tenera età. Due sono i santini che si sentono pervadere molti anfratti di questi primi Deerhunter: uno è Mark E. Smith, l'altro il sound abrasivo anni '80 dei Gang of Four. Dopo la pubblicazione dell'esordio la leggenda entra davvero nel suo vivo. Pare che sia stata Karen O degli Yeah Yeah Yeahs a vedere dal vivo la band all'epoca e a descrivere il live set come “un'esperienza religiosa”. Scintilla d'amore musicale scaturita al primo impatto e il nome dei Deerhunter arriva alle orecchie giuste, facendoli andare in tour con i Liars e vedendosi spalancate le porte della Kranky. Ma il periodo che separa l'episodio dall'uscita di Cryptograms nel 2007 non è facile per la band, che registra una parte del disco già nel 2005, con le session rovinate da problemi tecnici e psicologici (attacchi di panico compresi). La prima parte del disco viene quindi registrata nuovamente nello studio che li aveva ospitati per il primo disco e le cose sembrano andare meglio. Per la seconda metà entrano in studio qualche mese dopo e finalmente il disco viene alla luce all'inizio del 2007 e fa mostra di sé nei negozi di tutto il mondo. L'impatto sugli addetti ai lavori, soprattutto dall'altra parte dell'Atlantico, è molto positivo, nonostante la doppia registrazione abbia fatto dare alle stampe un disco non del tutto omogeneo e sostanzialmente diviso praticamente in due parti (essendo lo spartiacque Red Ink). Più garage e spigolosa la prima, sebbene 19 aperta da una traccia intrisa di ambient, più melodica la seconda, che sembra raccontare un equilibrio cercato e finalmente trovato. Cryptograms non è in realtà quel gran capolavoro che ci voleva far credere Pitchfork, ma due cose sono innegabili. La prima è che Bradford Cox e soci sono una delle realtà più interessanti a emergere a metà del decennio, in quel periodo di post-tutto che sembra non trovare più quadrature del cerchio. I Deerhunter si sollevano sopra la media grazie a una capacità di creare atmosfere fuori dal comune, mandando a memoria la lezione di Ride e Slowdive, inbastardendola con il garage e la psichedelia, sporcandola di krautrock e aggiornando lo iato wave. La seconda è che nonostante tutte le ingenuità e qualche caduta, il disco fa pensare che quella dei Deerhunter sia una storia solo appena accennata. E così è, a partire da un 2008 denso di buona musica firmata Bradford Cox. La prima tappa è l'esordio ufficiale del progetto Atlas Sound, quello iniziato sul piccolo apparecchio domestico per il karaoke. Let The Blind Lead Those Who Can See But Cannot Feel, definito ambient punk dal suo ideatore, è una summa pop fortemente sì screziata di ambient, ma dal sapore decisamente shoegaze. Rispetto alla band maggiore, qui Cox preferisce rallentare i ritmi e lasciare che la musica stessa trasogni in liquidi feedback, prendendo a prestito atmosfere da Sigur Rós e Postal Service, ma sempre riuscendo a conferire al tutto una connotazione poppeggiante. Ecco allora che i drone non allontanano i meno abituati a certe sonorità più underground, ma servono a introdurli a paesaggi sonori atmosferici capaci di far viaggiare lontano. O forse vicinissimo, dentro di sé. Qualche mese più tardi arriva il secondo episodio adulto a sigla Deerhunter. In Microcastle le alchimie sonore della band sono messe a fuoco come mai prima di allora, in equilibrio delicato che sembra costantemente sull'orlo di scivolare verso la wave o l'ambient di krankyana fattura, ma riuscendo quasi sempre a mantenere la barra dritta per una dozzina di tracce che entrano in molte classifiche di fine anno. Rispetto al passato, l'attitudine pop ha vinto, regalando canzoni facilmente fruibili, infarciti di pastelli acidi e qualche tocco 4AD che letto in prospettiva sembra una premonizione. Il definitivo approdo a un pop più ampio è sancito dal singolo Never Stops, una sorta di aggiornamento 2.0 del Darklands dei fratelli William e Jim Reid, mentre nella titletrack fanno capolino echi surf da revival Sixties di fine duemila e non mancano gli irremovibili riferimenti a Ride e Slowdive. In Microcastle le citazioni ambient, psichedeliche, garage, wave, punk, post, 20 kraut e quant'altro sono sostenute dalla felicità della vena compositiva di Cox e compagni che sembrano riuscire a interpretare un decennio di totale assenza di riferimenti definiti frullando tutto in una pietra filosofale dell'indie attuale che sa di miracoloso e ha il pregio di suonare personale in ogni sua incarnazione. Quando nel 2009 dà alle stampe la seconda opera a nome Atlas Sound, oramai Bradford Cox è una stella del firmamento indie e i suoi Deerhunter sono pronti per un salto definitivo nell'empireo. La loro storia assomiglia a quella dei canadesi Arcade Fire, band di provincia che dall'indie sembrano in grado di approdare a palchi mainstream senza perdere in coerenza e personalità. Nel frattempo l'allampanato cross-dresser di Atlanta mette insieme un pungo di canzoni da nuggets-delia che vanno a comporre Logos: un lavoro retrò, raffinato e impalpabile come organza nera. In un'intervista rilasciata a Pitchfork in quel periodo, Cox dichiara che laddove le canzoni del primo Atlas Sound erano essenzialmente una cosa da laptop e cameretta e “davvero introverse”, quelle finite su Logos sono invece frutto di collaborazioni e di una maggior apertura verso l'altro. L'atmosfera di condivisione si percepisce dalle ospitate, dal mezzo furto Panda Bear / Animal Collective di Walkabout a Laetitia Sadier che tinge di Stereolab una Quick Canal altrimenti interamente shoegaze, fino al violino di Sasha Vine dei Sian Alice Group in Attic Lights: Cox sembra quasi un vampiro, capace di succhiare ogni buona idea dall'ambiente che lo circonda, ma sempre restituendola in qualcosa che suona al cento per cento come suo. Il secondo disco solista di Cox segna anche il passaggio dalla Kranky alla 4AD, a completamento di un'evoluzione già parzialmente segnalatasi con Microcastle. Come scrivevamo all'epoca dell'uscita del disco, Cox preferisce addentrarsi in una forma impalpabile di pop, quasi una sublimazione di una memoria sonora collettiva che lo rende potenzialmente il demiurgo di una generazione di musicisti indie pop. Il passo successivo, anch'esso uscito per 4AD è il recente Halcyon Digest, probabilmente l'album più matura a sigla Deerhunter, ma anche il disco più solido sotto il profilo delle canzoni tra quelli su cui Bradford Cox ha messo la firma. Più ancora che nel passato, però, è fondamentale l'apporto del sodale si sempre, quel Lockett Pundt che divide con Cox la stanza in tour, l'affitto, le scelte musicali e che con la sua chitarra elettrica ha determinato sin qui molte delle atmosfere dark e ambient di tutta vicenda musicale dell'amico. Si vedano le citazioni byrdsiane di Memory Boy o le reminiscenze di altri georgiani come i R.E.M. in Revival, ma anche la capacità di prendere un attacco tipicamente Arcade Fire e springsteeniano (Desire Lines) e trasformarlo progressivamente in qualcosa di diverso, personale e retro-modernista. Anche qui è innegabile l'amore di Cox per The Jesus & Mary Chain e per le loro terre oscure che pervadono tutte le composizioni come fossero uno spirito che dal passato continua a bussare alle porte dell'immaginario musicale dell'indie contemporaneo. Quando gli spazi si dilatano e si amplificano l'inclinazione 4AD del disco, esce anche tutto il potenziale dream pop della band. La grande capacità di Cox e soci è far apparire tutto questo come semplice, naturale, quando in realtà si tratta del frutto di un percorso lungo, che ha le sue radici nella cameretta di Atlanta, ma che adesso ha i muscoli e lo spessore per essere lanciato non solo all'interno del ristretto mondo dell'indie, ma per conquistare anche palchi più visibili, come se il processo di maturazione della band sia stato quello della psicanalisi di un mondo per poi poterlo piegare alle proprie atmosfere e visioni. 21 Sufjan stevens —All Along The Watchtower— Drop Out Uno sguardo alla carriera di Sufjan Stevens, ovvero un tentativo di decifrare e ridefinire il ruolo del cantautore. Scampato, forse, al giro di ruota degli anni zero. Testo: Stefano Solventi 22 23 "La disgregazione, e quindi l'incertezza, è propria di quest'epoca. Nulla poggia su una solida base e su una fede dura. Si vive per il domani, perché il posdomani è dubbio. Tuttto è sdrucciolevole e pericoloso sul nostro cammino. Il ghiaccio che ancora ci sostiene è diventato così sottile e noi tutti sentiamo il caldo soffio del vento del disgelo: qui dove noi camminiamo, fra poco più nessuno potrà camminare." (F. W. Nietzsche) Fare il cantautore all'alba degli anni zero non è una prospettiva semplice. Anzi. Nasconde svolte e insidie tutte da esplorare. Se sei un debuttante, è un po' come pescare la paperella fortunata: ti affidi alla buona mira, provi a sbirciare, ma è la fortuna che rimette i conti. Ecco: ci chiediamo oggi, dopo un primo scorcio di carriera che convenzionalmente abbraccia una decade - ovvero questo decennio critico e formidabile che ancora dobbiamo finire di decifrare - com'è andata la pesca per Sufjan Stevens. Non lo avremmo fatto, forse, se le ultime recenti prove discografiche (l'ep All Delighted People e l'album The Age Of Adz, usciti a stretto giro di posta nel ventre caldo del 2010) non avessero suggerito una sorta di resa dei conti, un raccolto, una disamina. La chiusura di un ciclo che, a partire dall'attitudine già espansa di Sufjan, mira ad un orizzonte sempre più affollato, caotico, imprevedibile. C'è insomma la sensazione che Mr. Stevens con questi ultimi lavori abbia voluto marcare un segno forte rispetto al senso del suo percorso espressivo, maturato infine come sguardo sulla contemporaneità, oltre gli argini di un repertorio che da sempre, ad onor del vero, ha coltivato aperture che ne scompaginavano qualsivoglia solco personalistico. Con risultati non sempre straordinari, talvolta neanche convincenti, come è del resto normale da parte di chi si prende il rischio di esplorare, di esplorarsi. Inseguendo nel farlo frequenze anche improbabili, augurandosi di azzeccare la rivelazione come una sintonia improvvisa, come un segreto geografico e sentimentale. Canzoni quindi come uno scherzo del destino, lo struggente collasso della cultura nella memoria, della società nella cronaca, del sogno nel racconto. Un destino nel nome Sufjan Stevens: cognome standard che più standard non si può, nome esotico causato dall'infatuazione (passeggera) dei genitori per la comunità sincretistica islamico-cristiana dei Subud, il cui capo spirituale suggerì loro di ispirarsi alla figura di Abu Sufyan - figura cardine dell'Islam primigenio per battezzare il nascituro (per la cronaca, Sufjan significa: "viene con una spada"). Oggi che possiamo individuare nella polarizzazione e globalizzazione dello scontro tra modello liberista (o occidentale tout court) e neointegralismi islamici uno degli argomenti portanti di questo primo scorcio di millennio, determinando uno stato di tensione permanente tra posizioni ideologiche sempre più distorte, è lecito vedere in quell'accostamento anagrafico il marchio di una predestinazione: allo sguardo mai meno che duplice, alla inevitabile ricomposizione di ogni conflitto in una "crisi" che ti porti addosso come un altro strato di pelle. Nella sua musica, fin dai primi lavori, accade una specie di lotta subliminale tra domini formali estranei ma sovrapponibili, tra la dimensione tradizionale sedimentata in manufatto pop e l'elemento esotico/alieno, tra le istanze indie-folk e le trame sintetiche, tra la definizione di un solco espressivo ed il suo scompaginarsi in dieci, cento, mille rivoli. 24 25 Nato a Detroit il 1 luglio del 1975, Sufjan si spostò ancora bambino a Petoskey, 6000 anime adagiate sulla sponda nord est del Lago Michigan, dove frequenta prima la Harbor Light Christian School e quindi la rinomata Interlochen Arts Academy, abbozzando un percorso formativo senza indugi che lo vedrà poi studente del prestigioso Hope College di Holland, istituto privato di belle arti. E' in questo scenario che compose e incise A Sun Came. Già in possesso di una buona pratica con una pletora di strumenti quali banjo, pianoforte, chitarra, oboe e batteria, da qualche tempo - metà anni novanta - aveva allestito un'etichetta - la Ashtmatic Kitty Records - e messo in piedi una folk band, i Marzuki (dal nome di suo fratello, maratoneta professionista), che vedeva nel ruolo di chitarrista e cantante la brava Shannon Stephens. Nello stesso periodo Sufjan iniziò a collaborare con la Danielson Famile, band del New Jersey capitanata da Daniel Smith e dedita ad una interessante contaminazione tra pop alternativo e gospel, tra arguzie freak e misticismo bucolico. Entrambe le situazioni vedevano già il Nostro alle prese con un'idea di spiritualità composita e informale, annidata nelle manifestazioni pop del quotidiano, il cui portato di meraviglia è solo dissimulato - e non estinto - dalla sua banalizzazione. In altre parole, è il caso di sottolineare, sembra che l'avventura sonora di Stevens inizi come un tentativo di recuperare la meraviglia pop malgrado la sua banalizzazione. Esaurita l'esperienza Marzuki, era dunque tempo di avventura solista: al già citato A Sun Came (Asthmatic Kitty Records, 6.5/10), segue pochi mesi dopo Enjoy Your Rabbit (Asthmatic Kitty Records, 6.8/10). Il primo venne inciso ad Holland, il secondo a New York, dove Sufjan si recò per seguire un master di scrittura creativa alla New School for Social Research. Tra i due lavori passa un intero universo espressivo. A Sun Came è un autentico zibaldone lo-fi con escursioni esotiche, è il benedetto eccesso di vita di uno studente con fregole etniche ma pur sempre cresciuto ascoltando Beck, Sebadoh e Pavement con qualche deviazione più marcatamente psych dalla fibra anche sixties. Un album in cui le intenzioni eccedono i risultati, a partire dal numero dei pezzi (ventuno), però non privo di ottime intuizioni e già una certa personalità. La scaletta di Enjoy Your Rabbit mette invece in fila quattrodici pezzi sintetici dedicati ai dodici segni zodiacali cinesi, al cui bestiario si aggiungono un gatto asmatico e un non meglio precisato "Nostro Signore". Un po' Matmos e un po' Oval, con un estro post che ricorda dei Gastr Del Sol giocosi o una preveggenza degli imminenti The Books, la calligrafia digitale di Sufjan dimostra una disinvoltura stupefacente, si disimpegna in un immaginario da ludoteca di marzapane, carte da parati manga e squarci di vaporoso misticismo. Se pure è plausibile interpretarlo come esercizio di stile o divertissement, è a suo modo un punto di non ritorno. Assieme al predecessore segna gli estremi di un ventaglio stilistico che aveva appena iniziato a svolgersi. Ad indagarsi. Car toline dal centro del mondo Quelle due prime prove non bastarono a proiettare il nome di Sufjan Stevens nel giro importante del pop-rock alternativo, ma era solo questione di tempo. Il terzo lavoro Greetings From Michigan, The Great Lake State (Asthmatic Kitty Records, 7.7/10) piovve nel bel mezzo del 2003 con le stimmate del disco-fenomeno, quello di cui non puoi non parlare. Le note 26 di presentazione lo indicavano come il primo capitolo di un progetto che avrebbe dovuto prevedere un album per ogni stato dell'Unione, uno per ogni stellina della bandiera. A partire, ovviamente, dal suolo natio. Molti, come il sottoscritto, la considerarono una sparata un po' furba e un po' spaccona, o in alternativa il proclama velleitario di un autore più ruspante che realista. In pochi, forse nessuno, gli concessero pieno credito. In realtà non era stato messo a fuoco il vero punto della questione: perché un autore tanto capace e profilico sentiva il bisogno di fornire un pretesto ed un contesto così forti, per non dire debordanti, alla propria musica? Solo gli sviluppi futuri avrebbero abbozzato una spiegazione, una specie di risposta. All'epoca potevamo al più prendere atto di un album straordinariamente ispirato, eclettico, fluviale. E appassionato. Sufjan fa vagare il suo sguardo 27 sulla quotidianità ad altezza d'uomo, spedisce cartoline affettuose che si rivelano il lato scintillante di una commossa e a tratti cupa elegia del quieto vivere. La tavolozza dei colori è una sarabanda ammaliante di easy listening e jazz, intrecci vaudeville e Tin Pan Alley sfumati post-rock, memorie prog e fregole latine, il folk come una trama che sostiene e avvolge, il gospel la dissolvenza che stempera i margini. Chitarre e pianoforti, xilofoni e banjo, fiati e percussioni, il controcanto etereo e dolciastro di Megan Smith della Danielson Famile: ingredienti dosati con garbo inquieto (Holland, Say Yes! to M!ch!gan!), con frugale trasporto (Sleeping Bear, Sault Saint Marie, la magnifica Vito's Ordination Song), con incontenibile frenesia (Detroit, Lift Up Your Weary Head!), come a definire una classicità scossa, la cifra vibrante di un autore sospeso in una molteplicità di memorie, prospettive e aggetti poetici. E' un disco gradevole e toccante, un po' bizzarro e vagamente eccessivo, che proprio in questo eccedersi nutre una garanzia di autenticità: è la testimonianza del coinvolgimento di Sufjan, interprete dolcemente flemmatico, per la terra che ha rappresentato lo sfondo reale della sua esistenza, divenuta ormai location sentimentale - virtuale - di un'espressività poliedrica. Il quadro della situazione a quel punto era già chiaro: avevamo a che fare con un giovane talentuoso dalle attitudini balzane, un genio dispersivo con tante idee ma bizzarre e a tratti imbizzarrite. Stante questa anomalia, l'uscita a distanza di un anno del quarto album Seven Swans (Asthmatic Kitty Records, 7.2/10) lasciò oltremodo interdetti, visto che si trattava di un album "normale". Una raccolta di canzoni folk asperse psych e condite con un pizzico di elettronica (colta nel solco tra valvolare e sintetico): nient'altro. L'unica bizzarria, se così la si vuol vedere, stava nel sogno che avrebbe ispirato lo Stevens, sette cigni indimenticabili e sconcertanti ai quali l'album - al di là del titolo - era in un certo senso dedicato, anche se non per questo sembra il caso di definirlo un concept. Prodotto da Daniel Smith, è disco dal suono assieme frugale ed etereo, il banjo ingrediente principale assieme alla voce, sempre più levigata e inquieta, in cerca di un intimismo tra il mistico ed il malinconico. Non per questo smetti di avvertire cortocircuiti di passato nel presente, da una parte le palpitazioni crosbyane di Abraham e dall'altra il collage ciberacustico vagamente Califone di The Devil's Territory, e ancora i languori seventies nella strumentale Sister o una The Transfiguration che fa rimbalzare particelle melodiche Xtc in un teatrino mutante M.Ward. La tempra crepuscolare già apprezzata in Michigan trova nuovi notevoli esemplari in tracce come Size Too Small e We Won't Need Legs To Stand, la voce un tappeto d'ombre su cui germogliano arpeggi che sembrano possedere una felicità segreta. E' disco insomma di quelli che sanciscono statura e maturità. Paradossalmente anomalo, nella sua sostanziale convenzionalità, rispetto ad un repertorio precedente (e futuro) ben poco convenzionale. Un futuro che non ne voleva sapere di attendere. Lo tsunami iperpop del ragazzo invisibile Tempo pochi mesi, anno 2005 ormai, ed ecco arrivare sugli scaffali Sufjan Stevens Invites You To: Come On Feel The Illinoise (Asthmatic Kitty Records, 8.0/10), seconda tappa del viaggio musicale attraverso gli stati dell'Unione. Il canovaccio ricalca quello del Michigan, un'escursione tra immaginario e Storia, sogno e miseria, tragedia e memoria, ora frenetico zibaldone e ora ritratto affettuoso, ironia e lirismo come due frequenze armoniche che s'intrecciano in un accordo talvolta incantevole, talaltra sconcertante (a partire dai titoli, spesso vere e proprie dichiarazioni d'intenti). Le ventidue tracce, compresi gli intermezzi strumentali, lasciano intendere una prolificità notevole che diventa sbalorditiva sommando le altre ventu28 29 no di The Avalanche: Outtakes and Extras from the Illinois Album (Asthmatic Kitty Records, 6.8/10), raccolta quest'ultima che a dire il vero probabilmente non avrebbe neanche visto la luce senza i favorevoli riscontri di critica e vendite di Illinois. Riscontri meritatissimi per quello che apparve subito come un istant classic, con la sua capacità di proporre una trama complessa ma avvincente, il punto di vista che galleggia tra intimità dolorosa e febbrile appartenenza, toponimi e personaggi (poeti e serial killer, presidenti e jazzisti...) nominati come un mantra gelatinoso con l'obiettivo preciso di far vibrare il cuore infranto dell'American Dream. A partire da una sensibilità giovane, dall'arguzia fragile di uno studente (o ex studente) che vive il proprio territorio come una promessa sul punto di tradire, un carosello di segni didascalici ed esistenze smarrite, un groviglio formidabile di radici sfilacciate nelle quali malgrado tutto pulsa ancora vita. La "location" musicale è una forma pop carpita al cantautorato country e ad una certa coolness cameristica, passando dal folk più pacato alla psych contagiata vaudeville, dalla rumba al minimalismo con persino qualche innesco power pop, in modo da abbozzare una formula assieme tradizionale ed eversiva, integrata ed apocalittica. Canzoni come Chicago possiedono enfasi Paul Simon stemperata in un'epica che diverrà tipica Arcade Fire, Jacksonville è un distillato leggero Neil Young, The Man Of Metropolis Steals Our Hearts è una mini suite che centrifuga il neo power dei New Pornographers e il bucolico deliquio Polyphonic Spree, The Black Hawk War un orchestrale discendente da visioni Brian Wilson e Beatles, Out Of Egypt una fatamorgana seriale tra Stereolab e Gastr Del Sol, mentre John Wayne Gacy, Jr. sembra proprio la madre di tutte le ballad tenere e crudeli. Sufjan è dentro e fuori l'alveo conformista, è l'istrione magniloquente e il ragazzo invisibile della porta accanto, è lo sperimentatore un po' folle, il credente allibito ed il busker che ti accarezza la malinconia. Nel caso di Illinois parliamo di capolavoro anche perché definisce, probabilmente in termini assoluti, il ruolo e la funzione di Stevens cantautore: un'intelligenza polimorfa e disallineata come testimone dello tsunami semantico e culturale contemporaneo, dell'implosione sincretistica (e relativistica) della spiritualità, della contraddizione permanente tra identità territoriale e accessibilità del mondo. Infine - ma importantissimo - della crisi dell'idea di Stati Uniti come faro egemonico, una crisi profonda che investe i macro sistemi economico/militari ed il microcosmo morale del cittadino, scuotendo fino nell'intimo le basi stesse dell'esistenza civile e individuale. Ecco spiegata quella specie di rassegna del DNA storico/culturale statunitense, la rievocazione di un Frank Lloyd Wright e del killer John Wayne Gacy Jr, dell'icona pop Superman (che la DC Comics gli contesterà per la copertina dell'album) e di Abraham Lincoln, senza scordare anonimi protagonisti del quotidiano come i lavoratori della Rock River Valley. C risi mistiche , A pocalissi spettacolari Come intimorito da tanta impresa e dal conseguente successo di pubblico e critica, Sufjan vivrà negli anni successivi una fase di crisi creativa. L'uscita di Song For Christmas (Asthmatic Kitty Records, 7.2/10) nel 2006 non deve ingannare: trattasi della raccolta di ben cinque album dedicati al tema del Natale a partire dal 2001, in sostanza una collezione di cover (da Silent Night a O Come O Come Emmanuel) e inediti a tema per un totale di 30 42 pezzi in una confezione deliziosamente ipertrofica (stickers, illustrazioni, piccoli racconti scritti dallo stesso Sufjan, video e persino un saggio natalizio ad opera dello scrittore Rick Moody. Un'operazione un po' alla Phil Spector in nuce, una chicca per fan ma anche il necessario complemento dell'aspetto traditional-kitch - con aspersioni mistiche - del Nostro, la cui meditazione sul lato spirituale del pop è più sostanza che forma, vera e propria bussola poetica. Tuttavia, per i successivi tre anni non si sentirà parlare di Sufjan Stevens se non in occasione di qualche collaborazione di sponda (con la Danielson Familie, Rosie Thomas, The National e DM Stith tra gli altri) e per certe dichiarazioni concernenti la crisi d'ispirazione che lo avrebbe colto. Occorre attendere il 2009 per un nuovo album a suo nome, e si tratterà di un lavoro svolto su commissione per la Brooklyn Academy of Music. The BQE (Asthmatic Kitty Records, 6.0/10) è una faccenda di pop orchestrale che travalica se stessa, un esercizio di stile che cade nel pacchiano giusto un attimo prima di affascinare, un po' il nipotino ironico e arty di Atom Heart Mother. Possibile vederlo come un pretesto per tornare a fare musica, perché forse senza un pretesto così pervadente sarebbe stato impossibile, e comunque pur sempre tentando di battere nuove strade, qualcosa di molto diverso, che segnasse uno strappo da Illinois. Ma Sufjan è chiaramente fuori contesto, gioca con gli elementi di un gioco più grande di lui, azzeccando tuttavia una chiave creativa quasi goliardica che non spiace. Da qui al presente è quasi un attimo. L'ispirazione lo coglie di nuovo di lì a poco, tanto che il 2010 vedrà due uscite del Nostro: quel All Delighted People EP (Asthmatic Kitty Records, 7.4/10) che in realtà copre un'ora di musica per otto tracce a rotta di collo in un immaginario seventies condito di sostanze psicotrope, tremori esistenzial/sentimentali, incenso e timor d'apocalisse; infine l'ipertrofico The Age Of Adz (Asthmatic Kitty Records, 7.4/10), praticamente un frullato generoso del Sufjan Stevens passato e presente con qualche soncertante prospettiva di futuro. Entrambi i lavori sembrano suggellare quel senso di missione cantautorale che già abbiamo delineato, ovvero adeguata alle istanze del decennio che va a concudersi. Anni (zero) che hanno messo il musicista con le spalle al muro, hanno squadernato tutti i trucchi, determinando un disincanto totale ma anche un ventaglio formidabile di possibilità. Sufjan Stevens fa di se stesso un cantautore onnicomprensivo, pratica una versatilità incontenibile (stilistica e poetica) perché - suggerisce - non gli è possibile fare altrimenti. E' il testimone di un'epoca, della sua abbondanza tragica e sterile, dell'accalcarsi di segni come scorie di una comunicazione in cortocircuito, dell'intersecarsi slevaggio di testimonianze e progetti. Un'epoca incapace di un discorso lineare, condannata alla logica della rete in ogni aspetto del suo procedere. E' questa insomma l'epoca della grande alluvione, ed il cantautore è una torre di guardia tra i flutti. Si aggrappa al suolo (alla propria terra) con la foza disperata della sensibilità, a quel che resta della fede e dell'amore per il passato (la Storia), all'ironia perché la battaglia si gioca pur sempre in una dimensione che non fa morti né feriti (non tangibili, almeno). Ma non può fare a meno di venire scosso e spazzato dalla corrente. In un certo senso lo desidera, perché vi riconosce il proprio destino. Ed è uno spettacolo (nuovamente) meraviglioso. 31 Napoli caput mundi —Weltraum, A Spirale, Zero Centigrade— Drop Out C Tre rizomatiche figure dell'avant tra interconnessioni, pars destruens e Napoli, tangente invisibile. Testo: Salvatore Borrelli 32 ittà scissionista, Napoli. Caotica, affamata, zeppa di contraddizioni al punto da essere essa stessa sinfonia noise, psicotropi geografica. Napoli non è metropoli, quanto grumo di vicoli, stradine, cunicoli differenziati con ognuno una sua musica interna: quella delle sovvenzioni spropositate per Piedigrotta, le suburbane Piazza Mercato, Forcella, Sanità, con le feste di piazza per banditi locali su banchetti neo-neomelodici, fino alle inaccessibili sfilate di posillipini del Teatro Sancarlo, avamposto e ultima rappresentazione del baronato monarchico. Napoli è tutta riversa nelle sue antichissime distinzioni vassallatiche tra zona alta e zona bassa. Città parassitaria divisa tra San Gennaro, Pulcinella e pizzerie che spuntano come funghi. Luciano Cilio, ed erano gli 33 anni Ottanta, già sentiva la morte in atto: il suo suicidio fu la resa del dialogo. Tuttavia l’anarchia è portatrice di libertà, di caos. Di desiderio rizomatico, trasfigurativo, performativo, che sono i tre elementi principali di questa microfetta avant, che, passando a Napoli, potrebbe capitarvi di vedere. Sia chiaro: Napoli e il suo immaginario sociale hanno poco da spartire con questa particolare fenomenologia della disconnessione avant, tuttavia non è un caso che si sia formato un groviglio di collaborazioni, partecipazioni, microfestival, tutti all’interno di questa città-inferno. L’esiguo numero di locali adatti e la pressapochezza gestionale hanno fatto in modo che il discorso avant si focalizzasse in due piccoli ma importanti luoghi-crocevia: Oblomova, ovvero ex-Demos, storico nei dischi, e Perditempo, libreriabar. Non si tratta di posti pensati per concertare quanto i soli due luoghi ad avere accolto scelte di musica altra. Con un’ospitalità che non raggiunge le 60 unità, hanno fornito uno spazio affinchè artisti di diversa estrazione potessero organizzarsi pubblicamente. Perditempo ed Oblomova non hanno condiviso il formato dell’associazione culturale, né quello più sinistro delle sovvenzioni pubbliche. I concerti, da queste parti, si organizzano gratis con piccoli rimborsi per i musicisti coinvolti. Da questa de-localizzazione canonica degli spazi sonori agibili, è nata, prima sotterraneamente, poi in maniera sempre più collaborativa, una piccola scena musicale, che ruota intorno agli A Spirale. Tutto si muove sotto il segno di poche persone, che nemmeno si considerano addette ai lavori, che se organizzano qualcosa lo fanno per pura filantropia: lo staff di Perditempo (Luca Marini, particolarmente), Fabio e Claire di Oblomova, Francesco “Limone”Tignola che tiene in vita edizioni Ammagar e il suo gruppo Ne Travaillez Jamais. E poi i gruppi stessi, ovvero gli A Spirale, i Weltraum, e, in maniera differente, ma altrettanto incisiva, Zero Centigrade. a spirale 34 A Spirale nascono dalle ceneri di Missselfdestrrruction, nel 2002, ma è di due anni più tardi la formazione a tre, composta da Argenziano, Gabola, Spazzaferro, chitarra, fiati, spazzole. Da quel momento, sia le collaborazioni (Bellatalla, Chadbourne, Taxonomy, Psychofagist, Cris X,Anatrofobia, Jealousy Party, etc..), sia i tentativi di collettivi live, da Tempia ed @ltera, sono state innumerevoli. E’ il gruppo stesso a spiegarci in concatenamenti successivi i propri obiettivi: “A Spirale non è una pluralità, è un morbo, un’ansia, una psicosi, qualcosa che si getta continuamente nell’indifferenziato, fa musica a partire dal non suonare, dal blocco, dall’incapacità. Allo stesso tempo nella sua musica non c’è niente che rappresenti tutto questo, una pratica che è un continuo eccedersi, un evitarsi, evita lo strumento, evita la musicalità, evita l’arte, evita di pensare a come rappresentarsi. E' una goffa e pesante relazione, un’intesa mancata, un disturbo autistico ben nascosto, un discorso muto ma allo stesso tempo un rimorso, una rabbia, una strategia che uccide, un piano d’attacco, una bomba che lentamente diffonde il suo gas mortale; un’incapacità agli affetti ma una morbosità al contatto fisico, un raziocinio snervante, un radere al suolo un territorio, un blocco massivo ad un piano di sviluppo…”. Né loro, né le diverse trasfigurazioni interne che hanno dato vita a formazioni onomatopeiche con intrecci sempre variegati - Asp, ASp/SEC_, Aspec(t), Tuner+ (tra i due chitarristi Argenziano e Taiuti dei Zero Centigrade), Strongly Imploded, Agaspastik, Razoj - amano sentir parlare di napoletanità o scene: “Non so cosa intendi per scena; l’unica cosa che vedo è un campo di battaglia e quando penso alla gente che si muove in queste fila mi viene da associarla al MEND in Nigeria, gruppi di guerriglia diffusi, una “leadership sfuggente”quasi assente. Si agisce nell’ombra, non solo per sottrarsi a una repressione. Un continuo smarcarsi, un qualcosa di fluido, inclusivo, non proprio una clandestinità/underground, passa ovunque: città, provincia, centri, periferia… Si costruiscono pratiche e le si smantellano, si fabbricano armi, le si fanno esplodere, la cosa più bella è che faccio difficoltà a pensare che questo cosa possa avere un centro in Napoli; le relazioni, da qui, sono intessute tutte al fuori. Non ci sono più mappature ma linee di fuga, campi vettoriali, direzioni, intensità, geografie dinamiche, aggregati di forze, distribuzioni di potenziali. Oblomova e Perditempo, ma anche il BlackHouseBlues di Avellino, sono i luoghi in cui si pianificano e avvengono le più efferate battaglie: le bombe si costruiscono lì. Non è Napoli. Sono i luoghi che hanno assicurato, nel deserto del reale, nella difficoltà di stringere relazioni al di fuori dalla loro stessa mercificazione, un modo per far emergere le affinità non solo di tipo musicale”. Dei dischi pubblicati finora, tra collaborazioni, cd-r ed ufficiali, si supera la dozzina. Fino all’ultimo importante cofanetto Viande su Die Schachtel, che racchiude 10 dischi, uno per improvvisatore, e che dovrebbe rappresentare ciò che di più valido c’è nella musica impro italiana. “A parte il primo disco, un vagito neonatale, il percorso che unisce Gariga, Agaspastik e porta fino all’imminente Viande non ha la linearità che sembra emergere dallo scandire delle uscite; alcuni pezzi di Agaspastik sono nati prima di Gariga, ma per la loro natura meno improvvisativa hanno avuto bisogno di ripetute “scremature”. Di de-arrangiamenti, potremmo dire. I due lavori si sono sviluppati contemporaneamente, per poi condensarsi poi in due uscite molto diverse tra di loro, una più spinosa, urticante, lirica a modo nostro, l’altra più scura e di impatto”. Gli A Spirale sono noti ai più, e con banale analogia, come la pars de35 struens degli Zu. Eppure siamo su altre coordinate: flussi amniotico-cerebrali che slittano tra momenti di raccoglimento energetico come nella AMM, e talvolta in vere e proprie sfuriate ossessive. Si è spesso parlato di avanguardie storiche per desrivere le loro piste ferrate, ma dell’avanguardia hanno solo il pensiero di un limite. Altrettanto poco spartiscono col freejazz, almeno con quello canonico/accademico tutto centrato sul prestigio tecnico e la velocità. Piuttosto gli A Spirale potrebbero somigliare ad un trait d’union tra due teorie opposte ma affini: minimalismo (inteso come ricerca del vuoto) e decostruzionismo (inteso come de-programmazione). “Ascoltiamo veramente tanta musica, crediamo ci abbia influenzata tutta, dall’impro radicale inglese - Evan Parker, Derek Bailey, AMM, Jack Wrigh - a certe cose dell’impro australiana - Anthony Pateras, Jim Denley -, da certa scena free form neozelandese - Bruce Russel e gli A Handfull of Dust - al noise “aktionista” svizzero - Rudolf Eb.er, Dave Phillips, Joke Lanz -, ai Voice Crack, Gunter Muller, NMPERIGN, Borbetomagus, Karkowsky. Gente che ci ha fatto pensare che con la musica si può fare tutto, una rivoluzione, un massacro, un’operazione chirurgica, cambiare le geografie…”. Una musica fatta di micro-interventi senza anestesia, tessuto per tessuto, quasi si trattasse di origami o di chimiche allo stato grezzo che s’infrangono su specchi galoppanti. Materiali stellari di termo durata, di collassi interpaziali e rigurgiti e rimbrottamenti. Vederli dal vivo è uno spettacolo: ognuno dietro lo strumento dell’altro scompare per riapparire, quasi si trattasse di un nascondino, in cui batteria, chitarra e sax preannunciano delle metafore di vuoto, ed imitano fraseggi incomparabili col flusso amniotico a cui siamo abituati dal jazz-avanguardia masticato fino ai nostri giorni. Dei Weltraum, come degli Endorgan, segnalammo i corrispettivi esordi (per quanto i primi avessero inciso un 3” che però andava in tutt’altra direzione). Nel frattempo, le attività collaterali di _Sec con Aspec(t) (insieme agli A Spirale) e Strongly Imploded, con una fitta attività live per tutta la penisola, hanno dilatato ulteriormente il logo della loro causa: il Rizoma. Se c’è un termine programmatico per i materiali qui presi in considerazione è proprio quello di Deleuze & Guattari: una sorta di rizomatica sonora. Rizoma distillato nella Napoli della resistenza invisibile, quella che non ha dialetti quanto una lingua minoritaria che sbuca come un vulcano e le sue lave mobili, i suoi lapilli scompaginati. La musica dei Weltraum, appaiata attorno ad un plasma germinativo, vibra e crea macchine illogiche, come i suoi tre strumentisti, tutti discombaciati nella forza triangolare di distruggere i loro strumenti per decodificarli con istanze decomponibili, labili. “Weltraum è una parola tedesca che significa spazio siderale, cosmo. Come puoi facilmente immaginare non è il suo significato a rappresentarci in alcun modo. Un nome si sceglie per molti motivi, spesso per caso o perché ha un suono interessante, ma dopo poco ciò che rimane è soltanto la sua referenzialità, l’indicazione di qualcosa che accade”. La chitarra di P’ex è un oggetto plastico, tra delays, oscillazioni occulte e corde residuate, così come la para-elettronica cerebrale di _Sec. Se non è un Rizoma è William Burroughs, se non sono macchine sono miniature dentro macrocosmi per uno spassionato Abracadabra. Il sound di Weltraum, che in linea genealogica potrebbe essere l’ereditiere dei This Heat, o forse una versione rock di Hotel Parallel di Fennesz, è studiato con sconvolgente beltà per fare buchi nel terreno, e fuoriuscire dall’altra parte dei subwoofer. Più che gesticolare attorno alla materia improvvisativa radicale, erompe verso la di36 weltraum mensione elettroacustica. “Ascoltando il disco si direbbe che non c’è quasi per niente. In realtà l’avvicinamento all’elettroacustica e a tutto il vastissimo mondo di sperimentatori e improvvisatori in quel campo ha avuto un’importanza decisiva per il disco. E’ attraverso queste esperienze che si è consolidato in noi l’interesse per il suono e il timbro, piuttosto che per l’armonia; per il ritmo e il taglio, piuttosto che per la melodia. In una parola, per la materia piuttosto che per il concetto. La materia non ha rimandi, non ha significati reconditi, non ha interpretazione. Non è nient’altro che quello che è, quello che ti tocca o ti ferisce. Sensazione e nient’altro. L’improvvisazione, comunque, per noi è un punto fermo. L’interesse nasce dall’ascolto e dall’amore per alcuni musicisti del free jazz come Albert Ayler, Sun Ra, Giuseppi Logan, ecc. L’improvvisazione non è, non esiste, in quanto cambia in continuazione e questa è la sua condizione assoluta. I Weltraum sono il miscuglio di una sensibilità industriale (Swans, Godflesh, Techno Animal, This Heat), di un fascino rock o math-rock (Don Caballero, Laddio Bolocko) e di una pratica noise e improvvisativa (Sightings, Moha, Starfuckers, Lasse Mahraug, Otomo Yoshide)”. Una versione poco italiana e molto giapponese (gli Endorgan sono assai similari a Merzbow) di una elettroacustica-postrock dove pedali, computer e batteria trovano un accordo come in pochi e rari casi. “In "Sy" c'è molto ferro: barre metalliche con piezoelettrico, lattine, campane, ferraglia in genere. La chitarra è spesso preparata con inserimenti di molle e altri oggetti tra le corde. La batteria ha due timpani. L'elettronica è un ibrido di analogico e digitale: il sintetizzatore analogico è spesso processato attraverso il computer, e l'uso "suonato" di campioni e manipolazioni dà al tutto un'impronta molto noise e materica”. Due esordi profondamente alienanti, dall’impianto ferroso e vulcanico, che si smaterializzano su cristalli e orientamenti incerti, ribadendo quell’in37 quieto equilibrio tra materia ed antimateria. Non rock quanto microorganismi autoriproduttivi, particelle di DNA, direzioni che si sbranano lungo il tragitto che sembra un concorde impazzito per una guerra futura, un’irruzione elettrostatica, giocata tutta sul modo in cui gli strumenti smettono di suonare come li conosciamo e diventano qualcosa di flessibile, amorfo. “Similitudini molte: siamo io e P’ex, ossia due terzi dei Weltraum, abbiamo una consapevolezza abbastanza forte del nostro percorso musicale e la riportiamo in entrambi i progetti. Differenze evidenti: manca la batteria, c’è molta percussione elettronica rigorosamente suonata live e molto noise di quello sporco, i pezzi sono molto più basati sull’improvvisazione. Sy è il frutto di più di due anni di lavoro. La sua realizzazione è il prodotto di un lungo processo di maturazione e di sperimentazione, dove hanno influito molto sia le precedente esperienze, sia i nuovi incontri musicali e personali. La decisione di aprire un’etichetta nasce dall’esigenza di pubblicare Sy e di farlo esattamente come volevamo noi, curando ogni singolo passaggio della produzione, dalla registrazione, al mixaggio, al packaging, alla distribuzione. Noi non facciamo dischi per vendere o per fare soldi, ma il disco è tutt’uno con la nostra attività di musicisti, ci aiuta a entrare in contatto con altre persone, a instaurare relazioni, a trovare dei concerti. Non avrebbe senso che qualcuno si occupasse di questo al posto nostro”. Tonino Taiuti e Vincenzo De Luce, in arte Zero Centigrade, sono una di quelle constellazioni di difficile collocazione. Prima che musicisti, si presentano come accaniti ascoltatori e collezionisti di musiche altre, e l’approdo al tardivo esordio è avvenuto in un’età in cui si è soliti considerare la musica un'esperienza lontana e superata. “Zero Centigrade è un duo acustico nato per sperimentare con chitarra e tromba, suoni e rumori che a tratti avessero dei passaggi armonici quasi a sfiorare la forma canzone. Una musica impossibile nella sua semplicità: corde sfiorate, stridori atonali, contrappunti frastagliati e timbri di una tromba acida, uno sbuffo tanto umano quanto animale. Zero Centigrade nasce da una proposta di Vincenzo, ma anni prima avevo portato in teatro uno spettacolo che si chiamava Zero e che completai, successivamente, con altri due lavori che s’intitolavano “Tò con Zero” e “Zerovatt”, tutti scritti per me da Antonio Fiore. Dietro il nostro moniker non c’è nessun riferimento particolare. A zero gradi centigradi, l’acqua ghiaccia, diventa immobile generando forme affascinanti e mutevoli. Generalmente all’immobilità non si associa mai un atto creativo e questa idea mi intrigava” Anche la natura Napoli-centrica è più interiore, basata com'è sulla musicalità dei rari interventi vocali di Taiuti: “Innanzitutto da un’esigenza personale e poi dalla necessità di avere del materiale da poter far ascoltare agli amici, in quanto siamo due persone fuori da giri organizzativi e suoniamo raramente dal vivo. Hanno entrambi un’atmosfera molto “live”, un suono ruvido e saturo e la cosa ci piace”. Il Taiuti è un attore teatrale e cinematografico (Morte di un matematico napoletano, Rasoi, I Vesuviani), sceneggiatore (suo lo script di Polvere di Napoli di Antonio Capuano) e rappresenta quella Napoletanità che non ritroverete mai e poi mai in nessuna volgarizzazione propagandistica o pubblicitaria di Napoli. Il De Duce è architetto, e ha imbracciato la tromba, nella stessa maniera con cui di solito un ateo, improvvisamente, decide di diventare fervente cattolico. “Napoli è una maledetta città ma è anche una maledetta fonte d’ispirazione. D’altronde, quale artista non vorrebbe vivere a Napoli? C’è un rapporto di odio amore tra noi e lei. Vorresti scappare ed invece resti, trattenuto da una mortificata bellezza. Se si pensa solo alla sua ricchezza 38 letteraria, quella favolistica del Basile, il lirismo dell’antica canzone, la drammaturgia di Viviani, Eduardo ecc…E non è un caso se, attualmente, a Napoli c’è una delle scene “impro” più vive ed interessanti d’Italia”. Ciò che separa Mississipi John Hurt o Robert Johnson dai Zero Centigrade, più che un secolo passato, è forse Napoli. Se certe musiche dell’anima fossero partite qui, in una città in bilico tra frammentazione e pienezza, brutalità e poesia, non si sarebbero distanziate troppo dall’essere delle forme sonore così complesse, contraddittorie eppure così nudamente semplici. Non a caso, quella che chiamiamo Pre-War Folk Music è l’epicentro strutturale di un casuale e stranissimo modo d’inventare il blues, di far parlare l’animo, senza che tecnicismi o teorie subentrassero nel suono. I Zero Centigrade partono quasi da zero in un limbo assai dilatato, ma profondamente similare, che collega l’avant al blues. Non si considerano musicisti, non si presentano come intenzionati a costruire discografie perfette, ma semplicemente estendono i vuoti del loro lavoro, gli spazi architettonici vuoti e quelli teatrali, ancora più tombali, in un suono dall'ostica praticabilità. “Abbiamo un’idea di improvvisazione abbastanza personale, non legata né alla classica jam, né all’improvvisazione radicale alla AMM. L’improvvisazione per noi è un punto fermo. L’interesse per l’improvvisazione nasce dall’ascolto e dall’amore per alcuni musicisti del free jazz come Albert Ayler, Sun Ra, Giuseppi Logan, ecc. L’improvvisazione non è, non esiste, in quanto cambia in continuazione e questa è la sua condizione assoluto. Il vuoto in teatro è l’oscuro oggetto del desidero. Ci vuole un vuoto per riempirlo in un pieno, bisogna sospendere il tragico e far nascere la causa sul nulla, sul vuoto. Il vuoto è la rappresentazione del cosmo. Noi ci nutriamo di luce e di buio, come di suono e di silenzio, il vuoto serve nel teatro come nella musica per parlare di un al di là, o un al di qua. Il vuoto è qualcosa di molto soggettivo, acquista senso solo in relazione a colui che lo percepisce. Il vuoto, tra le sue tante accezioni, può essere inteso anche come risultato di un lavoro di sottrazione, di scavo. Uno scavo che in musica si traduce nella ricerca di semplicità che richiede grande attenzione e fatica” A differenza di tutta la scena avantgarde, amano solcare la differenza prediligendo effetti poco speciali, ovvero gli strumenti (tromba e chitarra) nudi e crudi, come madre natura li ha inventati. Del blues c’è il pathos, e del minimalismo c’è il mare magma della ricerca sonora più estrema. E poi troverete l’harsh-noise (fatto senza pedali), la microtimbrica di fiati di Nmperign, i fraseggi nostalgici di Loren Connors, il no-input–signal di Sachiko M, l’aleatoria di Tetuzi Akiyama. Su tutto aleggia il teatro dell’assurdo, dove non sai mai quel che accadrà. Tra l'altro è appena fresco di stampa il loro terzo lavoro, licenziato dall'italiana Ripples, insieme al giapponese Former_Airline, disco di sbalzi dinamici, ossessivo, che ricorda i primi timidi tentativi di associare la freddezza sferica dell’elettronica modulare del Giapponese, con le criptiche conversazioni duettate dei Zero Centigrade. Napoli è un crocevia, il crocevia. Dentro ogni crocevia c'è la fretta del movimento, l'oscillazione del viaggio. L'Avant ai nostri giorni è un porto franco, ha più bisogno di velocità e forze centrifughe che di luoghi solidi. La ricerca in Italia trova qui un luogo baricentrico, ma anche una via di fuga da cui diramarsi come un rizoma, senza creare alberi, ma solo connessione, luce e vita? 39 Recensioni — cd&lp highlight AA. VV. - Fünf (Ostgut Ton, Ottobre 2010) Genere: House, Techno La Ostgut Ton, è la label personale del giro Berghain/ Panorama Bar, un club berlinese che sta facendo sempre di più sentire la sua presenza (e potenza) nel panorama techno e house europeo. La riprova è in queste fascinose tracce contenute in un doppio cd celebrativo compilato per i primi cinque anni di attività del locale. Protagonisti i dj resident e altri personaggi UK di tutto rispetto quali Luke Slater, Emika e il noto SCB aka Scuba (trasferitosi nella capitale da circa un anno) tutti impegnati a comporre tracce ad hoc per la compila. L'interessante espediente era che ogni brano doveva partire da - e magari costruirsi solamente attorno a field recording catturati nel locale (una vecchia centrale elettrica). Il risultato è affascinante. Un affresco post-Berlino con richiami all’industrial e al post-punk storici che ogni DJ ha declinato in uno spettro che va dai clangori Einsturzende ai grigiori Cabaret Voltaire, passando naturalmente per l’epopea dei Throbbing Gristle, Chris e Cosey. Beninteso, l’approccio ha comunque in sè il nerbo technoide Ostgut, e giusto un pizzico di house, magari caratterizzato dalla minimal+groove al ralenti che ricorda il recente esordio di Magda (From The Fallen Page), come accade nella splendida Down Moment del citato progetto techno di Scuba (senz’altro uno dei killer beat di Fünf ), oppure nel thriller da sottomarino del fresco di firma Ryan Elliott, Abatis. In più innumerevoli flavours: prezioso il contributo Marcel Fengler che al Berghain è uno dei dj di punta: Shiraz è un incubo deep su cassa morse, lontane visioni ardkore e un frastaglio ritmico decisamente tech (quasi una versione auf Berlin degli Autechre); egregio Daybreak con il groove house d’antan à la Omniverse calato attorno alla cassa 4 e claps old skool. Buoni anche coloro che si sono maggiormente attenuti ai field recording per creare le loro tracce, come Marcel Dettmann la cui Shelter è un incubo Gristle in piena regola. Sul lato house c’è, invece, Murat Tepeli con Elif Biçer, tra Roland e groove ’90 stretchati; e la Chicago al distorsore di Soundstream con Wenn Meine Mutti Wüs40 ste; mentre sulla techno più vicina alla Minus troviamo Boris con Rem, degna del miglior Plastikman (ma senza sbotto), e l’attacco di Cassy in Never Give Up A Mood Swing (che poi virerà house). La conferma dell’altissima qualità della Ostgut Ton. Una compila indispensabile anche per tutti gli amanti del cielo sopra Berlino. (7.2/10) Edoardo Bridda AA. VV./Apparat - Dj Kicks (!K7, Ottobre 2010) Genere: Elettronica, dance Torna pesissimo Sasha Ring sul nuovo corso del DJ Kicks. E sforna un mix di tutto rispetto dal flavor multidisciplinare, come già le sue collaborazioni con Ellen Allien e Moderat ci avevano testimoniato. Che il ragazzo scapigliato possa fare di tutto con tutto l’avevamo già capito da mo’: il suono da club nel suo show sull’etichetta berlinese la fa da padrone, ma viene modulato con crescendi di intensità che addolciscono la pillola anche per i non addetti. Maestoso nell’incipit (stupendo il pezzo di 69), diretto nel proseguio con le malinconie Telefon Tel Aviv, squadrato e ossessivo al punto giusto (Luke Abbot in visibilio Basic Channel), ossessivo in salsa now (Martyn e il remix di Four Tet per i Born Ruffians), tribalista con l’ausilio di Ramadanman, ambientale su Thom Yorke e clubbissimo nel suo inedito Sayulita in esclusiva per la compila. L’esito conferma la dichiarazione rilasciata alla stampa: "Ho bisogno di mixare cose differenti per mantenermi motivato". Senza stile e per questo con più stile degli altri. Passaggi morbidi e indolori per uno dei migliori personaggi che distillano dolcezza dal tunel oscuro della techno (vedi la stupenda chiusa finale con Tim Hecker) che rimanda comunque ad una matrice sottostante dreamy, da sempre caratteristica del ragazzo apparato. Il comeback della melodia: lacrime e pelle d’oca per noi. (7.2/10) Marco Braggion Afrirampo - We Are Uchu On Ko (Rock Action, Settembre 2010) Genere: japapsychnoise Se la madre terra vorrà, o il cielo, o chi per essi, suoneranno ancora insieme. Così dicono le Afrirampo, dopo aver annunciato lo scioglimento, e pubblicato il testamento, oggi a disposizione, dopo sei mesi, anche alle nostre coordinate sul geoide. A noi non rimane che ascoltare il sapore energico/nostalgico di We Are Uchu On Ko, capitolo finale del duo japanoisepunk, meteora o sottobosco costante dal 2002 a oggi. Il pensiero va ovviamente a OOIOO, ma da Occidente si rischia spesso di non godersi le sottigliezze. E We Are Uchu On Ko è un doppio album pieno di omaggi al cultore rock, di quello che ama tanto i Grateful Dead quanto i Boredoms. Strepitoso il secondo CD, cavalcata dietro cavalcata, calumè sopra calumè, freccia dietro freccia di un arco indiano che semplicemente diremmo acid psych (Sunwave Dance). Hoshi No Uta, divisa in cinque tracce, è una composizione psichedelica che articola pause e ripartenze, la tradizione dei Red Crayola e quella dei rumoristi giapponesi. E, ancora, rarefazioni acide e acidissime galoppate, che vanno a lambire i Lightning Bolt, pur mantenendo come universo di riferimento il rock americano degli anni Sessanta, il dolce calore pastorale che si apre all’alba di una notte piena di funghi. Sore Ga Afrirampo, tornando al primo CD, ha una chitarra garage esplicita, ma di fatto la stessa linea d’onda. Più catchy dell’altra metà del cielo di We Are Uchu Ok No (ma sempre meno degli altri album), le sette tracce del disco uno mantengono un respiro che cortocircuita un tutto tondo Sixties USA - MC5 compresi (Tou Zai Nan Boku) - con i caratteri del Sol Levante. Paradigmatica Umi, capolavoro a parer di chi scrive, fatto di trance, porte della percezione, ma anche africanismo fake - certo, le Nostre sono perdonate, memori dell’esperienza camerunense, a stretto contatto con tribù pigmee - e chiusura sardo-zen. Altrettanto esemplare Egolo Island, zappiana ed eccessivamente nipponica, ma garagissima nei riff e nelle strutture che si susseguono; praticamente l’equivalente di un disco della In The Red. Ecco una buona descrizione di We Are Uchu On Ko: un doppio concentrato qualiquantitativo di brani che potrebbero fare ognuno da esempio per altrettanti dischi. Speriamo nella madre terra. (7.4/10) Gaspare Caliri AA. VV./Friendly Fires - Bugged Out! presents Suck My Deck Mixed By Friendly Fires (!K7, Settembre 2010) Genere: p-funk house I principini del crossover indie/dancefloor si misurano con un mix eclettico su Bugged Out! che sorprende per lo stile sopraffino dell’innesto. Non si sfora nel baraccone truzzo, signori: qui house è sinonimo di chicness che titilla i timpani dei clubbers più esigenti, ma anche di chi non ha più l’età per sopportare gli afterhours del cornetto e cappuccio all’alba e si consola con del sano savoir faire speziato rock. Il bilanciatissimo trattato dell’arte di mixare dei tre ragazzi di St Albans - nell’Hertfordshire inglese - va di lusso su coordinate prog (la stupenda rivisitazione di Aeroplane per Linsdtrøm & Christabelle), ossessioni 41 deep (Rebotini), inni disco (la bella collaborazione giocattolosa con gli Azari & III da Toronto), il soul di The 2 Bears, esplosioni al laser Novanta (BDI), tocchi che accennano al fidget (Boo Williams) e cantabilità dei sempre validi Phenomenal Handclap Band. Come a dire che si possono ancora coniugare i sapori del ritmo con un certo sentimento live, che smuove il sangue nelle vene e fa ballare anche senza l’ausilio di droghe più o meno pesanti. Una presa di posizione in sordina che piace per il dosaggio di elementi altri rispetto al mondo da club (la stupenda visione/sogno post-balearico di Tom Trago per dirne una). Regalate un’oretta del vostro prezioso tempo ai Friendly Fires. Non sia mai che poi anche a voi scatti il repeat in automatico. Contagioso e seducente. (7.2/10) Marco Braggion AA. VV./Gui Boratto/Kreidler - Different (Boxer, Novembre 2010) Genere: Ambient, dub, techno La boxer recordings è un'etichetta di Colonia attiva dal 2002 che si occupa, anche attraverso sotto marchi quali Kickboxer e Boxer Sports, di produzioni techno e minimal. Different è una compilation inedita che, già dal titolo, preannuncia una tracklist alternativa alla dance: tra le produzioni di molti giovani artisti che la label recluta costantemente (e alcuni nomi noti) troviamo produzioni ambient, world, down tempo e una manciata di pop song. In pratica, è una compila chill out ma con rigore e taglio krauto dove alla psichedelia si preferisce il taglio tech con ritmi esotico-etnici conditi da smalti e echi dub in gran spolvero. Ne viene un caleidoscopio elegante e risaputo per gli aficionados IDM: Patrick Chardronnet mescola Orb, predicatori Eno Byrne e Miles Davies (Seeing In The Dark), Extrawelt rimette in pista i primi Autechre (Yummi), Airbus Modular rallenta la deep e condisce con ricordi pop (Assembly Notegram), Stephan Hinz ripesca alcune atmosfere dei Tarwater (Dry Toast And Half A Grapefruit), mentre Matzak, con &lz, punta dritto al cantato r’n’b sempre su basi post-IDM (e questa volta umori Thom Yorke). Tra i guest famosi: Gui Boratto (deep techno girata Kraftwerk e eighties per Half Life) e Kreidler (l’etno seventies e gli attacchi chamber di Venusia) non a caso messi a inizio scaletta. Mettiamola così: potrebbe essere vista come l’equivalente di Nuggets per l’ambient tronica tedesca dei duemila. Nel bene e nel male. Eleganza soprattutto. (6.8/10) Edoardo Bridda 42 Adam Franklin - I Could Sleep For A Thousand Years (Second Motion Records, Settembre 2010) Genere: post shoegaze Album numero tre come solista per Adam Franklin, coadiuvato stavolta - anche nella ragione sociale dalla propria live band Bolts Of Melody. Il chitarrista e cantante dei Swervedriver ed ex-Toshack Highway, insiste con la formula del non troppo convincente predecessore Spent Bullets ma coglie un punto di fusione più intenso e definito. Il languore onirico figlio dello shoegaze di ritorno e già debitore del mai troppo rimpianto Elliott Smith, si arricchisce oggi di torpori obliqui Big Star (conclamati in Carousel City, striscianti in She's Closer Than I've Ever Been) e più solenni inquietudini Tom Petty, mentre una rinnovata verve elettrica scomoda foschi scenari Jesus & Mary Chain e fregole Folk Implosion, spingendosi persino ad ammiccare l'impeto dei Sonic Youth più friendly (I'll Be Yr Mechanic). Manca un centro di gravità cui saldamente aggrapparsi, quindi non resta che cogliere al volo le canzoni che scorrono piuttosto gradevoli, cogliendo il climax con la trepida I Want You Right Now e riscattando una fin troppo brumosa Lord Help Me Jesus, I've Wasted A Soul (misticanza spacey, gospel e desertica) con lo spurgo power pop conclusivo di Take Me To My Leader. (6.8/10) Stefano Solventi Admiral Radley - I Heart California (The Ship, Ottobre 2010) Genere: low-fi pop Non che avessimo dubbi su chi, tra i "nonnetti" californiani, fosse il più dotato. A Jason Lytle lo scorso anno bastò la bellezza di Yours Truly, The Commuter per convincerci che, dopo lo scioglimento dei Grandaddy, ci fosse una vita oltre la semplice dignità. Frattanto, l’iperattivo ragazzo metteva in cantiere gli Admiral Radley con l’ex compagno di squadra Aaron Burtch e gli amici Aaron Espinoza e Ariana Murray degliEarlimart. Oggi, accantonato il rischio di recensire un lavoro intestato a Grandimart o Earlidaddy (quella l’idea originale...), l’ascolto invoglia dapprima al sorriso e poi induce a collocare il dischetto sotto la lettera "G". Poiché dove Lytle ricorda il passato prossimo - su tutto I Heart California, Lonesome Co. e il valzer cantato dalla Murray The Thread - riemerge la sognante melanconia che non abbiamo mai dimenticato negli anni. Miscela di Pavement ed E.L.O. con ombre di Guided By Voices ancora intatta, benché - com’è logico che sia - quel tot meno fresca; tuttavia, l’integrità artistica produce azzeccate variazioni di rotta come chitarre più del solito aspre in Red Curbs, una stratificata GNDN, l’articolato omaggio lennoniano Ending Of Me. Il problema è l’uscita dal seminato di un elettro-rock abborracciato (orrida I'm All Fucked On Beer; inutile Sunburn Kids) di cui avremmo fatto a meno. I fan avranno comunque di che dilettarsi: gli altri assaggino e chissà che il cuore non gli si sciolga nell’amarezza scintillante di Chingas In The West e I Left U Cuz I Luft U. (6.9/10) Giancarlo Turra Alcool Etilico - Alcool Etilico (Enzone Records, Novembre 2010) Genere: rock d'autore Ci si lamenta spesso di quanto poco passi fra la nascita di un gruppo e la pubblicazione di un demo o di una prima uscita ufficiale. Però prendete l'esempio degli Alcool Etilico da Lipari: inizio nel 1996, diversi cambi di formazione, ora l'esordio. Dieci tracce di rock d'autore, arrangiate anonimamente quando non proprio male (certe scelte di suoni...), cantate con una pronuncia da strapaese e parecchie incertezze d'intonazione, dotate di liriche come spesso accade troppo ermetiche o autoreferenziali. Lì in mezzo da qualche parte nella landa sconfinata che separa i Marlene Kuntz dai Negramaro, con l'aggravante delle zavorre appena elencate. A metà tracklist Nala prova addirittura un mezzo tango e, a parte che sembra di sentire Le Vibrazioni, è la conferma di una specie di circolo vizioso tra inutilità e bruttezza. (4.8/10) Luca Barachetti sione dell’elettronica e dei concretismi astratti di Alva e il borborigmo vocale di Blixa. Once Again riprende un processo ritmico traslato da Zeichnungen Des Patienten OT, su un refrain inedito per entrambi. Il suono è più sanguigno degli ultimi Einsturzende, e l’elettronica di Alva Noto si dimostra vivida, meno algida del previsto. Il più delle volte l’ascolto si teatralizza - e qui BB è decisivo - senza che questo sia sempre un bene. Ci si immagina la performatività della coppia, la presenza scenica di Bargeld, l’affilatissima elettronica di Carsten. Blixa si mette in gioco, tenta tutto lo spettro espressivo dei registri che la sua voce può produrre, e ce ne dà prova in I Wish I Was A Mole In The Ground (in versione estesa rispetto all’EP), peraltro infiorettata di mestiere da Noto, così come nei miagolii di Katze. Red Marut Handshake - mutuata anch’essa dall’EP che ha dato il via alle pubblicazioni congiunte del duo - se ne va con un down tempo accelerato e perturbato da elettroniche in chiaro e l’onnipresente para-declamazione del Bargeld. Bersteinzimmer (long version) colpisce con struggenti ambientazioni e atmosfere da canzone teutonico-mitteleuropea. Mimikry è un calendario di colpi da maestro, da parte di due posizioni tangenti ma non ancora sovrapposte. AN e BB sono due penne e due teste distinte, e questo rimane, così come il giudizio che avevamo dato al precedente EP, di cui questo album non è di fatto che un’estensione. Le aspettative create nei primi due minuti dell’album sono, se non ridimensionate, virate in attenzione alla statura, al mestiere, alla bravura dei comprimari. Bene così, ma a questo punto ci aspettiamo un passo in più (6.9/10) Gaspare Caliri Alva Noto/Blixa Bargeld - Mimikry (Raster Noton DE, Ottobre 2010) Genere: elettronica Il grido strozzato di Blixa Bargeld, tratto distintivo e tic linguistico del suo codice, usato come campione, materia su cui sviluppare layer elettronici e glitch. Così inizia Mimikry, attesissimo debutto sulla lunga durata della sigla ANBB: alzando la posta, con un quasi-manifesto programmatico, una dichiarazione di potenziale tra mr. Bargeld e mr. Nicolai. La iniziale Fall è in realtà una suite, così come la maggior parte dei brani. Nascono su alcuni temi e terminano su altri, lavorano di cesellature raffinate e trovano spesso un collante molto forte - e tensivo - nella percussività (Mimikry, o l’ipertensione e le extrasistole di Berghain), grande matrice ancestrale che bilancia l’algida preci- Amiina - Puzzle (Amiinamusik, Settembre 2010) Genere: Chamber folk-rock A tre anni dal precedente long playing, Kurr, le quattro Amiina non sono più quattro ma una piccola comunità. Già un eppì in tiratura limitata aveva indicato il nuovo corso: un emancipato ensemble allargato a sei elementi dal sound più corposo, organico, variegato, e, se vogliamo, anche maggiormente rock. Con Birgir Jón Birgisson al desk, le islandesi hanno riavvolto il nastro post-rock tanto caro all’Islanda e sono ripartite daccapo, ridisegnando cioè il chamber folk degli esordi in una faccenda concreta di ragazzi (i due nuovi membri Vignir e Maggi) e ragazze raccolti attorno al focolare. Puzzle ci racconta così di viaggi con la 43 mente, epopee (In The Sun), sapori giapponesi (Púsl), ovvie passeggiate con Mùm e Sigur Rós (Mambo), film in bianco e nero (Thoka) e a colori (Sicsak). Coordinate già note a chi aveva acquistato il citato EP del 2009 (Re Minore), caratterizzato però da tagli più elettronici e dark rispetto a Ásinn, Púsl e Sicsak. In Puzzle domina l'approccio suonato, la casa è più grande e le ragazze intime e sincere come ce le ricordavamo. Le voglie Mogwai di un brano come Sicsak aprono poi altre prospettive. E chissà quale sarà la prossima mossa... (7/10) Edoardo Bridda Apples (The) - Kings (Freestyle Records, Ottobre 2010) Genere: crossovered funk Piacciono sia la musica che l’attitudine, negli Apples. Nel senso che ti affezioni subito al loro funk fumigante e appropriatamente groovy eseguito insieme al leggendario Fred Wesley (su tutto James Brown e l’asse Parliament/Funkadelic: meglio specificare, che non si può mai sapere ); addirittura applaudi allorché - nel poker di brani che ospitano Shlomo Bar, eminente figura della musica popolare d’Israele - ci si affaccia su scenari mediorientali. Stanno in un desiderio di con-fusione totale e in una voglia di costruttiva ambivalenza, segreto e magia del risultato, ottenuti da questo nutrito ensemble di nove elementi varcando la porta dello studio di registrazione con due mostri sacri e interagire con loro senza timori reverenziali. Catturando in tal modo una visione sonora e culturale genuinamente a 360°, che - in una scaletta salomonicamente spartita - racchiude i due poli del loro mondo sonoro solo per mostrare quanto sia possibile mescolarli e cavarne freschezza. Accade con costanza in trentotto minuti di esuberante funk urbano rigoglioso di fiati e scratching (Howlin’ With Fred, In The Air), di favoloso dub un momento sinuoso e quello successivo dolente (Walking To The Palace), di oscillazioni tra oriente e occidente che respirano l’attualità (una title-track riassuntiva e divertita; il suono "totale" di Batash e Banana Jam). Meticciato consapevole, energico e stiloso, alla faccia di chi ancora vuole erigere muri e steccati in un pianeta sempre più globale. (7.2/10) esclusivamente ai concerti americani dell'ultimo tour degli Ariel Pink's Haunted Graffiti, eccentrico souvenir dalla grafica rivelatrice. Sono cinque pezzettini in collaborazione con gli Added Pizzaz, fantomatico combo avant-jazz di Dallas (ma sul disco troviamo in realtà la stessa formazione b/vintage che suona su Before Today, guidata dai fiati dei fratelli Gonzalez). Lounge disturbata, drogata e onirica, un po' Madlib in vena psych un po' Mothers of Invention di America Drinks and Goes Home, il tutto, ovviamente, abbastanza cazzeggio pseudo-avant, compreso il cut lungo della già nota Hot Body Rub. Spicca soltanto il bel gioco di estremo zapping pop-deformato - zappiano rundgreniano fowleyano residentsiano - di 4 I M NN7. Cool fuffa. (6/10) Gabriele Marino Arturo Fiesta Circo - E lo chiamerai Giovanni (Via Audio, Ottobre 2010) Genere: cantautorato-folk "I sarti che vestono le mie storie sono musicisti attivi in diversi contesti musicali. Questo è un sistema che mi piace perché è una finestra aperta sul mondo e mi obbliga a stare sveglio. Il Circo non è una band. Assomiglia di più ad un "cantiere" o a una "palestra" per i giovani musicisti che lo compongono." A parlare è Sergio Arturo Calonego, titolare della ragione sociale e deus ex machina del progetto. Tanto per chiarire che tutto quello che ruota attorno a questo secondo disco della formazione è materiale vario ed eventuale nel genere, nella forma e nelle atmosfere. Un folk-jazz-chanson-cantautoratorock nomade e difficilmente etichettabile, un po' figlio dei tempi in cui viviamo e un po' consapevole esercizio di stile per una band di strumentisti virtuosi. Ce n'è per tutti i gusti, dal valzer spazzolato de La Ballerina alle chitarre elettriche de L'idiota, dal Tenco de L'acrobata al jazz confidenziale de Il domatore, dal ragtime-folk di Le Royal al blues virato Sud America de La regina del circo. Brani suonati da dei Raymond Queneau in note che vanno a comporre un'opera esemplare, inaspettatamente coerente e malinconica al punto giusto. (6.9/10) Fabrizio Zampighi Giancarlo Turra Ariel Pink - With Added Pizzazz (Free Dope And Fucking In The Streets, Luglio 2010) Genere: psych lounge Questo ep in edizione limitata si poteva acquistare 44 Avey Tare - Down There (Paw tracks, Ottobre 2010) Genere: avantpop Mentre Panda Bear in solitaria si è preso soddisfazioni anche pari a quelle del gruppo madre, David Port- highlight Bachi Da Pietra - Quarzo (Wallace Records, Ottobre 2010) Genere: minimal-rock Il ritorno dei Bachi Da Pietra dopo l’ottimo live Insect Tracks ha di nuovo un titolo materico, in cui l’allusione alla pietra, al tempo, ad una forma primigenia di elettronica, prelude allo spostamento dei paletti del sentire lirico-musicale della coppia Dorella-Succi. A far da humus, al solito, un minimalismo sofferto e angoscioso, vibrante e reiterato, fatto di corde percosse e percussioni risicate all’osso che stazionano sempre sul crinale di una personale forma di blues desertificato e un sentire rock irregolare e unico. Gli intarsi di chitarra di Dragamine o l’incedere claudicante e trance-inducing di Niente Come La Pelle ne sono perfetta esecuzione. Accanto o sottotraccia, però, c’è ben vivo il gusto per la sperimentazione, per il superamento dei confini di una musica troppo riconoscibilmente "classica". Ecco allora la rarefazione elettroniconcreta di Zuppa Di Pietre, il rumorismo di matrice technoide di Pietra Per Pane, i carsici disturbi elettrostatici di Non È Vero Quel Che Dicono o il frammento hayesiano reso famoso da Tricky e Portishead che traina l’intera Orologeria: tutto sempre rigorosamente suonato col solo ausilio degli strumenti d’ordinanza. Dimostrazione del saper magistralmente giocare con dinamiche "altre" e prestiti (rielaborati, rivisitati, ripensati) da generi "distanti". Un procedere quasi di svelamento di fonti, di apertura al mondo che tocca anche le liriche succiane, altro punto fermo dei Bachi. Mai come ora intelligibili, dotate di un taglio tra l’ironico e il sarcastico, beffarde nella esplicita Bignami (noi vi amiamo vi adoriamo vi benediciamo / noi cantiamo (zitti cantiamo) / il vasto mondo aperto / nel nostro trovar chiuso / al vostro orecchio duro ottuso illuso / che non sente giustamente (e me ne scuso) / il nostro tessere) o nell’amarezza senza respiro di Fine Pena, sembrano smorzare i toni dello sguardo lucido e tragico sull’esistente dei Bachi. Una indagine nel sottosuolo letterario che riabilita il senso del termine songwriting, scegliendo vie metriche e melodiche personali e mai banali. Un ottimo ritorno, dimostrazione di personalità e capacità oltre che di volontà di superare se stessi giocando sul terreno di casa. (7.5/10) Stefano Pifferi ner, che ne è paradossalmente la penna più prolifica, come solista doveva ancora fare la sua comparsa. Prima di quest'esordio, è vero, c'era stato Pullhair Rubeye, ma era un album registrato in estemporanea con la moglie Kria Brekkan (ex Mùm) e non un canzoniere privato da opporre al compagno di cordata. Prima regola è trovare un percorso, un tratto distintivo. E così, se Panda si è più volte dimostrato a proprio agio nel confrontarsi con la psichedelia, Avey ha scelto il decennio del post-punk e - soprattutto - del synth pop per trovare una valvola di sfogo. Il risultato è forse meno disinvolto e quando la ricerca individuale s’interrompe, il tutto confluisce amabilmente nei codici e nelle modalità della band madre di cui Porter è il co-motore creativo. Proprio sulle mode si gioca l’ambiguità di Down There. Da una parte, regna l’immaginario doppio zero, che gli Animal Collective hanno contribuito in maniera determinante a creare, e che qui si riconfigura con assonanze Indian Jewelry (per oscurità di esercizio), Ruby Suns (Heads Hammock) e persino Xiu Xiu (Lucky 1 è a metà tra gli Animal e il progetto di Jamie Stewart); dall’altra questo si va a sposare con quegli Ottanta che fanno un occhiolino ipnagogico (Oliver Twist) certamente furbesco, anche se qualitativamente una spanna sopra la media delle produzioni in questo senso (Heather In The Hospital). Dimenticandoci della sbornia glo, è lecito guardare a dischi come Down There come una nuova possibilità di cantautorato post-’00 (e post-revival ’80), con tutti i crismi e strati compositivi a cui ci dobbiamo abituare al voltar del decennio. (7/10) Gaspare Caliri 45 Bad Religion - The Dissent Of A Man (Epitaph, Settembre 2010) Genere: punk legends Dei Bad Religion impressiona non tanto il fatto che siano in piedi da trent’anni. E’ la forma in cui sono giunti al fatidico appuntamento a guadagnarsi la nostra ammirazione; l’evidenza che, al quindicesimo lp in studio, Greg Graffin e Brett Gurewitz impugnino ancora saldamente il timone e che rimangano essenzialmente immutati i motivi che li hanno resi esemplari. Fuor di retorica: la loro è una ricetta semplice ma che come tale vanta infiniti tentativi di imitazione e ognuno inferiore. Che, se combinata con mano sapiente, può offrire canzoni di rango tipo la cavalcata The Day The Earth Stalled e l’amara innodia di Only Rain che aprono questo disco. Degne di Maestri che le loro rivoluzioni sonore già le hanno inscenate epperò non mollano, consci di come sarebbe impossibile proporne nel canone hardcore punk da loro stessi forgiato a meno di assurde o ridicole modernizzazioni. Si tratta di tradizione, per cui se assaggi la torta della nonna da un forno industriale il gusto non è uguale e idem se il cuoco non ci mette cuore e testa. Così che, anche nel lavoro meno azzeccato da che a inizio decennio i californiani risorsero con The Process Of Belief, i brani eccessivamente formulaici vengono spazzati via dal pugno di nuovi classici che fondono aggressività, melodia e testi intelligenti: una scintillante Cyanide e una fenomenale The Resist Stance, l’epidermica Won’t Somebody e le eleganti però possenti Avalon e Meeting Of The Minds. Punk di mezza età senza patetismi: si può. (6.9/10) Giancarlo Turra Barn Owl - Ancestral Star (Thrill Jockey, Ottobre 2010) Genere: doom Austerità, ampiezza, doom, passo mantrico, chitarre, rarefazione del blues, droni. Le parole chiave di Ancestral Star sono le stesse di The Conjurer. La concentrazione e l’ossessione della ricerca dei Barn Owl non può che rimanere autentica. Perché, al di là delle parole chiave, il nocciolo della musica di Caminiti e Porras è proprio l’autenticità, la purezza della formula, della materia musicale e del messaggio che ne consegue. Ogni brano (la title-track, che monta dronicamente, ridiscende, lascia spazio a un lamento al ralenti di chitarra, in secondo piano, si rarefa) è un esemplare raro, eppure estremamente familiare. È un tutt’uno che vive del proprio respiro, a cui non si può aggiungere nulla né 46 togliere alcunché. E ciò valga per tutta la psichedelia siderale che il duo è capace di esprimere (un deserto di stelle in Vision In Dust, con accompagnamento vocale alla Ummagumma Live), per tutte le ascensioni e gli atterraggi nel deserto. Ripetizione è un altro nome per quella purezza che quando si svolge in strutture ha bisogno di riprodurle in continuazione. Night’s Shroud sembra essere l’unico tema possibile per il loro universo desolato, un tema reiterato senza fretta, anzi con la calma di chi ha la consapevolezza che la fine dei tempi è una realtà, e chiuso in un paio di minuti. L’eccezione - neanche troppo distante dalla regola, però - è il pianoforte di Twilight, crepuscolare ma anche vitale, nella sua progressione infinitesima e impercettibile. Il culmine è probabilmente la finale Light From The Mesa, ma solo perché deve procrastinare l’atmosfera apocalittica fino alla prossima prova dei Barn Owl. Ci sembra, nell’attesa, di essere tenuti a rimanere immobili, ma nel frattempo sposteremo i nostri giudizi e le nostre facoltà. Come questa musica, che sembra immobile e identica a se stessa, eppur si muove, procede, vedendo l’orizzonte - e l’agognata fine - che a ogni passo di sposta sempre più in là. (7.3/10) Gaspare Caliri Benoit Pioulard - Lasted (Kranky, Ottobre 2010) Genere: Folk, drone A quattro anni dall'esordio Précis e due dal sophomore Temper, il femmineo Thomas Meluch non ha cambiato metodo e intenzioni. Lasted è stato inciso e missato in completo isolamento domestico, intinto nel folk/pop di Drake-iana memoria e inframezzato di droni e brevi strumentali avant-folk. L'ispirazione è sempre lì, tiepida e delicata, pastorale e astratta. Il terzo album di Meluch è un canzoniere della memoria pronto a indirizzarsi verso un songwriting immerso nei field recording, che in alcuni casi pare maturato (le inflessioni folk-rock e i tocchi eighties di Lasted) e in altri ripetuto all'infinito (Tie, A Coin On The Tongue). Camminare, ogni due anni, in questo piovoso giardino è un po' come tornare a casa in autunno. Ci ritrovi un ragazzo chiuso in sé stesso ripetere la stessa, suggestiva, incantevole canzone. E' un tutt'uno con il fascino della decadenza. (6.7/10) Edoardo Bridda highlight Beatrice Antolini - Bioy (Urtovox, Novembre 2010) Genere: funk-psichedelia L'arte di Beatrice Antolini risiede nel saper decontestualizzare e riconvertire particolari musicali diversissimi tra loro. Un dipingere immaginari weird con accostamenti che vanno oltre la coerenza ortodossa di un genere, sfociando in una musica centrifuga che è prima di tutto attenzione per la ricchezza del suono. Un Sud America piroettato sui tasti del pianoforte, certa psichedelia vaporosa, una classica da fondale dipinto, qualche drappeggio pop: di questo è fatta la sostanza del verbo antoliniano. Di volta in volta rielaborata, ricombinata, contaminata, alla luce di una maturità stilistica che parrebbe dietro l'angolo ma che in realtà sposta coscientemente il proprio punto di arrivo sempre un po' più in alto. Bioy recupera le tematiche che avevano reso il precedente A Due un deciso passo in avanti rispetto all'irruento Big Saloon (complesse aperture strumentali, cambi di registro inaspettati, progettualità unitaria) arrivando a una sintesi ormai lontana anni luce dagli esordi. Con un funk-wave coeso e pseudo-futuristico - "I riferimenti agli anni '70 sono più che altro cromatici e credo che un certo funk di quel periodo sia stato molto importante per me. Ma la mia musica è la mia musica e assomiglia a me, nel bene e nel male" - che è soprattutto arte dell'incastro in una spessa coltre ritmica focalizzata sul groove, sulla stratificazione. Come dimostrano gli Ottanta di una Madonna distesa sul tappeto di fiati di We're Gonna Live o il tribale sottomesso e spacey di Eastern Sun, i droni di synth di Night SHD o una Bioy in bilico tra percussioni in stile Joy Division e certe tastiere in levare filo-reggae. E' l'organizzazione a far la differenza. Il saper trovare il giusto equilibrio per ogni dettaglio nell'ottica di un progetto che per la prima volta nella storia discografica di Beatrice sembra possedere radici profonde (gli Eightes). Grazie a un'inedita quadratura e a un rigore da session man capaci di conciliare la strumentazione di cui è diretta responsabile la padrona di casa (batteria, percussioni, sax, moog, piano, basso, chitarra, clavinet) con i contributi alla tromba/violoncello/sax (anch'essi trattati, decontestualizzati, alieni) degli ospiti Mattia Boschi / Enrico Pasini / Andy (Bluvertigo). Per un disco che ha tutto l'aspetto di un punto di arrivo. O per meglio dire, di uno dei tanti possibili. (7.5/10) Fabrizio Zampighi Blank Dogs - Land And Fixed (Captured Tracks, Ottobre 2010) Genere: synth-pop Perde molto dell’abrasività lo-fi che ne caratterizzava gli esodi, mr. Mike Sniper, qui alle prese col terzo fulllength sotto la sigla Blank Dogs. Nella naturale evoluzione delle cose, penseranno i bendisposti, mentre i critici vedranno nella pulizia del suono la prima avvisaglia dell’abbandono di un underground che ormai non ha più quasi senso di esistere come categoria. Limitandosi alla musica, questi 12 pezzi nuovi di pacca restano legati all’ormai classico suono Blank Dogs: musica post-punk spettrale e al limite del catatonico in grado di frullare e riproporre i primi vagiti wavish dei Cure (Insides, Longlights), l’angoscia claustrofobica dei Joy Division (Out The Door), la straniante accessibilità pop targata C86, il synth-pop più trasversale di matrice New Order (Collides, Elevens) e quant’altro d’ordinanza. Però sulla falsariga dell’ultima manifestazione del progetto, l’ep Phrases della primavera scorsa, l’accento sembra posto su soluzioni non solo segnate da un appeal più marcatamente e melodicamente pop (Blurred Tonight, Northern Islands, Another Language), ma anche da un sound più pulito e cristallino. Un procedimento simile a quello messo in atto da Zola Jesus e da altri frequentatori del sottobosco lo-fi: mano a mano intenti, cioè, a sgrossare quel manto di grezzo lo-fi che ne aveva segnato le proposte agli esordi e che a questo punto si può definitivamente considerare più una necessità legata agli scarsi mezzi che una intenzione 47 stilistica ben definita. Insomma, svanito già da un pezzo l’effetto sorpresa, rimosso praticamente del tutto il pulviscolo a bassa fedeltà, non restano che le canzoni. Troppo omogenee e monocordi per attestarsi sui livelli dei precedenti passi di Blank Dogs, seppur sempre di ottima fattura. (6.8/10) Stefano Pifferi Boduf Songs - This Alone Above All Else In Spite Of Everything (Kranky, Settembre 2010) Genere: songwriting, folk Mathew Sweet, l’enigmatico cantautore che si cela sotto lo pseudonimo di Boduf Songs, torna con un quarto album. Humming sofferto, testi cupi, atmosfere minimali: gli ingredienti di base non cambiano, ma l’inglese evita la ricetta della ripetitività aggiungendo qualcosa in più, ossia degli arrangiamenti più complessi e articolati, che fanno di This Alone Above All Else In Spite Of Everything un vero passo avanti nella crescita artistica di Sweet. Una parte delle novità è immediatamente percepibile nell’introduzione, Bought myself a cat o nine tails, sofferta composizione per voce e pianoforte: se prima Boduf Songs affidava l’espressione della sua intimità a una scarna chitarra e a qualche casalingo intervento elettronico, adesso, ferma restando la base di poche note e colpi di martelletto sulle corde del piano, il range è decisamente più ampio; e così Decapitation Blues: da un loop di vibrafono si sviluppa un'avvolgente ambient song tanto rock quanto folk, tanto goth quanto post. In I Have Decided To Pass Through Things i sussurri si evolvono in una splendida melodia cantata a piena voce, confermando ai maligni che Sweet sa cantare in altri registri e che l’humming è una scelta. Altri arrangiamenti degni di nota sono la batteria, basso e tastiere à la 4AD di They Get On Slowly e la splendida The Giant Umbilical Cord That Connects The Brain che ci porta indietro ai sussurri e ai pizzichi di chitarra degli Slint (versante David Pajo). E' il migliore album Boduf Songs fin'ora. Il primo a tirare le fila di una personale vena "heavy metal acustica". (7/10) Gemma Ghelardi Boris/Ian Astbury - BXI (Southern Lord, Ottobre 2010) Genere: hard-rock In un mercato affollato come quello attuale ci sono dischi di cui si sarebbe fatto volentieri a meno. Già di 48 per sé, i nippos non sono proprio parchi di uscite ma spesso e volentieri abusano di collaborazioni e release. Questo mini-album con alla voce l’ex leader dei Cult appartiene alla seconda categoria, ovvero a quei dischi di cui proprio non si sentiva la mancanza. Soprattutto perché la voce di quest’ultimo catalizza il tutto, prendendo il sopravvento e riducendo i sodali heavydroners giapponesi ad abbassare la guardia accontentandosi di un rock hard dai sapori old-fashioned, iperimpostato (Teeth And Claws) e a volte anche pacchiano (We Are Witches). Una cover di Rain cantata dalla voce eterea di Wata - apprezzabile più sull’onda della nostalgia che altro - non può da sola risollevare le sorti di questo mini, sorprendentemente targato Southern Lord. (5/10) Stefano Pifferi Brainkiller - The Infiltration (RareNoise, Ottobre 2010) Genere: jazz-fusion Impro su basi sudamericane (Spider), marcette in bilico tra Mingus e Coltrane (U Can't Stop Z Train), fusion in chiave funk all'ombra di Cannonball Adderley (Casketch), pianoforti crepuscolari orfani di un Chet Baker qualunque (Ice Fishing), free analgesico (Michaelsketch), balbettii in stile Monk (Unfiltered). Sembra il menù di un disco di Improvvisatore Involontario e invece stiamo parlando di una produzione Rare Noise. Ad agitare le acque di una tracklist veloce e easy - anche per chi non mastica abitualmente certe cadenze -, Brian Allen, Jacob Koller e Hernan Hecht, rispettivamente al trombone, alle tastiere e alla batteria. Colti in un non-luogo musicale misurato e pulitissimo, capace di sperimentare nuovi colori e forme - come dimostrano anche le svisate orientaleggianti di Eepy - senza stravolgere i canoni di un jazz riflessivo, riconoscibile e tutto sommato familiare. (7/10) Fabrizio Zampighi Brian Eno - Small Craft On A Milk Sea (Warp Records, Novembre 2010) Genere: ambient, idm Il debutto su Warp di Brian Eno, tardiva chiusura di un cerchio, è una bolla di sapone, elegante, fragile, vuota. Fuori, cofanetto, vinili e stampe in edizione limitata; dentro, retroguardia elettronica da salotto, apparentemente varia nelle declinazioni, in realtà monocroma come la satinatissima immagine di copertina. Titoli evocativi-descrittivi per una parata di esercizi di stile irrisolti registrati tra 2009 e 2010 nei ritagli di tempo da altri progetti (sono incluse alcune selezioni scartate dalla colonna sonora di Amabili Resti), in collaborazione con i giovani discepoli Jon Hopkins ("programming") e Leo Abrahams (chitarre trattate). Se il tocco del primo è a tratti anche troppo caratterizzante e invadente (Flint March), gli interventi del secondo sono omeopatici e tutto sommato trascurabili. Small Craft Over A Milk Sea è una lussuosa vetrina di spunti incolori - non audaci, non classici, non così manieristici da giustificarsi come ricerche o giochi da scienziati del suono (Autechre) - che pescano nel solito bacino eniano ma senza guizzi, tra romantica ambient pianistica, intermezzi cinematici ora sinistri ora severamente contemplativi, morbida elettronica condita di concreta e tentativi di aggiornamento electro (e addirittura big beat, Dust Shuffle). Salviamo il grip del motorik 2 Forms Of Anger e il giocoso disimpegno per tastiere-basso, molto naïveté Ottanta, di Bone Jump. Per il resto, vuoto. (5/10) Gabriele Marino Brian Wilson - Reimagines Gershwin (EM Records, Settembre 2010) Genere: pop Custodi di sogni, codici d'immaginario riassunti in un nome. In due nomi: George Gershwin e Brian Wilson. Lontanissimi e uguali. Assimilabili, in qualche modo, quali ridanciani sacerdoti di meraviglie in forma di canzone e oltre. Ecco, qui si entra nel mondo del sacro. Per questo forse la notizia che Wilson avrebbe dedicato un disco al canzoniere di Gershwin - inventandosi peraltro due pezzi inediti a partire da altrettanti canovacci incompiuti - mi lasciò una piuttosto indefinibile sensazione di blasfemia. Come un sincretismo possibile - non ne esistono di impossibili, credo - ma inopportuno. Un facile sillogismo chiamato a gettare luce su due misteri tanto scoperti quanto insondabili. A disco uscito, m'accorgo che l'esito è forse l'unico possibile (e auspicabile): entrambi i misteri rimangono al loro posto. Le dimensioni non s'incontrano mai davvero. Gershwin sembra un tema accidentale (avrebbe potuto essere Bacharach o i Beatles, e non è detto che non accadrà), l'acchito che incita Wilson a dar fondo a trucchi e vezzi del mestiere. L'ex-Beach Boys ci mette la tipica calligrafia posterizzata, è crooner impalpabile e giocoso, rinuncia volentieri all'effettistica 3D per il fascino vintage d'un cartoon tutto colori e dinamismo, infarcito di boogie e bossa, doo wop e - naturalmente - fregole surf. Sospeso tra un palco di Broadway, la spiaggia di Santa Monica e una sequenza del disneya- no I tre caballeros, si rivela per così dire un buon additivo per brani già resisi abbondantemente immortali negli ultimi ottanta anni o giù di lì. Ma non ne coglie il cuore. Più che reimmaginarli, li contabilizza. Col mestiere patinato, un po' bolso ma inesorabile d'una star a Las Vegas. E poi non tutto va per il verso giusto: c'è nel suo approccio una leggerezza quasi soprannaturale che se esalta il setoso languore di I Love You Porgy o la verve di They Can’t Take That Away From Me, si rivela incompatibile con l'inquietudine infinita di Summertime e rende banalotta l'euforia di I Got Rhythm. Quanto ai due inediti - The Like In I love You e Nothing But Love - si lasciano gradevolmente ascoltare e dimenticare. Come tutto il disco. (5.5/10) Stefano Solventi Carrick - Nasty Affair (Enzone Records, Ottobre 2010) Genere: indie-garage Un tre più uno - almeno così pare di capire dai crediti del disco - dedito a un indie-rock testosteronico (nonostante la batterista donna) in bilico tra garage e punk. Il cantato è rubacchiato al duo Libertines / Clash, sdrucito e sboccato come prevede la scuola inglese, con la strumentazione ridotta a un incrocio di chitarra elettrica, batteria e basso che non va per il sottile. Anche se la formazione milanese è tutt'altro che una congrega di sprovveduti con la mano pesante, almeno a giudicare da una tracklist che sa come trattare la melodia (Back One Step, la title track) e da richiami strumentali sparsi un po' ovunque - qualche assolo ricorda addirittura certi Oasis d'antàn - utili a garantire al suono un' apertura insolita per prodotti sul genere. Pur nell'ottica di un disco d'esordio con qualche difetto, nello specifico troppe idee a cui dar forma e poca esperienza per focalizzarle nella giusta maniera. (6.2/10) Fabrizio Zampighi Cindytalk - Up Here In The Clouds (Mego, Settembre 2010) Genere: industrial Gordon Sharp sembra vivere una seconda giovinezza, ammesso che abbia mai vissuto la prima. Una nuova incarnazione sonora segna infatti il ritorno del progetto dello scozzese dopo un’assenza ultradecennale che sapeva tanto di ritiro dalle scene: prima con The Crackle Of My Soul dello scorso anno e ora con Up Here In The Clouds (prossimi alla ristampa in box vinilico con ag49 giunta di un 7"). Più dilatato e visionario, il suono del nuovo corso di Cindytalk sfrutta tutto l’armamentario post-industrial per disegnare trame di largo respiro tra elettronica sporca, grumi di sinfonie microrumoriste e ambient textures mefitiche. Ne esce un disco sulla scia di The Crackle , pervaso da una densa caligine, brumosa e ottundente, rotta da qualche sparuta vocals loopata di matrice haunted, da sibili disturbanti che si sciolgono in folate al limite dell’harsh o da deturpati field recordings. Da quella coltre spessa e a tratti apparentemente invalicabile, emerge però un taglio visionario ed evocativo, astratto e destrutturato. The Eighth Sea (liquido fluire magmatico in modalità field-recordings), Guts Of London (sbuffi da rumorismo cubista), Hollow Stare (microrumorismo e white noise senza soluzione di continuità), We Are Without Words (droning evanescente e chiesastico) sono solo alcune delle frecce nell’arco di Sharp, ormai maturo sound-artist in grado di manipolare uno spettro sonoro ampio e screziato. Up Here In The Clouds è un album sfiancante, monolitico, densissimo di suggestioni, variazioni e rimandi e che non si smette di ascoltare. (7/10) Stefano Pifferi Commix - Re:Call To Mind (Metalheadz, Ottobre 2010) Genere: House, ambient La premessa è quasi d’obbligo. Parliamo di un remix album di uno degli album d’n’b più esaltati degli ultimi anni assieme all’esordio di Utah Jazz ed è inutile ribadire ancora una volta la quantità di riflettori e inserti nei mix che il genere più dimenticato dalla critica ha avuto negli ultimi tre anni. Il 2010 doveva essere l’anno del ritorno vero e proprio ed eccoci qui attorno ai Commix pronti a scattare la foto della nuova scena cassarullante in una decina di remix tra cui troviamo nuovi rampolli e superstar diversissime per estrazione quali Burial e gli Underground Resistance. Ebbene? RE:Call To Mind non è un album che rimescola le carte: prende un nuovo mazzo e ce lo mette accanto. Il già piuttosto contaminato lavoro originale è ora una bestia completamente nuova che si muove attraverso ritmi e scenari anche molto distanti. Troviamo il duo Instra:mental rimette le mani su Japanise Electronics ripensando alla chill out ibizenca, aggiungendo effetti glitch e tocchi jap à la Sakamoto; Panagea piroettare dub e interventi tech decisamente quadrati trasformando l’estate’92 di Steve Spacek in un tunnel di speed e keta da pieni anni zero (How You Gonna Feel); A Made 50 Up Sound (ovvero Dave Huismans, noto ai più come 2562) purgare la blackness di Change (con Nextmen) cavandone asettici ritmi tech-house, folate dubstep e visioni a raggi infrarossi. In pratica, in tanta avventurosità e ricerca, e un'unica traccia a conservare i fondamenti d’n’b (il remix di Belleview da parte di DBridge) è quasi un peccato che le due citate star rivestano semplicemente di se stessi le rispettive tracce (Be True di Burial ne esce haunted 2 step, Satellite Song si trasforma in una traccia techno detroit); molto più interessante il trittico house della raccolta a base di stilemi deep (grandioso Kassem Mosse in Stricktly), classic (Two Armadillos in Spectacle) e glitch house (Sigha She in Emilys Smile), nonché l'intervento techno di Marcel Dettmann (Satellite Type 2). Pensando alla chiusura del mondo d'n'b fino al 2007, Re:CAll To Mind è un remix album doppiamente importante: si arrende alla contaminazione a 360° come unica base per una rinascita ed è basato su uno streaming coeso, ovvero con una logica da album. Morale: il d’n’b, nel 2010, anche grazie al successo dell'ultimo Prodigy e a commecialoni quali i Pendulum, sarà anche tornato. Eppure, over-come-under-ground, è soltanto facendosi ibridare di nuovo che possiamo auspicarne una rinascita vera. (7.2/10) Edoardo Bridda Curv - Between Here And Nowhere (Vinyl Vibes, Settembre 2010) Genere: Space disco Rainer Düring è un veterano del suono electro berlinese. Partito alla fine degli anni Novanta come metà di Thrust & !Pez, ha pubblicato numerosi singoli su etichette culto del calibro di Vienna Scientists, Stereo Deluxe e Ministry of Sound. Come Curv è attivo dal 2001 e questo disco è il primo full length col nuovo moniker. Infatuato del suono spacey di Daniele Baldelli e di Prins Thomas, il ragazzo ci fa volare su pianeti e cosmi seducenti, facendoci passare per spiagge tribali, ricordi in odore del baffo di Moroder e tanta tanta progressività, che il più delle volte non si accosta tanto al verbo house, bensì lascia nell’aria un sapore chill, che ricorda vagamente le proposte dei primi Orb. Ascoltabilissimo da chiunque viaggi sulle onde cosmiche di Lindstrøm e compagnia cantante. Da viaggio. (7/10) Marco Braggion highlight Bjørn Torske - Kokning (Smalltown, Novembre 2010) Genere: downtempo, kraut Bjørn Torske non è solo uno degli artefici della scena di Bergen, ma probabilmente l’animatore principale che ne ha fatto il place to be lungo tutti gli anni Zero. Da sonnacchioso dormitorio universitario a Nord della Norvegia, la cittadina è diventata, grazie a gente come lui, Erol, Annie, Mikal Telle e i Röyksopp, il posto dove fare girare elettronica e folk (vedi alla voce Kings Of Convenience), dove ballare e sballare, divertirsi e ogni tanto aprire qualche libro. Torske, da vero capobanda, s’è pure inventato uno stile di house, la skrangle-house, per alzare la temperatura dei club. I singoli di allora erano Disco Members (2000, Tellé) e Aerosoles (2000, SVEK), mentre oggi sentiamo quel sound in brani come Furu o Bergensere, cassa in quattro, dub/ deep, remember disco, percussioni magrebine. C'è pure qualche segnale dallo spazio che rimanda diritto a Baldelli e alla space disco, materia di cui quest’uomo, classe '71, è maestro, ancor prima di Lindstrøm e Prins Thomas (che sono chiaramente figli suoi). Kokning è un disco che sembra chiudere un cerchio e aprirne un altro. Kokning è il gesto che i norvegesi fanno quando mettono le patate a cuocere e vanno a pescare, per poi ritornare e cucinare il pasto. Vuol dire farlo alla loro maniera, in modo leggero. Torske ha un modo unico d’inserire i kraut tedeschi o l’ambient di Brian Eno-iana memoria nella disco music o in qualche landscape che non bisogna temere di chiamare folk (Kokning, Slitte Sko). L’album è stato concepito tra Feil Knapp (2007) e l’inizio del 2010 e, rispetto alla prova precedente, suona decisamente più acustico e concreto. Troske sa esattamente a che punto dello stream inserire certi dettagli del reale e del quotidiano, che siano sopra gli smalti dei synth, i jingle jangle della chitarra o i theremin (Kokning, Bryggesjau). Non solo, la bravura si riconferma anche nei groove dove, partendo da un battito e un clapping disco, il Nostro imbastisce un brano space-deep-cosmico della madonna come Bergensere. Oppure ancora, quando narra senza parole una di quelle storie ambientate a Düsseldorf (i Kraftwerk all’ananas di Slitte Sko) che i compagni Röyksopp non raccontano più (notare ancora l’innesto concreto che fa la qualità della produzione). Troske chiude il decennio (e l’epopea Bergen) iniziandone una propria, a Tromsø, in mezzo al niente, nel luogo da dove è partito. Registrando in un semiterrato di cemento, senza finestre, sfruttando il riverbero creato dal lungo corridoio adiacente. La sua musica non è ambient né folk, space disco, dub, psych o balearica. E’ tutta roba sua. Disco down-tempo dell’anno. (7.4/10) Edoardo Bridda Cut In The Hill Gang - Mean Black Cat (Stag-O-Lee, Ottobre 2010) Genere: punk roots Johnny Walker, già nei modesti Soledad Brothers, giunge al secondo lp con gli amichetti Lance Kaufman e Reuben Glaser convocando John Wesley, organista e cantante dei Black Diamond Heavies. Aggiunta che trova motivo nella natura del lavoro, interamente dedicato a brani altrui e preceduto la scorsa primavera da un 7" che omaggiava i bluesmen preferiti dalla cricca. Da lì è stato un gioco confezionare un 33 pescando oculatamente dentro a un pozzo infinito. Diversamente dall’operazione condotta dai Morlocks, però, le do- dici battute lasciando spazio a una più ampia indagine punk-roots e pure la trascendono, consentendo a una livida Serves Me The Right To Suffer (John Lee Hooker) di affiancarsi all’energica resa del "traditional" Help Me; al disinvolto medley tra Kills/Spacemen 3 di fare bel paio col gemello che unifica Hound Dog Taylor ed MC5. Ne desumi un’apertura mentale superiore alla media, una concezione delle "radici" che adatta l’esempio prezioso offerto tre decenni fa da quei Gun Club dei quali è presente la struggente Promise Me. Assai più vigoroso il resto della scaletta (Please Give Somethin' di Bill Allen suona come i Jesus & Mary Chain che incidono 51 Automatic ai Sun Studios; la ripresa di Gary US Bonds I Wanna Holder tambureggia crudo errebì; The Right To Love You di Mighty Hannibal è soul con nerbo) quando non semplicemente deragliante, come può solo chi conosce a menadito la materia per esserci cresciuto dentro. Abilità che non è sfuggita a Jack White, pronto a pubblicare la prossima fatica dei ragazzi su Third Man. Nell’attesa tiratevi questo calcio in fronte più volte, visto come rinvigorisce senza lasciare ematomi. (7.2/10) Giancarlo Turra Danuel Tate - Mexican Hotbox (Wagon Repair, Novembre 2010) Genere: electro, nu-jazz Il tastierista dei Cobblestone Jazz parte in solitaria e si cimenta con l’esordio sulla lunga distanza su Wagon Repair. L’etichetta canadese - che ha già pubblicato singoli del trio da cui Danuel proviene - ha nel suo roaster gente eterogenea nel panorama elettronico mondiale, nomi che vanno dalla pesanteza del quattro sghembo di Seth Troxler, al minimalismo di Dinky, al dub di Deadbeat e alle uscite in singolo dell’altro Cobblestone Mathew Jonson. L’ampiezza di visioni e di esperienze dell’etichetta sembra fittare a fagiolo con la proposta del buon Tate. La scatola messicana è un prodottino da consigliare chiavi in mano a chi ama l’elettronica non troppo intrusiva, i party che vanno su e giù di bpm senza sconvolgere troppo gli ospiti. In una parola coolness distillata sapientemente, attraversando ere e stili disparati (lo swing, il latin, il funk e l’electro per dirne quattro) che si riconducono sì al lavoro di composizione con il trio, ma che allo stesso tempo se ne discostano con un guizzo più chic. Qui verrebbe da fare un paragone con un’altro mago del ritmo e della riscoperta delle tastierine analogiche di cui ci siamo infatuati molte volte: Danuel è uno Luke Vibert che guarda alla lounge da una prospettiva nuova, filtrata di esperienze live e di set in acidità behind the console. Senti il riffetto a 8 bit di Populatio e non potrai che memorizzarlo istantaneamente, sorseggiando un Martini; prova la coolness di Big Spender, la strizzatina ai privé Ottanta di California Can Can e ti accorgerai che Danuel ci sa fare di brutto. Anche da solo. (7.3/10) Marco Braggion 52 Darren Hayman - Darren Hayman & The Secondary Modern - Essex Arms (Fortuna Pop!, Ottobre 2010) Genere: songwriting Seconda parte di una trilogia, di cui il penultimo Pram Town (2009) costituisce la parte iniziale, Essex Arms riporta il songwriter Darren Hayman su atmosfere prettamente acustiche ed essenziali rispetto all’abituale pienezza di suono. Ricordiamo che Hayman è autore assai prolifico e con una carriera ormai piuttosto lunga, essendo stato coinvolto negli ultimi dieci anni in una serie di formazioni (tra cui gli Hefner poi diventati il suo progetto in solitaria). La vita in campagna e i suoi lati più nascosti, amore compreso, fanno da tema a quest’ultimo album ambientato nel natale Essex, dopo la celebrazione della vita nelle piccole città del precedente Pram Town e i racconti cittadini dei primi due dischi. Atmosfere acustiche si diceva, piuttosto spoglie, per canzoni ridotte all’essenziale, che lo riconducono al consueto revival byrdsiano alla Robyn Hitchcock e R.E.M, misto al songwriting di marca UK (Elvis Costello e affini), e una buona fluidità nei testi; il Nostro è infatti un ottimo scrittore e un accorto songwriter e si sente. Una conferma quindi. (7/10) Teresa Greco DJ Nate - Da Trak Genious (Planet Mu Records, Settembre 2010) Genere: urbanbreak/footwork Pare che Mike Paradinas abbia scoperto questo microcosmo urban su Youtube. E giustamente non se lo lascia scappare. Ecco allora il bollo Planet Mu su due dischi usciti praticamente in contemporanea con i quali intende sdoganare il (sotto)genere fuori dal ghetto. I dischi del giovanissimo Dj Nate (vent'anni) e di Dj Roc, entrambi di Chicago, sono due gemelli diversi, figli dello stesso mo(n)do dance a tinte forti chiamato footwork distinguibili grazie ad alcune piccole significative differenze. Se in sintesi il footwork - il nome dice già tutto - è un tappeto di breakbeat (non di matrice d'n'b, ma costruiti su bolle techno-rave) doppiato da un taglia&cuci ossessivo di voci trip hop (o di voci da trick/trip djistici usate con funzione strutturale e non semplicemente effettistica) che agisce decostruendo sfondi di house superaccelerata e di tastiere grime, ecco che Roc risulta più barocco, colorato e legato al suo retroterra house e Nate più stilizzato, minimalista, videogameistico. I due album comunque dialogano, lo dimostra il fatto che Roc cita Nate a inizio tracklist campionando alcuni mi- croframmenti da un suo pezzo. Insomma, avete capito, ascoltateli insieme questi due dischi. Per Nate, parafrasando Aphex Twin, Da Trak Genious è una specie di "Selected Footworks 2005-2010" che raccoglie trax uscite su cd-r e messe in giro per il web prodotte quando il ragazzo aveva anche 15 anni. Come Roc, anche Nate mette in evidenza il sapore artigianale della produzione (si sentono tutti i tagli), la componente - spesso anche spintamente - giocosa e deformante (vocine pitchatissime, tra il divertente e l'irritante, a due passi dai Chipmunk) di questa che in fondo è una musica da ballo street, e puntate che ne scoprono le radici assolutamente nere attraverso numeri più marcatamente rappusi e loop vintage di matrice funksoul (quindi, ancora e sempre rappusi). Senza dimenticare la melodia: note di piano (trip hop enfatico), ricordi di colonne sonore Ottanta (Halloween), citazionismo pop (Lady Ga Ga). Nate e Roc ci introducono a un'estetica molto interessante e dalle grandi potenzialità, veicolata da ottimi episodi singoli e forte dell'impatto massiccio di un suono - paradossalmente - monolitico. Estetica però che non sembra ancora reggere benissimo il formato lungo: non tutti i pezzi hanno lo stesso appeal; non tutte le trovate hanno la stessa efficacia; accanto a pezzi che suonano inequivocabilmente come nuovi, ce ne sono molti che non si discostano troppo dalla koiné grime/ghettohouse. Insomma, ancora da affinare, come si dice. Esperimento: prendete Wind It Up di Mark Pritchard/Om'Mas Keith, acceleratela e infarcitela di breaks, e vedete un po' se non è footwork quello lì. (7/10) Gabriele Marino DJ Roc - The Crack Capone (Planet Mu Records, Ottobre 2010) Genere: Chicago Juke Il ghettotech evoluto di DJ Roc si chiama Juke. E viene da Chicago. Insieme al Jit di Detroit è la nuova sensation del ballo nero americano, denominato da molti con l’appellativo omncomprensivo di footwork. Una cosa da strada e profondamente urban che investe da anni la cultura post-breakdance e di cui solo oggi ci accorgiamo grazie all’interessamento di Paradinas della Planet Mu. In questo disco appaiono tracce che viaggiano sui 150-160 bpm, battiti utili per far saltare le gambe e i piedi in modo spastico. E come spastica era la musica dei rave del 92, anche in questo caso ci sono le ripetizioni ossessive (Fuck Dat), le vocine (Let’s Get This Started) e gli altri tools, ma il tutto viene integrato con delle atmosfere gloomy ereditate dal miglior Terror Danjah (il coro post-operistico e rituale nell’ostinato di Phantom Call), quelle cose oscure che mai si sarebbe pensato potessero arrivare ad essere applicate al ballo o con una sensibilità soul blackissima (splendido il meshing di voce ispirata e di ritmi à la Four Tet in Lost Without U). Questo disco è un segnale americano che gioca a ping pong con le più recenti evoluzioni del suono UK bass (vedi le ottime compilation Elevator Music e Future Bass). Lo stile dei cugini inglesi Ramadanman e Toddla T viene trapassato in due con passi velocissimi e figurazioni nuove, la voglia di segnalare un mondo che prende il rave, lo attualizza e lo sdogana alle generazioni post-00 apparentemente senza l’ausilio di droghe (provate a guardare su youtube qualche video di footwork e capirete perché). Ballate su questi ritmi spezzati, dedicatevi a perfezionare il vostro passo su questi singoli da tre minuti. La proposta di Clarence Johnson definisce un’ortodossia pesante, sia sulle scelte ritmiche che su quelle melodiche: ma è così che di solito si costruisce qualcosa di duraturo (vedi l’eredità Underground Resistance). Il wonky per definizione aveva un range amplissimo; qui si restringe la variabilità a pochi mattoni squadrati ma più che mai distinguibili, già testati sulle streets di Chicago. DJ Roc è il padrino dello spezzettamento del ritmo. Baciamo le mani. (7.3/10) Marco Braggion Drum Eyes - Gira Gira (Upset The Rhythm, Settembre 2010) Genere: neo-kraut Un nome che racchiude due dei termini più in voga nel sottobosco mondiale non può che portare buone cose. La drum thunder worship gang di DJ Scotch Egg aka Shigeru Ishihara (uno con uscite su Load, tanto per capirsi) raccoglie gentaglia del giro Boredoms e Trencher, condivide stage con Omar Souleyman e Damo Suzuki e si mostra eclettica e disturbata in questo suo esordio. Evidente matrice neo-krauta e attitudine free-noise percussiva, Gira Gira è uno di quei dischi bastardi che entrano in circolo al primo ascolto e non fanno prigionieri: space-rock alla Can/Neu! rotto da schizofreniche aperture casio-oriented e tribalismo acceso (50-50), passaggi limitrofi ai Laibach più pacchianamente marziali che suonano Moroder sotto acido (Future Police), i Neurosis di Enemy Of The Sun catapultati in una quarta dimensione in cui a farla da padrone è l’elettronica per come possono intenderla i Fuck Buttons (Future Yakuza). Di carne al fuoco ce n’è tantissima e ce ne sarebbe53 highlight Blind Jesus - Blind Jesus (Von, Aprile 2010) Genere: avant rock C’è tutto un gotha, in Blind Jesus, a partire dal packaging del vinile. Immagine coordinata di Carlos Casas (imparentata con quella dell’ultimo Netmage), label Von - recente creatura discografica di Nico Vascellari - e poi quei nomi presenti in calce. C’è Stefano Pilia, la mente principale del progetto, che ormai potremmo chiamare l’artigiano della musica sperimentale nostrana di più alto livello, una figura costante, laboriosa, fortemente duttile, un artigiano, appunto. C’è Giuseppe Ielasi al mastering. Ci sono i nastri e i delay di Andrew L. Hooker, artista multimediale che con Pilia ha condiviso live e performance, producendo il sostrato per l’esordio a nome Blind Jesus. Ci sarebbero anche le avvisaglie per un progetto di raffinata caducità. La musica di Blind Jesus deriva dall’arrangiamento produttivo di Stefano di quel materiale per lo più improvvisativo derivante dalle sessioni live con Andrew. Ma Pilia è maestro nell’usare studio, voci, strumenti, materia prima e livelli di fuoco. Usa spostamenti cognitivi e armonici alla Jandek, lamenti alla Genesis P-Orridge, chiude il lato A con urla strozzate di Kubrick. Riprende con tensioni ambientali non distanti dagli Excepter, solitudini chitarristiche, e mantiene sempre una capacità espressiva e una lucidità compositiva, pur nello sfilacciamento dei brani, impeccabili. Il gotha non strombazza i propri nomi senza aggiungere peculiarità e spendere personalità. Pilia e Hooker alzano la posta dell’ambiente, confezionano timbriche e architettano sviluppi con un’impressionante facilità di comunicare sensazioni, stati d’animo, e di tenere incollato l’ascoltatore. Blind Jesus è uno dei parti migliori della Von (è il numero 6 del catalogo), e si adegua peraltro perfettamente al concept dell’etichetta: sposare musica (di improvvisazione, spesso) e media art (nelle vesti di Andrew). Ma ciò che preme dire è che qui accade una cosa molto rara: questa musica è spendibile, leggibile, abile a circolare anche fuori dal circuito avant. Sarebbe perfetta ambasciatrice, pur essendo per nulla commerciale o popolare. Il gotha ha lavorato con una sensibilità rara, e ha dato gambe proprie a un progetto che speriamo davvero di veder camminare a lungo. (7.5/10) Gaspare Caliri ro ancora tante di band e suggestioni da tirare in ballo - Black Dice, Wolf Eyes, Test Department, avant-rock, sludge-metal, tribalismo industrial - a dimostrazione di eclettismo e coraggio nel percorrere strade nuove. Gira Gira è una gran bella sorpresa suggerita ad ascoltatori open-minded e a curiosi indagatori delle estremità più free delle musiche contemporanee. (7.1/10) Stefano Pifferi Dusting Wong - Infinite Love (Thrill Jockey, Ottobre 2010) Genere: guitar-minimalism "Tutto nacque quando il mio amico Andrew mi chiese di fare un concerto solista la scorsa estate": così, Dustin Wong, chitarrista e bassista dei Ponytail, descrive i primi passi di Infinite Love, primo atto solista, dopo che 54 per anni suonare in solitaria era stato per lui un training autogeno senza pubblico. La scuola, a compiti fatti, è chiara, le discendenze anche: entrambe portano i segni di un minimalismo progressivo per sola chitarra (e batteria, per i minuti finali) che risale la genealogia - o ridiscende l’albero genealogico - da Don Caballero e Dave Pajo a Robert Fripp. Quest’ultimo è presentissimo con le sue tecniche chitarristiche e compositive, che alternano momenti di intensità a momenti di distensione ambientale. Niente di originale, eppure, nonostante la gran quantità di questa musica che è passata dalle nostre orecchie, Infinite Love non va a noia. Si sente la leggerezza, aldilà dell’ingombro dei riferimenti. Il segreto è anche nascosto anche nella trovata che sta alla base della pubblicazione. Infinite Love è fatto di due composizioni (una per CD) che iniziano ugua- li, procedono allo stesso modo per venti minuti e poi prendono direzioni diverse, per poi convergere di nuovo alla fine, intorno al cinquantesimo minuto. Ogni tanto l’ascolto sale in primo piano, poi ritorna come accompagnamento dei nostri pensieri. E si legano le somiglianze, i punti che di un disco ci ricordano l’altro, in un circolo in cui è difficile risalire all’origine. Chi assomiglia a chi, in una coppia di gemelli? Due versioni lasciate a disposizione persino di chi al CD preferisce il video (in DVD) realizzato in collaborazione con Andrew Schenker e Angel Oloshove. Finalmente un album con un concept dietro, un’idea forte che non ci fa parlare di carriera solista, ma di sviluppo delle possibilità di un’idea in musica. Che cosa scegliere? Preferisco il primo o il secondo? E ogni volta siamo costretti ad ascoltarlo tutto Premiamo la stranezza, e la compiutezza con la quale è stata perseguita. (7/10) Gaspare Caliri Edwood - Godspeed (A Cup In The Garden, Ottobre 2010) Genere: indie wave Tornano gli Edwood dopo l'excursus in italiano sotto l'egida Intercity, solito il senso di apprensione futuristica, la dietrologia onirica che rende palpabile il timore di vivere in un oggi sbalzato dallo ieri. La cifra melodica e sonora dei cinque bresciani è un impasto assieme denso e aereo di trepidazioni hardcore-pop à la Grandaddy, sussulti post/wave Notwist, indie mutante Broken Social Scene e una spruzzatina di nostalgia shoegaze. Non ti regala scossoni inauditi, ma funziona. Tanto le ballate più soft (i languori spacey della title track, la sognante Millions arricchita dalla presenza di Sara Mazo, indimenticata vocalist degli Scisma) che gli episodi più mossi (The Pianist, Happy Togheter) sembrano immerse in una stessa glassa, in quella scenografia pervadente e permanente che è assieme punto di forza e di debolezza. Però, giusto un attimo prima di sembrarti monotono, Godspeed mette in gioco arguzia, eleganza e la più concisa delle trepidazioni. E sa farsi voler bene. (6.7/10) Stefano Solventi El Santo Nada - Tuco (Autoprodotto, Novembre 2010) Genere: desert folk rock Impressioni di un album di debutto che - al momento in cui scriviamo - ancora non c'è. Di Tuco, esordio per El Santo Nada ovvero il Santo Niente in tenuta tex- mex, abbiamo ascoltato una pre-release. Non è chiaro il quando e il come verrà distribuito. Forse, nella peggiore (?) delle ipotesi, anche solo ai concerti della band. In ogni caso, ci sembra giusto mettervene a conoscenza adesso: si tratta di nove pezzi inediti, strumentali, frammenti di deserto trapiantati in un immaginario di frontiera sempre più apolide, globale, collettivo. Magari qualcuno si ricorderà di Tuco, il "brutto" del celebre film di Sergio Leone interpretato da un indimenticabile Eli Wallach: personaggio emblematico ieri e ancor più oggi, incarnazione della rivalsa individuale che nessun muro, check point o foglio di via potrà mai realmente sopprimere. Un clandestino della Storia nella Storia, un uomo e la semplice feroce brama di vivere, un evento naturale interpretato dal sistema come un'anomalia, il granello di polvere che può inceppare il meccanismo. Questa - al di là delle splendide suggestioni mariachi, dei miraggi desert rock, delle fregole surf e delle brume balcaniche - è l'anima del disco. La soundtrack di un film invisibile che sta accadendo davvero. (7.4/10) Stefano Solventi Electric Sixty Nine - Cornelius The Colonel & The Hot Air Baloon Club (Face Like a Frog Records, Ottobre 2010) Genere: Rock Una piacevole sorpresa quella che arriva dal novarese, anche se non stiamo certo parlando di una band di novizi. Gli Eletric Sixty Nine sono una compagine formata da ex militanti della scena hardcore-punk di Novara. Da anni sono dediti ad un rock senza additivi, prefissi e suffissi, con Who, Mc5, Hendrix come numi tutelari anche se riletti con la freschezza della band scandinave post Hellacopters. Cornelius The Colonel & The Hot Air Baloon Club è il loro terzo album, è stato registrato agli Electrical Studios di Steve Albini ed è uno di quei dischi che ti riavvicina alla muscolarità del rock, alla sua passione e al sudore che ne traspira, tenendo fuori gli aspetti più retorici e deteriori. Il tutto grazie al fluire di energia positiva che dall'opener Magnolia (wah wah a piede libero e chorus liberatorio) irrora l'album da cima a fondo, donandogli momenti di intenso lirismo. Brani come Bone Ambitious Times e Whoohee si ricollegano a quel neo tradizionalismo rilanciato dai Pearl Jam e da quelle band che nei primi 90s inserivano nelle loro partiture southern buone dosi di psichedelia, il che ne fa qualcosa di lontano da tanto pessimo neo grunge che intasa l'etere delle stazioni americane. Nel 55 highlight Darkstar - North (Hyperdub Records, Ottobre 2010) Genere: pop wave Leggi Hyperdub e ti aspetti il solito clone di Kode9 o Burial. Invece questo nuovo Darkstar spinge su una pista non ancora battuta (per lo meno dai music makers del suono now UK) e per questo degna di essere praticata a ripetizione. La proposta del trio britannico viaggia su un territorio che mescola la wave al glo, le ritmiche squadrate del pop alla melodia che dall'estate scorsa ci travolge con fiumi di lacrime ipnagogiche che mai avremmo pensato di poter versare ancora, noi post-adolescenti invecchiati a pane e melanconia My Bloody Valentine. Sarà merito delle vocals del nuovo arrivato James Buttery (il gruppo era fino a qualche tempo fa un duo dubstep formato da James Young ed Aiden Whalley), saranno i riferimenti agli onnipresenti Four Tet, Apparat e Morr Music, sarà che la techno da dancefloor l'avevano già esplorata a fondo altri maestri. Possibilità di riferimenti incrociati che si aggiungono al pianismo Ottanta semplice ma intriso di midi e 8-bit in Gold, alle chitarre dei Cure e allo spleen del dark in Deadness, al minimalismo nel singolo (già noto ai fan di Harmonic 313 e osannato nel 2009 da Pitchfork) Aidy's Girl Is a Computer e agli stupendi rimandi kraut nei synth di Two Chords e Ostkreuz. Che Londra e l'oscurità siano definitivamente da riporre nel diario dei ricordi? Passeggiando per i vicoli bui dello sprawl britannico restiamo abbagliati da un retrogusto di malinconia che si apre al pop tout court e che preannuncia rivoluzioni. Quando un piccolo disco promette universi e deviazioni, quando una manciata di tracce accadono alla fine di un decennio, qualcosa di profetico ci sarà. Segnatevelo. Già in top ten di fine anno per chi scrive. (7.8/10) Marco Braggion sound degli Electric Sixty Nine la vena radiofonica c'è, ma viene direttamente dai 70s e suona come una ventata d'aria fresca. (6.5/10) Diego Ballani Elio P(e)tri - Non è morto nessuno (Matteite, Novembre 2010) Genere: cantautorato indie Emiliano Angelelli è giornalista e cantautore di origini umbre ma stanziato a Roma, la fama di bizzarro confermata dalla scelta d'imporre al suo progetto solista il nome di un grande regista morto troppo presto, fatto salvo un uso non convenzionale delle parentesi. Ma Elio P(e)tri non esisterebbe senza il decisivo contributo di Matteo Dainese, batterista in primis (già Ulan Bator e Jitterbugs) e in questo caso anche produttore. I due si sono conosciuti nel 2009, intesa fruttuosa che, a partire da demo casalinghi risalenti all'ultimo lustro, confeziona oggi un album di debutto degno di considerazione. Dieci tracce in italiano, testi come haiku in loop a cele56 brare una travagliata ricerca (e riscoperta, e smarrimento) di sé, trame sonore elettroacustiche che rammentano dei Blur in fregola zen, certo camerismo corrucciato dEUS, angolosità poetiche Marco Parente, lirismo rappreso La Crus oppure un Paolo Benvegnù robottizzato Warp. Non spiace l'aria grave continuamente stemperata tra disillusione e autoironia, come un'intensità spacciata per scherzo. Infine, giusto mettere in rilievo due pezzi come Rachmaninov e Bradipo, che nel fantomatico mondo dei giusti avrebbero i numeri per farsi largo nelle migliori playlist. (7/10) Stefano Solventi Fabulous Diamonds - Fabulous Diamonds II (Siltbreeze Records, Giugno 2010) Genere: free-rock Cinque tracce untitled per una mezzora abbondante di reiterato, ossessivo e circolare free-rock. Così si presenta il ritorno dell’accoppiata australiana Nisa Venerosa (batteria/voce) e Jarrod Zlatic (voce/tastiere) dopo l’eponimo esordio di un paio di anni fa: mettendo sul piatto il portato lisergico del kraut-rock più intenso (Can e Neu! su tutti) così come la devastante prova di forza che fu Sheets Of Easter degli Oneida. Un solo giro di organo su base percussiva si protrae per gli oltre 12 minuti dell’opener creando sfilacciamenti nella percezione dell’ascoltatore. Quando ormai la trance sembra prendere il sopravvento, ecco la voce di Nisa: mantrica e perversa come una Nico sciamanica, non spezza l’incanto, ma stende definitivamente al tappeto. Nello stesso modo, la traccia conclusiva - altri abbondanti undici minuti - si snoda come un raga ossianico, maligno, parossistico proprio alla maniera dei citati Oneida, intenti però a rielaborare il drone-rock della Vibracathedral Orchestra. Robotici come i Suicide e minimali come discepoli antiaccademici e sfrontati di Terry Riley, i due dimostrano di saper giostrare col free-rock anche nei restanti 3 pezzi, dal minutaggio più umano: paranoici sing-a-long e ipnotiche influenze velvetiane, esoterici richiami orientali e trance strumentale si alternano senza soluzione di continuità, dando la misura di un disco-bomba. Spiritualmente pagano, musicalmente trascendentale. (7.5/10) Stefano Pifferi Farabrutto - Estremoriente Mediocre Occidente (Freecom, Ottobre 2010) Genere: cantautorato rock Un trio da verona sbocciato allo scoccare degli anni zero, al debutto nel 2004 con Alzare la voce che si guadagnò attenzioni al Tenco (terza piazza categoria opere prime). Quanto al successore, dovevamo riparlarne solo sei anni più tardi, ovvero oggi. Estremoriente Mediocre Occidente mette in fila undici tracce di cantautorato (folk) rock, il piglio intenso e disturbante, lo strano contrasto tra la flemma quasi garbata, gli spasmi acidi e le sferzate post-punk, tra il sostrato acustico e i watt in derapage. Potremmo collocarli da qualche parte tra la passionalità obliqua di Paolo Benvegnù e i Perturbazione più pensosi, con memorie Eugenio Finardi, particelle Andrea Chimenti e un più che palpabile retroterra artwave. La triangolazione sonora è comunque inedita, che io ricordi: chitarra acustica, mandolino elettrico e "ground drums". Ed efficace. Molto buono il singolo Vivere, ottime intuizioni in Retorica, climax degno del miglior Ivano Fossati in Contenimento. Unica pecca il canto un po' monocorde, ma sospetto si tratti di una scelta precisa. (7/10) Stefano Solventi Former Ghosts - New Love (Upset The Rhythm, Ottobre 2010) Genere: synth-pop Il nuovo amore dei Former Ghosts non si discosta da quello vecchio. A brillare nel firmamento della band di Freddy Ruppert - al solito coadiuvato da mr. Xiu Xiu Jamie Stewart e Nika Zola Jesus Roza e dalla new entry Yasmine Kittles dei Tearist - brillano synth-pop Ottanta (quello più dark e alienato) e soprattutto la stella nera dei Joy Division. Quelle create dalla formazione losangelina sono infatti claustrofobiche atmosfere synth-oriented messe al servizio di una poetica struggente, pregne di un romanticismo decadente e spaccacuori che trasuda disperazione e smarrimento nel narrare storie di cuori infranti, gelosie e ossessioni personali proprio nella migliore tradizione JD. È un continuo vortice spazio-temporale tra l’here&now e un passato introiettato alla grande, New Love. Un omaggio, un plagio, una rielaborazione e riedizione continua degli stilemi più evidentemente e marcatamente propri della storica formazione di Manchester (And When You Kiss Me e Bare Bones sono puro JD sound, con un baritonale e melodrammatico Ruppert in pieno mega-trip Curtisiano). Ma anche una maniera, troppo evidente per sembrare artefatta, per smarcarsi dall’emul-rock che in questi anni ’00 ha usato e abusato di quel sound, di quell’immaginario, di quelle cicatrici dal lato più commercialmente spendibile (vedi Interpol et similia). New Love è indubbiamente più "pop" rispetto al predecessore Fleurs, ma resta sempre in filigrana una sensazione di imminente tragedia, di tocco al cuore, di ferita non rimarginata. Sempre in tensione, sempre emotivamente instabile. Che a ben vedere è proprio ciò che si chiede ad un certo tipo di musica. (7.2/10) Stefano Pifferi Frisvold & Lindbæk - Diskosm (Beatservice Records, Ottobre 2010) Genere: Etno, ambient, dance Rune Lindbaek e Kare Frisvold, sono due dei numerosi personaggi di culto della cricca space disco di Oslo, gravitante attorno a Prins Thomas, Lindstrøm e Bjørn Torske. La loro specialità consiste nel mescolare dub, ambient balearico e sample bleepy in una serie di traiettorie etno - come piacerebbero a Bill Laswell ma soprattutto ai Future Sound Of London - aggiornando il tutto al clubbing odierno. Niente di nuovo per i movimenti di un personaggio come Torske: la coppia 57 punta infatti a un'analoga zona di confine tra house e decompressione in Diskosm, una compila di remix che è sin’ora il loro unico disco lungo. Nella proposta di accostamento troviamo i newyorchesi Phenomenal Handclap Band opportunamente cocktalizzati e sparati su una spaggia su marte (All Of The Above), oscuri norvegesi che si abbeverano alla techno pop Kraftwerk-iana (The New Wine The Bridge), sanfranciscoani IDM fine ’80 (Lemonade, Bliss Out) e fischiettate cinematiche (Kohib, Tales from a Nomad). Ma soprattutto una manciata di track 4/4 belle bombate e tagliate funk house (Holy Heckler, I Wish for You), deep (Kurt Maloo, Afterglow) e jazz (Skatebård, Vuelo). Quando calcano sui bpm, Frisvold & Lindbæk hanno i numeri per spaccare, eppure a tradirli spesso è una voglia di mesh di scuola francese che andrebbe tenuta a bada (Mungolian Jetset, Moon Jocks). Calibrando la generosità dell'offerta scopriamo un gusto già solido su ritmi caldi, senza distinguo tra Est e Ovest del mondo. Godibile. (6.5/10) Edoardo Bridda Giant Sand - Blurry Blue Mountain (Fire Records, Ottobre 2010) Genere: americana Parafrasando Forrest Gump, ascoltare un album di Howe Gelb equivale ad aprire una scatola di cioccolatini. Non sai mai bene cosa farà costui e come lo farà: un pregio proprio dell'indole arruffata e spontanea di chi sa sfruttare il momento e porge gemme che scavano come formiche nella terra: calme, tenaci e figlie del genio. E anche di un caso piegato splendidamente dentro rock turgidi (Thin Line Man) oppure aciduli (Monk’s Mountain), dentro serafiche istantanee (Better Man Than Me) e ballate da deliquio (Fields Of Green), dentro un jazz come lo suonerebbero Thelonious Monk da un lounge-bar di provincia (Chunk Of Coal) o un giovane Waits già "out" (Time Flies). Se non che talvolta l’approssimazione butta lì robetta che confonde e addirittura irrita: se Howe rifinisse e scartasse, rischieremmo però di perdere personalità e magia. Così è trascorso un quarto di secolo, oggi festeggiato con l’accasarsi alla Fire avviando un interessante piano di ristampe e questo album nuovo di zecca. Che manco a dirlo è amorevolmente sconclusionato, svolto tra canzoni odorose di nottate spese a guardare le stelle e levare sabbia dai cardini con qualche amico - la band danese che lo ha accompagnato dal vivo di recente - e poco che soccombe alla svagatezza (il girare a vuoto di Brand New Swamp Thing, una Spell Bound col pilota automatico). Per 58 il resto, solo assi di cremosa narcolessia che diresti scritti ed eseguiti da visionari assonnati (The Last One, No Tellin’) e che mai scambieresti con belle forme senz’anima. Sommate a quanto sopra, a una sublime Ride The Rail più realista di Re Johnny Cash e allo struggente commiato Love A Loser, danno una sostanza che non gusti spesso. Altri venticinque anni come questi, Mr. Gelb. (7.2/10) Giancarlo Turra Goose - Synrise (!K7, Ottobre 2010) Genere: nu-rave Anche se la copertina è di Storm Thorgerson, il designer che ha creato il monolite dei Pink Floyd Dark Side of the Moon, il disco dei belgi Goose non può essere propriamente definito un classico. Impantanato su vaghe coordinate nu-rave e qualche progressività Ottanta, il sophomore (dopo l’esordio del 2006 Bring It On) replica un sentire ormai fatiscente, impolverato e autoreferenziale, che ha già dato e/o detto tutto. Non serve chiamare Peaches a cantare i cori della traccia che da il nome all’album, scimmiottare i Depeche Mode di Speak & Spell (After, Like You, Words) o i Duran Duran (Can’t Stop Me Now). Questi Goose, come molte band che cavalcano l’onda del retrofuturismo spicciolo durano il tempo di un veloce skip. Meglio riprendere in mano quei vecchi dischi con il baffo di Moroder che traguardava utopie eurodisco. Un’inutile tamarrata. (3.5/10) Marco Braggion Harmonious Thelonious - Talking (Italic, Ottobre 2010) Genere: poli-minimalism Si descrive facilmente, la musica di Harmonious Thelonoius. È sufficiente leggere la mission del combo, dichiarata su sito ufficiale: american minimalists VS african drumming VS european sequencing. Talking è costruito come un flusso indefesso di percussioni africane sposate a tecniche di ripetizione minimalista, con innesti di beat elettronici e sequenze percussive di macchine. Un para-live infinito, che assume a principesco riferimento la cricca Konono N°1 (Makeshift, Primitive, Persuasive, Provocative Percussion), soprattutto per le armonie minime scaturite dalla jam e dai tamburi (senza pelli, nel caso degli africani, come sappiamo). Dietro al progetto c’è Stefan Schwander, maggiormente noto come Antonelli o Antonelli Electr. La provenienza del Nostro è flebile giustificazione dei sentori di motorizzazioni kraute dietro al sound di HT, ma non dice nulla sulla evidente intenzione (dentro alla musi- ca, non all’autore) di nascondere la propria penna, di sottrarsi dal ruolo di scrivere musica, per godere del risultato di un tipo musicale, anzi di un intreccio di tipi oggi molto in voga. Per adagiarsi su quella che in effetti, sulla carta, sembra a formula perfetta. È molto furbo, Stefan, ma lo sarebbe stato di più un paio di anni fa, quando l’ondata dei tribalisti metropolitani surfava ancora sulla maggior vivacità della propria cresta. L’effetto di Talking è un appagamento completo dell’orecchio ma un annebbiamento dell’attenzione cognitiva. Nonostante i beat, i poliritmi e le ripetizioni minimaliste, resta in mente un vuoto ipnotico, una sospensione immobile, pur martellata di percussioni. Non siamo lontanissimi dal trip indotto dai Konono, ma onestamente neanche vicini. (6/10) Gaspare Caliri Heliogabale - Blood (Les Disques Du Hangar 221, Settembre 2010) Genere: indie-noise-rock Con un nome di artaudiana memoria e un suono spigoloso e distorto, i francesi Heliogabale rappresentavano nella seconda metà dei ’90 uno dei vertici della ventata rumorosa proveniente d’oltralpe. Ora, dopo uno iato più che quinquennale (Diving Rooms del 2004 l’ultimo passo conosciuto) tornano con un album che lima le asperità e le peripezie da funamboli del mathrock noise che ne segnavano la proposta per adagiarsi su un rock corposo, rotondo e accessibile. Molto nel suono del quintetto parigino ruota intorno alla personalità della vocalist Sasha Andrés, debordante e fin troppo catalizzatrice degli umori di un disco che invece ha nelle soluzioni strumentali varie e non noiose una buona lezione di indie-rock "della maturità". I Come di Thalia Zedek, alcuni passaggi shellacchiani nelle parti di chitarra, un andamento noise-blues sottotraccia, una spruzzata di Sonic Youth del medio periodo, una buona tenuta indie sono messe al servizio della chanteuse francese e dei suoi toni chiaroscurali e ondivaghi, ora da Joplin indemoniata, ora sensuale e roca come una Kim Gordon ventenne. Trovare il giusto equilibrio è possibile e potrebbe essere la mossa giusta per rilanciare un'onesta carriera. (6.2/10) Stefano Pifferi Hjaltalín - Terminal (Borgin, Settembre 2010) Genere: chamber pop Facilità melodica e leggerezza, si diceva l’anno scorso a proposito del bel debutto (Sleepdrunk Seasons) del collettivo islandese Hjaltalín - guidato da Hogni Egilsson - che si ripropone ora a distanza di un anno e mezzo circa con Terminal (già uscito nel 2009 in patria e ora distribuito). Chamber pop cantato spesso a due voci, maschile e femminile, con massime variazioni in tempi e mood: le caratteristiche fondamentali del gruppo sono rimaste inalterate per questo sophomore album, in cui la cifra lirica è sempre presente, così come il talento compositivo e l’alchimia di gruppo, che avevamo già rilevato. Degli Arcade Fire meno impetuosi, o meglio dei Broken Social Scene, con un amore per Burt Bacharach, Lee Hazlewood, Beach Boys, così come per la musica colta. Di nuovo in Terminal c’è un maggiore senso della coralità e un avvicinamento ad atmosfere da musical (Antony sembra essere dietro l’angolo) e in generale al pop sixties che prima era meno evidente - si prenda per esempio un pezzo come la mini suite Feels Like Sugar, che ricorda i duetti di Bacharach e certe cose di Dusty Springfield - per evidenziare questa piccola svolta. Non mancano anche piccoli richiami soul funk e disco assenti finora (la mutevole Seven Years con tentazioni Abba e Water Poured In Rain) e omaggi neanche troppo celati al maestro Robert Wyatt (la variabile Song From Incidental Music). Talento confermato. (7.2/10) Teresa Greco Hugo Race - Fatalists (Interbang Records, Ottobre 2010) Genere: indie-folk-rock A livello superficiale, il mondo sonoro di Hugo Race appare come certi film di fantascienza sociale degli anni Settanta: una situazione normale, ordinaria che nasconde piccoli scarti verso il nero, il disperato, l'indicibile, ma senza che tutto ciò sembri turbare gli abitanti di quel mondo. Una musica, quindi, che se ascoltata distrattamente potrebbe scorrere nelle nostre cuffie come l'ennesimo disco di rock che affonda nelle radici più sanguigne della tradizione, similmente al Mark Lanegan onnipresente di oggi, con o senza Greg Dulli, con o senza la biondina scozzese. Ma se gli intarsi vocali di Will You Wake Up possono ricordare le fatiche dell'ex Screaming Trees in compagnia di Isobel Campbell, l'iniziale Call Her Name mette su altri binari queste otto tracce di Hugo Race: i pochi squarci di luce nel cielo nuvoloso vengono ricacciati indietro a suon di disperate mutazioni di slideguitar, at59 mosfere esiziali e una tendenza all'assoluto che lascia senza fiato. Lo stesso si deve dire di Coming Over, che sa di marcia funebre, contornata di corvi in volo sopra la bara, o della corsa a fari spenti nella notte di Nightvision. D'altra parte, questo disco incentrato sul concetto di morte, è stato registrato mentre lo stesso Hugo superava la polmonite in una villa nella campagna italiana (Italia che deve proprio piacere a Race, tanto che per qualche tempo ha vissuto a Catania) durante lo scorso autunno: "faceva freddo e per tutto il tempo della produzione me ne sono dovuto stare a guardare e ascoltare a causa della febbre". Più fatalista di così... Non tutto è allo stesso livello, a partire da una poco convinta In The Pines già resa nota dall'Unplugged dei Nirvana, e una Serpent Egg che sembra proprio un outtake di Here Comes That Weird Chill proprio di Lanegan. Detto questo, il resto fa scendere più di qualche brivido lungo la schiena. Di disturbante piacere. (6.8/10) Marco Boscolo Islaja - Keraaminen Pää (Fonal, Novembre 2010) Genere: folk, elettronica Se n'è parlato tanto della freakerie finlandese: terra di folletti lo-fi, registratori magici, strumenti scordati che somigliano ad incantesimi pagani. Islaja ne è stata l'indiscussa regina e ora con Keraaminen Pää, abbandonati balalaika, orpelli e plaid boschivi, tenta la svolta vestendosi di un suono di disincantata inattualità poggiato su elettroniche e calore vocale inedito. E' infatti l'Occidente di Soap & Skin (così come quest'ultima riscrive la mitteleuropa di Nico) l'ambito che la folkster guarda con interesse rinunciando alle corde per liberarsi in sarabande corali (Joku Tai Roden), reggae per organetto (Dadahuulet), monologhi solitari da sirena oceanica (Pimeyttä kohti), loop etno-tribali (Rakkauden palvelija 14), trasfigurazioni eighties similbjorchiane (Ajanlaskun Aatto). Testimoni del salto avvenuto, i saliscendi di pianoforte nell'avveniristica cornice barocca, la preziosità di certi arrangiamenti che hanno un sapore lirico e certi accostamenti elettronico-orchestrali dall'impatto luminescente e disinvolto. Proprio sul versante laptop - come anche con Es, ed i conterranei Paavoharju - il passaggio al suono algoritmico ha fornito ulteriori elementi di arricchimento e trasversalità. (7/10) Salvatore Borrelli 60 Jocelyn Pulsar - Il gruppo spalla non fa il soundcheck (I dischi della lavatrice, Aprile 2010) Genere: indie-pop Ormai è un fatto assodato: nell'indie nostrano esiste una scuola "romagnola". Una via leggera e scazzata al pop capace di riassumere in sé tutti quelli che sono i caratteri fondanti di chi nella terra del cappelletto è nato: indifferenza nei confronti del mercato, ironia che ammicca al demenziale, flagello di "c" e di "z" in una pronuncia che è carta di identità in tutto e per tutto (e credetemi, so di cosa parlo). Agli ultimi Granturismo e Nobraino si aggiungono ora i Jocelyn Pulsar - anzi si sono aggiunti già da un po', visto che parliamo del quinto disco della formazione -, al secolo Francesco Pizzinelli da Forlì. Con un tripudio di chitarre acustiche e melodie appiccicose orgogliosamente provinciali, autobiografiche, irrimediabilmente nerd ma anche "modaiole", almeno nell'accezione del termine tipica di una Romagna estiva e fin troppo easy. I proverbiali Mr. Brace stavano su un altro livello, è vero, sia dal punto di vista del suono - qui è un po' tutto uniforme, senza picchi né particolari cadute di tono - che dei testi. Tuttavia il pop disimpegnato da sabato pomeriggio in centro dei Jocelyn Pulsar lo si ascolta volentieri, una volta spenti gli interruttori del pensiero critico più impegnato. (6.7/10) Fabrizio Zampighi John Roberts - Glass Eights (Dial, Ottobre 2010) Genere: Deep Se da una parte la deep spopola ancora sul dancefloor, a Berlino la voglia di IDM non è passata, anzi c'è pure molta spinta a portarla nei teatri, questa house oramai istituzionalizzata. Dopo la dream di Apparat, i ghiacci di Pantha Du Prince, le atmosfere di Efdemin e Lawrence e il pianoforte in cassa di Francesco Tristano arriva John Roberts. Lui è un giovane produttore proveniente da Cleveland attualmente residente a Berlino già fattosi apprezzare da Resident Advisor per un paio di uscite su Dial Records (dove tutt'ora è l'unico artista non krauto del roaster). A parte Pruned apparsa su Mirror EP della scorsa estate, quest'esordio sulla lunga distanza è interamente formato da materiale inedito e parla la lingua della deep house classica e della Warp primi Novanta. Di suo Roberts, oltre a claps e drum machine Roland, un basso avvolgente e synth analogici, ci mette il pianoforte classico proprio come Tristano, ma con finalità in tutto e per tutto ambient, attingendo per costruire la sua tavola da tipici paesaggi germanici tra pioggia e finestrini appannati, cementi diroccati e cieli color piombo. C'è tanto cuore nell'house dell'americano ma anche capacità di sceneggiatura come si nota in August (note uggiose, tocchi ironici delle vocals, i synth e la linea melodica appena accennata) e Went (solo piano e gracchi del giradischi in remember glitch). Da avere. (7/10) Edoardo Bridda Josephine Foster - & The Victor Herrero Band - Anda Jaleo (Fire Records, Novembre 2010) Genere: musical poetry Ancora una scelta sui generis, in questo caso di natura politica e autoriale, è alla base del nuovo album di Josephine Foster realizzato con The Victor Herrero Band: si tratta di una serie di canzoni popolari scritte da Federico Garcia Lorca e contenute nel libro Las Canciones Populares Espanolas, le quali hanno rappresentato la dissidenza contro il regime spagnolo franchista. Bandite all’epoca in Spagna durante gli anni della dittatura, sono state un importante veicolo culturale e vengono oggi riscoperte grazie all’autrice americana e al suo compagno Victor Herrero. Già testimone coraggiosa di scelte altre, si veda il recentissimo Graphic As A Star (Emily Dickinson in musica), nonché la rivisitazione di una serie di lieder tedeschi di Shubert, Brahms e Schumann (A Wolf In Sheep's Clothing, 2006), la Foster qui riduce all’osso la sua musica, che diventa performance a due prettamente acustica, accompagnata un ristretto numero di musicisti; registrato dal vivo Anda Jaleo ripercorre con vigore le canzoni del poeta spagnolo, rispettandone tempi e modi in una riproposizione appassionata e filologicamente impeccabile. Al solito la voce della Nostra si snoda tra tentazioni folk e personalità da vendere, e fa perciò la differenza in queste cover sghembe e fascinosissime. Grande musica d’autore. (7.3/10) Teresa Greco Jules Not Jude - All Apples Are Red, Except For Those Which Are Not Red (Produzioni Dada, Novembre 2010) Genere: psych pop L'ep Clouds Of Fish col quale li ho conosciuti, vi dirò, mi è rimasto incastrato da qualche parte tra l'anima e il cuore. Una di quelle cose che ti capitano e dici che bello, il refolo d'aria fragrante in mezzo a troppi respiri affannosi. Ai tempi - pochi mesi fa - i Jules Not Jude erano un duo. Oggi, in occasione dell'album d'esordio, diventano quartetto: ai fondatori Simone Ferrari e Mirza Shaman si sono aggiunti il bassista Mauro Parolini e la drummer Marzia Savoldi. Il suono ne esce più sbrigliato e definito, perdendo un po' di quell'alone caliginoso sui cui - a mò di cortina fumogena - si proiettavano aspettative e dolci misteri psych-pop.Peccato? Ok, peccato. Ma è un prezzo congruo se sul piatto della bilancia ci metti una disinvoltura che somiglia parecchio alla piena consapevolezza di mezzi e obiettivi. Gli undici pezzi caracollano tra gli Samshing Pumpkins più soft (il canto di Ferrari strizza spesso l'occhio a quello di Corgan), i Belle And Sebastian e tutto un poppeggiar bucolico che pesca suggestioni sixties (Zombies, i primi Small Faces) e contemporanee (Delgados, Super Furry Animals), per non dire nostrane come Annie Hall e Le Man Avec Les Lunettes (entrambi a vario titolo presenti nei credits). Buon disco, col valore aggiunto di un potenziale hit come Caramel Lovelypop. (7/10) Stefano Solventi Keith Fullerton Whitman - Disingenuity b/w Disingenuousness (Pasta Base, Ottobre 2010) Genere: classic tronica Keith Fullerton Whitman aka Hrvatski torna al full lenght vinilico dopo quattro lunghi anni passati a diffondere il verbo dell’avanguardia elettronica classica in serate live, split, mini 12’’, edizioni limitate, nastri e attivismo culturale. Due facce del disco per due pezzi che riprendono registrazioni dal vivo degli ultimi anni, passati tra Cambridge (il ragazzo ha studiato alla Berklee), New York e Toronto e li rielaborano seguendo un approccio anticommerciale senza nessun compromesso o pelo sulla lingua. La mezz’ora complessiva delle tracce è una selezione da una più lunga improvvisazione, basata su field sounds di elicotteri (e qui ritorna il fantasma del quartetto di Karlheinz Stockhausen), passeggiate nella neve e voci di bambini riversati su una macchina Nagra a nastro, che non registra solo il suono degli speakers, ma anche i rumori dei chip interni. Il risultato è distante dalle prove di musica informatica (costruita cioé solo con l’elaboratore o con le macchine), cui ci ha abituati il ragazzo Whitman: oggi ci si confronta con le sperimentazioni live dei francesi, passando per lo Studio di Fonologia milanese di Nono, Berio, Maderna e Zuccheri. 61 highlight Francesco Tristano Schlimé - Idiosynkrasia (InFiné, Novembre 2010) Genere: Detroit piano Prima la collaborazione con Murcof (sua la produzione di Not For Piano), poi con Moritz Von Oswald in Auricle Bio On e infine oggi con Carl Craig su questo nuovo full length. La parabola di Tristano si aggancia alle visioni di un ambient/classica ormai sempre più a portata di club, tanto che la prova generale di queste nove tracce si è tenuta proprio in una delle mecche del clubbismo europeo. Lo scorso luglio allo Space ibizenco, gli increduli spettatori hanno infatti assistito alla prova generale preludio di questo bel disco: un pianoforte gran coda immerso nel buio nel tempio della house e un Cark Craig che comanda l’iPad per modificare dal vivo il suono del ragazzo, aggiungendo i suoi tocchi magico-estatici. Da quella serata il duo ha tratto la forza e la consapevolezza di essere sulla giusta strada per un progetto definitivo. Ai confini con una visione che distilla il sentire soul di Detroit (le registrazioni sono state effettuate negli studi Planet E di Craig, impiantati nel suburbio della Motor City della techno), le nove tracce che abbiamo l’onore di ascoltare oggi si adattano all’ascolto per palati sopraffini, delineano tocchi ritmici che vanno ad ampliare il suono del gran coda senza sovrastarlo, quasi dei piccoli incantesimi che elevano l’antesignano acustico di tutte le consolle a culto. Idiosincrasia appunto, che si adagia sui territori ambient: un viaggio, dice Francesco, "in qualche modo tra l’acustico e l’elettronico. La mia ambizione è quella di conferire al pianoforte una nuova identità, poiché è spesso associato con la musica classica ed è visto come uno strumento del passato. Io lo vedo invece come uno strumento proiettato nel futuro". Ben vengano quindi gli intagli con la tradizione techno, purché dosati con parsimonia e savoir faire da rodati arrangiatori: il sapore sudamericano di Fragrance De Fraga, i sogni che ricordano l’ultimo David Sylvian in Lastdays, le visioni post-jazz cubiste con gli echi dei migliori Underworld (Mambo), i silenzi di Vladislav Delay mescolati al minimalismo classico di Philip Glass in Nach Wasser Nor Erde, la progressione à la Steve Reich contaminata con l’anima black in Idiosynkrasia, il ricordo easy listening con i clap uptempo di Eastern Market, Single And Doppio che potrebbe essere l’unica traccia destinata a un DJ set dei più ispirati e per finire la lunghissima chiusa psych con i synth di Craig nei dieci minuti e più di Hello-Inner Space Dub. Tristano e Craig: grandissima abbinata. Puntate tutto su di loro. (7.6/10) Marco Braggion Il viaggio attraverso le tecniche classiche di elaborazione del suono in Disingenuity sembra non avere un punto di riferimento, è un collage di sperimentazioni adatte per un trip acido che ricorda le infatuazioni per il concretismo di Parmegiani o del primo Xenakis. Se il lato A si confina ad un eremitaggio per pochi eletti, la seconda faccia (Disingenuousness) parte invece con una progressività minimal glitch che richiama la mitica serie Octagon della Hard Wax, il sogno Basic Channel che entra nelle classi di musica elettronica e ne esce ancora più spaced out di quanto già non fosse di suo all’origine. Keith ci porta con ostinata e certosina pazienza a toccare ancora una volta con mano la potenza del suono sperimentale, che se sapientemente costruito, può farci 62 vedere nuovi mondi di cui non conoscevamo l’esistenza. Non è di immediato appealing come Lisbon, ma in qualche modo scovatelo questo vinile, anche se è già esaurito su tutti i siti. Non ne uscirete vivi. (7.2/10) Marco Braggion King Me - Them Brawlers (A Cup In The Garden, Ottobre 2010) Genere: lo-fi psych I King Me sono un sestetto olandese con undici anni di carriera alle spalle e, col qui presente Them Brawlers, ormai sei album all'attivo. Non so voi, io non ne avevo mai sentito parlare. Ma, ad occhio e croce, sono una grande band. Con un'idea non precisa ma forte di lo-fi psichedelico, piuttosto romantico, l'aria matura e indolenzita di chi ormai ha masticato parecchia disillusione ma non rinuncia alle fatamorgane rock. Li senti muoversi tra dissonanze My Bloody Valentine ed incubi psicoattivi Flaming Lips (Gimme Lies), tra melodie deragliate Daniel Johnston e post-glam sfrigolante Brian Eno (Red Eyes), spiegazzando dolcezze malmostose Magnetic Fields in salsa Sparklehorse (You Should Wear A Dress) o Radiohead (Raged Nights), permettendosi di sdolcinare Beck in un brodo Polyphonic Spree (Motor Fear) oppure d'incendiare languori da camera Nick Cave con un tripudio di svalvolate spacey (Away And Still Cold). Ogni pezzo azzecca un equilibrio prodigioso sulla propria obliqua congiuntura sonica: come una trottola che traballa ma non smette di girare, come una generosa problematica ostinazione, come un rammarico che non rassegna a spegnersi. Disco che vibra vivo dalla prima all'ultima nota. (7.5/10) pari del tipico chitarrismo effettato "alla The Edge" o di certe soluzioni ritmiche introdotte da band new wave, sono diventate patrimonio comune di qualunque pop band voglia apparire anche solo minimamente up to date. Il languore psichedelico di canzoni come The Face è qualcosa che si inserisce agevolmente in questo solco; eppure, con la voce impastata di Caleb Followill a fare da contrappunto, l'effetto è estremamente affascinante. Ecco dunque la chiave di lettura dell'album e la peculiarità che rende questi Kings Of Leon ancora degni di considerazione. I Followill sono come quei redneck che si vestono da damerini per una notte brava da spendersi fra le luci della città: hanno abiti firmati ma quando parlano d'amore, come nella ballata Mary, si portano dietro lo spleen della campagna. Quando poi accelerano e irrobustiscono le trame (come nel moderno boogie di No Money) la sporcizia è ancora lì, sotto le unghie, e non importa quanto si cerchi di nasconderla. (6.8/10) Stefano Solventi Diego Ballani Kings Of Leon - Come Around Sundown (RCA, Ottobre 2010) Genere: Indie rock Kit Downes - Kit Downes Trio - Golden (Basho Records, Novembre 2009) Genere: jazz Il precedente Only By The Night è stato un vero e proprio nuovo inizio per i Followill. Dopo il classico esordio da next big thing e l'inevitabile parabola discendente tipica di chi ha invaso per mesi le pagine dell'NME, i quattro del Tennessee hanno saputo ricalibrare il proprio sound su un alt rock decisamente più edulcorato rispetto al garage degli esordi, tuttavia non privo di spunti. I maligni li hanno già ribattezzati i "Southern U2", per l'attitudine da "stadium song" di brani come Sex On Fire. Ecco allora che questo Come Around Sundown funge cartina di tornasole per testarne la reale consistenza, anche alla luce dell'imponente dispiegamento di mezzi che presumibilmente l'etichetta avrà concesso loro. La cosa che colpisce, infatti, non appena partono le prime note dell'opener The End (!), è l'imponenza della produzione. Col precedente lavoro, hanno assaporato i grandi spazi, ma i nuovi brani gettano lo sguardo ancora più lontano, rallentando il ritmo, facendo respirare le armonie e aprendosi a suggestive soluzioni shoegaze, affermazione quest'ultima su cui è necessario aprire un inciso. Quello che siamo soliti descrivere come "shoegaze", infatti, è un mix di chitarre psichedeliche nebulizzate che baluginano all'orizzonte; un espediente sonoro che, al Arriva solo ora in Italia questo esordio del Kit Downes Trio. In realtà il disco risale a fine 2009 e dal momento della sua uscita non ha raccolto che elogi da stampa specializzata e non. Comprensibile, dal momento che il jazz del diretto interessato - pianista britannico con un curriculum di tutto rispetto alle spalle - sa gravitare con stile tra modernità e classicismo. Nello specifico, tra un approccio piuttosto elastico e per nulla intimidito nel mescolare cambi di registro repentini (l'ottima Jump Minzi Jump in cui si passa da un suono crepuscolare a un Sud America appena abbozzato a un'esplosione di note quasi in sbornia free) e una formazione "tipo" (col contrabbasso di Calum Gourlay e la batteria di James Maddren) legata a filo doppio alla golden age del jazz. Keith Jarrett benedice i fraseggi elaborati ai limiti della classica, Bill Evans è chiamato in causa dalla raffinatezza di certe atmosfere (Homely), Thelonious Monk è il nume tutelare di alcune soluzioni armoniche non troppo rotonde. Racchiusi in un'opera forse poco rivoluzionaria ma assai godibile, in cui spiccano oltre all'ottimo interplay tra gli strumenti anche le buone doti di compositore del titolare del progetto. (7.1/10) Fabrizio Zampighi 63 Kongrosian Trio - Bootstrap Paradox (Aut Records, Settembre 2010) Genere: impro jazz I Kongrosian sono un trio, diciamo così, trevigiano, che come il (giustamente) celeberrimo radicchio si esalta espandendosi, apparentando sapore e consistenze con altri sapori altre consistenze. Tendono naturalmente al quartetto, e infatti vantano collaborazioni col notevole sassofonista Beppe Scardino e col drummer Stefano Giust tra gli altri. Di base, i tre combinano una misticanza insolita: clarinetto (alto e basso), sax (contralto e soprano) e un altro sax (baritono), quest'ultimo spesso e volentieri barattato con un mellofono. Coadiuvati in questo album d'esordio dal clarinettista Oreste Sabadin, sfornano impro con piglio dadaista e patafisico ma sanno metterci sotto (e sopra, e di lato) qualche batuffolo di mistero e un pizzico di serietà, così da sembrare una brass band ebbra sul ponte sospeso tra l'Apocalisse e il Paese dei Balocchi. Sedici tracce folgoranti (durata media sui due minuti) come micro massaggi neuronali o sketch ora garruli ora enigmatici, col jazz (passato, presente, futuro?) ridotto in coaguli scarmigliati e fragorosi, insospettabilmente lucidi. (7.1/10) Stefano Solventi Le luci della centrale elettrica - Per ora noi la chiameremo felicità (La Tempesta Dischi, Novembre 2010) Genere: canzone d'autore Recensire il secondo disco di Vasco Brondi è un po' come giocare alla roulette russa. Con il revolver puntato alla tempia e il colpo in canna. E non tanto per un discorso legato al giudizio sulla qualità effettiva dell'opera, quanto per quello che il Brondi-pensiero rappresenta per una buona fetta di ascoltatori. Specchio di una generazione, oltre che modello musicale di riferimento, abbastanza diretto e disperato da assurgere al ruolo di vera e propria icona con tutti i pro e i contro del caso. Tra questi ultimi, un'aura da intoccabile cucitagli addosso da un seguito fin troppo acritico con il proprio paladino in virtù di un'onestà artistica evidente ma, a nostro avviso, ancora tutta da formare. E' un intercettare involontario il momento storico, l'arte del Brondi, unito alla capacità di scrivere testi "universali", frammentari, comunque profondi, in linea con la velocità di assimilazione che richiede il nuovo millennio. Con la chitarra acustica al centro e brani da un paio di accordi a fare da cavallo di Troia. Come se si unisse l'immediatezza DIY del punk - con tutto il meccanismo di identificazione che ne deriva - alla profondità della 64 canzone d'autore, in una convergenza tra il pubblico giovanile e quella critica "adulta" che non ha esitato un attimo a gratificarlo, la scorsa stagione, col Premio Tenco. In Per ora noi la chiameremo felicità Brondi scrive per loro. Non per chi non lo conosce ancora, non per far cambiare opinione a chi lo ha già catalogato come un "difetto" del sistema indie e nemmeno per dimostrare di aver compiuto un percorso. Soltanto per ritrovare quell'unità di intenti che ha reso il suo esordio un caso discografico e i suoi concerti degli happening in pieno stile. Tanto che non ci si muove di un millimetro dall'approccio che aveva reso Canzoni da spiaggia deturpata quello che era, replicando estetica, forma e immaginario. Stesso stile, stessa poetica e soprattutto nessun accenno a tematiche inedite o a cambi di direzione. Nella pratica, tutto si riduce al solito cut up che trita paesaggi urbani e storie lungo i bordi, legate a filo doppio ad una sfera individuale claustrofobica, omnicomprensiva ma, in qualche caso, anche fin troppo vaga. Dal fiume in piena si salvano due o tre brani particolarmente riusciti (Quando tornerai dall'estero, Una guerra fredda, L'amore ai tempi dei licenziamenti dei metalmeccanici) e gli arrangiamenti, questi ultimi giocati su una musica "atmosferica", stratificata e più varia rispetto al passato, frutto del buon lavoro di Giorgio Canali, Stefano Pilia, Rodrigo D'Erasmo e Enrico Gabrielli. Per una continuità che rasenta il vicolo cieco. Anche perchè le scritte sui muri, le case inagibili o le polveri sottili che rendevano riconoscibile il Brondi degli esordi guadagnano qui un'immobilità quasi dannosa, come se consolidare significasse ripetersi ad libitum e non rielaborare un esordio a cui si perdonava molto in virtù di una vis comunicativa enorme. E che almeno possedeva "inni generazionali" come Per combattere l'acne. (6.2/10) highlight Giancarlo Onorato - Sangue bianco (Lilium Produzioni, Ottobre 2010) Genere: canzone d'autore Per parlare di Giancarlo Onorato occorre parlare di un cantautore come ce ne sono ormai pochi. Non tanto e non solo per la qualità di una produzione diradata nel tempo ma fondamentale negli esiti (quattro dischi dal 1996 ad oggi, dopo la fine dell'esperienza con gli Underground Life), quanto per la peculiarità di una scrittura da sempre differente rispetto alle tendenze in circolo. Come altri inestimabili outsider prima di lui (Flavio Giurato, Juri Camisasca, il Fausto Rossi degli anni novanta) Onorato ha sempre cercato la massima potenza espressiva delle sue canzoni attraverso un lavoro sulla densità della parola, proprio intesa letterariamente, e nel suo caso poeticamente. E di poeticità per una volta è bene parlare quando siamo dinanzi ad un autore che non teme la nudità estrema (eccolo probabilmente il maggior punto di contatto con gli outsider di cui sopra), l'imprevedibile e inconsueto utilizzo lessicale, in ultimo lo zenit comunicativo intercostale e sovrumano. Sangue bianco, a sei anni di distanza dal precedente Falene, schiera le sue canzoni al bivio tra nascita e nulla, lungo un orizzonte lirico che mischia dolcezza essenziale ed erotismo radicato, laddove la carne si confonde con la purezza in un lascito di fecondità e misticismo. Sono per lo più ballad, arrangiate classicamente ma con lievi dettagli a determinare ogni singolo brano, in cui la grande gamma strumentale e i venticinque musicisti coinvolti (fra di essi un nugolo di nomi nuovi da tenere d'occhio ognuno nei propri campi: Christian Alati, Mario Congiu, Attila Faravelli, Christian Rainer, Davide Tosches) non mettono a repentaglio la compattezza di un lavoro che pulsa grazie alla forza dei propri spunti originari. 
Ascoltate tracce come Else lied (dove i versi della poetessa tedesca Else Lasker-Schüler vengono immersi di una soffusa luce d'alba), Il tuo venire, Io ti battezzo (intrinsecamente religiosa, seppur in un senso del tutto anti-dottrinale) e la conclusiva Reginebambine, un'autentica preghiera d'amore generativo distante anni luce dalle lagne camerettarde di questi anni, e diteci se non è vero che di canzoni così ce ne sono sempre meno, se chi scrive non dovrebbe tornare con più frequenza - e soprattutto urgenza - al sangue, alle lacrime, alle ossa. In una parola alla vita: "passo e ripasso la lingua gentile sulla ferita / immaginandola colma di bellezza traboccata / fonte segreta, bocca di un nulla dimenticato". (7.5/10) Luca Barachetti Fabrizio Zampighi Leo Zero - Disconnect (Strut Records, Ottobre 2010) Genere: DJ favourites Bella partenza per la nuova serie di mix della Strut Disconnect, che affida ad alcuni tra i migliori DJ del globo un CD da stipare con stranezze, rarità e gioielli dimenticati delle proprie collezioni di dischi. Si parte col britannico Leo Zero, nella vita di tutti i giorni (?) Leo Elstob, noto da tre lustri e impegnato in diverse situazioni, dal figurare come "resident" allo Shrink2Fit durante il boom della techno detroitiana dei ’90 all’aver inventato serate deep house con Stuart Patterson e aver partecipato al collettivo Faith. Non contento, a un certo punto ha preso a produrre e remixare senza posa (benché non sempre a ragion veduta: sua la porcata su Satellite Of Love di qualche anno fa) e ricoperto un ruolo fondamentale nel progetto A Mountain Of One. Come remixer lo hanno preteso Paul Weller, Florence & The Machine, Bryan Ferry. Quanto c’è di tale molteplicità di gusti e interessi in questo mix? Tantissimo, giacché si passa con "cut" eleganti e raffinati da afro-pop a disco e reggae tramite le contaminazioni new-wave di Basement 5 (un possente "extended" di Silicon Chip) ed Essential Logic; successivamente planando sugli Ottanta di Chris & Cosey (Exotica) e Propaganda per rapirsi il cervello in un frammento di Halleluwah dei Can senza perdere di vista l’Africa e le morbidezze da dancefloor, chiudendo con la dolcezza di Spinning Away (Eno/Cale) e la marpiona My Oasis di The Countach. Saliscendi brillante a medio livello di BPM e bello sfoggio di apertura mentale. (7/10) Giancarlo Turra Les Savy Fav - Root For Ruin (Frenchkiss Records, Ottobre 2010) Genere: Indie Rock Appena tre anni fa Let's Stay Friend mieteva consensi unanimi da parte di critica e pubblico, mentre oggi il quinto lavoro dei newyorchesi esce quasi in sordina. 65 highlight Loners - I Remember A Dream (Boom Devil Records, Settembre 2010) Genere: folk rock Lobi Traorè - Rainy Season Blues (Glitterhouse, Ottobre 2010) Genere: Bambara blues Chissà che costa stavate facendo il 9 agosto del 2008. Lobi Traorè era ai Bogolan Studio di Bamako, Mali. Stava registrando l'ultimo disco della sua vita. Poco meno di due anni dopo, lo scorso giugno, sarebbe morto, improvvisamente e senza tante spiegazioni di contorno. In studio con lui c'era l'ex Walkabouts Chris Eckman e se ci avete seguito negli scorsi mesi durante le nostre peregrinazioni sulle ultime novità in fatto di musica dalle parti del delta del Niger sapete già che ci stiamo nuovamente inoltrando in un qualcosa che va ben oltre la semplice uscita discografica ma riguarda gli incontri intesi come le vite che s'incrociano e rifioriscono. In pratica Traorè conosce Eckman durante le registrazioni del secondo disco dei Dirtmusic, sul quale il chitarrista maliano mette il proprio strumento in un paio di pezzi. Eckman aveva ascoltato di Traorè, innamorandosene perdutamente, The Lobi Traorè Group, ovvero il lato elettrico del musicista, ovviamente figlio di Ali Farka Tourè ma anche grande ascoltatore del blues di questa parte di mondo, John Lee Hooker su tutti. Da lì nasce una vicenda di demo registrati alla buona per una nuova pubblicazione di Lobi che fatica a trovare un'etichetta in grado di sostenerlo - nonostante una carriera più che ventennale - e poi scambi di mail, fraintendimenti dovuti alle differenze linguistiche (Traorè parla soprattutto il Bambara, lingua a cui corrisponde una tradizione musicale di cui il suono della sua chitarra è profondamente intriso) e infine questo disco benedetto. Registrato tutto dal vivo, senza una setlist prestabilita, durante una session di quattro ore, Rainy Season Blues illustra il Traorè acustico, solo chitarra, voce e storytelling. Le canzoni sono legnose di un legno brulicante di vita, la chitarra brucia di un'inquietudine ritmica figlia dei primi passi da percussionista del titolare (suonava le maracas in una banda di quartiere e le timbalas in un gruppo per matrimoni). La voce è vigorosa, muscolare, eppure straordinariamente lirica. Oltre ai nomi citati nell'aria c'è anche Howlin' Wolf e insomma Traorè è un altro di quegli alvei provenienti dal Mali e non solo al quale è impossibile per noi occidentali non andare a dissetarsi come ci si disseterebbe ad una fonte capace di farci conoscere l'unica vera nostra origine, il grande Ritorno. La storia completa di come sia nata un'opera come questa la trovate raccontata dallo stesso Eckman nel booklet del disco. Vi anticipiamo solo che ha tutta l'epica, la purezza e la tragicità della musica di quelle parti. Lobi Traorè è morto a quarantanove anni, non sappiamo cosa avrebbe potuto suonare ancora ma, credeteci, questa decina di canzoni scompaginano quella sublime indifferenza in cui la morte farà cadere tutti noi e la memoria del nostro transito qui: per Lobi non sarà esattamente la stessa cosa. (7.4/10) Luca Barachetti La smania di novità rischia di farci perdere uno degli album più focalizzati e maturi di Tim Harrington e soci, un inarrestabile fluire di elettricità policroma, che si apre con il riff dissonante di Appetite e prosegue con una serie di brani carichi di adrenalina: geometrie post punk per chi, artisticamente, è cresciuto col melodismo schizofrenico di Pixies e Superchunk. I LSF non hanno intenzione di cedere di un millimetro di fronte all’età che avanza anche se oggi a colpire, più che la follia del barbuto singer, è un chitarrismo sugge66 stivo e coloratissimo, ricco di riverberi ed effetti assortiti che avvicinano Dirty Knails e Lips’n Stuff al surf spaziale dei Man Or Astroman? e che illuminano di bagliori psichedelici la filastrocca di Sleepless In Silverlake. Root For Ruin è la somma algebrica delle esperienze di una band nata 90s, ma che continua ad elaborare con gusto ed originalità le sonorità contemporanee. (6.7/10) Diego Ballani Che c'azzeccano due siracusani con un blues rock asperso di umori southern, dalle venature contry-psych luccicose come ne intarsiavano i Grateful Dead del periodo Arista, il cuore ora in piena e ora in ambasce - conteso tra palpitazioni ruspanti e spasmi angolosi - come una disputa tra Wilco e Black Crowes? Abbastanza, perché Sante Barbagallo e Salvo Rizzuto iniziarono a staccare il biglietto per il loro sogno di rock'n'roll trent'anni orsono, abbozzando un sodalizio mai approdato ad alcunché di concreto. Un cerchio che si aprì quando Salvo abbandonò la terra natìa per l'ambita Londra, dove ebbe modo di farsi apprezzare come cantante lavorando con Trevor Horn e Stephen Duffy tra gli altri. Sante invece è rimasto a Siracusa dove ha aperto un negozio (di dischi, of course) senza però smettere il vizio di fare musica, suonando in diverse band della scena cittadina e organizzando eventi. Tre decadi dopo, cioè oggi, quel cerchio si è chiuso, ovvero l'intesa tra i due ha potuto finalmente compiersi, col non piccolo aiuto di Carlo Barbagallo (già Albanopower) in fase di arrangiamento e produzione. Al netto di qualche eccesso melodico, è un disco di ballate calde, intense, generose, capace di languori power pop (la notevole So Wrong) così come di abbozzare ombre Mark Lanegan in Brand New Day. Mai dimenticarsi di ricordare i sogni migliori. Vero? (7/10) Stefano Solventi Love In Elevator - Il Giorno Dell'Assenza (Go Down Records, Ottobre 2010) Genere: Noise rock Siamo un popolo di navigatori, di santi e, forse, di eroi, ma di sicuro non di shoegazers. Poi arriva un gruppo come i Love In Elevator, che non solo sfoggia la liquidità psichedelica del dream pop, ma dimostra di saperla coniugare con i costrutti più fisici del noise a stelle e strisce e del post punk. Il gruppo, fra vari cambi di formazione, esiste dal 2001 e giunge al terzo album con uno stile personale che fagocita trent'anni di rumorismo per creare il proprio magniloquente affresco psichedelico. Magari non sempre equilibrato: gli otto minuti della monolitica Dune, maelstrom sonico con contrappunto di violini, richiedono più di qualche ascolto per essere metabolizzati. Di certo non fa difetto una sana ambizione che li porta a trattare con maestria una materia estremamente urticante e variegata, a base di sfuriate punk e deliqui noise, e a cui la voce eterea della brava Anna Carazzai concede sempre una raffinata gentilezza pop. A fine ascolto resta ancora il fiatone per il tour de force de I Cieli Di Munch e il piacevole perdersi nelle suggestioni de Il Sesso Delle Ciliegie e Mata Hari, fra le cui complesse trame risuonano gli echi dei mai dimenticati Scisma. (6.8/10) Diego Ballani Low Frequency Club - West Coast (Foolica, Novembre 2010) Genere: electro funk Una chitarra che graffia nervosetta l'estro funk, tastiere (tastierine, tastierone, tastieracce) a pennellare frizzi e lazzi disco anni ottanta più o meno italo, traslati poi nelle aciderie club dei nineties con tutto il sovraccarico di tensione febbricitante e liberatoria, il tutto attualizzato per gli anni zero con piglio DFA. Due anni (quasi tre) dopo l'omonimo debutto, a pochi mesi dalla cover di Johnny Come Home (pezzone targato Fine Young Cannibals) che annunciava il nuovo corso su Foolica Records, i tre Low Frequency Club tornano con questo West Coast per ragguagliarci sulla loro frizzante ossessione. Traccia via traccia, cogli entusiasmo, impudenza, energia, la cura ludica dei dettagli, la saldezza affilata degli intenti. Una scrittura capace di sfornare potenziali craque come Disturbed Dancer o la feroce We Are Wolves. Roba felice e facile col ghigno nel taschino, attenta (giustamente) solo al qui e ora, tuffandosi dal trampolino di un passato ancora turgido. Capiterà ai bradipi come il sottoscritto di chiedersi: ma perché? Solo per sentirsi rispondere: perché no? (6.6/10) Stefano Solventi M.O.F. 5tet - Embarrassing Days (Marco Forieri Edizioni Musicali, Ottobre 2010) Genere: avant jazz Cinque ragazzi freschi di conservatorio (il Frescobaldi di Ferrara) portatori sani di disparità geografica (Veneto, Abruzzo e Sicilia) diventano un combo jazz con licenza di evadere. Condiscono la misticanza di trombone, sax, chitarra, basso e batteria con effetti sintetici e un diffuso estro avant-rock. E' tutto un giocare col fuoco, lo spirito lieve e serioso di chi sa le regole ma non può fare a meno di pasticciarle. Un processo irreversibile che produce imbastardimenti arguti, frutto d'istinto ma anche di evidente premeditazione. 67 Tengono le porte aperte anzi non ce ne sono proprio, e non a caso nella ragione sociale hanno messo l'acronimo del Mercato Orto Frutticolo, un parcheggio gratuito del centro, luogo di passaggi e incroci e guarda un po' chi si rivede. L'esordio Embarassing Days mette in fila otto pezzi originali che spaziano tra post-bop allucinato e disinvolta pensosità (la fascinosa Giù lì a Portobello), tra Blue Note ed E.S.T. (la title track), tra eleganza e sconcerto (Via delle Belle Arti). Più una cover genialoide, No One Knows dei Queens Of The Stone Age, virata in uno swing tra il maligno e lo sbarazzino. Disco che diverte e sbalordisce. Bravi ma bravi davvero. (7.4/10) Stefano Solventi Maciste - Maciste (Devil's Ruin Records, Ottobre 2010) Genere: etno blues folk Neanche il tempo di segnalarli sul Re-boot che i Maciste esordiscono con un album tutto intero e "ufficiale". Ribadiamo la bella impressione ricavata dal demo: il loro teatrino da folk-rock tarantolato, balcanico, circense, portatore insano di febbre garage e vintagismi psych, riesce a stare in piedi anzi a zompare come un bucaniere elettrificato. Ogni canzone una baracconata di trombe, tromboni, theremin, hammond, farfisa, chitarre, pelli sbatacchiate con soverchiante foga. La bombetta ben calata sul cranio, i cinque non fanno sconti alla loro voglia di ghigni, visioni alcoliche e sudori polverosi. Scomodano Tom Waits e Cramps, Jon Spencer ed Emir Kusturica, Sonics e Gogol Bordello, per un bailamme che diverte travolgendo (e viceversa). La multicefala God Is My Klaxon, la truce Callaghan Is Dead ed il folle barnum di B.B.B. sono forse i momenti migliori di una scaletta che non conosce tregua. (7.2/10) Stefano Solventi Madame Lingerie - D'amore, soldi e vendetta (, Novembre 2010) Genere: Rock Una sorta di riuscita versione italiana degli Interpol, così si definiscono i Madame Lingerie, band romana che con l'esordio D'amore, soldi e vendetta sforna dodici valide tracce di noise rock filo americano in bilico tra un crooning à la Interpol e un declamato letterario firmato Pierpaolo Capovilla. La prima traccia, Piu' niente, ha le carte in regola per una degna apertura: ritornello martellante su disilluse parole d'amore; ma nell'album quel che colpisce sono i cambi calcolati, i netti tagli ritmici, lo stile oscuro delle 68 liriche che declinano sentimenti persi in meandri dark. Ponciarello immerge le proprie radici nell'hardcore evoluto dei '90, quello del milieu Touch'n'Go per intenderci, Titanioc e E R R E macinano un grumoso basso Big Black, quando altrove un'altra strategia vincente sta nel dosare l'urgenza col taglio wave e il respiro maestoso dei cugini di Banks e co, ovvero gli Editors. Il quartetto, disincanto da false promesse e coscienza di ogni sfumatura dei propri riferimenti musicali, ha un impatto sonico egregiamente autoprodotto. Anzi, per dirla tutta, questo è uno dei casi in cui autoproduzione fa rima con qualità in missaggio e produzione, con l'unico difetto - che non andrebbe troppo stigmatizzato - dei testi di Alessandro, certamente ancora troppo succubi del frontman del Teatro degli Orrori sia quando s'affrontano temi di lucida rassegnazione (L'abbiamo pagata cara noi la nostra ingenuità / ma quanto ancora? Così seducente ed affascinante / ma l'oro che hai non brillerà mai da Titanioc), sia quando conducono l'amore al limite (Voglio una vita di stenti e che tu ti accontenti soltanto di me sempre da Titanioc), oppure ancora quando, pensando a Manuel Agnelli, cacciano i sentimenti in faccia (Ti regalo un po' della mia giovinezza per avere l'incubo nel cuore di non farcela / non ce la fai più ad amare / non ce la fai più a sentire quella voce che diceva 'tutto cambierà da La cartomante). Lavorando in personalità, sulla padronanza dell'articolazione lirica e limando certe cadenze à la Banks, dai Madame Lingerie possiamo aspettarci grandi cose. Per il momento abbiamo un esordio potente e coeso, dalle dinamiche chitarristiche e ritmiche notevoli. (6.9/10) Giulio Bartolomei Magda - From the Fallen Page (Minus Records, Ottobre 2010) Genere: Minimal Nonostante sia accanto a Richie Hawtin sin dai tempi di Detroit, ovvero dai primordi di Plastikman, Magda, che nella scuderia ora berlinese del maestro è probabilmente la migliore scoperta, arriva soltanto oggi a pubblicare l'esordio sulla lunga distanza. From The Fallen Page è una bestia scura che ti cattura lentamente: ritmi minimal a basso contenuto di bpm, groove bituminosi che grondano dalle pareti dei club techno di mezza Europa di cui la ragazza conosce ogni segreto e tocchi di fantomatiche soundtrack operistiche o sci-fi (Lost In Time) che se, da una parte, sciorinano l'industrial danzereccia, dall'altra mandano a memoria i Kraftwerk amati dalla città dei Motori (Music Box) e persino il post-punk newyorchese accarezzato dalla cricca Gigolo (Little Bad Habits). A Detroit, Magda c'ha abitato dai nove ai trent'anni. Ora che sta a Berlino, quest'album sembra un dedica alla culla della mitteltechno delineata attraverso originali e preziosi toni di grigio, chiaroscuri '80/'90 e quell'amore viscerale per le Roland più scrause e nerdy. La polacca poi, ci aggiunge l'inquietudine fast inguaiata con la keta, che è un po' il sign o' the times 00, dosandola egregiamente dall'inizio alla fine; proprio nel finale Japan rilascia l'adrenalina sotto forma di cocktail Ottanta, sempre e comunque guidato dall'implacabile beat che borbotta, gorgoglia, gracchia. Ti prende. (7.2/10) Edoardo Bridda Magnetic Man - Magnetic Man (Columbia Records, Ottobre 2010) Genere: Dub all star step Sembrava dovesse venir giù il mondo con lo sbarco degli uomini magnetici, tre ragazzi stanziati a Croydon, South London, che un lustro abbondante fa contribuirono a creare la miscela esplosiva che dette origine al suono elettronico più famoso degli anni Zero, il dubstep. Abbiamo invece un debutto diviso tra una noiosa parte strumentale e un’altalena di potenziali singoli dal taglio pop (e un tocco di grime) che flirtano con l’immaginario rave e cercano spasmodicamente di incunearsi nei gusti allargati di due generazioni ravetroniche. Per i catastrofisti e i puristi, il 2010 sarà l’Altamont del dubstep, più concretamente il debutto di Magnetic Man lo banalizza togliendogli quasi ovunque la carica anthemica e offrendo in cambio al massimo due canzoni di futile appeal. Provenienti da un genere pop per eccellenza come il 2step e da pionieri quali gli Horsepower Production (primi destinatari dell’etichetta nel 2002 che le canzoni le sapevano fare), i tre supereroi del dubstep, Benga, Skream e Artwork, più vicini al grime (hip hop e ragga) che allo stepping e all'immaginario di un Burial, faticano a trovare le soluzioni melodico-ritmiche per reinventarsi mainstream (Boiling Water con Sam Frank è imbarazzante), mentre trovano alcune suggestive soluzioni sul lato black della scaletta dove il tocco di Benga è evidente e la consolle libera dai compromessi (Fire, The Bug). Di fatto più che su un discorso di strofe, il grande successo del singolo apripista I Need Air è un gioco sul bliss da rave ed è un peccato che l’album punti proprio su quelle, fallendo inesorabilmente la sua riuscita (Crossover). La parte strumentale, dicevamo, è spesso inutile: Anthemic e Mad mescolano edulcorati gracchi Terror Danjah con noiosi interventi di synth cinematici e me- morabilia IDM, Ping Pong si butta soltanto su questi ultimi con risultati ancora più inconsistenti. Verso il finale, Skream si cimenta in territori Aphex Twin con la discreta ambient psych di Box Of Ghosts e un attacco d’ouverture (Karma Crazy) che convertirà nelle vecchie maniere. E’ troppo tardi però. Il pasticcio è già fatto. "Getting Nowhere" canta in toni soul John Legend nell’omonima track, ed è l'unico episodio veramente degno di nota. (5/10) Edoardo Bridda Mambassa - LP (EMI, Ottobre 2010) Genere: pop d'autore Compito non facile quello di tornare dopo sei anni - che alla voce pop italiano hanno significato molto: fatela voi una lista dei dischi importanti usciti nel mentre. Eppure i Mambassa ci riprovano, con l'orgoglio di aver rappresentato un bel capitolo della nuova musica italiana a cavallo tra la fine del secolo scorso e l'inizio del nuovo e con la forza di tante esperienze musicali e non solo (vedasi il libro e il film realizzati nel frattempo dal leader Stefano Sardo). A ciò aggiungete anche due cambi di formazione (dentro il tastierista Fu, fuori durante la lavorazione il chitarrista Ninotosh) e i predicati ci sono tutti: LP, ovvero Lonely Planet, è il racconto di una contemporaneità affollata ma carica di solitudine da parte di chi, superati i trenta, traccia bilanci, riparte, si disillude. Il tutto vergato in una serie di pop-ballad che definiamo manualistiche per parlarne bene, tra i canonici climax a gradoni d'intensità de La costruzione della notte, le voci di cuori digitali in zona Subsonica via Air di Immolando e la presa rapida di un singolo tutt'altro che ruffiano ma gravido di buone idee (in primis la chiusura tranchant) come Casting. Tuttavia viene difficile non pensare ai Mambassa come ad un gruppo che da qui in poi dovrà inseguire. Vuoi perché gli anni intanto sono passati e i novanta non hanno più quella fortuna, vuoi per qualche lirica un po' semplicistica, vuoi per i rimandi continui che rallentano qualche traccia (a realtà anche contigue: i Perturbazione qua e là, oltre ai già citati torinesi), alla fine succede che Lonely Planet decolla, sì, ma rimane a mezz'aria o poco più su. E dire che ci piacerebbe trovarli in radio al posto dei Negramaro è un complimento che non basta. Meglio concentrarsi sul fiore all'occhiello delle coloriture de La pioggia di settembre o sull'ossatura vintage da Pregherò di Ora che non ci sei più tu. Segnali non tanto piccoli di un gruppo comunque ancora in gara. (6.5/10) Luca Barachetti 69 Mark Chadwick - All The Pieces (Stay By, Settembre 2010) Genere: Folk biopic Chi seguiva le vicende della terra d'Albione a cavallo tra Ottanta e Novanta, ricorderà come Mark Chadwick e i suoi Levellers fossero qualcosa di molto vicino a rock star. Il loro folk-punk era riuscito ad infilarsi nelle posiozioni alte delle classifiche e il loro culto era cresciuto un po' ovunque nel biennio successivo al debutto A Weapon Called the Word nel 1990. In seguito le cose non sono andate tanto bene, decretando un primo stop all'attività già nel 1998. Gli anni zero li hanno rivisti in azione, con due album che non hanno spostato di una virgola la loro storia e che hanno solo soddisfatto i nostalgici. Oggi il loro leader e frontman esordisce in solitaria, con dodici brani che rappresentano una sorta di piccola autobiografia in musica e che ce lo restituiscono in una forma notevole. Non che All The Pieces faccia gridare al miracolo, ma è sicuramente il miglior lotto di canzoni che il cantautore di Brighton scrive da almeno un decennio. Rispetto al gruppo-madre, qui si spinge il tutto in territori più pop, senza rinunciare a qualche messaggio tra l'ironico e l'impegnato ("stop the war/and all of that/just keep drinking/perhaps we're better at that" canta in Indians). Gli episodi migliori sono quelli più solari e corali, oltre alla già citata Indians, la titletrack (tra le cose più appiccicose dell'anno), Havens, Empty Now. Non sarà l'evento dell'anno, ma la freschezza delle melodie, la semplicità degli hook e una maturità serena dicono di un musicista con il quale fare ancora i conti. (6.7/10) Marco Boscolo Marnie Stern - Marnie Stern (Kill Rock Stars, Ottobre 2010) Genere: Math rock Non è eccessivo affermare che i due precendenti lavori di Marnie Stern avevano lasciato sbigottiti anche i recensori più smaliziati. Quel brutale cozzare di stili (rock, metal, prog, noise, psichedelia e chissà quant'altro) lasciava sul campo un'installazione surreale che proprio non si sapeva da che parte iniziarla ad ascoltare: affascinante, come tutte le cose di cui ancora non si comprende bene la portata, ma solo per i primi minuti. Superato lo stupore iniziale iniziava a subentrare un certo senso di irritazione destinato a protrarsi per il resto dell'ascolto. L'effetto viene in parte lenito in questo terzo e omonimo album, infarcito di un math rock metallifero senza posa, con batteria in assolo perenne, chitarra tormen70 tata e una vocalità portata a raggiungere note impossibili. Il problema di fronte ad un tour de force sonoro così deliberato è capire fino a che punto arriva la spontaneità, non tanto perché sia interessante sapere se la Stern soffra realmente di qualche sindrome isterica, quanto perché, a tratti, tutto ha il sapore un pò artefatto dell'esercizio di stile. L'euforia declinata nel febbrile finger picking è un'idea interessante, ma quando se ne fa un uso così sistematico, finisce per inficiare sul risultato finale. Basterebbe poco, magari solo un piccolo aggiustamento, tipo ripiegare su formule più contenute, come accade nella più rilassata e focalizzata Tranparency Is The New Mistery, in cui l'irruenza della bionda chitarrista viene disciplinata in geometrie più intellegibili, consentendole di trasmetterci un pò di quel fuoco sacro che da tempo sembra essersi impossessato di lei. (6.3/10) Diego Ballani Matthew Herbert - One Club (Accidental, Ottobre 2010) Genere: minimal, concrete "Dai free party siamo finiti nei Club e da lì il discorso non si è spostato, anzi, nei Club c’è la vita reale, ci sono le compagnie di tabacco, telefonia, alcol. Insomma c’è la pubblicità, gli sponsor e cose così. Invece di aprire la mente alla gente, il Club gli ha fatto accettare una realtà corporativa. Con la mia musica sto cercando rendere chiari questi link". Lo scorso giugno Matthew Herbert, in un misto di nostalgia e rabbia, ce la dipingeva così la vita nei Club odierni, dal punto di vista di un uomo che dopo essersi vissuto il meglio dell'epopea free party, si ritrova di fronte a una realtà di contenitori sociali totalmente controllati da multinazionali lecite e illecite. Da lì One Club, il disco di musica da ballo imballabile, la telecronaca del weekend sballone dove tutto è meccanizzato fin nei più minimi bit, dal ritmo all’accensione di una sigaretta, dal blin blin della cassa, al succhio della cannuccia del cocktail. L’ex Dr. Rockit che in passato pionierizzò la microhouse ritorna sulla dance per parlarci dei legami subdoli che ora la alimentano. Le sorgenti dell’album sono state prese in un’unica serata al Robert Johnson, un nightclub di Francoforte. Herbert li ha successivamente tagliati, cuciti e messi in battute industrialeggianti (Jalal Malekidoost), rotonde o robotiche con il preciso scopo di generare nell’ascoltatore un rise da pasticca marcio e distante, inebriantemente guastato o disumano tout court (Robert Johnson). L'unico tocco uber alienazione che apre alla cosiddetta creatività - completamente assente nella minimal di molti set - è un coro che è poi il leitmotiv del disco: ballerini di musical (?) che sporadicamente rompono la monotonia, come se dal cubo club si passasse al teatro, dove tutto è più gruppale e umano. One Club è un lavoro tanto sociologicamente riuscito quanto sonicamente controverso. Da un lato ricorda alcuni lavori giovanili dei Matmos o i Residents di Diskomo (Marlies Hoeniges); dall’altro, resistendo alle ipotesi gigione o sarcastiche, costringe l’ascoltatore a una seduta musicalmente anomica e monodimensionale. Forse al Sonar chi ha fischiato Herbert non aveva tutti i torti questa volta. Aspettiamo One Pig. Finale della trilogia nonché l'episodio più atteso. (6/10) Edoardo Bridda Maximum Balloon - Maximum Balloon (Interscope Records, Settembre 2010) Genere: funk pop David Andrew Sitek risponde al coming out solista di Tunde Adebimpe - sotto le spoglie dei Rain Machine - gettando ulteriore luce sulla ricetta Tv On The Radio. Come dire: se Adebimpe costituisce il portato black con tutte le rifrazioni psych, soul, hip-hop e gospel, Sitek è l'emisfero sinistro synth-pop impegnato a razionalizzare il virus funk. C'ha la stoffa, il passo, la vena del produttore, quello che tiene il suono nei ranghi, come ha già dimostrato lavorando per Yeah Yeah Yeah's, Foals e Scarlett Johansson. Per questo debutto del se stesso cammuffato da Maximum Balloon, intendeva confezionare tracce da ascoltarsi "in auto, in banca, uscendo con la ragazza, in qualsiasi circostanza". Elogio del medium freddo, coinvolgimento epidermico, understatement emotivo: in effetti, c'è riuscito. La scaletta celebra un intrattenimento agile e arguto, ingredienti e dosaggi azzeccati, interpreti compresi. C'è soprattutto un'anima talkingheadsiana che pompa funky in Tiger (affidata all'ottimo Aku, singer dei Dragons of Zynth), s'imbizzarrisce d'umori Prince in Groove Me (per la voce del rapper newyorkese Theophilus London) e ciondola etniche ironie in Apartment Wrestling (a cura del maestro David Byrne). C'è poi la verve Gorillaz diluita Bob Sinclair di If You Return (ospiti gli svedesi Little Dragon) e tanta voglia di eighties in guisa Human League e David Bowie che zampilla in Young Love (per la voce equivoca di Katrina Ford). Sono episodi gradevoli e intensi come caramelline di zucchero ed altrettanto effimeri, alla pari di Communion (feauturing Karen O) e delle pur vagamente eniane Pink Bricks (can- ta Ambrosia Parsley) e The Lesson (per una interessante Holly Miranda). Lo pseudo ricongiungimento della band madre in Absence Of Light non esalta, però serve a ricordarci che spesso il totale supera la somma delle parti. E neanche di poco. (6/10) Stefano Solventi Method Of Defiance - Nihon (RareNoise, Settembre 2010) Genere: fusion impro I Method Of Defiance sono il considerevole sfizio allestito da Bill Laswell per esplorare ed escogitare una sua certa idea di fusion contemporanea. Che prevede inneschi e incroci dub, electro-hardcore, improv jazz, drum & bass e spurghi noise. Una formula a tratti incendiaria, soprattutto quando in Method Plan One e Black Rain preme sull'acceleratore e scioglie le briglie alla tromba di Toshinori Kondo, col suo lirismo vetrificato e luciferino che si sposa assai bene coi vocalizzi mutanti di Dr. Israel. Bei momenti, una strana dimensione da rave espanso, brodo di cagna nel drink energetico, hammond (a cura del leggendario Bernie Worrell) che gronda sudori antichi per estasi nuove. La fase dub è invece più scontata e dispersiva, insegue suggestioni che - soprattutto negli assolo del bassista - non vanno oltre una maniera cortocircuitata, e la band finisce per sembrare un manipolo di virtuosi al guinzaglio di un'idea bolsa e un po' dispotica. Disco comunque zeppo di spunti interessanti, esaltati dall'incisione live (due set giapponesi del 2007) giustamente testimoniata dal DVD allegato. (6.3/10) Stefano Solventi Midnight Juggernauts - The Crystal Axis (Siberia Records, Settembre 2010) Genere: synthpop The Crystal Axis lavora su un contesto estremamente definito: synth pop alla Ultravox con ambientazioni Kraftwerk-iane. Pop e "canzoni" per androidi d’antan. Nonostante la formula assodata, però - e forse proprio con un peso così grande sulle spalle - è proprio ciò che porta tale retroterra nel "popolare" a evidenziare delle pecche. Ossia, detto semplicemente, l’avvicendamento strofe / refrain. Sono proprio i ritornelli, quei momenti che dovrebbero imperniare attorno a sé l’efficacia di una canzone, nello schema scimmiottato del rondò, che finiscono per rovinare i brani (Lifebllod Flow), laddove nella costruzione 71 delle parti restanti dei brani si nota una certa abilità a gestire gli strumenti pop-androidi dei già citati Kraftwerk, Ultravox, oppure Jean Michel Jarre, delle volte Roxy Music (This New Technology) Anche quando l’architettura della canzone sta in piedi e mostra delle buone "solette" (il riff di Lara Versus The Savage Pack), le melodie - e la voce che canta - non si distinguono per personalità, eppure risultano evidentissime, perché in primo piano (eclatanti in Dynasty). I Midnight Juggernauts hanno sicuramente ascoltato e interiorizzato le cose migliori del genere. Epperò gli australiani, pur essendo attivi da cinque anni, non sembrano aver trovato una buona penna con la quale scrivere, solo un set per fare miniature e disegnare paesaggi siderali. Rispettabile compito. E lo faremmo volentieri un viaggio, nella galassia stereotipata degli uomini macchina. E invece dobbiamo starcene a guardare l’astronauta partire, dal pianeta Terra. (5/10) Gaspare Caliri Milva - Non conosco nessun Patrizio! (Universal, Settembre 2010) Genere: pop d'autore Questi due insieme hanno fatto faville. Milva e Franco Battiato, negli anni Ottanta, lei già consacrata qualche interprete brechtiana, lui eccentrico re mida del pop di casa nostra, due dischi insieme (Milva e dintorni, 1982, Svegliando l'amante che dorme, 1989) da avere assolutamente quali gioielli laterali di un decennio che cambiava le regole dello scrivere canzoni in italiano - e a cambiarle c'era proprio lui, che per la Rossa scriveva la celebre Alexander Platz, ma anche Poggibonsi, Atmosfera: cercateli in rete (visto che la discografia langue) e fateli vostri. Proprio da due canzoni di quel periodo (Una storia inventata e I processi del pensiero, entrambe dal secondo disco) riparte oggi la collaborazione. E fa strano ritrovarli insieme in quella che fu una partnership mitologica, se non altro perché se là di oro si trattava qui è di bigiotteria che parliamo, di quella d'artigianato vero però, certo non così inarrivabile eppure di tutto rispetto visti anche gli anni passati (Milva ha annunciato la fine della propria carriera dal vivo) e le situazioni differenti. Il repertorio scelto è di quello che non t'immagini del tutto, ed è forse questa imprevedibilità senza troppo clamore il quid di Non conosco nessun Patrizio!. Come a dire che la coppia si voleva divertire, trovarsi insieme ancora una volta a fare musica e niente di più. Oltre ai ripescaggi dai dischi precedenti, debitamente 72 riarrangiati (splendida I processi del pensiero), troviamo due canzoni da Il vuoto (non fra i momenti memorabili della produzione di Battiato) rinvigorite da lei con la giusta dose di ieraticità per I giorni della monotonia e uno slancio vitale per Io chi sono, l'episodio migliore dell'intero lotto, trasformata da meditazione sintetica alla Eno in illuminazione pop su un lago calmo di synth. Poi l'inedito, una title-track immalinconita, lì a metà tra le ultime cose del siciliano e L'ombrello e la macchina da cucire. Infine una serie di recuperi anche coraggiosi (Il ballo del potere, un vestito insolito addosso a Milva ma portato con dignità), a volte condotti tramite eccessiva verbosità (Le aquile, Bis Du Bei Mir) altre volte con la giusta dose di dramma vista l'apoteosi d'archi di contorno (Segnali di vita). Certo, lo dicevamo, negli anni ottanta era tutt'altra storia. Oggi Battiato pare in preda ad un'ansia da lavoro su materiale già esistente (suo e di altri) che non ha però portato a chissà quale exploit. Milva invece saluta lasciando un filo di rimpianto: potrà piacere o meno, ma scorrete la sua discografia e diteci il nome di un'altra interprete, anche oltreconfine, che ha cantato così tanti autori e così diversi. (6.8/10) Luca Barachetti Ministri - Fuori (Universal, Ottobre 2010) Genere: rock italiano Giunti alla quarta uscita in quattro anni (tre dischi sulla lunga distanza e un ep) i Ministri deviano sensibilmente verso un songwriting meno furente, più concentrato nei dettagli e nella rotondità di forme. Non è tanto il marchio Universal a guidarli - siamo pur sempre distanti da una qualsivoglia possibilità radiofonica - ma l'esigenza di un cambiamento che li salvaguardi da ogni manierismo in agguato. Se Fuori lascerà piuttosto tiepidi i fan della prima (e della seconda) ora non sarà solo per l'introduzione di un pianoforte qua o di un banjo là, per qualche cascame new-wave che si profila non così inaspettato all'orizzonte o per una manciata di interventi elettronici tutt'altro che invasivi. A mancare semmai è l'impeto delle prove precedenti, volutamente calmierato in favore di un mood più interiore, personale. Nessuno slogan, nessuna citazione di nomi e cognomi; piuttosto un'indole cantautorale che racconta storie attraverso frame fotografici o visioni vagamente surreali su linee melodiche anche seduttive. Funziona? Non troppo. I testi di Federico Dragogna non reggono per dodici tracce e a volte faticano a scorrere lungo l'incedere più sciolto di un tempo dei brani; la voce di Davi- de Autelitano compensa con le solite eccellenti parti urlate (al limite dello screaming più puro) un'interpretazione che nei momenti meno concitati fatica a trovare una sua espressività. Innegabile dunque il gap tra intenzione e attuali capacità: nonostante ciò Fuori strappa una sufficienza risicata grazie un'urgenza che, seppur oggi più sottocutanea, a differenza di altri nomi-simbolo degli anni zero italici non è venuta a mancare. (6.2/10) Luca Barachetti Mt. Desolation - Mt. Desolation (Cooperative Music, Ottobre 2010) Genere: pop supergroup Raccontata così sembra una barzelletta: ci sono due Keane (Tim Rice-Oxley, Jesse Quin), uno dei Killers (Ronnie Vannucci) e un tizio di Noah And The Whale (Tom Hobden) che hanno deciso di formare un supergruppo con Winston Marshall dei Mumford And Sons. Uno dal discreto talento, quest’ultimo, che messo a confronto con gli altri nomi coinvolti passa per genio e comunque non impedisce il naufragio di uno scontato country-folk che degenera in irritante banalità da FM. Salviamo giusto il brio dell’iniziale Departure, la morbida efficacia di Bridal Gown e la malinconica My My My da cinquanta minuti che svelano subito la natura di passatempo allestito da mezze tacche più un onesto musicista, giocati tra pulite esecuzioni buone per la radio di un centro commerciale, belle forme senza un filo d’ironia e qualche pallido esercizio di stile. Roba priva di un perché, quando di dischi ne escono cento e anzi mille in un mese e un pubblico che li acquisti non esiste praticamente più, ma figurarsi se costoro si sono posti il problema. Siccome la pubblicità è l’anima del commercio (e in questo caso de li mortacci loro), il comunicato stampa informa che il progetto è nato dopo una colossale sbronza al pub. Ripensarci la mattina seguente dopo un bel caffé forte e un paio d’aspirine pareva brutto, eh? (4.5/10) Giancarlo Turra Orb (The)/David Gilmour - Metallic Spheres (Columbia Records, Ottobre 2010) Genere: Ambient, psych L’egregio David Gilmour è uno vecchio stile. Alla politica ci guarda e ai charity event - come li chiamano in Inghilterra - è sempre in prima linea. Lo scorso 11 luglio ha nuovamente condiviso il palco con il non troppo amico Roger Waters per dare speranza alla prossima genera- zione di palestinesi che cresceranno nella famigerata striscia di Gaza, mentre lo scorso anno aveva registrato un contributo così così (Chicago) per una canzone pro Gary Kinnon, il famoso hacker reo di aver operato la più grande intrusione informatica di tutti i tempi. Il ritornello lo potete ancora ascoltare: si trova nella seconda delle due suite di questa improbabile collaborazione. Ci sentite Gilmour, nel classico registro alto e roco, intonare "do you believe in justice / do you believe in freedom" e in sottofondo - pare ancora di sentirceli - i due vecchi amici Alex Paterson e Martin "Youth" Glover farsela sotto dal ridere. Mille anni fa il primo iniziò la carriera musicale come roadie dei Killing Joke - e per lui galeotto fu l’ascolto del Brian Eno di Music For Films sotto LSD - mentre il secondo, bassista di quella stessa band, fu l’artefice, assieme ai compagni, di quella fusione tra post-punk e metal che sarà poi la base per dozzine di gruppi vampironi d’oggi e nu metal di ieri. Quei due oggi sono persone diverse. Youth, ad esempio, è un produttore di grido nonché cofirmatario di un progetto con Paul McCartney. Eppure il credo punk e il disprezzo hippy non sono cose che si cambiano facilmente, specie se cresci a pane e sound system e ti trovi dietro al vetro non più un Steve Hillage qualsiasi, ma il chitarrista più odiato dalla tua generazione. Negli anni d’oro gli Orb confezionavano alcuni singoli dal minutaggio impegnativo (Blue Room), prendevano in giro i Pink Floyd di Animals nella copertina di un loro album live (Live 93) e soprattutto davano alle stampe un monolite come The Orb's Adventures Beyond The Ultraworld che altro non era se non una grande truffa di visioni pastorali, campioni rubati a gente famosa tipo Steve Reich, robusti reggae dub e spruzzate psichedeliche tutt’altro che serie ma funzionali alle amplificazioni emotive della generazione E. Oggi ritroviamo quelle suggestioni, un po' rabbonite ma non senza la proverbiale ironia, in un viaggio psych che è come ce lo si aspetta: due lunghe suite (divise al loro interno in cinque parti) d’ambient house primissimi Novanta, tra accordi blues, folk e new age (à la Wish You Were Here, per intenderci) con il chitarrista inglese più presente nella prima e qualche cedimento narrativo sulla seconda. Ad ogni modo, un tassello indispensabile nella discografia orbiana. (7/10) Edoardo Bridda 73 Owen Pallett - A Swedish Love Story EP (Domino, Novembre 2010) Genere: chamber pop EP di inediti che segue di alcuni mesi Heartland uscito a inizio 2010, A Swedish Love Story EP ripercorre da abbastanza vicino per mood l’album concept che lo ha preceduto: chamber e synth pop, indie e songwriting classico, analogico e digitale, con il consueto rimescolamento che il Nostro fa ormai con padronanza e maturità. Van Dyke Parks, Brian Wilson e chamber pop: insomma ritroviamo qui gli elementi basici della sua musica. Ma a differenza di Heartland, Pallett ha registrato i quattro pezzi dell’EP molto velocemente a New York, usando il violino, il Moog, il basso e una batteria elettronica. Una semplificazione forse necessaria dopo l’elaborato parto precedente. Essenziale. (6.8/10) Teresa Greco velocità nel precedente Psiche), Storia minima è il primo dei tre apici del disco, un piano-voce teatrale sull'onda di Dal loggione seppur più moderato nei toni. Da lì in poi Nelson riprende quell'invaghimento per i suoni sintetici già comune in alcuni dischi degli anni ottanta e che era anche la maggior novità di Psiche. C'est beau, ancora in francese, gioca su un quadratissimo pop modernista; Massaggiatrice è puro e pudico relax in forma canzonettara con sonnacchiosa batteria elettronica sullo sfondo; Sarah, secondo apice, è quasi downtempo con synth aeriformi luminosi e testo in inglese lamentativo. Le cineserie di Sotto la luna bruna anticipano poi il terzo apice, una Suonno è tutt'o suonno intrisa in synth subcoscienziali con violino solitario e versi onirici, mentre il trittico finale (Los amantes del mambo in spagnolo, il gustoso singolo L'orchestrina e Bodyguard for myself) chiude un disco la cui dedica a Renzo Fantini è un sigillo di memoria e commozione. (6.8/10) Luca Barachetti Paolo Conte - Nelson (Universal, Ottobre 2010) Genere: canzone d'autore Paolo Conte è di quella genia di songwriters la cui imitazione non è solo impossibile, ma vana. Troppo personale e rigorosa una poetica che dal 1974 (anno d'esordio come titolare, dopo un decennio come autore per altri) lo ha visto costruirsi un mondo suo proprio, d'immaginazione unica eppure così solidamente legata ad alcune immancabili influenze (il jazz fino ai cinquanta, la canzone francese, il tango e poco altro). Negli anni è diventato un classico vivente ed è dunque normale che gli ultimi dischi della sua produzione ripassino un repertorio di soluzioni prestabilite, giocando sul filo sottile di variazioni minime e ritorni. Per chi scrive l'ultimo grande capolavoro contiano è Una faccia in prestito (1995), da lì in poi una produzione sempre sopra la media, con qualche grande momento e tanto (buon) mestiere. Così è per Nelson, titolo-dedica ad un suo cane, un pastore francese «dal carattere difficile ma con orecchie musicali», e quindici tracce che smentiscono l'annunciata crisi creativa di qualche anno fa. L'iniziale Tra le tue braccia ripropone una classica ballad tra il malinconico e il dolorante-dondolante; Jeeves omaggia Woodhouse con uno swing brioso e elegante; Enfant prodige è languideria in francese; Clown una Max ripassata Nino Rota; Nina vorrebbe osare di più sul versante carioca ma si sa che l'Avvocato il fiume di gennaio l'ha visto solo dall'aereo. Dopo Galosce selvagge (sequel podistico di quell'inno alla due ruote che fu Silenziosa 74 Paul Smith - Margins (V2 Music, Ottobre 2010) Genere: Songwriting Mentre i Maxïmo Park si leccano ancora le ferite per non essere stati in grado di dare un degno erede a Our Earthly Pleasures, Paul Smith, che ne è il fulgido frontman e songwriter, si prende due dei migliori pop maker in circolazione, i Field Music, e sforna un side project a proprio nome, Margins. Messa così sembra promettente, ma già dopo la prima passata, il risultato è la solita minestra: come accadeva in Quicken The Heart, dove a latitare erano proprio le canzoni, anche qui mancano i numeri per catturare davvero l’attenzione dell’ascoltatore. Smith para sul confidenziale nel classico registro cristallino che lo contraddistingue sin dagli esordi, piega le strofe del suo gruppo in una faccenda folk (This Heat) o in qualcosa di Morrissey-iano (I Drew You Sleeping), magari con l’aiuto degli ospiti (Strange Fiction è un brano dei Field Music?), eppure non riesce mai a darci l’impressione di crederci davvero. Brani dal crooning accorato come Alone, I Would’ve Dropped, oppure episodi sul lato più emozionale/rockista del disco (il remember anni ’90 di Dare Not Dive) sono la dimostrazione di quanto piacevolmente inutile sia un’operazione del genere. O quanto sia inadeguato Smith quando pretende d'arrangiare un brano à la Micah P. Hinson, con chitarrini e archi (Pinball). Si può salvare The Tingles, il resto alle ortiche. (5.5/10) Edoardo Bridda Peppe Voltarelli - Ultima notte a Malá Strana (On The Road, Aprile 2010) Genere: etno-folk Non è world la musica di Peppe Voltarelli, ma di scorribande in giro per il mondo certamente si nutre. Quelle dell'ex frontman de Il Parto delle Nuvole Pesanti, come anomalo ambasciatore italiano in terra straniera con le sue canzoni, e quelle di un'indole che raccorda radici diverse, proprie ed altrui. Così in questo secondo disco in solitaria, complice la buona produzione di Finaz della Bandabardò, gli arrangiamenti smagriscono e a giovarne è l'interpretazione - da parte di un cantante dalla voce salina e potente, che è anche attore e performer imprevedibile - fermo restando che le canzoni raggiungono una qualità media inedita prima d'ora. Facile allora, fatte queste premesse, immaginarsi cosa contenga Ultima notte a Malá Strana: strizzate d'occhio al folk globalista di Manu Chao, fragranze manouche e profluvi di mandolini, lo spirito sarcastico e rabbioso di Matteo Salvatore come quello volto a nobilitare la tradizione di Domenico Modugno. In mezzo anche una cover PartoBanda de Gli anarchici di Leo Ferré cantata con Enrico "Enriquez" Greppi. Meritata la vittoria al Tenco nella categoria dialetto dei cinque finalisti era il migliore - certo è che su disco Voltarelli non riesce ancora a convogliare tutta l'energia dei live. (6.6/10) Luca Barachetti Pete Swanson - Feelings In America (Root Strata, Settembre 2010) Genere: psych-noise Lo aveva già annunciato lo scorso anno in occasione di un'intervista, che la sua attività di musicista non si sarebbe interrotta con i Yellow Swans, ed ecco ora per Root Strata l'esordio da solista di Pete Swanson. Con 300 copie in vinile non si tratta di certo di un'operazione in grande stile, ma considerata la rapidità con cui il disco è andato sold-out si può immaginare che c'era una certa attesa per il lavoro del musicista di Portland. E sicuramente i vecchi fans di Yellow Swans non saranno delusi: Feelings in America non si allontana molto dai tragitti percorsi dalla vecchia band, se non per dei toni meno aggressivi ed una maggiore predilezione per scivolate droniche, mentre la totale assenza di parti percussive e scarti improvvisi lascia intuire che dei due era Gabriel Saloman a costituire il versante tecnoide. Delle due lunghe tracce, migliore sicuramente The Fermata, dove sparse note di chitarra tracimano inesorabilmente verso un wall of sound da annebbiare l'udito, mentre senza che ci si renda conto di niente, accade di tutto. Da manuale delle musiche immobili. (6.9/10) Leonardo Amico Philip Jeck - An ark for the lister (Touch Music UK, Novembre 2010) Genere: Spiral-Acusmatica An Ark of the listener prende spunto dagli oscuri sonetti di "The Wreck of the Deutschland" del gesuita Gerard Manley Hopkins, ordigno di mistica negativa la cui visioni apocalittiche pare abbiano stregato l'inconsolabile Philip Jeck, sempre alla ricerca di un equilibrio spirituale. All'appuntamento l'artista inglese si presenta armato dei soliti attrezzi e fini: una casio da mercatino, vecchi fonografi modificati, un delay della boss e un DAT mandati più o meno in random con l'aggiunta di riverberi parasinfonici. Che tradotto significa: i loop disintegrati di William Basinski e i rigurgiti memoriali di Janek Shaefer, con l'unica differenza che qui i suoni non collimano più, non s'infrangono più come onde. A parte The all of water e The pilot, dove affiora un po' della stralunata ricchezza dei debordanti esordi, il resto pare ripiegato su se stesso, privo di ricami. La mistica del gesuita si traduce così in un b-horror monotimbrico e avviluppato nel disagio isolazionista dell'artista inglese che pare essersi lasciato alle spalle la vena maledetta ed essenziale dei suoi importanti inizi. (6/10) Salvatore Borrelli PQ - You'll Never Find Us Here (Expanding Records, Novembre 2010) Genere: ambient Furbi sono furbi, i Pq. Interessati a dare un immagine dell'ambient quanto più friendly e malinconica possibile, tra accenni post-rock su arpeggi di chitarre acustiche (Somebody Should Repeat My Summer) e archi in deriva cinematica (The Cairo Truth), elettronica minimal e crepitante (Jocelyn) e intimità soffuse in stile Yann Tiersen condite da un retrogusto psichedelico (A Taste Of Diminished Expectation). Il duo belga (Samir Bekaert e Maarten Vanderwalle dietro alle macchine) dimostra comunque un gusto sopraffino nell'assemblare i suoni di You'll Never Find Us Here, un misurare maniacale influenze, sfumature e ceselli strumentali da cui traspare evidente la matrice nord-europea/francofona del progetto. Per un disco sospeso tra melodia e costumer care, in un 75 gioco di atmosfere che va per sottrazione riuscendo nel contempo a suonare cool. (6.9/10) Fabrizio Zampighi Quest For Fire - Lights From Paradise (Tee Pee, Ottobre 2010) Genere: psych-stoner La Tee Pee, label americana che si muove in ambito psichedelico con piacevoli invasioni di campo sul versante hard & heavy, ultimamente non perde un colpo. L’ultimo colpaccio è il sophomore dei Quest For Fire, quartetto canadese formato dagli ex Deadly Snakes Chad Ross e Andrew Moszynski con Josh Barman e Mike Maxymuik che aveva già sorpreso due anni fa con l'omonimo esordio Quest For Fire. Costretti a bissare una prova ben accolta ovunque, i quattro allargano la prospettiva introducendo di elementi apparentemente estranei al contesto stoner/sludge monolitico che li contraddistingueva. Light From Paradise è infatti legato a doppia mandata con una psichedelia dilatata, visionaria, pinkfloydiana che predilige emotivi slanci semi-orchestrali, scarti desert-rock o grunge alla maniera di Skin Yard o Meat Puppets e una vocalità che abbraccia l’ampio spettro circoscritto tra gli Om meno salmodianti e gli Alice In Chains più corposi e afflitti. Non solo hard-rock in overdrive alla Hawkwind come in Set Out Alone o In The Place Of A Storm ma lande drogatissime e più contemplative con soluzioni personali e varie (il mantra acustico di Psychic Seasons, gli archi di The Greatest Hits By God, le afasie umorali della esemplare Sessions Of Light). Pura gioia per chi ama il versante più diluito e liquido della psichedelia dura del terzo millennio. (7/10) Stefano Pifferi Robert Wyatt - For the Ghosts Within (Domino, Ottobre 2010) Genere: jazz Sin dall’inizio l’uomo di Canterbury ci ha abituato all’anticonvenzionalità. Benissimo, giacché un mondo senza Rock Bottom o i Soft Machine è duro da immaginare e sarebbe in ogni caso più banale. Mente pronta allo scambio e ad adattarsi, lo trovi a fianco di Cristina Donà e di musicisti africani, intendo a sfumare surrealismi e indignarsi con un’invettiva. Oggi eccolo a ricordarci la sua passione per gli standard jazz in compagnia di Gilad Atzmon (sassofonista abile e misurato già in Cuckooland e Comicopera) e Ros Stephen agi archi. Sfrondate da ogni calligrafismo e ridotte all’osso di gra76 na vocale, fiati e quartetto d’archi (con gli occasionali piano e ritmica in punta di dita), le celeberrime Lush Life e In A Sentimental Mood, una fischiettata Round Midnight e lo struggimento di What A Wonderful World perdono la banalità accumulata negli anni aprendosi a quella inconfondibile voce. Che potrebbe cavar poesia anche dal menu di un ristorante, dunque figuratevi se alle prese con brani dal cuore melanconico e mai nostalgico per gli inusuali arrangiamenti cui sono sottoposte. Trattasi di autentiche interpretazioni, insomma, come allorquando Robert torna sulla sua meraviglia Maryan o ripesca At Last I Am Free - degli Chic, già riletta negli ’80 - con esito coerente all’atmosfera. Organica e piacevolissima, spezzata soltanto dall’inutile etno-rap Where Are They Now, comunque redento da quanto sopra, dall’accorata Lullaby For Irena e dall’autografa title-track. Divertissement d’autore esteso a chi ascolta: rarità che con Wyatt diviene norma. (7/10) Giancarlo Turra Roberta Di Lorenzo - L'occhio della luna (Raiser, Febbraio 2010) Genere: canzone d'autore Royal Baths - Litanies (Woodsist, Ottobre 2010) Genere: art-pop sixties Siete in astinenza da Crystal Stilts et similia? Non riuscite a uscire dalle sabbie mobili del revival sixties più arty? Fiondatevi su questi californiani Royal Baths, freschi di cambio di ragione sociale e all’esordio lungo, dopo non più di un paio di 7". Stessa forza affabulatoria del citato quartetto newyorchese e del sound più artistoide di Williamsburg, in generale, nel rivedere le spinte sixties-pop alla luce dell’avanguardia velvetiana, Litanies lascia da subito a bocca aperta per maestria e equilibrio nel gestire una materia iper-abusata. Mezzi pochi - doppia voce maschile per un terzetto dalla strumentazione classica - ma soluzioni non banali che conquistano dai primi secondi dell’opener After Death. Obliquo e groovey, ossessivo senza essere claustrofobico Litanies è pieno zeppo di piccoli tesori tanto minimali quanto perfettamente dosati, capace di tirare in ballo l’ovvio pop dei sessanta, il rock inacidito dei Velvet, la psichedelia più corposa e visionaria e un tocco di weirdismo arty che li cala non a caso nel catalogo Woodsist. Psych-pop oscuro e gloomy, ritmica scheletrica e chi- tarrismo in modalità garage/lo-fi per tanti pezzi al di sopra della già alta media di casa, e con almeno un capolavoro: Sitting In My Room, 5 minuti di dolce, fluttuante e ossessiva paranoia, che culla verso la California della Summer Of Love e, contemporaneamente, verso lontani mondi orientali. Consigliatissimo. (7.3/10) Stefano Pifferi Sacri Cuori - Douglas & Dawn (Interbang Records, Ottobre 2010) Genere: desert-rock Partiamo dai nomi coinvolti per dare la misura di questo progetto estemporaneo dal nome evocativo. Su Douglas & Dawn appaiono a vario titolo John Convertino, Jacob Valenzuela e Nick Luca dei Calexico, Howe Gelb, Anders Pedersen e Thøger Lund dei Giant Sand, Bill Elm (Friend of Dean Martinez), Marc Ribot, James Chance, John Parish (responsabile dietro al mixer) quale rappresentanza internazionale cui si unisce quella nostrana formata dai vari Massimo Sbaragli, Christian Ravaglioli, Rico Farnedi, Denis Valentini, Mirko Monduzzi e Andrea Costa. Un firmamento di brillanti stelle che ruota indubbiamente intorno al "cuore" di Sacri Cuori: Antonio Gra- Se quella del songwriting (in) italiano è una piazza affollatissima, qualche anfratto libero (forse) c'è ancora nel settore cantautorato al femminile. Cade a puntino dunque questo esordio di Roberta Di Lorenzo prodotto da una vecchia conoscenza in ottimo stato di salute come Eugenio Finardi. Di Lorenzo è cantautrice ancora in via di formazione, lo testimoniamo una serie di tracce gradevoli ma senza l'effettivo mordente per rimanere - ad eccezione di Circe, piccolo gioiello di pop nobile con liriche efficaci ad intrufolare nel mito un po' di biografismo. Nonostante ciò L'occhio della luna si lascia riascoltare per il lavoro d'artigianato degli arrangiamenti, rimescolati senza stravolgimenti brano dopo brano e calibrati sulla direzione di ogni singolo episodio. Intrecci di acustiche e mandolini per Anima dolce liquida, con bouzouki in Antigone (cofirmata dallo stesso Finardi). Rhodes lunare per Corollario, folate d'archi per Vento di costiera. Retrogusto country-folk su Faccia e speziatura di sitar ne L'attesa. Visti i tre episodi con la titolare solitaria alla chitarra (Luna) e al pianoforte (La ballerina e il clown, Doloroso istinto), occorre una scrittura con la schiena più dritta, che cerchi l'epidermide di chi ascolta più che la corteccia cerebrale. (6.2/10) Luca Barachetti 77 mentieri, deus-ex-machina del festival ferrarese Strade Blu e apprezzato chitarrista di base bluesy, e Diego Sapignoli, sono infatti un apprezzato duo protagonista di molti progetti nazionali e internazionali (da Hugo Race al recente Saluti da Saturno di Mirco Mariani). L’amore per una musica soundtrack-oriented, evocativa e visionaria in quanto pensata come sostrato sonoro per performances varie, si manifesta in questo esordio vinilico sempre sul crinale tra forme avant-folk minimale, psichedelica desertica e polverosa, blues atavico e passionale, slow-core romantico. Musica prevalentemente strumentale, se si eccettua la Dylaniana Shelter From The Storm cantata da Howe Gelb, che trascina l’ascoltatore verso paesaggi jorodowskiani, polverosi e mistici, ora delicatamente traditional, ora ossessivamente reiterati. Disco particolare che stuzzicherà l’appetito di chi apprezza i nomi coinvolti, ma non solo. (7/10) Stefano Pifferi Shannon Wright - Secret Blood (Vicious Circle, Novembre 2010) Genere: post cantautorato Basta poco a Shannon Wright per ammaliare: una voce intensa nel porgersi, una ritmica secca e precisa, qualche tastiera e corda elettrica ma d’acustico sentire (e viceversa ). Grossomodo come se PJ Harvey si domiciliasse nella Chicago del decennio scorso, per quanto il paragone sia in ogni caso riduttivo verso chi possiede una cifra autoriale propria. Che sa alternare rabbia (Violent Colors) e sperimentazione (Palomino) tanto quanto rinvigorire in modo esperto le strutture della forma canzone (Dim Reader) oppure concedersi suggestioni cameristiche (Chair To Room). Messo da parte quel poco d'elettronica casalinga che faceva capolino nel precedente Honeybee Girls, Shannon torna a cacciare la testa fuori della camera e guardare giù in strada, declinando post il verbo folk-rock con furore più (Commoners Saint) o meno (Fractured) meditativo. Trovando - lei e noi - requie in un pugno di ballate dalla pienezza autoriale non comune come il capolavoro On The Riverside, oppure come le Satellites, Merciful Secret Blood Of A Noble Man e Under The Luminaries capaci di dipanare con mano ferma incantesimi di semioscurità e deboli chiarori. Ci si addentra nel disco per nulla respinti dalle sue forme, osservando anzi l’intimismo farsi pian piano largo tra le maglie della tensione, come se Shannon volesse riassumere in trentatré minuti un intero percorso decennale. Fino ad oggi sempre persua78 sivo e appassionato, come le gocce di questo "sangue segreto". (7.2/10) Giancarlo Turra Sharon Van Etten - Epic (Ba-Da-Bing, Ottobre 2010) Genere: folk sta. Diciamo che si sente: non c'è nulla che non vada in queste canzoni che lasciano intravvedere una spiccata facilità alla coralità che tanto va di moda in ambienti indie, ma che sembrano non essere state digerite a dovere. L'impressione è di un notebook di appunti, con canzoni che superano raramente i due minuti e mezzo, come di quei taccuini di viaggio di prima della fotografia. la domanda è se abbiano ancora spazio, oggi che siamo abituati alle foto, ai video, a Internet. (6/10) Sharon Van Etten è una vagabonda che nel tragitto New Jersey/Tennessee/Brooklyn s’è fatta espellere da scuola, ha lavorato da sommelier, poi in un non meglio specificato "locale per tutte le età" e per un’etichetta discografica. Già che c’era, si è incasinata la vita con qualche ragazzaccio che le ha spezzato il cuore. Questo se presti fede a quei moderni racconti mitologici che sono i comunicati stampa. Che si premurano di informarci inoltre che Sharon non è "una cantante che predilige prospettive femminili e non è una provocatrice" e che risulterà gradita a chi "è stufo del provincialismo di altre artiste" per le sue "osservazioni incisive e universali su perdita e amore". Al netto di tutto ciò, chi scrive ha incontrato una versione - logico, data la residenza - più urbana ma pure scolorita di Alela Diane (buone Save Yourself e la minimale Love More; Don’t Do It si agghinda e si piace troppo), che accelera il passo con discreto esito (A Crime, Peace Signs) e inciampa nel deplorevole FM anni ’70 One Day (a giustificazione della dedica ai Fleetwood Mac nel booklet). Chi scrive ha incontrato una volenterosa che, nello stanzone strapieno di colleghe, siede in fondo e raramente parla con autorità. Quando succede, le esce il sensazionale traslucido bordone da Kendra Smith terrena Dsharpg. Sulla base del quale chi scrive spera di incontrarla, infine matura, per il terzo album. (6.7/10) Gli ultimi della nidiata hypnagogica che un anno fa riempiva colonne e copertine dei magazine musicali di mezzo mondo sono un quartetto proveniente da Brooklyn. Dopo un singolo passato immeritatamente sottotraccia (Despicable Dogs su Trasparent) e un omonimo EP non altrettanto riuscito, i nostri arrivano al primo full-lenght proprio mentre la versione nera del glo-fi (leggi witch-house) comincia a scalzare dalle prime pagine i padrini Neon Indian e Washed Out. Fa uno strano effetto risentire i toni solari e sfuocati propri di questa progenie mentre le nenie doloranti dei Salem rubano l’attenzione dei media di genere. New Chain non è un cattivo lavoro, raccoglie dieci tracce di beat riverberati d’ordinanza, aperture synth e cantato dilatato che ci riporta a un paio d'estati fa come se nulla fosse; le melodie annacquate di Camouflage e quelle più "elastiche" di Photojurnalist, assieme alle sincopi electro della title-track, reggono una tensostruttura che se pur non brilla risulta decisamente godibile. (7/10) Giancarlo Turra Andrea Napoli Marco Boscolo Small Black - New Chain (Jagjaguwar, Ottobre 2010) Genere: Glo-Fi Siskiyou - Siskiyou (Constellation Records, Ottobre 2010) Genere: indie folk Sonnets (The) - Western Harbour Blue (Despotz, Settembre 2010) Genere: smooth pop, soul L'ennesima band di area Constallation arriva al debutto. Si tratta di un duo canadese formato dall'ex Great Lake Swimmers Colin Huebert e di Erik Arnesen, che nella band madre, invece, c'è rimasto. Rispetto alle altre incarnazioni di Huebert, qui il sound è più lo-fi, caratterizzato quasi esclusivamente dalla sua vena di songwriter malinconico e crepuscolare. Pare che le dodici tracce che compongono il disco siano state registrate un po' qua e un po' là, "sulle scale, in stanze d'albergo" e altrove, semplicemente per mettere su cd un eccesso di brani che Huebert aveva scritto per il suo progetto soli- Perché ci vuole stile. Avete presente quando Paul Weller ha dato un calcio ai Jam, ha afferrato per un braccio Mick Talbot, si è messo un maglioncino sulle spalle ed è andato a farsi fotografare sotto la Tour Eiffel? Quello stile. Niente può batterlo, sarai sempre più cool degli altri. Questo, i Sonnets, lo hanno capito benissimo - e, soprattutto, prima degli altri. Magari il loro nu blueeyed soul non arriverà a diventare una tendenza del pop mondiale, ma nel "nostro" panorama costituisce la proverbiale boccata d'aria fresca, e non importa quanto sappia di già sentito. Non importa certo quando scegli consapevolmente di aprire un disco con la più smaccata delle citazioni, il rapidissimo crescendo di archi del Love Theme della Love Unlimited Orchestra: la dichiarazione d'intenti è infatti palese sin dall'incipit di No Hollywood Ending, romanticissimo giro in barca accompagnato dal crooning soffice, fragile ed emotivo di un Roddy Frame o un Edwyn Collins, o ancor di più nelle affettuose riprese di Shout To The Top, My Ever Changing Moods e Long Hot Summer chiamate rispettivamente Sebastian Said, The Blue Train e Everybody's On a High. C'è però una freschezza innegabile lungo gli appena trenta minuti di Western Harbour Blue - durassero tutti così, i dischi pop! - che fa perdonare ogni indulgenza di questo tipo: non c'è niente di male nel rievocare precisamente gli '80 di Style Council, Prefab Sprout e (perché no?) Wham! quando si possiede un gusto tanto raffinato, e pazienza se probabilmente si tratterà di un dischetto in fondo splendidamente effimero, di quelli di cui fra tre o cinque anni ci ricorderemo in pochi. Eccome se ce ne ricorderemo, però (a proposito, chissà dov'è finita quella vecchia copia masterizzata di Lesser Matters...). Ultima considerazione: che un disco così venga da Malmoe e non da Londra, la dice lunga sull'aria non propriamente salubre che da un po' tira ad Albione, ahilei non più culla di fenomeni pop realmente genuini (sarà mica un caso se i Belle And Sebastian sono ormai di casa a L.A.?). Ma tutto questo finisce per interessarci davvero poco, non appena rimettiamo su il disco per l'ennesimo, piacevole ascolto. E l'inverno sembrerà sempre lontano, anche con la pioggia che batte sui vetri. (7.1/10) Antonio Puglia Spiritual Front - Rotten Roma Casino (Trisol, Ottobre 2010) Genere: nihilist suicide-pop Eccolo il disco della maturità "pop" per la formazione romana. Lo auspicavamo al tempo di Armageddon Gigolo, quando utilizzavamo la formula - suggerita dalla band stessa - di "suicide-pop" per riassumere un suono decadente, viscerale, drammatico eppure accessibile ed aperto. Ora Rotten Roma Casino conferma e amplifica quella sensazione, anche grazie al supporto visivo (e visionario) affidato al dvd accluso che, tra video, corti e interviste, rievoca le stelle più oscure del firmamento maudit della band: dal lato filmico, Fassbinder e Lynch, da quello letterario Pavese, Majakovskji e Pasolini. Sul versante musicale, il retroterra da folk noir e apocalittico da cui il progetto prendeva le mosse agli esor79 di è sempre presente, seppur relegato a semplice eco sottotraccia. A farla da padrone è una forma noir-cabarettistica di moderna canzone pop, finalmente compiuta e matura, raffinata ed elegante e che stupisce per sfumature, soluzioni e accessibilità. Musica struggente e passionale che alterna ballads dal sapore mitteleuropeo a orchestrazioni da western morriconiano, torchsongs oscure alla Black Heart Procession a passaggi alla Nick Cave più lirico ed intimista. Solo vaghi punti di riferimento, perché si potrebbero tranquillamente tirare in ballo gli Ostara di Secret Homeland, i claudicanti bozzetti di Kurt Weill, desertici echi di solitudine e disperazione, l’esistenzialismo più marcatamente nichilista e mitteleuropeo e altro ancora. Ad accompagnare Simone Hellvis Salvatori, c'è una rodata e affidabile band (il basso di Federico Amorosi, la batteria di Andrea Freda e la chitarra elettrica di Giorgio Maria Condemi) più una infinità di ospiti. Tra corde, piano e trombe, le trame sonore di Rotten Roma Casino si ispessiscono senza però perdere in espressività e accessibilità. Una soluzione che ne aumenta l’appeal, fornendo una buona (unica?) via per uscire dal pantano spesso autoreferenziale del milieu neo-folk. (7.1/10) Stefano Pifferi Squarepusher - Shobaleader One: d'Demonstrator (Warp Records, Novembre 2010) Genere: Vocoder pop Cosa sarà mai preso a Squarepusher? Un disco di canzoni easy listening a base di pop, nu soul, r'n'b, eighties cantate rigorosamente al vocoder e arrangiate con chitarra, drum machine, basso e synth? Shobaleader One: d'Demonstrator è senz'altro l'album più smaccatamente ruffiano dell'anno. Ci puoi sentire gli arrangiamenti sfarzosi da fantasilandia kitsch (Frisco Wave), una tonnellata di Moroder passato al colino del french touch di chi sapete bene (Megazine), fino a una sorta di risposta al culto glo-pop di Neon Indian e soci. In più, oltre a proverbiali arrangiamenti slap e funk, ci si respira pure quel gusto (che una volta chiamavamo) fusion che tanto piace a mister Jenkins, decorato con gli scacchi colorati al neon delle vecchie disco coi pattini. Bello? Dipende da quanto a fondo andiamo nella faccenda. Mr spaccino non si è purgato d'anni d'accelerazioni abbandonandosi semplicemente a un'innocua e spiazzante easy listening. A primo acchito l'album sembra un'enorme truffa, poi capisci che il Leonardo della situazione gioca nell'inserirti trame e riferimenti praticamente in ogni canzone. A fine scaletta la scatola 80 si apre e tiri le fila, trovi un'overture prog-metal di dieci minuti che parte con dei King Crimson borchiati, passa al grind e conclude con un giro d'arpeggi e pomp-metal rallentati. La verità, dissimulata sotto a un chirurgico clashing di epoche, culture e continenti, è che l'electrohead britannico ammette la superiorità francese in fatto di pop al silicio. Questa confessione porta alla catarsi intrisa di Daft Punk, Sébastien Tellier, Air (e prima il sempreverde Giorgio Moroder): Squarepusher non potrà mettere piede al pub per un po', ma la sua versione d'elettro pop nerd modificata (micro inserti metal e sensibilità prog seventies a tutto tondo) è pienamente riuscita. (7/10) Edoardo Bridda Stan Ridgway - Neon Mirage (A440, Ottobre 2010) Genere: wave folk singer Sin dai Wall Of Voodoo questa voce inconfondibile intrattiene con le radici un rapporto ambivalente. Nel senso che, nell’attraversare la new wave per approdare a una forma splendidamente attuale di cantautorato, le ha trasfigurate e omaggiate. Se dunque l’epoca delle rivoluzioni arriva una volta sola e accadde trent’anni fa con Ring Of Fire, di Johnny Cash Stan oggi può dirsi erede spirituale. Canzoni come storie, le sue, che danno corpo a hard bolied da bassifondi, a mini-sceneggiature, a inquietudini future da uomo metropolitano del duemila, e la differenza sta lì. Che, a questo giro, veste di abiti talvolta tradizionalisti riflessioni frutto di recenti disgrazie (la dipartita del padre e di uno zio; il suicidio della strumentista e amica Amy Farris, qui presente) e si riallaccia - com’è stato giustamente notato da altri - al suo Black Diamond del ’95. Lo fa tramite la bella ripresa di una ballata colà inclusa (Underneath The Big Green Tree), un’altra cover di Bob Dylan (la vibrante Lenny Bruce) e il tono malinconico che la versatilità degli arrangiamenti rende avvolgente e non cupo. Un disco di mezza età, se vi pare, sia in termini di classe che di occasionale fiatone, sicché al maldestro rock latineggiante Scavenger Hunt e alla piatta Wandering Star rispondono una Halfway There tra tex-mex e Irlanda e lo struggente crepuscolo Behind The Mask. Tra le due estremità un poco di mestiere e parecchia bontà a piene mani: dal reggae della prateria (Flag Up On A Pole) alle tipiche atmosfere morriconiane (This Town They Call Fate), da una sarcastica bossanova (Desert Of Dreams) a ipotesi di Blonde On Blonde se fosse appartenuto a Van Morrison (Day Up In The Sun). Gemme che al sottoscritto bastano per garantire a Neon Mirage un posto nel cuore e negli scaffali. Avanzano, perfino. (7.1/10) Giancarlo Turra Styrofoam - Disco Synthesizers & Daily Tranquilizers (Nettwerk Music Group, Ottobre 2010) Genere: Synth pop Styrofoam alle mode c'è sempre stato attento. Molto attento. All'inizio, a tiro Duemila, cavalcava perfettamente l'ondata Morr con glitch e melanconie mittel, poi lestissimo è salito sul cavallone Anticon mettendo un po' di hop bianco dentro l’impasto indietronico, poi è arrivato il boom degli '80 e s’è dato una bella spalmata di ottimismo e synth pop mascherandosi sempre meno europeo e sempre più filo britannico, tra uggia e tanti raggi di sole pop. In tutto ciò, featuring rap a parte, il senso melodico lo ha sempre salvato. A Arne Van Petegem non è mai mancato e i suoi testi piacevoli, automatici il più delle volte, hanno sempre conservato quell'intoccabile aura indie pop, hanno cioé sempre avuto il taglio melodico al momento giusto. Oggi, a due anni da A Thousand Words con Disco Synthesizers & Daily Tranquilizers il Belga s'è rotto anche di quest'abito: basta indie-genza, basta quel suono per pochi. Il nuovo Styrofoam non si vergogna di cantare con il vocoder, di prendersi al missaggio uno come grosso come Wally Gagel (Eels, Folk Implosion, Muse), d’incidere in uno studio ancor più famoso come il TTG/WAX e di puntare diritto al pop da classifica con il suono che va oggi, un misto di luccicanti synth un po’ techy, aperture chitarristiche à la New Order, folate da soundtrack scura à la Depeche Mode e in generale quell’approccio tra suonato live e synth in remember Ottanta. Ma i numeri killer ci sono? Get Smarter e Extra Careful ci provano e funzionano senza uscire dai soliti seminati. Il resto è prodotto molto bene senza che la sensazione di già sentito abbandoni mail l'ascoltatore. In pratica Styrofoam è neither Fish Nor Fles, il pubblico di massa non lo raggiungerà, e gli indie kid gli volteranno le spalle. (6/10) Edoardo Bridda Sun Airway - Nocturne of Exploded Crystal Chandelier (Dead Oceans, Ottobre 2010) Genere: Pop L'album di debutto del duo di Philadelphia è un omag- gio al synth pop, ma con le dovute differenze che l'era di Ableton ha portato all'elettronica. I Sun Airway cercano di creare un punto d'incontro fra tentativi sperimentali più ricercati e l'influenza del mainstream pop degli inglesi Coldplay: a volte ci riescono, a volte meno come nel caso dell'intro Infinity (dove l'interpretazione vocale di John Barthmus è fin troppo simile a Chris Martin) o Shared Piano (la cui spumeggiante esplosione electropop è incredibilmente somigliante a Viva La Vida). Più personali tracce come American West, con le festive tastiere svolazzanti bliss-pop, e Put The Days Away, il cui crescendo ci conduce fino a una rilettura indie-pop priva delle chitarre sporche degli Strokes. Come in ogni disco pop che si rispetti arrivano anche la ballata malinconica e lenta, Swallowed By The Night, e il dance-pop oriented di Waiting on you: entrambe rimangono tentativi non proprio brillanti dalle melodie vocali insipide e dagli arrangiamenti scontati. Un esordio piacevole ma non del tutto convincente. (6.3/10) Gemma Ghelardi Third Eye Foundation - The dark (Fire Records, Ottobre 2010) Genere: americana Da un decennio Matt Elliott non comunicava col mondo tramite la Fondazione. Soltanto remix da un Little Lost Soul che usciva per l’appunto nel 2000 ed era delle sue la missiva a più alto tasso melodico, che così preparava il terreno allo splendido cantautorato "modernista" della trilogia Songs. Proveniente da una Bristol lontana dai riflettori, il ragazzo aveva sin lì assemblato col giusto distacco il dub e le stratificazioni sonore, le chitarre trasfigurate e il ritmo dilatato senza troppo riguardo per la forma canzone. Degli abiti appena smessi - non si sa per quanto tempo - da chansonnier notturno, The Dark non può però esimersi dal tenere conto, visto il loro peso emotivo e artistico che cogli anche qui, al di là della copertina, delle prese di posizione politiche o della visione del mondo. In un’attenzione allo svolgimento del suono, semmai; al mescolarlo affinché gli elementi compositivi risultino indistinguibili e divengano il messaggio sostituendosi alle parole. Avrete così in mano un gomitolo spinoso composto da cinque movimenti, risolti in grigiori ambientali che raccontano un approccio sulfureo a triphop e drum n’ bass, suggestioni etniche e orchestrazioni sottratte al minimalismo colto, stordimento e rabbia sotto pelle. Non fatevi però depistare da ipotesi di revival post-rock, ché qui - con Chapelier Fou e Chris Cole a gestire diversi strumenti e leggere la mente di Matt - si 81 respira un’aria contemporanea e, com'è giusto, spinta al di là delle definizioni. Malsana e ad alto tasso di personalità, anche, e dunque bentornato, Terzo Occhio. (7.2/10) Working For A Nuclear Free City - Jojo Burger Tempest (Melodic UK, Settembre 2010) Genere: Prog/Electro Giocano sulle atmosfere i Triste Colore Rosa con il disco di esordio Scomparire in 11 semplici mosse, frutto della collaborazione e la partecipazione di diversi musicisti su cui il progetto musicale della band si basa nella sua ultima incarnazione. Atmosfere si diceva, sin dal nome in attenuazione di colore scelto, per musica cantata in italiano, che passa con disinvoltura dall’elettronica al pop rock all’indie, sospesa tra momenti più acustici e momenti più tirati. Essendo essenzialmente creatori di effetti soffusi, i Triste Colore Rosa riescono meglio in pezzi tenui dove mostrano una buona padronanza dei mezzi, anche in una formazione variabile. Nel resto ci sembrano meno a fuoco. La personalità di gruppo è comunque ben strutturata e questo esordio fa ben sperare per le mosse successive. (6.8/10) Bastano tre parole per descrivere tutto quello che manca a Jojo Burger Tempest: selezione, coerenza, moderazione. Il resto del vocabolario è tutto nel disco a partire da Do A Stunt: esemplare introduzione delle schizofreniche trame prog-folk imbastite dal quintetto di Manchester, una perfetta premessa per chiarire cosa accadrà nell'oretta e mezzo a seguire, ovvero un potpourri d'elettronica e psichedelia su basi prog che lasciano il tempo che trovano. Non è tutto da buttare, qualcosa riesce a salvarsi dalla furia compositiva in Alphaville dove il canto del bassista Ed Hulme riesce a trovare una giusta collocazione, e Low con i suoi volumi maggiormente equilibrati. Del resto, i ragazzi amano la briglia sciolta e in un secondo cd monotraccia (i trenta minuti di Jojo Burger Tempest) sfogheranno ogni velleità indie, psichedelica, elettro, funk, dai Genesis ai Gong passando per gli Yes e mezzo prog degli anni '70 (notare la lunghissima lista di influenze dichiarate sul myspace). Il male di Jojo Burger Tempest è proprio questo: l'aver voluto il disco monstre. Ed aver fallito. (5/10) Teresa Greco Gemma Ghelardi Giancarlo Turra Triste Colore Rosa - Scomparire in 11 semplici mosse (Autoprodotto, Settembre 2010) Genere: songwriting Trivision - Muoversi nel liquido (Indeed! Records, Novembre 2010) Genere: nu-metal/rock I Trivision sono una band di Casalpusterlengo (provincia di Lodi) che approcciano il rock pesante con metodo molto connotato (e poche e piccole variazioni sul tema). Fanno nu-metal senza ibridazioni, una versione normalizzata dei System Of A Dawn in pratica, faro principale ma non esclusivo dei lombardi che si nota soprattutto nei primi brani (Involucro, Negativa, Dentro la crisi). Muoversi nel liquido, prima fatica del combo, prova anche ballate (Cronotopo I) ma soprattutto rock mainstream (Ore riflesse) o metal tout-court (Zanapra, con evidenti difficoltà nell’incastro tra liriche - dionisiache - e musica). La formula è sostanzialmente sempre la stessa: uso di testi (e vocalità) struggenti e romantici sopra a riff pesanti. Un disco di genere. Forse troppo di genere. (5/10) Gaspare Caliri 82 la conclusiva Golden Metal Shower, manifesto via rifferama cosmico del duo, sono dimostrazioni di una band dinamica e non fossilizzata sul canone di genere. Non è prog, non è metal, non è grind né tanto meno noise o math: Zeus! è tutto questo frullato insieme. Deliranti e ironici il giusto (titoli come Grindmaster Flesh, Cowboia o Suckertorte sono a dir poco geniali), violenti e spregiudicati, Zeus! portano sulla terra la via degli dei al culto del rumore. Noi, sinceramente, non possiamo che sottometterci. (7.2/10) Stefano Pifferi .com Zeus! - Zeus! (Bar La Muerte/Off-set/ Smartz/Escape From Today/Shove/ SangueDischi, Ottobre 2010) Genere: free-noise Scende dall’Olimpo del rumore per punire noi poveri mortali, Zeus!, progetto a due di nomi noti della musica italiana. Luca Cavina (bassista per Calibro 35) e Paolo Mongardi (ex Jennifer Gentle e ora Il Genio) si smarcano però dalle coordinate dei gruppi madre per innalzare un muro di noise strumentale basso-batteria che nulla invidia ai più famosi ed efferati progetti dall’approccio simile. Ora sul versante più tribale alla Lightning Bolt, ora più su quello prog-noise alla Ruins, ma di norma su velocità made in Locust e scelleratezza zorniana altezza Naked City, il sound del duo è sempre sfrenato e sfrontato, irrequieto e sporco, sempre al limitare tra sconquasso strumentale e follia ritmica. Gli occasionali e prestigiosi ospiti (Giulio Ragno Favero, Enrico Der Maurer Gabrielli, Valerio Canè di Mariposa e Andrea Mosconi) forniscono poi digressioni a margine del compatto suono originario arricchendone lo spettro: Koprofiev con le sue volute sci-fi da theremin rimanda ad ipotesi di grind alieno e 83 Gimme Some Inches #10 Vinili e cassette inondano il nostro spazio dedicato questo mese. Ritorni ed esordi come al solito, in uno spettro sonoro sempre più ampio: Zola Jesus, Holidays, Movie Star Junkies and many more. Anche realtà apparentemente distanti dalla filiera produttiva del disco come promoter e organizzatori sembrano non poter rinunciare al supporto vinilico, vero e proprio must di questo terzo millennio. Alla faccia di chi lo voleva morto già da qualche decennio. Ci riferiamo a Keep It Yours, collettivo romano responsabile del “worst club nite in Rome” e traghettatore di suoni hype come quelli di The XX, Crystal Castles, Telepathe, These New Puritans, Toro Y Moi. Ora in attesa della celebrazione di Unknown Pleasures per mano di Peter Hook e di sdoganare sul territorio italiano i precursori della scena witchy, quei Salem da noi indagati il mese scorso, KIY aggiunge il suffisso Records alla propria ragione sociale e produce i primi due vinili piccoli. 84 Too Young To Love e Holidays, volti diafani e sintomatici del nuovo trend degli indie-kids, tra colorito emaciato e vestiario skinny, tracciano le linee su cui si muove l’orizzonte musicale della neo-label. I primi, terzetto da Torino, vanno di electropop capace di tirare in ballo il synthpop alla maniera dei Pet Shop Boys cristallizzandolo in uno scenario al limite dello shoegaze più etereo e poppy (Frozen Fields) o come dei MGMT meets These New Puritans dopo una sbornia notturna a base di electro-rock inglese: Mytria è pura wave fredda-ma-non-troppo. I secondi pur provenendo da zone musicalmente depresse (Viterbo) mostrano ottima capacità di introiezione dei trend del momento, muovendosi con scioltezza nella nuova onda british affrontata senza timori reverenziali. Believe è un bel sing-a-long che strizza l’occhio al versante più orecchiabile e accessibile della nuova wave inglese senza suonare troppo ossequioso dei modelli di riferimento, ma spingendo sul versante dancey. Non un caso che sul lato b si trovi un remix a firma Andrea Esu che apre totalmente al dancefloor più poliritmico e eterogeneo. Su tutt’altri orizzonti si muove una vecchia conoscenza di SA. Matteo Bernacchia aka Above The Tree, dopo la release su Boring Machines e lo split 12” con Musica Da Cucina, arriva ad un altro live su cassetta. Live A Ca’ Blasè, edito in cassetta dalla benemerita Bloody Sound Fucktory, è un vero e proprio album per durata e omogeneità di fondo che mette in evidenza lo spessore del progetto mascherato. Una forma di blues intimo e disidratato, ossessivo e reiterato che parte da suggestioni à la Fahey per arrivare a lambire territori da musica concreta, in cui la chitarra è strumento anche non convenzionale. Giri ipnotici di chitarra che attualizzano il blues del delta alle weirdità più astruse degli anni ’00. Sempre con gran classe. Un’altra cassetta proviene invece dalla Winged Sun, etichetta di Max aka High Wolf. Di L’Amazon RAM Arkestra poco si sa, nella miglior tradizione del francese, se non che nelle due lunghe tracce untitled riesce ad unire le istanze più free del raga-rock (altezza Vibracathedral Orchestra, per intendersi) con il tropicalismo più droning e ritualistico. Biotope psychedelic music la definisce l’etichetta e il concetto non è poi così astruso. Scivolando su territori più aspri, ecco tornare i temibili Robedoor con un nuovo 7 pollici sulla label di casa, la Not Not Fun. Pacific Drift offre tre brani in cui il combo californiano continua la strada già battuta con gli ultimi due album (Raiders e soprattutto Burners). Quindi ancora oscuri terremoti drone incalzati da giri di basso apocalittici e grevi litanie a recitare l’ultimo sabba. Nota di merito per l’artwork stile sci-fi anni Cinquanta finto vintage. Sempre negli USA, a breve distanza da Stridulum II torna anche Zola Jesus con quattro brani raccolti sotto l’oscura marca di Valusia, regno fantastico nato da penna di Robert E. Howard (inventore, tra gli altri, di Conan il barbaro). Sull’EP Nika recupera i tre brani precedentemente inclusi come bonus tracks nella ristampa europea di Stridulum (Tower, Sea Talk e Lightsick), rilasciando un solo inedito (Poor Animal) con cui conferma la svolta new wave/new age delle ultime uscite. Niente di nuovo sotto il sole, ma sempre il grande pathos della beniamina degli odierni romantici. Prima di concludere torniamo in patria con la seconda tape di Heinz Hopf, dopo una prima autoprodotta, per la Joy De Vivre di Napoli. Il duo di ultra noise spacca timpani formato da Dan Johansson (Sewer Election) e Matthias Andersson (tenutario della RTB e membro dei Källarbarnen) rilascia due pezzi che dire harsh è un eufemismo: titoli geniali quali We vote Incapacitants! e F is for Femi Benussi per venti minuti di puro rumore assordante. Presto anche un 12 pollici per la rinomata A Dear Girl Called Wendy. Infine nuovo EP per i garage-rockers più infuocati d’Italia. In A Night Like This viene rilasciato in solo vinile 10” in joint-venture tra la nostrana Ghost (per il mercato europeo) e la californiana Kill Shaman (per quello d’oltre oceano) e suona un po’ come la metà nascosta di A Poison Tree. Due pezzi di scuola ormai classicamente Movie Star Junkies cui fanno da contraltare le vertigini di Odyseey Of Jason, che ci riportano agli esordi documentati dal mini-LP Junkyears, e il voodoobilly di Death Sleep and Silence che pare rubato ai Cramps degli anni d’oro. Stefano Pifferi andrea napoli 85 Re-Boot #9 Sempre più schizoide è la scena, discontinua per intensità e direzioni, ma generosa. Sempre. Che strane sensazioni regala l'ascolto di Marie Antoinette, al secolo Letizia Cesarini da Pesaro: una rabbia "riot" tenuta al guinzaglio di una vena cantautorale tesa, voce che s'incapriccia d'inquietudini Beth Gibbons e guizzi Billie Holiday un attimo prima di pagare pegno a Nina Nastasia o PJ Harvey, la chitarra come mitraglia ritmicoarmonica, il glockenspiel a sgocciolare incantesimi, canzoni come battaglie ormai spente che non smettono di gridare dolore. L'album Marie Antoinette Wants To Suck Your Young Blood (Picicca Studio, 7.4/10) sembra la tipica istantanea d'artista nella sua fase iniziale, con quella grazia ruvida e grezza, l'entusiasmo sanguigno e un po' disperato. Teniamola d'occhio. I Luther Blisset da Bologna iniziarono nel 2007 come un duo basso + batteria, poi l'espansione a quintetto con l'innesto di contrabbasso, chitarra elettrica e sax. For86 Un mese di ascolti emergenti italiani mula inconsueta sì, però è naturale quando l'improv chiama a raccolta istinti e volontà. Eccoci quindi al disco omonimo (Eclectic Polpo Record, 7.2/10) che sgrana groove tosti e spasmodici incrociando le due linee di basso come binari del rollercoaster. Tensione e vitalismo, urlo primordiale e discesa in folle, ciak si gira un noir spietato e ridanciano. Sono appena al secondo lavoro, sembra che di strada ne abbiano fatta già tanta, e tanta ancora ne faranno. Tolta la retorica obsoleta di alcuni testi (citiamo un “leccare il mondo con l'anima / sentirlo sulla pelle” che sa tanto di Manuel Agnelli fuori tempo massimo) e il solito dubbio del “ci è o ci fa?” legato a un'onestà artistica un po' facciata (e che facciata!) e un po' reale esigenza comunicativa, A volte capita (6.1/10, Dcave) della torinese Monica P rimane un esordio musicalmente non disprezzabile. Anzi, con qualche ottima idea, visto che si viaggia tra il blues contaminato della P.J.Harvey di Rid Of Me e una concezione di pop all'italiana trasversale e piena di spigoli. Piace soprattutto, oltre a una voce ruvida quanto basta, il sapersi muovere con agilità tra arrangiamenti affatto banali (chitarre acustiche, accenni noise, registrazioni in reverse, synth). Merito, crediamo, dell'ottimo lavoro in fase di produzione di un Daniele Grasso già collaboratore di Cesare Basile, Afterhours, Hugo Race e John Parish. Una solida preparazione accademica alle spalle (diploma al Conservatorio in musica jazz), un background da polistrumentista (tromba, basso, synth, ukulele, banjolele, batteria e chissà cos'altro) e una versatilità musicale che non fa sconti (turnista per il liscio di Castellina Pasi e lo swing dei Good Fellas, oltre che co-fondatore con i Quintorigo Andrea e Gionata Costa del progetto Big!Bam!Boo!). Lui è il romagnolo Enrico Farnedi e il suo esordio solista Ho lasciato tutto acceso (6.9/10, Sidecar) è l'ennesimo esempio di un cantautorato ironico e di basso profilo. A far da mattatore, l'ukulele, riciclato un po' in tutte le salse, siano esse il valzer in odore di Messico di Quanto piangere o il Ben Harper allo strut- to di Lonely Planet, il blues-country della title track o i caraibi del trip demenzial-gastronomico Salsa di lumaca. Spicca l'ottima scrittura, capace con pochi suoni essenziali di tratteggiare un universo affezionato a un localismo sentimentale e accogliente. I Kozminski sono un quartetto milanese dedito ad un folk-rock psichedelico in italiano assieme ruspante e sghembo, squarci su atmosfere acidule e tentazioni di cantautorato più o meno indiepop (Lettera dall'Etna), su cui talora tepori di tastiere e fiati (sax, diamonica) arrivano a pennellare trepidazione. L'omonimo album d'esordio (autoprodotto, 7.0/10) riallaccia legami che credevo perduti tra il presente ed il miglior pop rock italiano a cavallo tra settanta e ottanta (Dalla, Fortis...), più per attitudine che altro, ovvero per quella volontà generosa e cocciuta di raccontare visioni ora pungenti e ora accorate. Ben venga poi che essi stessi dichiarino d'ispirarsi a Wilco o Arcade Fire tra gli altri. Stessa citta ma diverso il fronte sonoro. Un trio con la ragione so- ciale tra il goliardico e il blasfemo: Black Wojtyla. Batteria, tromba, basso. Effetti elettronici e distorsioni. Funk, rock e dance in una più vasta fregola jazz. Una visione post senza l'angoscia del post, neanche una briciola. Sei tracce che fanno un ep omonimo (autoprodotto, 7.0/10) dove l'estro scorre, guizza, zompa come più il momento gli aggrada. Semplicità metodica, trame acattivanti e fragore impro. Visioni di celluloide e brume noir. Frenesia e fragore. E la sensazione di un linguaggio che ancora deve sperimentare il proprio estremo. I nostri più cari auguri. Dal post-rock degli A New Silent Corporation provengono i quattro quinti de Il Buio, ma le coordinate ora sono del tutto diverse. L'hcpunk d'autore con testi in italiano del loro primo ep disponibile solo in vinile (autoprodotto, 7.2) ha tutta l'intensità d'asfalto e la densità elettrica di pelli e corde degli ultimi Fine Before You Came, seppur più compatti. Vengono da Thiene, ed è da qui che si origina quella mescola di esistenzialismo e sguardo critico sulla provincia potenziati da un'ur- genza rara, essenziale, ossea. La dedica a Georg Elser (vano attentatore di Hitler) e versi basilari come “un nulla eravamo e siamo ancora e resteremo fiorendo nessuno ci impasta dalla terra e dal fango nessuno dà parola alla nostra polvere” ce li rendono cari per il futuro, li seguiremo. Infine, perderebbe d'interesse e presa il rock variegato (pop, stoner, canzone d'autore, disco) dei messinesi SansPapier senza il ripieno di liriche sfacciate e sardoniche del loro esordio Manuale d'uso per giovani inesperti (Imago Sound, 6.4). Un bignami per sopravvivere a “paure atmosferiche, ubiquitarie, fumose, anticipatorie”, come recita la prefazione nel booklet, ad anticipare le voci di Valeria e Già, eccentriche quanto basta (in Vodka con ghiaccio c'è un po' di Battiato) per emergere dal suono robusto del resto della banda. Al mese prossimo. Stefano Solventi, Teresa Greco, Fabrizio Zampighi, Luca Barachetti 87 China underground#2 Intervista-ritratto del cantautore cinese Zhou Yunpeng, una voce divisa tra sensibilità artistica e responsabilità sociale Zhou Yunpeng non ha un pubblico di massa, si può assistere alle sue esibizioni in piccoli pub e teatri senza dovere affrontare grandi affollamenti. Ma il suo nome ritorna spesso nei forum sulla rete cinese e in qualche occasione è arrivato anche alla stampa nazionale. Ai concerti le persone cantano i suoi pezzi, i versi di un quarantenne poeta e cantautore cieco, evocatore di romantici racconti all’insegna di un girovagare e di un’ebbrezza per anni toccati con mano. Osservatore tanto più ironico quanto pungente della società cinese. La gente applaude e ride. Richiede persino canzoni, cosa che non accade spesso in un ambiente che a momenti può apparire freddamente distaccato dall’artista che si esibisce sul palco. Lo fa perché Zhou Yunpeng non è di quegli intellettuali impegnati lontani anni luce dalla gente comune: lui ne è parte 88 e canta in mezzo alle persone; ne racconta i problemi con quell’ironica leggerezza che evidenzia drammaticità. Aggiunge una capacità artistica a completare le sue liriche. Canta la società con una voce piena e calda, che a volte sa farsi dissonante e altre insegue le note della sua chitarra fondendosi con esse in un’unica melodia. È questo il mínyáo (民摇), il folk cinese, una scena musicale cresciuta incredibilmente nell’ultimo decennio, tanto qualitativamente quanto numericamente. La base è quella di una strumentazione e di un cantato tradizionali; o una semplice chitarra acustica che divene condizione per raccontare storie di persone come tante: “Il senso del mínyáo è nell’essere della gente, l’essere musica delle persone comuni e della loro vita,” ha sintetizzato Zhou Yunpeng dopo una delle sue esibizioni all’interno del festival dove lo abbiamo incontrato. Un’attitudine che prescinde da importanti considerazioni di mercato, una musica che prende Un cantautore dei giorni nostri forma fuori dagli studi delle case discografiche, spesso registrata in proprio e suonata in locali davanti a poche decine di persone: “Non abbiamo bisogno dell’attenzione di molti media, ma solo di esibirci dal vivo e appoggiarci alla rete per trasmettere e diffondere la nostra musica. Penso che il risultato rispetto al lavoro di un’etichetta specializzata possa essere anche superiore.” Il mínyáo è un respiro che proviene dal passato, uno spirito millenario da dissotterrare. Perché riprendendo l’anima di un popolo attraverso immagini letterarie e leggende antiche è più facile essere recepiti dalla gente, è come parlare un linguaggio comune. Contro l’omologazione della modernità: “Se in tutto il mondo esistesse una sola lingua, gli stessi versi da cantare, la stessa estetica... sarebbe veramente spaventoso. C’è bisogno per questo che ogni persona inizi a fare dell’arte partendo dal proprio ambiente, dalle persone che si ha accanto, cominciare a fare arte dal suolo che ti circonda.” Una delle sue canzoni più famose, Il cinema dei ciechi, è la storia di Zhou Yunpeng stesso, quella di un bambino di nove anni che perde la vista e si rifugia nel cinema per ciechi, dove la conoscenza non è visione delle immagini, ma l’ascolto di voci e suoni. Come nella vita di Zhou Yunpeng il protagonista de “Il cinema dei ciechi“, parte solitario per dei viaggi attraverso la Cina, insegue ricerche senza risposte, ascolta e respira l’amore e l’odio senza poter vedere. Mínyáo è anche e questo: raccontare una storia, poco importa se vissuta o immaginata, che quando viene cantata diviene creazione artistica e sa staccarsi dal personale: “Il cinema dei ciechi è stata ispirata dallo scrittore argentino Borges, anch’egli divenuto cieco. Lui ha raccontato storie di fantasia. Anche questa canzone, Il cinema dei ciechi, in realtà solo da un lato è la mia storia e quella della mia vita; dall’altro lato vuole evidenziare un tipo di 89 incapacità, da parte degli uomini, a comprendere; l’impossibilità di conoscere... di capire veramente la vita. La possibilità di coglierne solo un aspetto come nel cinema per ciechi dove non puoi vedere le immagini ma puoi ascoltare le voci per capire un film. Ma questa comprensione in realtà non potrà mai essere corretta, o meglio, completa. D’altronde anche i fraintendimenti della realtà sono una cosa positiva. Voglio dire che tutte le forme di comprensione sono estremamente interessanti. Quello che voglio esprimere è un qualcosa di simbolico: ogni persona può anche capire la vita nella maniera piu sbagliata, ma può far leva su se stesso, sulla sua visualizzazione per dare un senso alle cose.” Ad ogni concerto Comprare casa e Bambino cinese sono i due titoli più invocati dal pubblico. Il primo pezzo rievoca ironicamente il suicidio economico di molte famiglie cinesi, disposte a rinunciare a tutto pur di avere una casa, il che oggi in Cina corrisponde ad una affermazione sociale senza eguali per la gente comune, una questione di reputazione. La seconda canzone è ancora più coraggiosa; si tratta di un pezzo di pura denuncia, che rievoca una ad una le sfortune di bambini nati in diversi punti della Cina e colpiti da disgrazie per incuria politica e del potere. Fino all’esplosione finale in cui l’autore canta: “Non voglio essere un bambino cinese, madri e padri sono entrambi dei codardi che per dimostrare la loro risolutezza, di fronte alla morte danno priorità ai loro leader.” Il riferimento è ad un fatto di cronaca avvenuto in Xinjiang nel 1994, quando scoppiò un incendio in un teatro dove alcuni leader politici sta90 vano assistendo ad uno spettacolo con i giovani del posto. In quell’occasione ai dirigenti fu data la precedenza per uscire in salvo mentre nella sala bruciarono quasi trecento ragazzi. Zhou Yunpeng non ama essere ricordato per queste canzoni, che sono racconti di denuncia, problemi reali. Preferirebbe non dovere scrivere né cantare certi pezzi. Durante una sua esibizione ha ripreso una celebre melodia di Micheal Jackson sostituendo le parole con un testo molto toccante, ancora una volta di denuncia, La cenere di Wenchuan in memoria delle vittime colpite da uno dei più grandi disastri della storia recente della Cina (Wenchuan è l’epicentro del devastante teremoto che ha colpito la provincia cinese del Sichuan nel 2008, n.d.r.). Quando gli chiedo se ritiene possibile che un disastro naturale di quella portata possa aver contribuito allo sviluppo di una coscienza sociale tra la gente comune, replica con una risposta stizzita e sostiene di non potere accettare che l’avanzamento sociale debba nutrirsi della morte e della sofferenza delle persone. Dice di amare l’atmosfera che si respira nei festival musicali, come quello in cui ci troviamo a parlare: “La Cina oggi ha bisogno di festival come quello di oggi perché i giovani possano ritrovarsi in un luogo di festa, tutti insieme ad ascoltare la musica felici. I cinesi hanno bisogno di essere felici, hanno bisogno di una qualsiasi felicità, hanno bisogno di esprimere felicità. Il terremoto... È stata detta una frase, non so se la conosci: «Dopo Auschwitz gli uomini non potranno più scrivere liriche». Poiché ad Auschwitz furono uccise così tante persone, morirono tante persone, in seguito non sarebbe stato possibile scrivere altre poesie e canzoni... ma in realtà l’uo- mo deve continuare a vivere. Anche per le canzoni è così. Da un lato non puoi dimenticarti di questi disastri, da un altro devi continuare a cantare la felicità della vita o almeno a continuare a vivere. Ma non puoi dimenticare, voglio solo dire di non dimenticare.” Problemi sociali, denuncia delle ingiustizie dei potenti e cantore della gente comune. Eppure Zhou Yunpeng sembra non aspirare a quello che in altri tempi sarebbe stato definito il ruolo del cantante di protesta, o almeno non solo. Apprezza Calvino perché pur suggerendo percorsi sognanti, alternativi ai problemi della società, non può per questo essere considerato un attivista. In Zhou Yunpeng a prevalere è la coscienza della componente artistica all’interno delle opere. Ammira Dante perché pur avendo compilato un’opera, la Divina Commedia, “socialmente all’avanguardia,” essa non sarebbe pervenuta a noi se non avesse posseduto uno spessore artistico letterario: “Quella degli artisti è la stessa la responsabilità sociale che hanno tutte le persone: quando c’è qualcosa di ingiusto devi parlare. La differenza è solo che l’artista probabilmente attraverso una propria forma, attraverso delle parole molto belle riesce a creare un’opera.” Sia nella sua produzione musicale che in quella poetica i riferimenti alla Cina e ai suoi problemi sono tanti: poesie volte alla demistificazione della retorica socialista a servizio del popolo, provocazioni accennate (“pensava all’inerzia di Lu Xun e dei cinesi”) o interi pezzi. Ma Zhou Yunpeng non è un dissidente, almeno non nella forma in cui ce lo immagineremmo in Italia. Lontano da impeti rivoluzionari, e da aperta ostilità verso il partito, preferisce muovere le sue riflessioni dalla gente, ne fa una questione sociale ancor prima che politica. Le sue canzoni nascono dall’interpretazione, dalla rielaborazione con parole e musica di bisogni primari degli individui all’interno della società: “La cosa piu importante è la voce degli individui. In Cina abbiamo a lungo dato importanza alla voce collettiva, a partire da una forma di coscienza fino alla considerazione dello stato. Io penso che la dimensione piu importante sia quella del pensiero individuale, della coscienza individuale e della possibilità per ognuno di esprimere il proprio pensiero, o il proprio percorso. Quando si parla di società cinese in termini generali, credo che essa sia in condizioni simili a quella occidentale. C’è bisogno di una trasformazione graduale e lenta, non quel tipo di sconvolgimento improvviso come le rivoluzioni violente. Di persone in grado di ricevere un’educazione e avere diritto di parola e non improvvisamente diventare un qualcos’altro, in prima analisi perché sarebbe irrealistico e poi perché avrebbe effetti disastrosi. Le mie riflessioni muovono verso lo sviluppo di una società civile, intendo il potere decisionale dei cittadini, la libertà individuale per esprimere una propria scelta, la possibilità per ogni persona di esprimere se stessa. Questo per me è un buon obiettivo, se ogni persona si impegnasse sempre di più in questo senso allora le cose andrebbero sempre un po’ meglio. Non serve quel tipo di eroe o un agitatore di folle, non serve passare per la violenza, ma un cambiamento lento, naturale. Una società che possa procedere naturalmente verso un miglioramento, non si tratta di un balzo ma di un miglioramento progressivo.” Una società che sa crescere con pazienza attraverso la coscienza di se stessa, barlumi di società civile, contro la facile condanna e speculazioni spicciole sui diritti umani. Con la musica come parte di questo movimento; una delle tante storie ancora da cantare, sospesa tra coscienza sociale ed arte, in un ideale di poesia che può arrivare dritto alla vita della gente comune pur mantenendo sensibilità e perfezione estetica. Come fosse un frammento dell’ispirazione di un cammino verso un mondo migliore: “La forza della musica in realtà è infinitamente sottile, microscopica e lenta. Si manifesta poco per volta. Proprio come la pioggia. Non sai che forza ha la pioggia che cade. Ma la pioggia può intervenire sui semi, può far sì che la terra diventi umida e permettere al frumento di crescere e dare i suoi frutti. Ma forse non puoi assistere a quel giorno, perché il frumento ha bisogno di un anno o di quanto per crescere. La musica ha una forza del tutto simile: sa penetrare poco a poco nell’animo degli uomini, sa renderli più morbidi, buoni, li cambia aggiungendo calore, proccupazione per gli altri, facendo capire cosa sia giusto. Ma tutto questo avviene in un processo lento, non è quel tipo di piacere di cui puoi godere sul posto, è un qualcosa che penetra lentamente.” Ascolti: Myspace: http://www.myspace.cn/yunyunyunyunyun Douban: http://www.douban.com/artist/zhouyunpeng/ Xiami: http://www.xiami.com/artist/1270 Opere: Il respiro silente del mistero (CD, 2004) Critiche di primavera (raccolta poetica, 2004) Bambino cinese (CD, 2007) Melone amaro saltato in padella (CD, raccolta di demo 2008) Mucche e capre scendono dalla montagna (CD, 2010) Il blog di Zhou Yunpeng (in lingua cinese) è all’indirizzo: http://zhouyunpengblog.blog.163.com/ 91 Rearview Mirror —speciale Manhattan Transfer Nati per armonizzare Attraverso la testimonianza del suo fondatore, Tim Hauser, viaggio nel mondo dei Manhattan Transfer, il più famoso gruppo vocale nella storia del jazz. 92 Testo: Filippo Bordignon Vocalese: stile di jazz canoro nel quale le lyrics vengono composte in base alle melodie eseguite nella composizione o nell’improvvisazione originale di riferimento; a differenza della tecnica scat perciò questo fraseggio adopera, per il proprio assolo, una versificazione scritta e di senso compiuto. In ambito solista la voce più nominata nell’ambiente è senza dubbio quella polverosa di Eddie Jefferson, pioniere del genere con la sua versione della celebre So What di Miles Davis. Tra i gruppi invece, è doveroso citare il trio Lambert, Hendricks e Ross, il quale contribuì a complicare la faccenda grazie alle armonizzazioni delle tre voci e a uno stile che, sfruttando a piene mani versi sillabici pesantemente influenzati dal bebop, riversa sull’ascoltatore una cascata di parole dalla stordente bellezza (si ascolti il loro album omonimo del 1960). I Manhattan Transfer, attraverso una carriera di oltre trentacinque anni, si confermano il gruppo di vocalese più famoso e premiato nella storia, avendo contribuito all'elevazione di uno stile altrimenti ristretto alla cerchia dei suoi fedelissimi. Ciò che va riconosciuto all’opera della band, letta nella sua totalità, è una predisposizione al conio della canzone popolare perfetta, summa di generi e influenze la cui base di riferimento resta il jazz degli anni d’oro, ma solo per convenzione. Lavorando a partire dal proprio innegabile talento, i Manhattan hanno sperimentato, nel disinteresse dell’intellighenzia musicale, contaminazioni e soluzioni che ne hanno arricchito la discografia al punto da trasformarla in un iperbolico affresco studiato (ahinoi) sistematicamente per sommi capi. Rapace collezionista di 78 giri oggi introvabili, il cantante Tim Hauser (New York, classe 1941) sognava un proprio gruppo vocale che attraversasse le tante diramazioni del jazz per portarle al grande pubblico, reinventando brani più o meno noti ma pure omaggiando episodi 'minori' di compositori noti solo ai propri aficionados. Il nome scelto omaggia un celebre romanzo di John Dos Passos ambientato nella New York Anni '20, metropoli di febbricitante modernismo e inesauribili contraddizioni. Un'embrionale formazione Manhattan Transfer muove i primi passi a partire dal ’69 e comprende, oltre a Tim, Erin Dickens, Marty Nelson, Gene Pistilli, e Pat Rosalia. L’esordio è dunque in quintetto con Jukin’ (1971, Capital), episodio di ardua reperibilità per fan della primissima ora, liquidato dallo stesso Hauser come una prova generale quasi subito interrotta dalla defezione di Pistilli, il quale lascia per divergenze sulla direzione artistica, appassionato più di country & western che di sonorità affini all’universo jazzistico. L’anno successivo Tim ci riprova tentando un nuovo organico in quartetto: vi prendono parte Laurel Massé, Janis Siegel e Alan Paul (distintosi a Broadway nel primo allestimento del musical Grease). La soluzione con due voci femminili e due maschili si rivelerà nel tempo asciutta ma capace di coprire una gamma cromatica praticamente illimitata; dopo tre anni di gavetta giunge finalmente una ghiotta proposta dalla storica etichetta Atlantic Records (bastino i nomi di Ray Charles, John Coltrane e Aretha Franklin) che lancia sul mercato l’esordio ufficialmente riconosciuto The Manhattan Transfer (’75). Pur non essendo una pietra miliare per il genere l’album getta il seme di una carriera eclettica e godibilissima, bilanciata con sapienza e mestiere tra easy jazz pronto a conquistare i mercati esteri (il 24simo posto nelle classifiche inglesi di Tuxedo Junction, il successo di critica Operator), prelibatezze pop (la Sweet Talking Guy che fu delle Chiffons) e tentazioni contemporanee (il funky bianco di Occapella). Rispedite al mittente le accuse di certa critica che attribuiscono al gruppo un atteggiamento eccessivamente nostalgico (accentuato spesso da costumi di scena che ripropongono con ironia le mode di tempi evidentemente trascorsi), il successivo Coming Out (’76, Atlantic) sembra investigare scelte relativamente più attuali con l’aiuto di qualche cameo (la batteria di Ringo Starr e il piano di Dr. John in Zindy Lou, il sax dell’oggi glorificato Michael Brecker nella delicata Poinciana). L’inaspettato successo del singolo Chanson d’Amour – un motivetto di fine Anni ’50 – consacra definitivamente i Manhattan in Europa (primo posto in Francia e Inghilterra) grazie all’intuizione dell’istrionica Massè la quale, al primo take, registra la propria linea vocale utilizzando un’inflessione ‘francese’ omaggiante Edith Piaf. Con Pastiche (’78, Atlantic) Hauser produce una delle opere preferite della band, spaziando tra arrangiamenti per big band (Four Brothers, cavallo di battaglia in ambito concertistico), atmosfere country & western (Love For Sale) e ritagliando occasioni soliste cucite apposta per la predisposizione melodica di Paul e l’abilità ‘scat’ della Siegel. Intenzionato a evocare le atmosfere della Berlino nel primo dopoguerra mondiale, il regista inglese David Hemmings contatta i nostri affinché registrino una manciata di brani da inserire nel suo Gigolò, pellicola senza infamia e senza lode, nota per tenere David Bowie come protagonista oltre a una fugace (l’ultima) apparizione di Marlene Dietrich sul grande schermo. Tratto da alcune date londinesi, The Manhattan Transfer Live (’78, Atlantic) è il primo live ufficiale del 93 gruppo e l’ultima uscita discografica con la Massè, di lì a poco vittima di un incidente automobilistico che la costrinse lontana dalle scene per quasi due anni. Decisa ad abbandonare il mondo della musica la cantante optò poi per un ripensamento, inaugurando una discreta attività solista con Alone Together nell’84. Al suo posto venne ingaggiata Cheryl Bentyne, pervenendo così alla formazione definitiva nota al grande pubblico. La Bentyne arriva in tempo per prendere parte al primo indiscusso capolavoro, quell’Extentions (’79, Atlantic) con in copertina i disegni degli abiti di scena creati da Jean Paul Gautier per il quartetto. L’opera è raccolta esemplare di fusion(e) tra generi: c’è spazio per la new wave disumanizzata in Coo Coo U (senza mai rinunciare a un pizzico di ironia), il pop magnificamente arrangianto degli Airplay di Nothin' You Can Do About It (merito della produzione di Jay Graydon) e il sentimentalismo a cappella in Foreign Affair (Tom Waits). Una menzione a parte merita l’arcinota Birdland, tratta dal repertorio degli Weather Reaport o, più precisamente, dall’unione artistica dei fuoriclasse Joe Zawinul + Jaco Pastorius. Il brano sarà il più ascoltato in ambito jazz di tutto il 1980 in virtù di tre elementi imprescindibili: validità della linea melodica (accattivante e originale al contempo), prestazione vocale (la Siegel si aggiudicò un Grammy per la propria interpretazione) e intelligenza del testo. Quest’ultimo fu originalmente affidato nientemeno che a Eddie Jefferson, il quale però verrà ucciso prima di portarlo a termine (l’album è dedicato alla sua memoria). L'ingrato compito di sostituirlo fu affidato a Jon Hendricks. Il risultato è una spassosa declamazione dei principali frequentatori del leggendario jazz club newyorkese: sfruttando nomi e nomignoli dei celebri jazzisti (“Bird would cook/ Max would look/ Miles came through/ ‘Trane came too”) il paroliere fornisce all’interprete versi ritmici ideali per un’interpretazione swingante e ‘catchy’, soluzione questa qui abbracciata magnificamente negli ambiti solisti e coristi. Il successivo Mecca For Moderns (’81, Atlantic) strizza l’occhio alla classifica una volta di troppo, col risultato di incoronare i Manhattan il primo gruppo a vincere un Grammy lo stesso anno sia nella categoria pop che jazz. La piacioneria alla base della hit Boy From New York City sbilancia la credibilità di una band che, per capacità tecniche e stile, avrebbe potuto azzardare un ulteriore passo in avanti nella propria crescita artistica. Ma premi e riconoscimenti piovono in abbondanza e i nostri non sembrano crucciarsene. La sola eccezione di rilievo è Kafka del polacco Bernard Kafka, efficace esempio di frizzantura fusion contemporanea e ricca di mordente. Il processo di commercializzazione avanza su Bo94 dies And Souls (’83, Atlantic), producendo un pop sintetico amplificato dalla partecipazione di Stevie Wonder all’armonica (Spice Of Life), sdoganando così i Manhattan nelle classifiche r’n’b e concedendo l’ennesimo Grammy per l’interpretazione di Why Not!. Al di là dai clamori della stampa l’album suona come una raccolta oggi datata di canzoni ben arrangiate, adatte per un film sentimentale da cassetta e poco di più. Leggerino e svagato, Bop Doo-Wop (’85, Atlantic) mischia sei canzoni dal tour giapponese a materiale di studio, sfornando comunque quella Route 66 di Nat King Cole per il filmetto di Burt Reynolds Pelle di sbirro che, guarda un po’, frutta l’ennesimo Grammy come ‘Miglior prestazione vocale in ambito jazz’. Il materiale live verrà ripreso e ampliato dieci anni più tardi con la pubblicazione del discreto Man-Tora! ('96, Rhino). Sfumata la possibilità di una collaborazione con Count Basie a causa della morte di quest’ultimo, il bandolo della matassa viene ripigliato col monumentale Vocalese (’85, Atlantic), summa delle tante influenze dei suoi protagonisti e quindi vaudeville, swing, r’n’b, soul, doo-wop, r'n'r e jazz nelle sue tante sfaccettature. Il prevedibilie omaggio a Basie riguarda le trascurabili Rambo e Blee Blop Blues, per le quali ci si avvalse della sua orchestra ufficiale. Ben più meritoria Another Night In Tunisia, sorniona versione della A Night In Tunisia di Dizzy Gillespie, la quale si aggiudica altri due Grammy (gli ultimi che, per ragioni di spazio, segnaleremo). Il registro melodrammatico viene rispolverato invece con Oh Yes, I remember Clifford e con la struggente To You. Il successo è ormai planetario: le dodici nomination ai Grammy di Vocalese per poco non battono Thriller di Michael Jackson. La motivazione, oltre alle assodate capacità del quartetto e a impeccabili esecuzioni strumentali, sta nella scelta di un repertorio particolarmente azzeccato che concede episodi appassionanti e mozzafiato (basterebbe l’ascolto di Airegin o That’s Killer Joe), nuovamente impreziositi dai testi di Hendricks. Live (Atlantic, ’87) contiene la selezione da un concerto a Tokyo del 1986: secondo album live e primo con la Bentyne a sostituzione della Massé è il ritratto perfetto del gruppo al suo apice; si consiglia la versione dvd Vocalese Live, con una tracklist estesa a 80 minuti e la possibilità di gustare i nostri in gigionesche coreografie e stravaganti costumi. Le influenze sudamericane derivate dalla preziosa collaborazione col cantante e compositore brasiliano Djavan in Brasil (’87, Atlantic) danno vita a uno degli album più riusciti nel sottogenere Aor, al pari di masterpiece quali The Nightfly di Donald Fagen o dell’esordio omonimo di Christopher Cross. Dall’arcinota Soul Food To Go passando per l’easy-rock Metropolis fino a certe complicazioni melodico/armoniche evidenti nel finale Notes From the Underground, l'opera è gioiello per un pubblico adulto, capace di riconoscerne le tante finezze ma pure l'indubbia fruibilità. Unica puntualizzazione, per onor di franchezza: la versione di Agua suona decisamente inferiore a quella di Loredana Berté (Acqua), la quale aveva già collaborato con Djavan in Carioca, nel 1985. L’ingresso nel nuovo decennio stimola i Manhattan a testarsi in veste di compositori: ne risulta il transitorio The Offbeat Of Avenues (’92) che, col successivo The Christmas Album, esaurisce la breve esperienza per la Columbia Records. Si segnalano alcune bizzarre tentazioni di hip-hop sui generis nel primo e la beatlesiana Goodnight nel secondo. Sorvolando il trascurabile The Manhattan Transfer Meets Tubby The Tuba (’94, Summit) – sorta di Pierino E Il Lupo americano – Tonin’ (’95) rappresenta il felice ritorno in casa Atlantic, con una mirabile raccolta di classics Anni '50-'60 in duetto con artisti del calibro di James Taylor (nella sognante Dream Lover) e con la leggenda della Motown Smokey Robinson (I Second That Emotion). Le fatiche discografiche dei quattro proseguono con una reimmersione nel passato in Swing (’97, Atlantic) e con l’omaggio al repertorio di Louis Armstrong The Spirit Of St. Louis (2000, Atlantic), da sempre influenza imprescindibile per Tim. A riprova di una primavera artistica che sembra non aver mai fine Couldn't Be Hotter (’03, Telarc) è forse il live migliore pubblicato a oggi, forte di esecuzioni effervescenti e di una carica emotiva sapientemente miscelata a un controllo vocale in grado di far scuola e intrattenimento al prezzo di un solo biglietto. Vibrate (’04, Telarc) intende aggiornare il repertorio, iniettando le composizioni melò del giovane cantautore Rufus Wainwright e tentando il Miles Davis di Tutu (ma se ne esce con un occhio pesto). Dopo un secondo album natalizio (An Acapella Christmas Album, ’04, King Rec) la nuova sfida è con una vera e propria orchestra sinfonica in The Symphony Sessions (’06, King Rec). Ne deriva un album di straordinario impatto emotivo, certamente uno dei più sottovalutati nell’intero repertorio (si ascoltino To You, Clouds o The Offbeat Of Avenues). L’ultimo sorprendente guizzo di vitalità, alla faccia di chi da sempre taccia i Manhattan come un barbershop group spintosi troppo in là, è titolato The Chick Corea Songbook (’09, Four Quarters Entertainment). Cimentandosi col repertorio del famoso jazzista americano, l’occasione è buona per approfondire lo studio sulle sonorità latine, come pure per interpretare un approccio compositivo contemporaneo e certamente meno fruibile rispetto agli episodi più acclamati. Il futuro dei Manhattan Transfer a quanto sembra, oltre all’instancabile attività live, riserverà per l’ascoltatore disponibile sorprese pronte a deliziarne le orecchie e, al contempo, a educarle. L' intervista Tim, iniziamo dal presente: in che stato versa il vocalese oggidì? Devo ammettere, non senza una certa sorpresa, che attualmente sto scoprendo un nuovo pubblico nei giovani, specialmente quelli che magari cantano nel coro jazz della propria università. A dispetto di chi vi etichetta come ‘easy listening’ l’anno scorso siete tornati con un progetto assolutamente ambizioso, reinterpretando Corea… Già, un progetto davvero interessante. Letto nella sua interezza, l’album si distingue dal resto della nostra discografia per la sua spiccata complessità; era la prima volta che interpretavamo il repertorio di Chick e credimi se ti dico che si è trattato forse del lavoro più impegnativo della nostra carriera, sia in termini di comprensione che di riproduzione armonica del cantato. Non solo: in Another Roadside Attraction, a esempio, emerge una componente sperimentale che aggiunge un importante tassello alla vostra biografia. Mi fa molto piacere che tu abbia notato proprio quella canzone. La penso come te e ti devo confessare che Another Roadside Attraction può vantare l’arrangiamento di mio figlio, Basie. Il risultato è ancor più sorprendente se consideri che ha ventun'anni. Lo show biz è orribile come lo si dipinge? Sai com'è, ci sono sempre stati e sempre ci saranno gruppi di persone, all’interno di questo settore, animati da uno spirito 'predatorio'. Purtroppo è così che va il mondo: alcuni individui si arricchiscono sulle spalle di talenti giovani e inesperti. Svariati i lavori che hai abbracciato per sostentarti durante la gavetta musicale; ne ricordi qualcuno con particolare affetto? Ho fatto veramente di tutto e ti assicuro che ogni impiego mi ha insegnato cose importanti a livello umano e non solo. Non mi vergogno di nessuna mansione svolta: tra quelle che mi tornano alla mente ora… vediamo… sono stato analista marketing, caddie per un golf club, cuoco in un diner (una specie di tavola calda molto diffusa qui negli States) e tassista. Una notte stavo guidando il mio taxi quando ho caricato questa ragazza dai capelli rossi. Al tempo lavorava come 95 cameriera ma la sua passione era il canto. Fu così che incontrai Laurel Massé! Elemento spesso trascurato dalla critica riguardo ai vostri album: la straordinaria qualità degli arrangiamenti strumentali… Avrai notato che, fin dagli esordi, abbiamo sempre tentato di procurarci la crema tra i session men sul mercato anche se, ovviamente, questo comportava per noi un maggiore investimento economico. Una volta in studio non seguiamo un modus particolare: ci diamo dentro mettendo sul tavolo intuizioni, mestiere ed esperienze, cercando di pianificare gli arrangiamenti e il ruolo da conferire a ogni strumento all’interno dei brani selezionati. Quali sono le qualità imprescindibili per un cantante? A costo di sembrarti banale, tutti questi anni nel mondo della musica mi hanno insegnato che, in ultima analisi, l’unico requisito fondamentale è l’abilità di arrivare dritti al cuore dell’ascoltatore e lasciarci dentro un po’ di se stessi. Un gruppo vocale ingiustamente sottostimato? Tra i tanti nomi che mi vengono in mente scelgo senz’ombra di dubbio il quartetto degli Hi-Lo’s. Loro non sono mai riusciti a sfondare veramente e avrebbero meritato molto; la ragione sta forse nel fatto che, sotto un profilo musicale, avevano un non so che di 'esoterico'. Ma credimi se ti dico che erano grandissimi. Magari mi riesce di estorcerti il nome del musicista più sopravvalutato nella storia del jazz? Anche se ti dicessi chi ho in mente non vorrei che venisse pubblicato, perciò… Il tuo stile lascia pensare che non ti sia andata a genio la ‘new thing’ esplosa negli Anni ’60… Beh, oltre al free quel periodo ha elargito be-bopper del calibro del tenorsassofonista Benny Golson, del quale reinterpretammo Killer Joe su Vocalese. In questi giorni invece stiamo lavorando su Sidewinder, altro pezzo interessante di un trombettista dei ’60, Lee Morgan. Qualcuno ti avrà certamente accusato di essere nient’altro che un nostalgico… Quelli che sollevano questa critica mancano spesso di una conoscenza musicale approfondita. Igor Stravinsky: "La mia musica la capiscono sopratutto bimbi e animali". Riesci a tratteggiare il profilo del tuo ascoltatore tipo? Non saprei; non sono mai riuscito a delineare un filo conduttore tra i nostri fan. Credo si tratti di un’inspiegabile qualità percettiva, che porta una persona a scegliere un filone musicale piuttosto che un altro. Contrariamente a quel che si potrebbe pensare la 96 dimensione live è un aspetto molto importante nei Manhattan. Le tournée non ti snervano? Alla gente dico sempre: “Canto a gratis, vengo pagato per dover viaggiare”. Tutti furono d’accordo nel decretare un enorme successo a Extentions; da cosa credi sia dipeso? Extentions ha rappresentato un vero e proprio punto di svolta, sia per la qualità del materiale che per le scelte di Jay Graydon in veste di produttore (da allora in avanti è stato richiesto da artisti del calibro di Al Jarreau, Art Garfunkel e Dionne Warwick). Jay è stato determinante per la formulazione di un sound ibrido che in definitiva attualizzò il nostro stile, avvicinandoci così a un pubblico ancor più vasto. Va poi evidenziato il contributo creativo delle voci di Alan (ascoltalo in Twilight Tone) e di Janis, la cui interpretazione di Birdland le valse un Grammy. Spesso i vostri album ricevono un'accoglienza più calda in Europa rispetto agli States... Sono convinto che gli europei in genere riescono ad apprezzare il jazz americano molto più degli americani stessi. Triste a dirsi, ma è la pura verità. Riascoltando Tonin’ riflettevo sul fatto che quell’album contiene con tutta probabilità l’ultima registrazione da studio di Laura Nyro, prima della sua morte a soli cinquant’anni. Ecco appunto, a proposito di gusti musicali: la Nyro, fin dal suo esordio, è stata una delle mie cantanti preferite, in assoluto. Ricordo ancora l’impressione che mi fece il suo primo album per la Verve Forecast More Than A New Discovery. Ho ascoltato quel vinile tante di quelle volte che ora è completamente consumato. Ho anche avuto il privilegio di lavorarle a fianco una volta, ai tempi dei primi Manhattan, nel 1970, se ben ricordo. Pensa che siamo l’unico gruppo con cui ha accettato di registrare un duetto, fatta eccezione per il brano Promenade in coppia col compositore Kenny Rankin, anche se non mi risulta che il pezzo sia mai stato pubblicato. Comparando il jazz nella sua età dell’oro (Anni '30 e '40) con la scena attuale, quali sono le tue conclusioni? Bisogna tener presente che in quegli anni il jazz veniva considerato la musica popolare del momento. Trascorso quel periodo è innegabile che, generalizzando, la sua diffusione rispetto alle grandi masse si sia abbassata significativamente in favore di altri generi ben più immediati. Bando agli intellettualismi: non trovi che arrangiare una canzone sia molto simile a cucinare una pietanza? Hai assolutamente ragione. Tra l’altro devo confessar- ti che adoro far da mangiare e mi capita spesso di cimentarmi con qualche ricetta italiana. Cucinare è veramente simile a quando ti stai approcciando a un brano ancora grezzo e decidi come sagomarlo, cosa aggiungere, quali sono le modifiche che ne determineranno un feeling specifico. Nell’ambiente è nota la tua passione per il collezionismo di vinili rari: qual è il titolo della tua discoteca a cui ti senti più attaccato? Questa è dura… spero di poter scegliere, in blocco, tutta la parte dedicate ai gruppi vocali di r’n’b, dagli Anni '30 e fino ai ’50 compresi. A proposito di collezionismi: pare che anche le auto d’epoca facciano parte delle tue debolezze… Oh sì! Attualmente mi sto godendo una Mercedes Benz 190 Sl del 1961, che restauro pazientemente da una vita. E tra un paio di settimane sarà finalmente pronta la mia Coupé-Cabriolet Mercury del ‘41. Sto anche modificando una Ford Coupé del ’50: ho recentemente sostituito il tettuccio con uno del ’51 e mi sono procurato una calandra proveniente da una Pontiac datata 1954. Voglio anche cambiarle il colore con un bel blu metallo. Com’è la tua giornata ideale? Ti sembrerò scontato ma direi la giornata in cui riesco a sbrigare tutto quello che mi sono prefissato senza alcun tipo di intoppo esterno. Louis Armstrong dichiarò: "Un musicista non si ritira mai: smette solo quando non c’è più musica dentro di lui". Mai avuto la tentazione di mollare la carriera per un'esistenza meno movimentata? Naaa, non sono il tipo che molla. Anche perché, riflettendoci, non saprei che altro fare della mia vita. Nonostante trentacinque anni nel mondo della musica sei l’ultimo dei Manhattan ad aver registrato un album solista, nel 2007. Quale necessità hai soddisfatto con Love Stories? Avevo bisogno di esprimere un particolare aspetto della mia personalità, un lato 'intimista', diciamo, che coi Manhattan non era mai veramente emerso. Mi sono limitato a scegliere quelle canzoni del passato che mi affascinavano profondamente, quei pezzi in grado di emozionarmi ancor oggi. Un consiglio che t'ha illuminato? Agli inizi lavorammo con Baby Lawrence e sua moglie Dorothy Bradley. Baby era noto nell'ambiente come il 'Charlie Parker del tip-tap' e Dorothy era la vedova di Buddy Bradley, coreografo attivo nel cinema per star come Fred Astaire. In sostanza dovevano insegnarci le basi per muoverci sul palco, oltre a certi passi tipici del jazz ballato (tipo il 'camel walk', lo 'shorty george' ecc.). Mi resterà sempre impressa la volta in cui Baby mi disse: "Tienilo bene a mente Tim; solo due cose sono fondamentali nello show business: atteggiamento e portamento, sta tutto lì". Non me lo sono più scordato, anche perché con gli anni ho scoperto quanto avesse ragione. Dopo una carriera costellata di premi e riconoscimenti resta da chiedersi quali siano i tuoi prossimi traguardi… In realtà ci sono ancora una serie di progetti di cui da anni discutiamo la fattibilità, in ambito Manhattan. Il mio intento è perciò quello di adoperarmi affinché presto o tardi si riesca a concretizzarli, come nel caso di The Chick Corea Songbook, album che gravitava nella mia mente dagli Anni ‘70. Qual è l’aspetto più straordinario dell’essere un artista? Essere in grado di sostenere me e la mia famiglia: questo è un vero e proprio dono, un privilegio che non darò mai per scontato. E poi ho sempre pensato che questa mia professione, per quanto complessa, sia pur sempre preferibile a una vita in ufficio. 97 (GI)Ant Steps #43 classic album rev Louis Armstrong The Charlatans The Ultimate Collection (Verve Music Group, Luglio 2000) Some Friendly (Beggars Banquet, Settembre 1990) Le antologie di solito le evitiamo. Eppure il fine che si pone questo formato quando si parla di jazz, blues, folk e in generale di una musica lontana nel tempo e registrata su supporti dispersivi come il settantotto o il quarantacinque giri, è assai nobile. Testimoniare, in primis, e poi creare ponti ideali che permettano di apprezzare il concetto di evoluzione. Discorso banale, ma che vale soprattutto per Louis Armstrong. Uno che la sua storia l'ha scritta attraversando tutto il jazz che conta. Tre CD per cinquantanove brani incisi tra il 1924 e il 1968. Quarant'anni di musica suonata da un tromba a suo modo rivoluzionaria, in un periodo in cui esserlo non significava destrutturare all'estremo come farà il free-jazz ma personalizzare nei limiti imposti dalla metrica dei tempi. Con un vibrato allusivo, un'impro inscatolata nella melodia, lo swing". Tre i Louis Armstrong che emrgono da The Ultimate Collection. Il primo è il giovane musicista di inizio anni Venti con alle spalle il riformatorio (dove impara a suonar la cornetta), le orchestrine da strada, un matrimonio fallito e una serie di impieghi temporanei tra Storyville (il quartiere dei bordelli di New Orleans), i battelli del Mississipi e la Creole Jazz Band di King Oliver. Lo stile ricalca a grandi linee quello dell'Oliver padre putativo, virtuoso e rotondo, in un misto di ragtime e blues (Copenhagen) disciplinato e rafforzato dal lavoro di big band tradizionali (tromba, trombone, clarinetto, sax, banjo, tuba, batteria). Un Armstrong rigoroso ma anche versatile, capace di passare senza batter ciglio dalla Fletcher Henderson Orchestra alla Erskine Tate's Vendome Orchestra della sua seconda moglie, dai Johnny Dodds's Black Bottom Stompers ai Jimmy Bertrand's Washboard Wizards. In una girandola di 98 esperienze che a fine anni Trenta lo ha già consacrato al pubblico dei grandi numeri. Del resto siamo nel periodo di When The Saints Go Marching In e di un Louis dal suono pulito, nitido, squillante e assai meno incartato rispetto agli esordi, fuori dal purismo nero e sempre più vicino ai palcoscenici bianchi ed europei. Quelli che il Nostro calca portando in dote classici come Rockin' Chair, West End Blues, Savoy Blues (raccolti sul secondo disco), in una inseguimento dei gusti degli ascoltatori che sarà una costante della vita artistica del trombettista americano. Lo standard, allo scoccare degli anni Quaranta, sono i tempi lenti, un cantato ruffiano e una tromba piaciona che sostiene le note, improvvisando in maniera più strutturata rispetto al passato tra blues (la Blueberry Hill che Fats Domino farà sua negli anni Cinquanta) e classici. Inesorabilmente alla ricerca di un jazz elegante e al tempo stesso estremamente popolare. Come testimonia anche la terna Dream A Little Dream Of Me / Hello Dolly / What A Wonderful World di un terzo supporto che non si scandalizza per gli archi di It's All In The Day, puo' contare sui duetti con Ella Fitzgerald (Stompin' At The Savoy) e Oscar Peterson (Sweet Lorraine), scopre il gusto dello scat. Nel momento di massima notorietà Armstrong non è più un jazzista classico ma un intrattenitore a tutto tondo, con tanto di mimica ad effetto e trucchetti da avanspettacolo da usare sul palcoscenico. Gli stessi che con la musica suonata e una carriera decennale alle spalle gli garantiranno lo status di ambasciatore del jazz in giro per il mondo e un'onestà artistica tutta sua. Fino alla morte, avvenuta nel 1971. Fateli i conti, che male non è e - specialmente in retrospettiva - senza dubbio aiuta. Meraviglie del distacco che permette di rileggere serenamente e (ri)contestualizzare fenomeni e tendenze. Chissà che diremo tra vent’anni del glo-fi, tanto per dirne una: seccature delle generazioni che saranno, se un giornalismo musicale esisterà ancora e soprattutto un mondo a contenerlo. Prendete ad esempio la fulminea stagione di Madchester: scaduta l’Ecstasy, cosa resta? Un Capolavoro assoluto nell’ultimo anno dei Capolavori assoluti (Screamadelica); un disco splendido ma che c’entrava nulla, semmai era tra gli ultimi esempi di chitarrismo anni ’80 britannico (The Stone Roses); i borgatari Happy Mondays, che condussero accidia e cinismo in classifica; qualche singolo di Inspiral Carpets a rendere meno tristi le spente ceneri. Gli elettronici 808 State, ma anche lì era un’altra storia. Aggiungete pure un altro lp, che al tempo fece tremare la stampa nazionale in virtù del physique du role di Tim Burgess, cantante della band che ne era autrice. Dei Charlatans di Some Friendly, oggi, colpisce il porsi in una nicchia dalla quale osserva i coetanei e quanto seguì - sfortune e tragedie incluse - il suo fiorire appassionato e caldo. Se nessuno dei tanti lavori successivi dei Ciarlatani lo vale, rimane faccenda notevole che ricorda come, da sempre, il miglior pop d’oltremanica paghi pegno alla musica nera. Dal suono sensuale tuttavia sostenuto dei mancuniani (Northwich, per la precisione) risali a Brian Auger, alla Graham Bond Organization, allo Spencer Davis Group (il tastieri- sta Rob Collins esemplare e idem lo scintillante traino nelle charts The Only One I Know). E anche, in versione light, a quei Prisoners da dove sbucava il traghettatore dell’organo Hammond, James Taylor. Non fosse che quanto era ruvido errebì in buccia d’orecchiabilità si era col senno di poi venato di jingle-jangle (l’innodica Sproston Green vicina ai R.E.M. di Green) pur seguitando a voler la pelle nera con Believe You Me e Polar Bear (i ragazzi collezionavano anche 12" di house chicagoana; anni dopo, Burgess avrebbe cantato con i Chemical Brothers, pronti a ricambiare tramite un remix) e ricordare i ’60 (White Shirt). Erano baggy come Elvis Costello era punk - cioè poco o nulla: l’errore era prospettico - e semmai preferivano sapevano incupirsi (Then) e lanciarsi in una neo-psichedelia morbida tipicamente albionica (You're Not Very Well, Sonic). Cercavano il groove cautamente danzabile mentre erano in "viaggio" e viceversa: ecco l’alchimia che qui funziona con costanza e sarà per loro l’unica volta. Prova ne sia che, a fine estate 2010, ne è stata pubblicata una doppia versione "deluxe" su cd con session radiofoniche e varie chicche aggiunte; e che, più di ogni altra cosa, riascoltarlo non abbia offerto semplice nostalgia. Melting Pot si intitolava una ben compilata raccolta del '98 che consigliamo a integrazione, ed era vero: confuso e forse involontario, ma lo era. Giancarlo Turra Fabrizio Zampighi 99 www.sentireascoltare.com