0 PRIMA DISPENSA “Diritto dei migranti” (Prof.ssa Donatella Loprieno) A.A. 2011-2012 CORSO DI LAUREA IN SCIENZE DEL SERVIZIO SOCIALE E SOCIOLOGIA (I PERIODO DIDATTICO) 1. Una premessa generale….…………………………….1 2. Migrazioni per motivi economici e migrazioni per motivi politici…………..………………………….4 3. I push-pull factors………………………………….…10 4. Il fenomeno migratorio in Europa ed il diritto internazionale dei diritti umani..………………........13 4.a. Cenni di diritto internazionale……………….....15 4.b. Il diritto internazionale dei diritti umani………17 4.c. Il diritto internazionale dei diritti umani in materia di stranieri e di lavoratori migranti………..25 5. La partecipazione dello straniero alla vita politica dello Stato di soggiorno……………………………….28 6. Diritti universali e sovranità statale………………......35 0 1 1. Una premessa generale Le tematiche legate allo statuto giuridico dello straniero costituiscono un osservatorio privilegiato per comprendere – non solo in Italia ed in Europa ma nelle società occidentali - i processi di integrazione ovvero di rifiuto degli immigrati stranieri. che coinvolgono la condizione degli stranieri. Si tratta, senza dubbio, di una vera e propria cartina di tornasole per misurare i progressi, gli arresti o anche i passi indietro lungo la strada della effettiva equiparazione tra immigrati e cittadini quanto al godimento dei diritti fondamentali della persona umana ma anche per misurare il livello di maturità delle società investite da tali problemi. Che i processi migratori siano, almeno nel medio periodo, inarrestabili è un qualcosa che tutti i governi europei danno oramai per scontato da almeno un ventennio. Tali processi vengono governati con esiti alterni che dipendono da variabili molto diverse: gli atteggiamenti delle opinioni pubbliche e le opinioni delle organizzazioni sociali (si pensi ai partiti politici, ai sindacati, alle associazioni di categoria, alle strutture di volontariato, alle ONG, alle chiese); la crescita o la decrescita economica, gli indirizzi politici predominanti contingenti o di lungo periodo “sempre oscillanti tra pulsioni umanitarie e aperture all’accoglienza universalistica di singoli o di interi gruppi umani, da un lato e chiusure etnicoideologiche, talora venate di atteggiamenti razzisti, dall’altro” (Prisco, Abbondante). Peraltro, è da notare che le difficoltà dell’incontro e della convivenza tra culture diverse, mentalità diverse, modi di essere e di pensare diversi, che originano dall’incontro e generano tensioni, sono generalmente tese ad amplificarsi nei momenti di crisi economica. Le chiusure identitarie, la paura del doversi misurare con il “diverso”, con l’”altro” tendono a palesarsi specie quando le persone, i cittadini, sono impauriti dalla prospettiva di perdere, per se stessi e per i propri figli, quel livello di benessere raggiunto in precedenza. Le migrazioni costituiscono un fenomeno che da sempre ha caratterizzato l’umanità, tanto che si è affermato che gli «umani sono una specie migratoria» (Massey). Prima di divenire (relativamente) sedentaria, l’umanità è stata nomade, impegnata in continui spostamenti per seguire le prede di cui si cibava, scoprire nuovi territori di caccia, sottrarsi alle calamità naturali. E, sin dalle origini, della storia umana chiunque non appartenesse al proprio nucleo familiare o tribale veniva considerato come un elemento di disturbo in quanto portatore di interessi contrapposti rispetto a quelli del gruppo. Tra i popoli dell’antichità, solo gli ebrei risultavano essere ben disposti nei confronti degli stranieri; infatti, nel diritto ebraico si rinvengono passi assai emblematici: «… ascoltateli e ciò che è giusto giudicate, sia che egli sia cittadino o straniero; il giudizio tra di voi sia equo, sia che a peccare sia il cittadino o lo straniero 1 2 …». Nella civiltà egiziana gli stranieri erano profondamente disprezzati al punto che venivano allontanati dalle mense ed il coltello toccato da un non egizio veniva considerato immondo. I greci consideravano straniero colui che si trovava al di fuori della città-stato non potendo, per questo motivo, godere dei diritti civili e politici. Solo più tardi questo rigore venne leggermente mitigato e si consentì agli stranieri di divenire titolari di alcuni diritti e di partecipare ad alcune attività all’interno della polis. Ciò avvenne per effetto, principalmente, della stipula di trattati tra le diverse realtà locali cui fece seguito l’emanazione di appositi decreti per disciplinare l’esercizio di tali prerogative. Fu grazie a tali strumenti che si formarono numerose figure intermedie tra il cittadino e lo straniero. Tra i cittadini a pieno titolo e gli schiavi (i non liberi), un ruolo di assoluto rilievo economico era svolto dai metéci, stranieri residenti nelle città-stato per un periodo di tempo determinato, obbligati ad iscriversi in appositi registri, trovare un protettore e pagare una tassa diretta sulla persona. I metéci non potevano essere proprietari di beni immobili e non potevano esercitare i diritti politici e, dunque, la possibilità di partecipare alla formazione delle decisioni pubbliche. Certamente, però, la loro posizione era sensibilmente migliore rispetto a quella degli schiavi (gli oggetti animati di cui parlava Aristotele) che godevano dell’unico diritto di non essere uccisi impunemente. Per quegli apparenti paradossi della storia, l’asimmetria di posizione tra cittadini e meteci si ripeterà, come una costante, ed ancor oggi essa caratterizza la condizione del lavoratore straniero immigrato. La civiltà romana, pur se con molta gradualità, riconobbe taluni diritti agli stranieri. Il popolo romano, definendo lo straniero con il termine hostis (che designava indistintamente lo straniero ed il nemico) palesava la sua particolare ostilità verso questo soggetto riconducibile, per lo più, alla nozione di popolo vinto, ridotto in schiavitù e privato di ogni diritto civile e politico. Alcuni esempi, a tale ultimo proposito, possono ritornare utili. I beni degli stranieri venivano considerati res nullius ed i rapporti che, eventualmente, essi stipulavano con i romani non avevano alcuna valenza giuridica. Soprattutto a seguito della straordinaria espansione territoriale dell’impero romano, si dovette modificare l’originaria impostazione e rivedere, almeno in parte, la condizione giuridica dello straniero. In esecuzione dei diversi accordi stipulati tra Roma ed i popoli vinti, annessi all’Impero e con l’unica finalità di stabilire nuove relazioni commerciali, si stabilirono una serie di rapporti fondati sulle nozioni di hospitium e amicitia e, di conseguenza, si formarono diverse categorie di stranieri. In tal modo si fece il primo passo in favore dell’hostis che si incorporava nelle attività dell’Impero anche se solo per motivi economici. Questo insieme di figure differenziate, ma tutte legate in qualche modo all’Impero romano, venne del tutto equiparato ai cittadini romani a partire dal 212 d.c. con la Constitutio Antoniniana de civitate che rappresentò il culmine della romanizzazione e che estese 2 3 il diritto di cittadinanza a tutti i sudditi libero dell’Impero. Rimasero esclusi da tale allargamento quelle popolazioni che i romani qualificavano come “barbare” (che, di lì a poco e paradossalmente, avrebbero conquistato la stessa Roma). Nel periodo feudale, il principio territoriale ebbe il sopravvento sul principio personale e di ciò ne è sicura testimonianza l’operatività di taluni istituti quale, ad esempio, l’albinaggio ossia il diritto dello Stato di incamerare i beni lasciati nel suo territorio da uno straniero defunto non naturalizzato e privo di eredi legittimi o testamentari. La rivoluzione francese del 1789, autentico momento di rottura tra l’ancien régime e la modernità, fece registrare notevoli aperture a favore degli stranieri e ciò in ragione soprattutto dei princìpi della Rivoluzione stessa (eguaglianza, libertà, fraternità) orientati verso un’umanizzazione dei diritti fondamentali (ad esempio, il decreto francese del 6 agosto 1790 abrogò espressamente il diritto di albinaggio). È in questa fase storica che la nozione di cittadinanza acquistò rilievo grazie soprattutto alla trasformazione dell’individuo da mero suddito a cittadino. Nella fase giacobina della Rivoluzione francese, l’idea della cittadinanza come virtù collettiva godette della massima espansione ed essa veniva contrapposta alle identità alternative che fondavano l’assetto del precedente regime (ceti, corporazioni, appartenenza religiosa) e che venivano considerate in maniera del tutto negativa. L’idea della cittadinanza era così esaltata da essere considerata potenzialmente estensibile a tutta l’umanità in quanto comunità di individui liberi ed eguali. Il superamento della fase rivoluzionaria e l’approdo al modello statuale liberale ottocentesco, caricò la nozione di cittadinanza di sfumature molto diverse, legate all’etnia, alla cultura, alla lingua, alla storia: in una parola alla nazione. Venne gradualmente meno l’aspirazione alla costruzione della figura del cittadino del mondo per fare tristemente spazio alla divisione fondata sulla etnia: la cittadinanza divenne prevalentemente quel legame che unisce al suo interno una moltitudine di individui diversi accomunandoli in un sistema di diritti e di doveri reciproci. Essere cittadini significava riconoscersi (ed essere riconosciuti dal proprio Stato) come idealmente appartenenti ad una comunità politica fondata su precisi valori storicoculturali. Ed in virtù di tale appartenenza, il cittadino era ammesso a godere di una serie di diritti a fronte del rispetto di una serie di doveri. Da quanto detto si evince chiaramente come nella nozione di cittadinanza si siano sedimentati, in maniera quasi schizofrenica, due opposti significati: da un lato, la cittadinanza nella sua dimensione verticale (o statica) come qualità personale del soggetto che designa un rapporto tra questi e lo Stato e che viene assunta dall’ordinamento per individuare i destinatari di determinate prescrizioni (diritti e doveri); dall’altro, la cittadinanza nella sua dimensione orizzontale (o dinamica) per cui essa coincide con l’esercizio pieno ed effettivo dei diritti e delle libertà democratiche consacrate nei documenti costituzionali ed esercitabili nell’ambito 3 4 della comunità politica di appartenenza. In altri termini, nella visione tradizionale dello Stato-nazione si finisce per identificare l’identità nazionale (ovvero il sentimento di appartenenza etnico/culturale e l’omogeneità della discendenza) con la cittadinanza politica (ovvero il riferimento allo Stato come associazione di individui liberi ed eguali che ad esso aderiscono liberamente, per scelta ed indipendentemente da ogni criterio di ascrizione come la mera nascita o la residenza). Questo legame tra nazionalità e cittadinanza se ha contribuito a “costruire” l’idea stessa di popolo e di sovranità ad esso spettante, ha però portato ad una neutralizzazione della cittadinanza stessa divenuta oramai strumento giuridico atto a differenziare i membri delle diverse nazioni ed a segnare il discrimine tra chi è cittadino e chi non lo è, tra cittadino e straniero consolidando l’idea di un “noi” omogeneo, legato da vincoli di solidarietà contrapposto agli “altri”, sempre potenzialmente nemici. La cittadinanza si configura, cioè, come un concetto di chiusura e l’universo sociale, giuridico e politico rimane quasi perfettamente scisso a seconda che compaia o meno la condizione della cittadinanza di talchè la definizione dello straniero sarà una nozione fondamentalmente negativa: è straniero chi non è cittadino. Ancora oggi non è facile dare una definizione univoca di straniero. Sicuramente per lo Stato italiano è straniero chi non è cittadino italiano. Ma alla noncittadinanza corrispondono, come vedremo, status giuridici molto differenziati l’uno dall’altro. Volendo schematizzare, si può dire che non sono cittadini italiani: i cittadini europei; i cittadini dei paesi terzi (c.d. extracomunitari, regolari e non); gli apolidi. 2. Migrazioni per motivi economici e migrazioni per motivi politici Da questi pochi cenni, emerge con chiarezza, da un lato, la complessità della nozione stessa di cittadinanza ma dall’altro quanto il fenomeno delle migrazioni sia assai antico pur se esso ha raggiunto dimensioni consistenti con il formarsi della moderna società industriale. Le ragioni che spingono gli individui a lasciare il proprio paese di appartenenza e ad emigrare in Stati diversi rispetto a quello di cui si è cittadini sono assai varie ed, in molti casi, difficili da indagare ed accertare. Tralasciando i fattori contingenti come guerre, calamità naturali, persecuzioni individuali, rimane che una cospicua parte di individui si sposta alla ricerca di nuove e migliori condizioni di vita. Il ‘migrante’ può essere, così, definito come il soggetto (persona umana) che, per motivi ritenuti essenziali, lascia la propria terra di origine o di abituale residenza per stabilirsi altrove, per sempre o solo temporaneamente, al fine di realizzare le 4 5 proprie aspirazioni che possono spaziare dalla preservazione della propria vita fino alla ricerca delle condizioni per una migliore realizzazione di se stessi. Le migrazioni sono processi eterogenei e fluidi e la definizione di immigrato cambia a seconda dei contesti giuridici, delle vicende storiche, delle contingenze politiche ma anche dai progetti migratori e dai contesti di inserimento. L’attenzione per i temi dell’immigrazione, dell’asilo politico, del riconoscimento dello status di rifugiato e più in generale della condizione giuridica dello straniero è andata sempre più crescendo, nell’ultimo trentennio, non solo in Italia ma in moltissimi altri Stati europei. Similmente agli altri paesi del Mediterraneo, infatti, nell’arco di venti anni l’Italia si è trasformata da paese da cui si prevalentemente si emigrava a meta di ingenti flussi migratori e tale trasformazione è avvenuta in maniera quasi inconsapevole ed ha colto di sorpresa le istituzioni pubbliche, gli attori politici e la società nel suo complesso. Tale impreparazione, come vedremo, ha pesato moltissimo sull’esatta ricezione del fenomeno migratorio percepito dai più (e soprattutto da alcune forze politiche) non tanto come una risorsa ma come un “pericolo” e una “minaccia” per l’ordine pubblico. Classificare i fenomeni migratori è impresa molto difficile perché assai spesso i fattori che spingono alla emigrazione non sono agilmente e facilmente separabili. Accade così che molto spesso le diverse categorie di migranti elaborate dagli studiosi finiscono per sovrapporsi le une alle altre. La prima e probabilmente la più importante distinzione da farsi è fra le migrazioni per motivi “politici” e le migrazioni per motivi “economici”. Alla prima categoria appartengono i richiedenti asilo, i rifugiati e quanti necessitano di una qualche forma di protezione sussidiaria o umanitaria (c.d. “protezione internazionale). Ora mentre il migrante per motivi economici è colui che decide volontariamente di lasciare il proprio Paese per stabilirsi, temporaneamente o permanentemente, in un altro Stato alla ricerca di migliori condizioni di vita, il migrante per motivi politici non si sposta per libera scelta, ma è costretto ad abbandonare il proprio Paese per sfuggire a gravi persecuzioni e a violenze. Altrimenti detto i migranti politici sono figure giuridicamente diverse dagli immigrati stranieri che arrivano in Italia per motivi di lavoro, studio e/o ricongiungimento familiare. Ciò che spinge a spostarsi in un altro Paese non è una libera scelta, ma, piuttosto, la mancanza di ogni scelta e la necessità di salvare la propria vita. Il quadro normativo che regola la materia delle migrazioni per motivi politici è diverso da quello che regola la materia dell’immigrazione “economica”. Si tratta di un insieme complesso ed articolato su cui insistono fonti normative di livello internazionale, comunitario e nazionale. Ciò significa che nel sistema del diritto degli stranieri, l’intera disciplina riguardante la protezione internazionale (asilo, rifugio, 5 6 protezione umanitaria e protezione sussidiaria1) presenta caratteri distinti e peculiari e soltanto in parte si inserisce nel sistema della disciplina generale della immigrazione. La materia dell’asilo (e degli istituti ad esso simili), infatti, presenta caratteristiche particolari per almeno due ragioni. Anzitutto, in ogni forma di Stato democratico, la disciplina del diritto di asilo è ispirata a criteri e princìpi che derogano in parte al resto della disciplina sugli stranieri prevedendo una disciplina più favorevole allo straniero titolare del diritto di asilo e questo poiché, in tali forme di Stato, si cerca di assicurare il più ampio ed effettivo rispetto dei diritti fondamentali della persona. Non stupisce, perciò, che tali Stati prevedano una più ampia tutela per l’ingresso ed il soggiorno nel proprio territorio di stranieri la cui vita, sicurezza e libertà siano in pericolo concreto a causa di particolari situazioni in cui i medesimi princìpi e diritti fondamentali non sono effettivamente garantiti o sono apertamente rigettati. Il secondo luogo, la disciplina del diritto di asilo è sempre stata soggetta ai principali eventi storico-politici delle relazioni internazionali. Nella storia dell’umanità, infatti, la migrazione delle persone è spesso stata determinata da eventi bellici o da motivi politici o da qualche altra forma di persecuzione a cui, negli ordinamenti giuridici di ogni tempo, ha corrisposto l’istituto dell’asilo in altri Stati. Nel diritto internazionale, l’asilo consiste nella protezione accordata da uno Stato, all’interno della propria sfera territoriale (asilo territoriale o diplomatico) o in altro luogo (asilo extraterritoriale2), ad uno straniero che ne faccia richiesta. Perché vi sia asilo, dunque, non è sufficiente che lo Stato di emigrazione offra allo straniero una qualche forma di protezione, con la conseguente ammissione nel proprio territorio, ma occorre che ne assuma la protezione contro ogni forma di ritorsione eventualmente attuata ai danni dello straniero stesso da altri Stati. È opinione largamente condivisa che tra il “diritto di asilo” e “lo status di rifugiato” esista ancora oggi una profonda confusione a livello sia legislativo che giurisprudenziale ed amministrativo dovuta principalmente al fatto che lo stesso diritto è oggetto di una tutela multilivello (internazionale, comunitaria e nazionale). 1 Qualche dato potrà essere utile. Secondo i dati forniti dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo, nel 2008, a fronte di 22136 domande di protezione internazionale esaminate dalle commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale (di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 25/2008), in 1695 casi (7,66%) è stato riconosciuto lo status di rifugiato, in 7054 casi (31,87%) è stata riconosciuta la protezione sussidiaria (di cui agli artt. 14 ss. Del d.lgs. 251/2007) e in 2100 casi (9,49%) le commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale hanno ritenuto di trasmettere gli atti al questore per l’eventuale rilascio di un permesso di soggiorno per la c.d. protezione umanitaria. Ciò significa che in 10849 casi su 22136 (49,01%) è stato ritenuto dalle competenti autorità italiane che gli individui in questione fossero in qualche modo bisognosi dei una qualche forma di protezione politico/umanitaria e si dovesse, pertanto, provvedere nei loro confronti, al rilascio del permesso di soggiorno. 2 Eventualmente riconosciuto nelle sedi di missioni diplomatiche o consolari, di organismi internazionali, in navi militari, etc. 6 7 La confusione terminologica, però, costituisce certamente un sintomo dello svuotamento e della disattenzione nei riguardi del diritto di asilo. Quest’ultimo, infatti, è espressamente previsto e disciplinato dalla nostra Costituzione che, invece, nulla dice in ordine allo status di rifugiato la cui origine è di natura prettamente internazionalistica. Ebbene, l’art. 10, comma 3 della nostra Costituzione dispone espressamente che “Lo straniero al quale sia impedito l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto di asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Rivendicato con forza e con orgoglio dai Costituenti, in quanto norma-manifesto rivolta al mondo da parte della nuova Italia democratica, il diritto di asilo è stato unanimemente riconosciuto quale diritto costituzionale soggettivo perfetto fruibile anche in assenza della legge ordinaria indicata nella stessa disposizione. A tutt’oggi, infatti, non esiste ancora in Italia una legge puntuale ed organica che dia attuazione a tale importante principio costituzionale. Ciononostante diverse sentenze della Corte di Cassazione hanno stabilito che il diritto di asilo sancito dalla Costituzione si configura come un diritto soggettivo (e non come mero interesse legittimo) da riconoscere al cittadino straniero ove ricorrano le condizioni previste dalla norma costituzionale: impedimento, nel paese di origine all’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione stessa. Tuttavia, per poter fruire di tale diritto ed in assenza di una organica disciplina legislativa, lo straniero deve chiedere al giudice ordinario di adottare una pronuncia dichiarativa del diritto di asilo costituzionale. Lo status di rifugiato, invece, come anticipato, è stato disciplinato per la prima volta dalla Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato del 19513, primo documento in cui viene regolato il sistema legale internazionale per quanto concerne l’assistenza a coloro i quali sono costretti ad abbandonare la propria terra. A norma dell’art. 1 di tale Convenzione rifugiato è “colui che, temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trovi fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non possa o, a causa di tale timore, non voglia avvalersi della protezione di detto Stato” 4. 3 La Convenzione di Ginevra del 1951 (ratificata dall’Italia nel 1954) e il Protocollo di New York del 1967 sono ritenuti i due pilastri normativi, a livello internazionale, sui diritti dei rifugiati. Sono gli strumenti fondamentali in base ai quali gli Stati firmatari garantiscono la loro protezione alle persone che chiedono lo status di rifugiato. Rappresentano gli strumenti essenziali da cui prende le mosse l’attività dell’ACNUR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, con sede a Ginevra, istituita nel 1951 e finalizzata alla protezione dei rifugiati sul piano internazionale). Il Protocollo di New York del 1967 ha provveduto a superare le due riserve originarie della Convenzione di Ginevra: la riserva temporale (esclusione della protezione per i fatti accaduti dopo il 1951) e quella geografica (protezione accordata ai soli rifugiati europei). 4 In base a quando disposto dalla Convenzione di Ginevra del 1951, il rifugiato gode dello stesso trattamento accordato ai cittadini italiani in materia di: libertà religiosa e istruzione religiosa; istruzione elementare; accesso ai tribunali e assistenza giuridica; protezione della proprietà industriale, letteraria, artistica e scientifica; assistenza 7 8 In base alla definizione di rifugiato fornita dall’art. 1, ai fini della richiesta dello status di rifugiato occorrono 4 requisiti essenziali: 1) la fuga dal proprio paese il rifugiato per essere riconosciuto tale deve trovarsi fuori dal suo Paese di origine; 2) il fondato timore di persecuzione Il timore di persecuzione deve essere reale, ma soprattutto deve trattarsi di persecuzione rivolta in modo diretto alla persona che richiede rifugio; 3) Deve trattarsi di persecuzione a titolo individuale e non generalizzata la persecuzione, temuta o subita, deve essere perseguita in ragione di uno dei motivi indicati dallo stesso art. 1 della Convenzione; 4) L'impossibilità di avvalersi della protezione del proprio paese di origine il richiedente rifugio deve trovarsi nella condizione di non potere, né volere rivolgersi alle autorità del suo paese. Questo perché il cosiddetto agente di persecuzione (chi perseguita), può essere direttamente il governo del paese oppure altro soggetto da questi tollerato o non contrastato. Tra i principi basilari della Convenzione di Ginevra vi sono il divieto di sanzionare l’ingresso ed il soggiorno irregolare dei rifugiati (art. 31) ed il c.d. principio di non respingimento (non refoulement) secondo il quale “Nessuno Stato espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso le frontiere di territori in cui la sua vita o le sue libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua nazionalità, della sua appartenenza ad un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche” (art. 33). Il divieto di non refoulement non è assoluto pubblica (prestazioni del sistema socio-sanitario, con iscrizione obbligatoria al Servizio Sanitario Nazionale; pensioni di invalidità e vecchiaia; sussidi agli indigenti); legislazione del lavoro (compreso l’accesso al lavoro dipendente) e assicurazioni sociali; carichi fiscali. Il rifugiato riconosciuto gode di un trattamento non meno favorevole di quello riservato agli stranieri regolarmente residenti in tutte le altre materie (in particolare in materia di acquisto di beni mobili e immobili, di lavoro autonomo, di libere professioni, di istruzione di grado diverso da quella elementare, di libertà di circolazione). Particolari disposizioni sono inoltre previste per i rifugiati in materia di ricongiungimento familiare e di acquisto della cittadinanza italiana per naturalizzazione, nonché per quanto attiene la possibilità di accedere a speciali contributi. Al richiedente asilo e al rifugiato, poi, non si applicano le disposizioni generali in materia di ingresso, respingimento e espulsione. Lo straniero al quale è stato riconosciuto lo status di rifugiato perde automaticamente tale status se chiede la restituzione del passaporto nazionale (qualora questo sia stato trattenuto in Questura al momento della presentazione della domanda di riconoscimento) e contestualmente dichiara di rinunciare allo status di rifugiato. Perde inoltre lo status lo straniero che: chiede la restituzione del passaporto nazionale, senza contestualmente dichiarare di rinunciare allo status di rifugiato; ottiene dal paese di origine (e di persecuzione), in data successiva a quella del riconoscimento dello status di rifugiato, il rilascio del passaporto nazionale; rientra, anche per un breve periodo, nel paese di origine (e di persecuzione) con il passaporto nazionale o con il documento di viaggio per i rifugiati, o torna a stabilirsi in tale paese. In tali casi la perdita dello status di rifugiato non è comunque automatica, ma viene pronunciata dalla Commissione centrale in seguito ad un procedimento analogo a quello seguito per il riconoscimento dello status. 8 9 essendo riferito ai soli soggetti che abbiano i requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato. Da quanto detto, si evince abbastanza chiaramente che diversi sono i presupposti per il riconoscimento dell’asilo allo straniero: in base alla nostra Costituzione è la sussistenza di un impedimento nel Paese di origine all’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione stessa; in base alla Convenzione di Ginevra, il presupposto, invece, è il fondato timore di persecuzione (la persecuzione, in atto o temuta, deve essere riscontrata – e dimostrata – nonché risultare diretta e personale). In altre parole, per ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato è necessario un requisito che non viene richiesto per l’accertamento del diritto di asilo ossia la sussistenza di fondati motivi per ritenere che il cittadino straniero subirebbe nel proprio paese una persecuzione. In tal senso, per il riconoscimento del diritto di asilo è (almeno astrattamente) sufficiente l’oggettiva mancanza delle libertà democratiche nel paese di origine. Il riconoscimento del diritto di asilo ha importanti conseguenze in quanto chi lo consegue, tra le altre cose, non può essere più sottoposto ad estradizione5 o ad espulsione6. Per quel che concerne le migrazioni a motivo “economico”, si possono distinguere la figura dell’immigrato “regolare” (titolare di un permesso di soggiorno rilasciato, per varie ipotesi, da parte delle autorità del paese ospitante), dell’immigrato “irregolare” (ossia il cittadino straniero che si trova nel territorio di uno Stato terzo contravvenendo alle normative ivi vigenti in materia di ingresso e soggiorno ed il cui soggiorno, in definitiva, è illecito) ed il “clandestino” (chi entra illecitamente nel paese ricevente eludendo i controlli di frontiera). Ulteriori classificazioni possono operarsi tra migrazioni “volontarie” (migranti) e “forzate” (asilanti o rifugiati), migrazioni come fatto eccezionale nella vita di un individuo e migrazioni “esistenziali” che si verificano per quei gruppi di individui che hanno con il territorio un rapporto di continuo cambiamento (popolazioni nomadi o anche gli apolidi). Secondo un criterio meramente temporale si può, poi, distinguere tra migrazioni a “breve”, “medio”, “lungo termine” e “definitive”, cui possono aggiungersi quelle periodiche di tipo stagionale. L’immigrazione temporanea è L’estradizione è la consegna di una persona ad uno Stato straniero perché essa venga sottoposta a giudizio (o all’esecuzione della sentenza) per comportamenti che anche in Italia vengono considerati reati; l’art. 10.4 Cost. vieta l’estradizione dello straniero per motivi politici (tra i quali non sono però ricompresi i reati di genocidio o contro l’umanità), mentre la Corte costituzionale ha negato che si possa estradare per reati punti con la pena di morte nel paese richiedente. 5 L’espulsione è, invece, l’atto con cui lo Stato allontana dal proprio territorio lo straniero, inviandolo verso lo Stato di appartenenza o verso quello di provenienza. 6 9 10 propria di coloro che, pur riconoscendo il paese di arrivo economicamente più vantaggioso, scelgono di viverci per un periodo di tempo limitato, al solo scopo di integrare il proprio reddito; quella definitiva è caratterizzata dal fatto che la scelta del modello di vita, non soltanto economico, è maggiormente coinvolgente e si basa su un progetto migratorio definito e consolidato che riesce a muovere persone provenienti da posti anche molto lontani. Ovviamente, la distinzione tra migrazioni temporanee e definitive è imprecisa e fluida: le prime si possono trasformare, specie con il succedesi delle generazioni, nelle seconde; le migrazioni permanenti possono non essere vissute come tali ed essere considerate, almeno nelle ispirazioni, solo come temporanee. Rispetto al parametro “spaziale”, si hanno migrazioni “interne”, quando gli spostamenti avvengono entro i confini nazionali e migrazioni “internazionali” se i confini vengono valicati. In realtà, assumendo il parametro spaziale si può operare un’ulteriore classificazione in ragione della provenienza degli immigrati; a tal proposito, si distingue fra immigrati comunitari (se provenienti da uno degli Stati membri dell’Unione europea) ed immigrati extracomunitari, se provenienti da uno Stato terzo. Mentre però la prima categoria si riferisce ai cittadini di uno Stato membro dell’Unione che, in virtù delle disposizioni dei Trattati comunitari relative alla libera circolazione delle persone, si spostano da uno Stato all’altro per lo svolgimento di un’attività lavorativa (godendo, peraltro, dello status della cittadinanza europea), con l’espressione “immigrati extracomunitari” si intende fare riferimento agli individui, cittadini di Stati non membri dell’Unione, i quali si trovano nell’area comunitaria per lo svolgimento di una determinata attività lavorativa. Ed è proprio su questi ultimi, oltre che su quelli che si spostano per altri motivi (per studio, per ricongiungimento familiare, etc), che verrà incentrato corso di “Diritto dei migranti”, in ragione della posizione di debolezza in cui versano e per effetto della loro diversità (linguistica, culturale e religiosa) rispetto alla società ospitante. Non bisogna, inoltre, dimenticare che i maggiori flussi migratori provengono proprio dai c.d. paesi “terzomondisti” e, quindi, da coloro i quali lasciano il proprio paese di origine nel perseguimento di un obiettivo fondamentale: migliorare le proprie condizioni di vita. 3. I push-pull factors Prima di affrontare l’analisi più propriamente giuridica del fenomeno migratorio e dello status complessivo degli immigrati extracomunitari, occorre qualche ulteriore considerazione in ordine alle cause ed agli effetti delle migrazioni ossia cioè che la letteratura specializzata individua come i “push-pull factors”. 10 11 Le cause delle migrazioni sono costituite dall’insieme dei fattori di espulsione (push factors: complesso insieme di situazioni demografiche, economiche, sociali, politiche e culturali strettamente legate tra di loro) da un territorio e da quelli di attrazione (pull factors: es. migliori condizioni di vita, opportunità di lavoro e domanda di manodopera, possibilità di esercizio dei diritti di libertà) verso un altro. Ai fattori di espulsione, in un dato territorio, non sempre possono ricollegarsi fattori speculari nel territorio di approdo (alla disoccupazione caratterizzante il paese di origine non sempre corrisponde una domanda di lavoro nel paese di approdo) . Vi sono dei casi in cui esistono soltanto “push factors” o solo “pull factors”, come nell’ipotesi di un perseguitato che, pur di sopravvivere, fugge dal proprio Paese senza considerare minimamente i fattori di attrazione della sua destinazione finale (ammesso che possa decidere a priori quale sia la propria destinazione finale). Da un punto di vista demografico, l’immigrazione produce un effetto di invecchiamento della popolazione di partenza e di ringiovanimento in quella di arrivo, poiché chi si sposta è solitamente gente molto giovane (si pensi, da questo punto, di vista quale enorme fattore di ricchezza sia la presenza di immigrati in un paese a natalità zero come l’Italia). Per meglio inquadrare e comprendere le caratteristiche dell’immigrazione straniera in Italia e del ritardo con cui il legislatore italiano ha tentato di regolare tale fenomeno, è necessario ricostruire sinteticamente la storia delle migrazioni internazionali nell’Europa post bellica. In tale contesto possono distinguersi quattro fasi: 1) la prima, iniziata nell’immediato dopo guerra e conclusasi nella seconda metà degli anni Sessanta, è quella della ricostruzione e della espansione strutturale. Le migrazioni internazionali rispondono ad una reale domanda di lavoro dei paesi dell’Europa centro-settentrionale (Francia, Svizzera, Belgio e Germania) e provengono soprattutto dalle aree meno sviluppate. L’Italia partecipa a questi processi quasi esclusivamente come paese di emigrazione anche se al suo interno si hanno forti migrazioni dalle regioni del Sud verso le grandi città industriali del Nord; 2) la seconda fase – iniziata dopo la metà degli anni Sessanta e conclusasi agli inizi degli anni Ottanta – può essere definita della crisi strutturale e della nuova divisione internazionale del lavoro. In questo periodo, nei paesi tradizionalmente importatori di manodopera, le migrazioni internazionali subiscono gli effetti della crisi economica che inizia a manifestarsi nel 1967 e, a partire dal 1973-74, sono anche apertamente contrastate dalle c.d. «politiche degli stop», tese a bloccare l’immigrazione per motivi di lavoro. In realtà, le migrazioni non si fermano, ma si limitano a diventare prevalentemente illegali e ad interessare Paesi in precedenza poco toccati dal fenomeno, come l’Italia, la Spagna ed il Portogallo che diventano 11 12 dapprima paesi di transito, attraverso i quali si cerca di raggiungere il Nord ed il Centro Europa e poi mete dirette di immigrazione. In questa fase, inoltre, si assiste ad una progressiva sostituzione dei flussi provenienti dall’Europa meridionale con quelli provenienti dai paesi extra-europei. L’Italia, in particolare, diviene terra di approdo di numerosi esuli, profughi e rifugiati politici: agli inizi degli anni ’70 cileni, argentini e uruguayani si uniscono ai brasiliani già presenti dal precedente decennio. A questi, nella seconda metà degli anni settanta, si aggiungono eritrei, vietnamiti, iraniani, curdi e somali; 3) la terza fase, che può essere definita della crisi globale dei paesi sottosviluppati e della ripresa delle economie capitalistiche, è iniziata dai primi anni ottanta. In questo periodo, le migrazioni internazionali, già cospicue, si espandono ulteriormente ma sono sempre meno motivate dall’offerta di lavoro nei paesi di arrivo e dipendono sempre più dalle forze espulsive presenti nei paesi di esodo. Iniziano a manifestarsi gli effetti dell’esplosione demografica, del disastro politico, sociale ed economico che investe i paesi più poveri e quelli dell’Europa orientale. Le migrazioni cessano di essere un fenomeno esclusivamente economico per diventare un problema sociale e, dunque, anche politico. La contestualità tra fenomeni ed il progressivo processo di unificazione europea, pone in primissimo piano all’inizio degli anni ’90, il problema della omogeneità delle politiche migratorie dei diversi paesi della Comunità europea e l’esigenza di trasferire i controlli sugli ingressi dalle frontiere nazionali alle frontiere esterne dell’Europa. 4) La fase attuale pare, invece, essere caratterizzata dalla contestualità di una profonda crisi economica a livello quasi planetario. Il che ha comportato inevitabilmente una flessione sensibilissima della domanda di lavoro ed un aumento notevole dei tassi di disoccupazione. D’altra parte, però, permangono forti le cause che spingono centinaia e centinaia di persone (uomini, donne ma anche moltissimi minori non accompagnati) a tentare di approdare (legalmente ed illegalmente) nei Paesi europei e per quel che ci riguarda in Italia. L’Italia non è diventata terra di immigrazione solo a causa di spinte esogene. Altrimenti detto, l’immigrazione verso l’Italia non è stato un ripiego o una conseguenze delle politiche migratorie degli altri Stati europei. Essa, infatti, era cominciata come conseguenza della crescita economica, del boom degli anni Cinquanta e Sessanta e delle importanti trasformazioni sociali e lavorative italiane. L’aumento del reddito procapite (così come dell’istruzione e delle aspettative di vita) ha fatto emergere i c.d. “lavori rifiutati” dagli italiani. È stato notato (Melotti), infatti, come le trasformazioni socio-economiche in Italia abbiano determinato (e 12 13 determinano tutt’oggi) una richiesta di manodopera a basso costo, ad alto livello di ricattabilità e ad elevata flessibilità, non sempre disponibili sul mercato interno. Da alcune ricerche condotte nel 2001, emerge come gli immigrati nel nostro paese trovano lavoro in imprese molto più piccole di quelle che impiegano italiani e, soprattutto, svolgono nell’85% dei casi mansioni operaie o assimilabili. I lavori svolti dagli immigrati extracomunitari sono stati, infatti, definiti come i lavori delle cinque “P”: pesanti, pericolosi, precari, poco pagati, penalizzati socialmente (Ambrosini) Vi sono tutta una serie di fattori che sono all’origine della domanda di lavoratori immigrati. Tale domanda è rimasta a lungo implicita, non istituzionalizzata e non riconosciuta, ma non per questo essa può dirsi non essere stata incisiva nel ridisegnare il panorama del mercato occupazionale italiano in maniera tale che l’immigrazione è divenuta, negli ultimi venti anni, una componente imprescindibile per il funzionamento di tutta una serie di settori e di attività economiche. Si pensi, ad esempio, alla generalizzata presenza della piccola e media impresa operante in settori dell’industria leggera (tessile, abbigliamento, calzature, pelletteria), all’edilizia, ai settori turistico alberghieri, alla raccolta di prodotti agricoli, al terziario urbano (pulizia, servizi di ristorazione, manutenzione), ai lavori di cura che svolgono soprattutto le donne immigrate e che vanno ad integrare le risorse calanti di quel “welfare invisibile” rappresentato dal lavoro non riconosciuto e non retribuito da sempre svolto dalle donne. A completare il quadro, il profondo squilibrio territoriale che affianca, nel nostro paese, regioni con tassi di disoccupazione fra i più alti dell’Unione europea e regioni o aree territoriali con situazioni di quasi piena occupazione e con l’opposto problema di carenza di manodopera per tutta una serie di mansioni. Mentre nel passato i deficit di forza lavoro registrate nelle regioni sviluppate del Nord venivano compensati soprattutto attraverso le migrazioni interne, provenienti specialmente dalle regioni del Mezzogiorno, oggi vari fattori (aumento del livello di istruzione, vischiosità del mercato abitativo, redistribuzione interna dei redditi), insieme ad altri più specifici fattori (opportunità di lavoro nel mondo sommerso, accesso a frammenti di assistenza pubblica) hanno fatto diminuire gli spostamenti interni di manodopera, specie quando si tratta di occupare posti di lavoro operaio o simili: i salari raffrontati ai costi della vita, la scarsità delle prospettive di carriera, le perdite in termini di relazioni sociali e qualità della vita, rendono molto spesso poco attraente una scelta del genere. 4. Il fenomeno migratorio in Europa ed il diritto internazionale dei diritti umani. Anche a seguito degli sconvolgimenti politici prodottisi a causa della caduta del regime sovietico, l’Europa occidentale in un arco di tempo abbastanza ristretto ha 13 14 visto modificare per qualità e quantità il fenomeno migratorio 7. Al già consistente flusso migratorio proveniente dai paesi meno sviluppati del mediterraneo e dell’Africa, si sono aggiunti nuovi flussi provenienti dall’Est, aggravati dalle tensioni etniche e dall’instabilità politica dei nuovi sistemi statuali, impegnati nella difficile costruzione dei nuovi assetti democratici. Per tutti, si pensi al terribile conflitto jugoslavo che si è consumato proprio alle porte della vecchia Europa. Più di recente, la progressiva chiusura delle frontiere esterne da parte degli Stati tradizionalmente definiti di immigrazione (Francia, Germania, Inghilterra, Olanda), a causa soprattutto di una crisi economica che ha investito la grande industria, ha portato i flussi migratori ad indirizzarsi verso paesi, come l’Italia (ma anche la Spagna, la Grecia e il Portogallo), che a causa della scarsa dimestichezza nell’affrontare problemi di questo tipo, non hanno sviluppato sin da subito una coerente politica legislativa nella materia dell’immigrazione. Gli Stati europei, malgrado le differenti condizioni economiche, sociali e culturali si sono trovati a dover affrontare problematiche abbastanza simili. In tale prospettiva, essi hanno anzitutto promosso un intervento comune per regolare gli ingressi dei cittadini extracomunitari entro i rispettivi territori ed, in secondo luogo, hanno progressivamente liberalizzato la circolazione in ogni Stato dell’Unione europea di coloro i quali fossero residenti in modo regolare in uno degli Stati membri dell’Unione. A tale scopo è stato sottoscritto il Trattato di Schengen, ratificato dall’Italia con legge 30 settembre 1993, n. 388 il quale prevedeva l’entrata in vigore di un visto “uniforme” di durata non superiore a tre mesi e valido per la circolazione su tutto il territorio delle parti contraenti. Le tematiche dell’immigrazione sono state, dunque, in parte snazionalizzate nel senso che gli Stati membri dell’Unione europea hanno progressivamente ritenuto opportuno armonizzare le diverse legislazioni nazionali in materia. Armonizzazione ormai imposta a seguito della “comunitarizzazione” operata dal Trattato di Amsterdam che ha introdotto nel Trattato CE (nel nuovo Titolo IV), una disciplina fino a quel momento demandata esclusivamente alla competenza degli Stati ed alla cooperazione intergovernativa: visti, asilo, immigrazione e le altre politiche connesse con la libera circolazione delle persone, che come vedremo più approfonditamente in seguito, sono divenute materia di competenza comunitaria. L’art. 2 del Trattato dell’Unione europea enuclea gli obiettivi dell’Unione tra cui quello di «conservare e sviluppare l’Unione quale spazio di libertà, sicurezza e giustizia in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone insieme a misure 7 La Germania, sul finire degli anni ottanta, si è dovuta, ad esempio, misurare con l’enorme flusso di persone provenienti dalla Germania dell’Est che, potendo beneficiare delle regole sulla naturalizzazione (essendo di origine tedesca), hanno potuto ottenere il riconoscimento dei diritti di cittadinanza. 14 15 appropriate per quanto concerne i controlli alle frontiere esterne, l’asilo, l’immigrazione, la prevenzione della criminalità e la lotta contro quest’ultima». Da questi pochissimi cenni si può evincere come la normativa comunitaria e quella dei singoli Stati europei, allorquando regolamenta la condizione dello straniero, preveda ampie deroghe a princìpi invece ritenuti inderogabili e fondamentali per il cittadino comunitario, delineando un sistema che taluno ha qualificato significativamente come “Fortezza Europa” per indicare un’Europa sempre più arroccata e impermeabile all’ingresso di cittadini provenienti da paesi poveri. L’aspetto su cui ora dovremo soffermarci concerne la complessa problematica del riconoscimento e della tutela dei diritti e delle libertà fondamentali (anche) all’immigrato extracomunitario. Tale riconoscimento deve tenere in debito conto il presupposto secondo cui, accanto alla cultura nazionale di cui è portatore ciascun Stato europeo, esistono culture diverse, non necessariamente corrispondenti a quelle prevalenti nella società di accoglienza. Da quest’ultimo punto di vista i problemi maggiori si pongono con riferimento agli immigrati di religione islamica, ma non solo. La salvaguardia di queste culture, ma soprattutto dei diritti inalienabili della persona umana, sia esso cittadino sia esso straniero, non deriva solo dal livello di “tolleranza” rinvenibile in seno agli Stati ospitanti ma, soprattutto, da precisi obblighi che essi hanno assunto a livello internazionale e sovranazionale. Tra i fenomeni giuridici a livello internazionale sviluppatisi successivamente al secondo conflitto mondiale, quello di maggior rilievo, almeno ai nostri fini, attiene allo sviluppo ed al consolidamento del c.d. “diritto internazionale dei diritti umani”. Prima, però, di chiarire cosa debba intendersi per “diritto internazionale dei diritti umani” e in che misura esso influenzi la condizione giuridica dello straniero, pare opportuna una breve digressione sul diritto internazionale, sulle sue fonti e sulle modalità con cui esso viene recepito dall’ordinamento costituzionale italiano. Ciò è assolutamente necessario in quanto a norma dell’art. 10, comma 2 della nostra Costituzione «la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali». 4.a. Cenni di diritto internazionale Al vertice della gerarchia delle fonti di diritto internazionale si situano le c.d. consuetudini internazionali, ossia norme generali (non scritte) che vincolano tutti gli Stati della Comunità internazionale (anche quelli che non hanno partecipato direttamente alla loro formazione). 15 16 Una definizione di consuetudine la ritroviamo nell'art. 38.1 lett. b dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia (organo giurisdizionale delle Nazioni Unite), che riconosce tra le fonti di diritto, «la consuetudine internazionale come prova di una pratica generale accettata come diritto». Tale definizione ci consente di rilevare i due elementi costitutivi della consuetudine: da un lato, l'elemento oggettivo o materiale, che consiste nel comportamento costante ed uniforme tenuto dagli Stati (diuturnitas o prassi), dall'altro l'elemento soggettivo o psicologico, ossia la convinzione dell'obbligatorietà giuridica del comportamento stesso o, in altri termini, che quella prassi corrisponda a diritto o sia dettata da necessità sociali (opinio iuris sive necessitatis). Si distingue dalle consuetudini, l'accordo, ossia quella fonte di diritto internazionale di natura pattizia o particolare che può assumere indistintamente la forma di un trattato, di una convenzione, di un patto, ecc.. Si tratta di un documento scritto (o di più documenti tra loro connessi) che rappresenta l’incontro delle volontà di due o più soggetti di diritto internazionale (nel primo caso si parlerà di trattati bilaterali, nel secondo di trattati multilaterali), ciascuno dei quali si impegna a rispettare, nei confronti di tutti gli altri, le norme che disciplinano quella particolare materia oggetto del trattato. A differenza delle consuetudini internazionali, i trattati vincolano i soli Stati contraenti, ossia quegli Stati che hanno deciso di sottoscrivere il testo dell'accordo8. Al momento della ratifica, ciascuno Stato contraente può decidere di formulare delle riserve, ossia può dichiarare, con atto unilaterale, di escludere l'applicazione nei propri confronti di talune clausole del trattato (c.d. riserve eccettuative) o modificare l'effetto giuridico di alcune norme del trattato (c.d. riserve interpretative). Attualmente, la disciplina delle riserve è prevista dall'art. 19 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 19699, il quale dispone che “uno Stato, nel momento di sottoscrivere, ratificare, accettare, approvare un trattato o di aderirvi, può formulare una riserva, a meno che: a) la riserva non sia proibita dal trattato; b) il trattato non disponga che possono essere formulate solo determinate riserve, fra le quali non figura quella in questione; c) la riserva non sia incompatibile con l'oggetto e lo scopo del trattato". 8 I trattati si pongono al secondo posto nella gerarchia delle fonti poiché trovano in una norma consuetudinaria, pacta sunt servanda, il fondamento della loro obbligatorietà. Tuttavia, ciò non significa che un accordo non possa derogare ad una consuetudine. Queste ultime, infatti, sono caratterizzate da una certa flessibilità che ne consente la derogabilità mediante accordo. E', però, opinione comune che esista un gruppo di norme di diritto internazionale generale inderogabili (c.d. jus cogens). Si tratta di norme imperative accettate e riconosciute dalla Comunità internazionale degli Stati nel loro insieme, alle quali non può essere apportata nessuna deroga e a cui non possono apportarsi modifiche se non da una norma di diritto internazionale avente il medesimo carattere. 9 Si tratta di un “accordo di codificazione”, a cui si deve il merito di aver codificato (trascritto) norme internazionali consuetudinarie che disciplinano il procedimento di formazione, nonché i requisiti di validità ed efficacia dei trattati. 16 17 Dopo aver brevemente illustrato i caratteri essenziali delle principali fonti di diritto internazionale, occorre chiedersi in che modo gli Stati danno attuazione alle norme internazionali (siano esse consuetudinarie o pattizie). In altri termini, quali sono i mezzi e le procedure attraverso le quali il diritto internazionale viene introdotto nell’ordinamento statale? In questa sede, ci limiteremo ad analizzare il procedimento di adattamento automatico, poiché esso rappresenta la modalità attraverso cui l’ordinamento giuridico italiano si adatta al diritto internazionale consuetudinario. L’art. 10.1 della Costituzione italiana, infatti, dispone che “l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”. Ne discende che, le norme internazionali generali avranno validità giuridica all’interno dello Stato italiano se e finché vigono nell’ambito dell'ordinamento giuridico internazionale. A questo proposito, si pone la questione relativa al rango che tali norme internazionali assumeranno nel sistema delle fonti di diritto interno. Si può ritenere che, essendo l'adattamento previsto dalla Costituzione, esse abbiano rango di norma costituzionale e, dunque, si pongano ad un livello superiore rispetto alla legge ordinaria. Ne deriva che, una legge ordinaria contraria al diritto internazionale consuetudinario sarà ritenuta costituzionalmente illegittima, in quanto in contrasto con l’art. 10 della Costituzione. Cosa accade nel caso di un eventuale conflitto tra norme costituzionali e norme internazionali generali? Trattandosi di norme di pari rango, quale delle due prevarrà? Normalmente, si ritiene che il diritto consuetudinario prevalga sulle disposizioni costituzionali in virtù del principio di specialità. Tuttavia, tale prevalenza incontra un limite ossia il rispetto dei valori fondamentali che ispirano la nostra Costituzione. In altre parole, la norma internazionale generale prevale sulla norma costituzionale purché non violi quei principi dell’ordinamento giuridico italiano che il Costituente ha voluto considerare assolutamente imprescindibili e immodificabili (tra questi, il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali della persona umana). 4.b. Il diritto internazionale dei diritti umani La tutela dei diritti umani, tradizionalmente garantita dai singoli ordinamenti nazionali in quanto appartenente alle materie di esclusiva competenza statale (sottratte evidentemente ad obblighi internazionali), ha assunto, nel corso degli anni, un ruolo sempre più rilevante all’interno delle relazioni tra Stati appartenenti alla Comunità internazionale. Il diritto internazionale si è configurato per lunghissimo tempo essenzialmente come diritto interstatale, cioè costituito da norme tese a regolare prevalentemente, se 17 18 non esclusivamente, rapporti di convivenza tra Stati, all’interno del quale nessun peso (o quasi) aveva la persona umana in quanto tale. L’individuo, infatti, era considerato una “pertinenza” dello Stato ed i popoli erano oggetti del dominio dei vari sovrani. Il solo modo che gli individui avevano per far cessare una violazione dei propri diritti e libertà, in uno Stato straniero, era quello di confidare nella c.d. “protezione diplomatica”. Si trattava di un istituto fondato sull’assoluta ed autonoma volontà degli Stati di decidere se assicurare o meno la difesa, sul piano internazionale, del proprio cittadino, vittima di un pregiudizio in territorio straniero. Nella tradizionale impostazione del diritto internazionale, l’individuo godeva, dunque, di una posizione solo riflessa e la tutela dei suoi diritti era, pur sempre, frutto delle singole volontà statali. Come nota uno degli studiosi più importanti di tali fenomeni, Antonio Cassese, “il cammino che ha portato alla comparsa degli individui e dei popoli sulla scena internazionale è stato lungo e complesso. Non si è trattato, infatti, di un avanzare progressivo e costante nel corso del tempo, bensì di un percorso discontinuo , che ha conosciuto fasi di stallo, inciampi e momenti di accelerazione”. Il 6 gennaio 1941, dunque nel mezzo della più sanguinosa guerra nella storia dell’umanità, il Presidente americano Roosevelt, in un messaggio al Congresso in cui disegnava la nuova società mondiale che avrebbe dovuto sorgere alla fine della guerra, sottolineava come punto fermo il rispetto “da parte di tutti nel mondo” di quattro libertà: quella di parola e di pensiero, quella religiosa; la libertà dal bisogno, la libertà della paura. Questo messaggio è, in qualche modo, una sintesi del concetto che andava facendosi strada in quel periodo: per evitare il ripetersi della tragedia provocata dal nazismo, bisognava prendere coscienza piena ed assoluta dell’importanza del binomio pace-diritti umani ed operare, a guerra finita, perché questo binomio divenisse il fine di tutti gli Stati e della Comunità internazionale nel suo complesso. È, quindi, soprattutto nel periodo successivo alla Seconda Guerra mondiale che gli sforzi per la protezione della dignità umana hanno visto una moltiplicazione importante. La svolta “rivoluzionaria” consiste nel fatto che gli individui, sul piano internazionale, non vengono più considerati solo come membri di un gruppo, di una minoranza oppure di altre categorie ma diventano oggetto di protezione in quanto individui. La nuova veste delle norme internazionali a tutela dei diritti umani è, così, caratterizzata dalla possibilità di regolare anche rapporti interindividuali cioè interni alle singole realtà statali. Le materie ritenute tradizionalmente di esclusiva competenza degli Stati diventano, ora, oggetto di diritto internazionale anche in risposta al crescente internazionalismo che investe i rapporti economici, sociali e culturali. In particolare, si è avvertita l’esigenza di apportare limiti e a incidere sulla libertà dello Stato nell’ambito del proprio dominio riservato, soprattutto, con riferimento al rispetto dei diritti umani. 18 19 È in questa prospettiva che nasce quel complesso meccanismo di protezione internazionale dei diritti umani volto a superare il tradizionale rapporto Statosuddito, fondato sul vincolo essenziale della cittadinanza, nell’intento di garantire una protezione diffusa nei confronti di tutti gli individui presenti sul territorio nazionale (concetto dell’universalità dei diritti). Una data – il 1945 – può ritenersi fondamentale nell’avvio di tale processo. All’indomani del secondo grande conflitto mondiale, infatti, gli Stati coinvolti cominciarono a credere che la stabilità del nuovo ordine mondiale dovesse basarsi su un impegno per la protezione della persona umana e delle sue libertà fondamentali. Le aberrazioni del nazismo avevano condotto ad una presa di coscienza da parte degli Stati della necessità di rispettare e tutelare principi quali la dignità umana e la libertà-autonomia dell’individuo. Il 1945 rappresenta, dunque, il punto di partenza delle attività internazionali per la protezione dei diritti umani che hanno condotto alla creazione di un sistema di norme in grado di vincolare gli Stati al rispetto di tali diritti. L’atto che segna una svolta epocale nella materia dei diritti dell’uomo, è lo Statuto delle Nazione unite10 con la solenne affermazione di quei diritti che il nazismo e la Seconda guerra mondiale avevano tragicamente violato. L’art. 1 della Carta indica, quali fini delle Nazioni Unite, il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, la decolonizzazione in campo economico e politico nonché la tutela dei diritti dell’uomo («promuovere ed incoraggiare il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti senza distinzione di razza, sesso, di lingua e di religione»). Le Nazioni Unite adottarono, in particolare, nel 1948, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (Dudu). Si tratta di una Dichiarazione di principi adottata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite che formalmente non ha valore vincolante ma che è assurta a principale fonte di riferimento (per ciò che riguarda il catalogo dei diritti umani e delle libertà fondamentali) per i successivi atti internazionali (di natura vincolante), tra cui il Patto internazionale sui diritti civili e politici e il Patto sui diritti economici, sociali e culturali, entrambi firmati a New York il 16 dicembre 196611. L’Onu (Organizzazione delle Nazioni Unite) è la principale tra le organizzazioni internazionali. Creata e retta dalla Carta di San Francisco del 26 giugno 1945, sottoscritta da 50 paesi, costituisce il tentativo di rilanciare il progetto, fallito, della Società delle nazioni, a sua volta creta dopo la prima guerra mondiale. I principali organi dell’Onu sono: l’Assemblea generale (composta da tutti gli Stati membri), il Consiglio di Sicurezza (composto da 15 membri di cui 5 permanenti – Cina, Francia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti – e gli altri eletti per un periodo di due anni); il Consiglio economico e sociale, la Corte Internazionale di Giustizia, il Segretariato generale, il cui titolare è eletto dall’Assemblea su raccomandazione-proposta del Consiglio di Sicurezza per un periodo di cinque anni. 11 Entrambi costituiscono i primi strumenti internazionali onnicomprensivi e giuridicamente vincolanti nel campo dei diritti umani, e, insieme alla Dichiarazione universale dei diritti umani, rappresentano il nucleo del Codice internazionale dei diritti umani. 10 19 20 La Dudu, in particolare, poggia su quattro pilastri: - i diritti della persona (diritto all’uguaglianza, alla vita, alla libertà); - i diritti che spettano all’individuo nei rapporti con i gruppi sociali ai quali partecipa (diritto alla riservatezza, di sposarsi, di proprietà); - i diritti politici (compresa la libertà di pensiero e di riunione); - i diritti che si esercitano nel campo economico e sociale (diritto al lavoro, ad un’equa retribuzione). Non bisogna dimenticare, inoltre, le iniziative in ambito regionale: la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali (1950)12, la Convenzione americana dei diritti dell’uomo (1969), la Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli (1981) e la Carta araba dei diritti dell’uomo (1994). Le disposizioni contenute nei richiamati strumenti internazionali e regionali tesi a garantire la protezione dei diritti umani, presentano delle caratteristiche particolari rispetto agli altri trattati internazionali. Innanzitutto, sono connotate da un carattere obiettivo, in quanto il riconoscimento dei diritti umani previsto da tali strumenti, in linea di massima, non è condizionato dal c.d. principio di reciprocità. In base a tale principio, uno Stato si impegna a mantenere un determinato comportamento obbligatorio (nei confronti di organi o cittadini stranieri) a condizione che gli altri Stati, legati allo stesso trattato internazionale, facciano lo stesso nei suoi confronti (ossia dei suoi organi o dei suoi cittadini). Nel caso dei trattati che tutelano i diritti dell’uomo, il principio di reciprocità perde importanza perché il valore da tutelare non è tanto l’interesse dello Stato ad accertare che gli altri Stati rispettino le disposizioni del trattato, quanto la protezione dell’individuo e dei suoi diritti fondamentali. Se l’obiettivo perseguito è quello di garantire la realizzazione dei diritti umani, nessuno Stato può addurre a propria giustificazione, in caso di violazione di un diritto fondamentale, il fatto che un altro Stato si comporti nella stessa maniera, ossia in modo da non tutelare i diritti del proprio cittadino. Strettamente connesso a quest’ultimo aspetto è il carattere di universalità che viene attribuito alle norme in materia di diritti umani. Queste ultime riconoscono agli individui, a prescindere dalla loro nazionalità, una serie di diritti fondamentali. In altri termini, ciascuno Stato che diviene parte ad un trattato sui diritti umani si autolimita rispetto al trattamento che fornisce al proprio cittadino (ed ai residenti sul proprio territorio), dovendo garantire tali diritti a livello universale. Per “sistema internazionale di tutela dei diritti umani” possiamo intendere, dunque, l’insieme di convenzioni, procedure, meccanismi ed organismi di controllo La tutela dei diritti umani in Europa si inserisce nel quadro istituzionale del Consiglio d’Europa e si fonda sulla Convenzione europea del 1950 e sulla Carta sociale Europea (1961), strumento che prevede la tutela dei diritti economici e sociali, di recente modificata da una Carta Riveduta entrata in vigore nel 1999. 12 20 21 creati dalla Comunità internazionale per promuovere e proteggere i diritti umani fondamentali. Prendendo in esame gli strumenti suindicati, è possibile rilevare un nucleo comune di diritti fondamentali che vengono riconosciuti a tutti gli esseri umani indipendentemente dalla nazionalità o dallo status giuridico di cittadino, straniero o apolide: il diritto alla vita; il diritto alla libertà e alla sicurezza personale (divieto di arresto o detenzione arbitraria), la proibizione del genocidio, della schiavitù, del lavoro forzato, della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti13; il diritto al rispetto della vita privata e familiare, della casa e della corrispondenza; il diritto di non essere privato arbitrariamente dei propri beni (posseduti a titolo individuale o in associazione con altri); il diritto di lasciare un Paese e di ritornare in quello di origine, la libertà di pensiero, di coscienza e di religione, la libertà di espressione, il diritto al riconoscimento della personalità giuridica. Accanto a questi diritti sostanziali, ad ogni essere umano vengono riconosciuti diritti e garanzie processuali parimenti fondamentali, quali l’uguaglianza di fronte alla legge, il diritto ad un’effettiva possibilità di ricorso ad un equo, sollecito e pubblico processo innanzi ad un’autorità giurisdizionale indipendente e imparziale, il diritto di difesa, il diritto al rispetto dei noti principi nullum crimen e nulla poena sine lege. Si tratta di diritti civili sicuramente riconosciuti anche allo straniero in quanto diritti essenziali o fondamentali della persona umana, derogabili solo in virtù di particolari interessi, quali la sicurezza interna e il benessere economico della nazione, l’ordine, la sanità e la moralità pubbliche, la salvaguardia e il rispetto dei diritti altrui. Per quanto riguarda i diritti politici stricto sensu, il loro godimento – come vedremo - rappresenta il nucleo centrale della qualità di cittadino. Ad ogni individuo viene, infatti, riconosciuto il diritto di partecipare al governo del proprio Paese, di accedere, in condizioni di eguaglianza, ai pubblici impieghi, di essere eletto o di votare nel corso di libere elezioni (art. 21 della DU; art. 25 del PIDCP). Tuttavia, lo Stato è sicuramente libero, sulla base del diritto internazionale generale e convenzionale, di escludere gli stranieri dal godimento dei diritti politici o dei diritti pubblici funzionali in quanto essi comportano una partecipazione all’organizzazione politica ed amministrativa. 13 Il divieto di allontanare dal territorio individui che corrono il rischio di subire atti di tortura o trattamenti crudeli, inumani o degradanti nello Stato di destinazione è un divieto assoluto che non ammette eccezioni in alcuna circostanza. Né situazioni di emergenza nazionale che minacciano lo Stato, né particolari caratteristiche personali, possono giustificare l’allontanamento dell’individuo in siffatte ipotesi. Per quegli Stati europei che hanno aderito alla Cedu (il cui art. 3 espressamente prevede il divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti), è fatto assoluto divieto di espellere, estradare o allontanare a qualsiasi titolo dal proprio territorio un individuo qualora esistano fondati motivi per ritenere che l’interessato corra un pericolo reale di subire violazione dei propri diritti fondamentali nello Stato di destinazione. 21 22 Infine, quanto ai diritti economici, sociali e culturali, occorre precisare che, pur in presenza di un incisivo movimento convenzionale a favore della loro affermazione, non si può sostenere che essi siano generalmente riconosciuti. Lo Stato può, infatti, provvedere nel modo che ritiene più opportuno alle esigenze del commercio e della cooperazione internazionale. Può dirsi, sinteticamente, che diverse sono le categorie di diritti contemplati dagli strumenti internazionali. Si distinguono, ad esempio, diritti di prima (diritti civili e politici), seconda (economici e sociali) e terza generazione (diritto alla pace ed allo sviluppo). A seconda dell’obbligo di facere o non facere dello Stato si distingue tra: diritti civili (come il diritto alla libertà di manifestazione del pensiero, la libertà di coscienza e di religione) che postulano una astensione dello Stato nei confronti dell’individuo; diritti politici – che consentono all’individuo di partecipare alla “gestione” dello Stato, all’amministrazione dello stesso, all’esercizio delle funzioni pubbliche che gli sono proprie – e che per essere garantiti necessitano di una struttura istituzionale e, quindi, un intervento dello Stato che è, però, diverso da quello richiesto per i diritti economici, sociali e culturali (come il diritto all’istruzione, al lavoro, all’ambiente salubre, all’assistenza sanitaria) ove la struttura economico-sociale dello Stato deve essere particolarmente sviluppata. I due Patti del 1966 (in vigore dal 1976), rispettivamente sui “diritti civili e politici” e sui “diritti sociali, economici e culturali” hanno lo scopo di individuare una soglia minima di tutela di questi diritti, ferma restando la prevalenza di norme interne o internazionali più favorevoli alla tutela dei diritti delle persone. La scelta di predisporre i due testi è stata essenzialmente di carattere politico. In fase di elaborazione, invero, emerse una maggiore difficoltà per gli Stati di ammettere vincoli di immediata osservanza in materia economica, sociale e culturale rispetto ai diritti civili e politici; i primi, infatti, non possono essere immediatamente applicabili ed esigibili perché richiedono un intervento attivo dello Stato (che si sostanzia nei diritti c.d. sociali o libertà positive), mentre per i secondi l’intervento dello Stato si limita ad assicurare uno spazio di libertà e di autonomia dei singoli (obbligo di non ingerenza dello Stato, libertà negative). Tra gli 80 (e più) diritti riconosciuti nella Dudu (e, poi, reiterati nei Patti), allo straniero non viene riconosciuto l’esercizio dei diritti politici di partecipazione negli affari pubblici, nell’accesso alle funzioni pubbliche o all’esercizio di particolari professioni. Se indubbiamente ad oggi moltissimo è stato fatto per costruire una rete di protezione internazionale dei diritti dell’uomo, non altrettanto può dirsi dei meccanismi di garanzia istituiti a livello universale. Quanti operano nel campo dei 22 23 diritti umani14 si imbattono quotidianamente in una antinomia fondamentale: sono proprio gli Stati – ossia i principali violatori di quei diritti – gli enti cui ci si deve rivolgere per ottenerne il rispetto (Cassese). Il modo migliore per assicurare il rispetto dei diritti umani sarebbe quello di prevedere garanzie giudiziarie internazionali ma in questo settore fortissime sono le resistenze degli Stati ad una vera e propria giurisdizione internazionale. I blandi meccanismi internazionali di controllo, così, si presentano come una soluzione di compromesso tra le opposte esigenze di rispettare la sovranità degli Stati e di garantire, in qualche modo, l’osservanza delle norme internazionali sulla dignità della persona umane. L’osservanza delle disposizioni contenute nei vari testi è generalmente affidata a “comitati”, composti da esperti che vi siedono a titolo individuale (non rappresentano cioè nessun Stato) e che portano il nome della Convenzione che lo istituisce. Generalmente il comitato veglia sul rispetto dei diritti convenzionalmente garantiti attraverso tre procedure: l’esame dei rapporti periodici trasmessi dagli Stati contraenti; l’esame di presunte violazioni di diritti da parte di uno Stato contraente su iniziativa di un altro Stato contraente; esame di presunte violazioni di diritti da parte di uno Stato contraente su istanza di individui o gruppi di individui. Nel complesso, i meccanismi di controllo istituiti dai trattati internazionali sui diritti umani non sono molto efficaci ed il ciò consiste il principale difetto del sistema internazionale dei diritti dell’uomo, ed al suo interno dei diritti dei migranti: vi è una incapacità/impossibilità di rendere effettivi, attraverso rimedi giurisdizionali, l’effettività dei diritti proclamati. Come già affermava N. Bobbio, infatti, «rispetto alla tutela internazionale dei diritti dell’uomo ci troviamo oggi in una fase in cui là dove essa sarebbe possibile non è forse del tutto necessaria e dove sarebbe necessaria è meno possibile»; non si può porre il problema «dei diritti dell’uomo astraendolo dai due grandi problemi del nostro tempo, che sono i problemi della guerra e della miseria, dell’assurdo contrasto tra l’eccesso di potenza che ha creato le condizioni per una guerra sterminatrice e l’eccesso di potenza che condanna grandi masse alla fame. A chiunque si proponga di fare un esame spregiudicato dello sviluppo dei diritti dell’Uomo dopo la Seconda Guerra mondiale consiglierei questo salutare esercizio: leggere la Dichiarazione universale e poi guardarsi intorno. Sarà costretto a riconoscere che, nonostante le anticipazioni illuminate dei filosofi, le ardite formulazioni dei giuristi, gli sforzi dei politici di buona volontà, il cammino da percorrere è ancora lungo. E gli parrà che la storia umana, per quanto vecchia di un millennio, paragonata agli enormi compiti che ci spettano, sia forse appena cominciata». 14 Soprattutto le ONG come Emergency, Medici senza Frontiere, Amnesty International, Human Rights Wacth, la Comunità di Sant’Egidio che peraltro si adoperano anche perché i governi si conformino alle norme internazionali poste a tutela di quei diritti. 23 24 Un discorso a parte merita invece la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu, firmata il 4 novembre 1950 ed entrata in vigore il 1954) in quanto essa costituisce, probabilmente, la forma più evoluta del sistema internazionale dei diritti dell’uomo. La Cedu, promossa dal Consiglio d’Europa15, diversamente dalla Dudu, è un atto che comporta obblighi tra gli Stati che l’hanno firmata a ratificata. Aderendovi lo Stato si obbliga al rispetto dei diritti umani elencati nella prima parte della Convenzione nei riguardi di chiunque sia sottoposto alla propria giurisdizione. Da qui, la presenza nella Cedu di due novità assolute che ne hanno fatto “uno strumento costituzionale dell’ordine pubblico europeo”. La prima è l’obbligo internazionale dello Stato di tenere una condotta conforme all’obbligo assunto: benché il riconoscimento convenzionale dei diritti umani dipenda pur sempre dalla volontà dei singoli Stati, liberi di ratificare o meno la Convenzione (o di recedervi), lo Stato che l’abbia accettata ha l’obbligo di conformarsi alle regole che vi sono dettate, senza avere la possibilità di apporvi riserve in itinere. La seconda novità assoluta consiste nella previsione di un meccanismo di controllo della condotta dello Stato nel caso di denuncia di eventuali violazioni della Convenzione. Altrimenti detto, il profilo più rilevante della Convenzione è che essa assicura la garanzia dei diritti attribuendo agli individui, una volta esaurite le vie di ricorso interne, la legittimazione processuale a far valere la violazione di un diritto di fronte alla Corte europea dei diritti dell’Uomo. Al diritto sostanziale corrisponde, dunque, il diritto processuale o di azione, idoneo a farlo valere autonomamente, e direttamente, così assicurando quella piena giustiziabilità del diritto stesso, assente in altri strumenti internazionali. La Corte europea dei diritti dell’Uomo, con sede a Strasburgo, è quindi un organo giurisdizionale, con ampi poteri di accertamento dei fatti e di interpretazione del diritto applicabile nonché con il potere di emettere pronunce giudiziarie (giuridicamente vincolanti). Certamente la novità più importante del sistema Cedu è che l’accertamento della Corte può essere attivato dalle vittime di presunte violazioni della Convenzione cioè dai diretti interessati contro uno Stato o addirittura contro il proprio Stato. Ancora più importante, almeno ai nostri fini, è che la protezione prevista dalla Cedu non è accordata ai soli cittadini dei vari Stati che hanno ratificato la Convenzione ma a tutti gli individui i cui diritti siano calpestati da uno di quegli Stati. Il Consiglio d’Europa (da non confondere con il Consiglio europeo che è una istituzione comunitaria) è una organizzazione internazionale creata all’indomani della Seconda guerra mondiale per favorire lo sviluppo degli ideali di democrazia e del rispetto dei diritti umani. Lo Statuto del Consiglio d’Europa individua quale suo fine quello di «conseguire un’unione più stretta fra i suoi membri per tutelare e realizzare gli ideali ed i princìpi che sono loro comune patrimonio e per favorire il loro progresso economico e sociale» (art. 1, lett. a), impegnando gli stati membri ad «accettare i princìpi dello Stato di diritto e del godimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali da parte di ogni persona sottoposta alla loro giurisdizione» (art. 3). 15 24 25 4.c. Il diritto internazionale dei diritti umani in materia di stranieri e di lavoratori migranti Nell’ambito della normativa internazionale a tutela dei diritti umani, meritano particolare attenzione alcuni strumenti espressamente rivolti ad una particolare categoria di stranieri, i lavoratori migranti. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL)16 ha cercato, negli anni, di adottare strumenti a tutela dei lavoratori migranti muovendo da due finalità: tentare una regolazione degli aspetti più delicati del flusso migratorio e introdurre strumenti per proteggere i lavoratori migranti. Per raggiungere tali importanti obiettivi, gli strumenti adottati dall’OIL si sono basati sulle seguenti “idee”: possibilità di organizzare, tramite accordi con i paesi di origine, i flussi migratori per facilitare l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro; consapevolezza che le scelte migratorie (come quelle di consentire o meno l’entrata) devono basarsi su una decisione “razionale” in cui entrano sia le condizioni di vita e di lavoro dei paesi di origine che la conoscenza del mercato del lavoro nei paesi di approdo; l’idea che la protezione del lavoratore migrante è legata strettamente alla protezione della forza lavoro nazionale. Tra i primi strumenti adottati ricordiamo la Convenzione sulla migrazione per motivi di lavoro n. 97 del 1949 (e la Raccomandazione n. 86 del 1949) e la Convenzione sui lavoratori migranti n. 143 del 1975 (e la Raccomandazione n. 151 del 1975). Entrambi questi strumenti perseguono obiettivi comuni, ossia promuovere per i migranti un trattamento non meno favorevole di quello riservato ai lavoratori nazionali rispetto all’occupazione, alla professione, alla sicurezza sociale e ai diritti L’OIL è un Istituto Specializzato delle Nazioni Unite, che opera sulla base di un “accordo di collegamento” stipulato tra le due organizzazioni ai sensi dell’art. 57 della Carta delle Nazioni Unite. Pur trattandosi di un istituzione autonoma rispetto all’ONU, si può dire che, entro certi limiti, ne subisce comunque il controllo e il coordinamento. L’OIL fu istituita con i Trattati di Pace che conclusero la prima guerra mondiale, e le sue funzioni più importanti consistono nell’emanazione di raccomandazioni con le quali si propone di orientare l’azione e la politica degli Stati, e nella predisposizione di progetti di convenzioni in materia di lavoro. Riguardo alla sua composizione, l’OIL presenta una struttura distinta da quella delle altre organizzazioni internazionali, o per meglio dire sui generis, in quanto ispirata al principio del “tripartitismo”. I suoi organi collegiali sono costituiti non solo dai rappresentanti dei governi ma anche dai rappresentanti dei datori di lavoro e dai lavoratori di ciascuno Stato membro. Gli organi principali dell’OIL sono la Conferenza Internazionale del Lavoro che costituisce l’organo assembleare; il Consiglio d’Amministrazione che presenta una composizione più ridotta, anch’essa basata sul tripartitismo; e l’Ufficio Internazionale del Lavoro, composto da funzionari facenti capo ad un Direttore Generale, con funzioni di Segretariato. 16 25 26 sindacali; sopprimere le migrazioni clandestine e l’occupazione irregolare dei lavoratori migranti. In particolare, in virtù della Convenzione n. 97 (adottata nel 1949 ed entrata in vigore il 22 gennaio 1952) ciascuno Stato si impegna ad adottare misure tese ad assicurare al migrante in cerca di lavoro un’adeguata informazione (art. 2), ad impedire la propaganda ingannevole relativa al fenomeno migratorio (art. 3), a facilitargli l’ingresso e il soggiorno nel territorio del Paese di accoglienza (art. 4), a garantire un‘adeguata assistenza medica anche ai membri della sua famiglia (art. 5), nonché la possibilità di trasferire i propri guadagni ovunque desideri (art. 9). Inoltre, essi si impegnano a garantire, senza discriminazione basata sulla nazionalità, la razza, la religione o il sesso, ai migranti legalmente presenti sul territorio nazionale, un trattamento non meno favorevole di quello riservato ai lavoratori nazionali per quanto attiene la remunerazione, la durata del lavoro, le ore straordinarie, le ferie pagate, l’età di ammissione all’impiego, la formazione professionale, il lavoro femminile e minorile, la partecipazione alle organizzazioni sindacali e alle contrattazioni collettive, l’alloggio (art. 6.1 lett. a); la sicurezza sociale (contro gli infortuni sul lavoro, le malattie professionali, la maternità, la malattia, la vecchiaia e la morte, la disoccupazione e gli obblighi familiari, nonché contro qualsiasi altro rischio che, in conformità alla legislazione nazionale, sia coperto da un sistema di sicurezza sociale), le tasse e i contributi lavorativi e l’accesso alla giustizia. La Convenzione n. 143 (adottata nel 1975 ed entrata in vigore il 9 dicembre 1978) viene considerata una sorta di integrazione della precedente e della Convenzione OIL sulla discriminazione (occupazione e professione) del 1958 (n. 111). Particolare attenzione merita l’art. 1 della medesima il quale prevede un obbligo generale di protezione, da parte degli Stati contraenti, dei diritti fondamentali dell’uomo di “tutti” i lavoratori migranti. Ciò ad indicare che gli Stati devono rispettare i diritti umani fondamentali di tutti i lavoratori migranti, evitando di condizionare il loro godimento al particolare status giuridico dello straniero, ossia all’esistenza di un vincolo di cittadinanza o di un regolare permesso di soggiorno. La Convenzione intende assicurare quel nucleo di diritti umani fondamentali contenuti negli strumenti internazionali a tutela della persona umana adottati in seno alle NU. In altre parole, si vuole assicurare al lavoratore migrante, occupato illegalmente, uno standard minimo di protezione almeno per quanto riguarda i suoi diritti fondamentali. Inoltre, ogni Stato deve sistematicamente appurare se esistano, sul proprio territorio, lavoratori migranti illegalmente impiegati o in condizioni contrastanti con gli strumenti o accordi internazionali, multilaterali e bilaterali relativi, ovvero con la legislazione nazionale (art. 2), e, in tal caso, adottare tutte le 26 27 misure necessarie ed opportune al fine di sopprimere le migrazioni clandestine e l'occupazione illegale di lavoratori migranti (art. 3).17 Le Convenzioni suddette sono largamente complementari alla Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie (di seguito “Convenzione”), adottata nel 1990 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, pur assumendo, rispetto ad essa, una forma sicuramente meno estesa, dettagliata e specifica18. Si tratta dello strumento più completo finora elaborato a livello internazionale sui diritti delle persone migranti. La principale caratteristica della Convenzione consiste nel fatto che i diritti umani fondamentali sono estesi a tutti i lavoratori migranti senza distinzione alcuna19, indipendentemente dal loro status giuridico (siano essi regolari o irregolari) (Parte terza, artt. 8-35)20, mentre diritti supplementari sono riconosciuti ai soli lavoratori migranti regolari e ai membri delle loro famiglie (Parte quarta, artt. 3656)21. Essa si propone di stabilire standards minimi di protezione per i lavoratori migranti e i membri delle loro famiglie che siano universalmente riconosciuti, ai quali gli Stati privi di standard nazionali possono uniformare la loro legislazione. In un ambito assai più ristretto (non già “universale” quale quello della predetta Convenzione), si colloca la Convenzione europea sullo status del lavoratore Il Comitato di esperti dell’Oil, a giugno 2008, ha posto al Governo italiano sette quesiti a cui rispondere entro settembre 2008: 1) Fornire informazioni dettagliate sulle strategie sviluppate dalla Direzione nazionale dell'immigrazione e dalla polizia di frontiera per combattere l'immigrazione irregolare; 2). Fornire informazione sulle misure prese o previste dall'accordo di Tripoli per eliminare i flussi di irregolari di immigrati e di indicare ogni altra misura presa con altri paesi a questo fine; 3). Fornire informazione sugli sviluppi legislativi riguardanti la protezione degli immigrati che sono stati vittime di abusi e sfruttamento e l'istituzione di una commissione che individui le azioni di contrasto alla violenza e allo sfruttamento verso gli immigrati; 4). Fornire informazioni sugli obiettivi e sulla definizione del reato di immigrazione clandestina e di tenere il comitato informato degli sviluppi legislativi su questa materia; 5). Indicare come viene garantito ai lavoratori migranti stagionali che hanno perso il lavoro prematuramente di non essere considerati irregolari; 6). Tenere in considerazione la possibilità di emendare il Testo unico nel prossimo futuro per introdurre misure che permettano ai migranti che si oppongono a un decreto di espulsione di poter restare nel paese per la durata del caso; 7). Fornire informazione sui miglioramenti delle iniziative e del loro impatto per promuovere la parità di opportunità e di trattamento tra lavoratori nazionali e immigrati, specialmente rispetto alle donne immigrate. SI chiede, infine, all’Italia la piena applicazione della Convenzione 143 “nella legislazione e nella pratica”. 18 Ancora l’Italia non ha aderito a questa importante Convenzione (costituita da ben 93 articoli) che ripropone tutti i diritti del codice internazione dei diritti umani con riferimento alla situazione del lavoratore migrante e della sua famiglia. 19 Per “lavoratore migrante” si intende, ai sensi dell’art. 2.1 della Convenzione, chiunque “eserciterà, esercita o abbia esercitato un’attività remunerata in uno Stato cui non appartiene”. 20 Si ricordi l’art. 8 sulla libertà di movimento, l’art. 22 sul divieto di espulsione collettiva, nonché gli artt. 25-31 rispettivamente sull’obbligo di garantire al lavoratore migrante un trattamento non meno favorevole di quello riservato al lavoratore nazionale in termini di condizioni di lavoro, sul diritto di partecipazione sindacale, sul diritto alla sicurezza sociale, all’assistenza medica, all’istruzione, al rispetto dell’identità culturale. 21 Tra questi, il diritto al ricongiungimento familiare (art. 44) e il divieto di espulsione (art. 56). 17 27 28 migrante (adottata dal Consiglio d’Europa il 24 novembre 1977)22, la quale però riguarda solo quei lavoratori migranti regolari e cittadini degli Stati membri del Consiglio d’Europa che hanno ratificato la Convenzione stessa. 5. La partecipazione dello straniero alla vita politica dello Stato di soggiorno. Le problematiche legate ai rapporti tra lo “straniero” soggiornante sul territorio e lo Stato ospitante hanno, come abbiamo accennato nelle premesse, origini molto antiche. Pur se il costituzionalismo contemporaneo e il richiamato diritto internazionale dei diritti umani si sono incamminati lungo il riconoscimento della necessità di far coincidere quanto più possibile i diritti del cittadino con i diritti della persona umana (e viceversa), continua a sopravvivere (pur se in maniera differenziata a seconda dei diversi contesti nazionali) un importante ambito di esclusione: i diritti politici. Altrimenti detto, alcuni diritti fondamentali dell’uomo sono riconosciuti sia al cittadino che allo straniero ma non tutti i diritti del cittadino corrispondono, pari passo, a quelli dello straniero. Come è stato notato «tra uomo e cittadino esiste una cicatrice: lo straniero» (Massò Garrote). Tutte le costituzioni democratiche riconoscono i diritti umani fondamentali, che sono i diritti universali, ma si incontrano anche diritti fondamentali che non sono universali in quanto sono riservati dalle Costituzioni esclusivamente a quanti rivestono lo status di cittadino. I diritti politici (ed in specie il diritto di elettorato e passivo) costituiscono l’esempio più lampante di attribuzione esclusiva al cittadino ma non sono certamente gli unici. Abbiamo già detto che la nozione di cittadinanza pur essendo molto complessa può suddividersi lungo due direttrici: la cittadinanza orizzontale che indica l’appartenenza degli individui alla medesima comunità politica (cittadinanza-partecipazione) e la cittadinanza verticale che indica il rapporto tra l’individuo, quale titolare di diritti e di doveri e l’autorità sovrana sul territorio (cittadinanza-appartenenza). Se volessimo individuare l’ossatura della cittadinanza, quali diritti e quali doveri dovremmo sicuramente includere? Innanzitutto, i cittadini godono del diritto di incolato ossia del diritto di risiedere in qualunque parte del territorio dello Stato che include il diritto di circolazione e soggiorno (art. 16, Cost.). Poi, come si anticipava, alla cittadinanza sono legati a filo doppio i diritti politico/elettorali, espressione del più ampio diritto alla partecipazione politica, i diritti sociali, il dovere di fedeltà (dovere anche in Sempre nell’ambito del Consiglio d’Europa, la Carta sociale europea riveduta, adottata nel 1996, stabilisce che i “lavoratori migranti cittadini di una delle Parti e le loro famiglie hanno diritto alla protezione ed all'assistenza sul territorio di ogni altra Parte” (art. 19). 22 28 29 senso giuridico di adesione ai valori della Costituzione) ed il dovere tributario (espressione del più ampio dovere di solidarietà economica, politica e sociale cui allude il secondo comma dell’art. 3, Cost.). Vincolando alcuni diritti fondamentali ai soli cittadini anziché agli individui in quanto persone, inevitabilmente la cittadinanza assume il ruolo di grande limitazione normativa del principio di uguaglianza giuridica. L’integrazione politica, da intendere come esercizio dei diritti politici nella sfera pubblica, costituisce senza dubbio l'espressione piena, anche in senso simbolico e promozionale, della cittadinanza. Certo non sono esclusivamente i diritti politici a riempire la condizione di cittadinanza ma resta vero che la legittimazione ad esercitare tale diritti conferisce a chi ne è titolare il diritto/potere di partecipare, in forma diretta o indiretta, ai processi che conducono a prendere decisioni vincolanti “per sé”, “su” e “per” gli altri nell’ambito politico di appartenenza. Quali sono le principali ragioni di una tale esclusione? In realtà, già a partire dal Seicento, emerse l’idea secondo cui lo straniero dovesse essere bandito totalmente dal ricoprire incarichi pubblici in quanto si riteneva che l’esercizio di tali funzioni presupponesse una incondizionata fedeltà verso le istituzioni, le leggi ed i principi dello Stato (caratteristiche ritenute non immediatamente proprie dal non cittadino). L’idea secondo cui allo straniero dovesse essere precluso l’esercizio della partecipazione politica rimane abbastanza ferma nel corso degli ultimi tre secoli. Alla base di tale principio si rinviene, anzitutto, la considerazione dello straniero come una potenziale minaccia per la sicurezza dello Stato e che impediva che questi potesse svolgere un qualsiasi ruolo pubblico o una qualsiasi funzione pubblica. Si temeva, inoltre, che gli Stati di provenienza potessero influenzare l’operato dei propri cittadini a tutto scapito dello Stato ospitante. Prima di affrontare ed analizzare, pur se brevemente, il contenuto della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla partecipazione dello straniero alla vita pubblica locale (meglio nota come Convenzione di Strasburgo) che rimane l’atto internazionale più importante in questa materia, occorre svolgere qualche ulteriore considerazione. Accanto alle libertà strettamente politiche, generalmente, nei testi costituzionali si rinvengono una serie di diritti che possono essere considerati come strumentali rispetto alla partecipazione politica. Ne costituiscono esempi la libertà di opinione e di manifestazione del pensiero, di riunione, di associazione. Tali posizioni giuridiche soggettive sono così intimamente legate all’esercizio della partecipazione politica che laddove il loro esercizio fosse ostacolato, risulterebbe minata sensibilmente minata la possibilità stessa di esercizio dei diritti politici. Sebbene in molti testi costituzionali le summenzionate libertà vengono riferite alla persona umana in generale, esistono costituzioni in cui esse sono direttamente imputate ai soli cittadini. 29 30 Inoltre, si è visto che gli atti internazionali di natura convenzionale, pur avendo esteso a tutti gli individui le garanzie di tali diritti, hanno previsto anche clausole di salvaguardia con particolare riferimento alla partecipazione politica dello straniero. Con riferimento alla Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo del 1948 ed al Patto sui diritti civili e politici del 1966, occorre tenere presente che tali atti, pur riservando ai soli “nazionali” il diritto di prendere parte alla vita politica del proprio paese, riconoscono espressamente a favore degli individui in quanto tali le libertà di riunione (art. 19), di associazione (art. 22), di espressione e di manifestazione del pensiero (artt. 19 e 20). Tuttavia, tali situazioni di vantaggio possono essere limitate a causa delle clausole limitative generali previste negli atti stessi (ordine pubblico, sicurezza nazionale). Ne consegue che, malgrado la precisazione dell’art. 2, co. 1 del Patto (che prevede il divieto di discriminazione nel riconoscimento dei predetti diritti in ragione, tra l’altro, della razza e dell’origine nazionale), vi è stato chi ha intravisto in queste clausole di salvaguardia uno strumento per limitare l’esercizio di tali libertà con riferimento agli stranieri, perlomeno laddove esse fossero esercitate in ambito politico. Anche la Cedu, dopo aver riconosciuto all’individuo la libertà di espressione, riunione ed associazione ed aver inibito agli Stati di operare discriminazioni in ragione della razza o dell’origine nazionale, stabilisce che le disposizioni contenenti tali diritti non possono tuttavia essere interpretate nel senso di vietare alle Alte Parti Contraenti l’imposizione di restrizioni all’attività politica degli stranieri. Dall’insieme degli strumenti richiamati emerge la volontà degli Stati contraenti di riservare ai soli cittadini l’esercizio delle funzioni pubbliche e dei diritti politici e ciò in ragione del fattore “nazionale” che starebbe alla base di essi. La funzione di partecipazione all’amministrazione della cosa pubblica (diritto di petizione, di iniziativa legislativa, referendum, diritto elettorale attivo e passivo), secondo questa lettura, non può che essere riservata ai soli cittadini in quanto essa costituisce la quintessenza della sovranità dello Stato. Quest’ultima, come recita l’art. 1 della nostra Costituzione, appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti previsti dalla Costituzione stessa. Il concetto di popolo, che sta a designare la comunità di tutti coloro ai quali l’ordinamento giuridico assegna lo status di cittadino, assume in tal modo una precisa valenza giuridica. La tradizionale preferenza accordata al criterio della discendenza per determinare la cittadinanza di un individuo (c.d. ius sanguinis) dipende proprio dalla volontà di tutelare la coesione etnico-culturale di una nazione; mentre riconoscere la titolarità della cittadinanza, tendenzialmente, a coloro i quali nascono sul territorio dello Stato o vi risiedono per un periodo di tempo ragionevolmente lungo (c.d. ius soli), risponde ad una vocazione a fondare la coesione di una comunità su valori condivisi e ad accogliere e includere nel corpo 30 31 sociale anche coloro che immigrano dall’estero23 e scelgono “elettivamente” l’Italia come ‘luogo’ in cui vivere. Dallo status di cittadino/a deriva, dunque, una serie di situazioni giuridiche attive e passive che valgono a porre, in maniera esclusiva, i cittadini in relazione con l’apparato dello Stato laddove, invece, i non cittadini sono, di regola, esclusi dal godimento di alcuni diritti (tipicamente quelli aventi natura politica) e non sottoposti all’osservanza di alcuni doveri (aventi anch’essi natura latamente politica). È proprio da questo legame tra il godimento dei diritti e l’assunzione di doveri – primo fra tutti il dovere, ex art. 54 Cost., di fedeltà alla Repubblica, insuscettibile per sua natura di gravare sugli stranieri, ma più in generale gli obblighi di solidarietà politica di cui all’art. 2 Cost. – che, tradizionalmente, si fa discendere l’esclusione degli stranieri dal godimento dei diritti politici, in quanto diritti di partecipazione alla formazione della volontà pubblica24. Se si assumono come date queste premesse, ne discende che, poiché l’assolvimento dei doveri inderogabili costituisce il logico corollario della 23 In Italia, è la legge 5 febbraio 1992, n. 91 a stabilire le norme che disciplinano il modo come si acquista, si perde e si riacquista la cittadinanza. La legge sulla cittadinanza del 1992 ha modificato la vecchia legge sulla cittadinanza che risaliva addirittura al 1912 e che conteneva tutta una serie di disposizioni fortemente discriminatorie specie nei riguardi della donna. La riforma del 1992 avrebbe potuto rappresentare una occasione importante per mandare un messaggio di inclusione ed, invece, così non è stato. Anzi, per taluni aspetti, ha contribuito a rendere maggiormente difficile l’integrazione delle persone immigrate aumentando da cinque a dieci anni il periodo necessario per ottenere la cittadinanza. In termini generali, può dirsi che la legge del ’92 ha introdotto norme più severe e restrittive rispetto a quelle del 1912 per quanto riguarda l’applicazione dello ius soli consentendo l’acquisizione della cittadinanza italiana da parte di stranieri solo in presenza del requisito della residenza continuativa nel paese dal momento della nascita fino alla maggiore età. Ciò premesso, secondo la legge in esame è cittadino italiano: a) per nascita, il figlio di un cittadino italiano, madre o padre (ius sanguinis), ed anche chi nasce nel territorio della Repubblica da genitori ignoti, apolidi o che, comunque, non possano trasmettere la cittadinanza di un altro paese (applicazione residuale dello ius soli); b) per estensione o trasmissione da un coniuge che è cittadino ad uno che non lo è (residenza legale in Italia per un periodo di almeno due anni ma il termine viene ridotto a metà in presenza di figli anche adottivi; dopo tre anni se residente all’estero; matrimonio valido, mancanza di condanne penali, assenza di impedimenti connessi alla sicurezza nazionale), ovvero da genitori italiani a figli adottivi o riconosciuti dopo la nascita (c.d. iuris communicatio), in ragione del valore costituzione dell’unità familiare; c) per concessione in presenza di una serie di requisiti (straniero legalmente residente da almeno 10 anni; cittadino dell’Unione europea da almeno 4 anni; discendente straniero di chi è stato cittadino italiano residente in Italia da 3 anni; stranieri nati sul territorio italiano dopo tre anni di residenza; cinque anni per gli apolidi ed i rifugiati così come per gli stranieri maggiorenni adottati da cittadini italiani). In tali casi, la cittadinanza è attribuita su domanda, tramite Decreto del Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato, previo giuramento di fedeltà alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le leggi. Ricordiamo che a norma dell’art. 22 Cost., nessun cittadino può essere privato della cittadinanza per motivi politici. L’assimilazione della cittadinanza, alla capacità giuridica ed al nome ne tratteggia la natura di garanzia minima indispensabile della libertà/dignità del singolo nei confronti dei pubblici poteri. 24 L’art. 48, co. 1 Cost., dispone che il diritto di elettorato attivo e passivo appartiene a tutti «i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età»; l’art. 52, co. 1 dispone che «la difesa della Patria è sacro dovere dei cittadini» e l’art. 54, co. 1 aggiunge che «tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi». 31 32 rivendicazione dei diritti, la naturale esenzione dei non cittadini dall’assolvimento delle prestazioni di solidarietà politica e sociale indurrebbe ad escludere costoro anche dal godimento dei correlativi diritti. Questa concezione tradizionale (per non dire obsoleta) della cittadinanza e del legame inscindibile tra status di cittadino, come appartenente allo Stato, e piena partecipazione alla gestione della “cosa pubblica”, è stata fatta propria dai diversi strumenti ed atti internazionali prima richiamati. Dal loro (pur se sommario) esame, è emerso come gli stranieri, risultano titolari, piuttosto, dei soli diritti alla manifestazione del pensiero, informazione, riunione ed associazione (e talora neanche in modo pieno godendo gli Stati di ampi margini di discrezionalità nell’apporre limitazioni a tali fondamentali declinazioni del principio che vorrebbe la dignità umana come principio fondante degli assetti statuali democratici). L’unica possibilità che si è riscontrata ai fini di un riconoscimento della partecipazione alla vita pubblica a favore degli stranieri, ha avuto come esclusivo riferimento l’ambito delle autonomie territoriali e, forse, questo è da considerare il sintomo di maturata consapevolezza che l’esercizio delle libertà pubbliche, almeno sul versante più propriamente locale, non intacca quel principio della preminenza della sovranità statale che vorrebbe estesi ai soli cittadini l’esercizio di certi diritti. A questo proposito è decisamente da richiamare la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a livello locale, aperta alla firma degli Stati membri del Consiglio d’Europa il 5 febbraio 1992 (Nota come “Convenzione di Strasburgo”), in quanto costituisce il riconoscimento più concreto della presenza di cittadini extra comunitari ed una importante apertura verso il possibile riconoscimento di una nuova accezione di cittadinanza che, almeno, consenta agli “stranieri” di partecipare alla vita della comunità politica locale. La Convenzione è entrata in vigore, per gli Stati che l’hanno ratificata (ad oggi solo otto Stati mentre altri 5 l’hanno firmata ma non ratificata) il 1° maggio 1997. Gli Stati membri del Consiglio d’Europa, con tale Convenzione, hanno creduto ragionevole affiancare agli accordi internazionali finalizzati al controllo delle frontiere europee da immigrazioni clandestine disposizioni dirette a facilitare l’integrazione degli stranieri regolarmente presenti nel territorio. Le disposizioni della Convenzione riconoscono a favore dello straniero extracomunitario il diritto di partecipare alla vita pubblica locale, ossia a quella dimensione entro cui gli stranieri che soggiornano regolarmente entrano in più diretto contatto. Ciò nella considerazione che – come è dato leggere nel Preambolo della Convenzione stessa – «i residenti stranieri sono a livello locale generalmente sottoposti agli stessi doveri dei cittadini», così come nella consapevolezza «della partecipazione attiva dei residenti stranieri alla vita ed allo sviluppo della collettività locale», nonché nella convinzione «della necessità di migliorare la loro integrazione nella comunità locale, in particolare potenziando le possibilità di partecipazione agli affari pubblici locali». 32 33 La Convenzione di Strasburgo è suddivisa in tre Capitoli, dedicati, rispettivamente: 1) alla libertà di espressione, di riunione e di associazione (capitolo a): tale diritto comprende la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza l’interferenza delle Autorità pubbliche; il diritto alla libertà di riunirsi pacificamente, ed alla libertà di associazione, compreso il diritto di fondare sindacati insieme ad altri, e di affiliarsi a sindacati per la difesa dei propri interessi. In particolar modo, il diritto alla libertà di associazione implica il diritto, per i residenti stranieri, di creare le loro associazioni locali a fini di assistenza reciproca, di conservazione e di espressione della loro identità culturale o di difesa dei loro interessi riguardo a questioni di competenza della collettività locale, nonché il diritto di aderire ad ogni associazione; 2) alla creazione di organi consultivi volti a rappresentare i residenti a livello locale (Capitolo b): le parti contraenti si impegnano a vigilare affinché nessun ostacolo legale o di altra natura impedisca alle collettività locali che hanno nei loro rispettivi territori un numero significativo di residenti stranieri, di creare organi consultivi o di adottare altre disposizioni appropriate a livello istituzionale per provvedere ai collegamenti tra esse ed i predetti residenti, fornire una istanza per il dibattito e la formulazione delle opinioni, degli auspici e delle preoccupazioni dei residenti stranieri sui temi della vita pubblica locale che li concernono da vicino, comprese le attività e le responsabilità della collettività locale interessata, promuovere la loro integrazione generale nella vita della collettività; incoraggiare ed agevolare la costituzione di determinati organi consultivi o l’attuazione di altre adeguate disposizioni a livello istituzionale al fine di una adeguata rappresentanza dei residenti stranieri nelle collettività locali che hanno nel proprio territorio un numero significativo di residenti stranieri (inchieste pubbliche, procedure di pianificazione, partecipazioni ad organi, comitati formati da stranieri); 3) al diritto di voto alle elezioni locali (Capitolo C): ciascuna Parte si impegna a concedere il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni locali ad ogni residente straniero, a condizione che questi soddisfi alle stesse condizioni di quelle prescritte per i cittadini e inoltre abbia da almeno cinque anni la residenza «legale ed abituale» nel territorio dello Stato. Sotto il profilo strutturale, la Convenzione, nel ribadire all’art. 9, co. 5 che le disposizioni che disciplinano tale materia non possono in ogni caso essere interpretate nel senso di «limitare o pregiudicare i diritti che potrebbero essere riconosciuti in conformità di altre disposizioni o trattati di cui uno Stato è parte», conferma la tecnica già adottata da numerosi trattati internazionali in materia di 33 34 diritti fondamentali (clausola della posizione più favorevole). Gli Stati sono pienamente liberi di allargare lo spettro della disciplina dei diritti oggetto della Convenzione ad altre situazioni giuridiche soggettive in quanto la stessa si limita a predisporre una base minima. Riguardo ai destinatari previsti dalla Convenzione, risulta chiaro che la figura è quella dello straniero regolarmente soggiornante residente nel territorio, ossia titolare di tutti i documenti di soggiorno in corso di validità e che sia iscritto nei registri anagrafici del comune di residenza. Una prima conclusione che può trarsi dal contenuto della Convenzione è che essa rappresenta sicuramente una novità in quanto mira ad assicurare allo straniero regolarmente presente l’esercizio effettivo di alcune libertà funzionalmente collegate alla partecipazione politica. Con riferimento poi alla partecipazione politica, la Convenzione contiene delle affermazioni di massima che lasciano agli Stati firmatari la più ampia libertà nella regolamentazione dei singoli istituti, senza precludere la successiva disciplina di materie non inizialmente ricomprese nello strumento di ratifica. Il riconoscimento agli Stati di tale ampia discrezionalità di scelta in ordine agli strumenti da scegliere per favorire la partecipazione degli stranieri alla vita politica, è stato concesso anche in ragione della varietà di situazioni che possono crearsi non solo tra Stato e Stato, ma anche all’interno degli enti territoriali di uno stesso Stato. Altrimenti detto, gli Stati si sono resi conto che sarebbe stato complicato concepire un modello uniforme di partecipazione dello straniero alla vita pubblica locale, valido per tutti gli ordinamenti. Ciò principalmente in ragione del fatto che molto diversi sono gli strumenti di partecipazione esistenti nelle realtà locali (non dappertutto sono previsti i referendum locali, le competenze dei minori enti territoriali non sono uguali, le petizioni ed il diritto di iniziativa si differenziano notevolmente da ordinamento a ordinamento). L’Italia è stata tra i primi paesi a firmare ed a ratificare la Convenzione di Strasburgo con la legge n. 203/1994, ma avvalendosi della facoltà concessa dall’art. 1, comma 2 della Convenzione, ha limitato la ratifica soltanto ai primi due capitoli (A e B), giustificando la scelta di non ratificare il Capitolo C (apponendovi una riserva eccettuativa) sulla base della circostanza che la Costituzione assegna la titolarità del diritto di voto ai soli cittadini. A tale ultimo proposito e sulla necessità di una riforma costituzionale onde consentire anche agli stranieri regolarmente soggiornanti di esercitare il diritto di voto alle elezioni amministrative, si registra una diversità di posizioni in dottrina. Valerio Onida, ad esempio, ritiene che la Costituzione garantisce sì il diritto di voto ai cittadini ma non esclude la sua estensione ai residenti non cittadini. Con modalità diverse, inoltre, il diritto di voto ai non cittadini è stato riconosciuto in Danimarca, Belgio, Olanda, Regno Unito, Spagna, Svezia, Estonia, Lituania, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria. Conservano un 34 35 impianto assai più tradizionale, insieme all’Italia, anche la Francia, la Germania e la Grecia. 5. Diritti universali e sovranità statale La disciplina della condizione giuridica dello straniero rivela le difficoltà intrinseche della convivenza tra diritti universali della persona umana e prerogative di una sovranità statuale che vuole difendere il proprio territorio nonché la sicurezza ed il benessere dei suoi cittadini. Diritti universali della persona umana e sovranità rappresentano in tal senso due orizzonti che se assolutizzati finiscono con l’essere inconciliabili. Se si prendono “sul serio” i diritti della persona umana, garantendoli a chiunque, ovunque si trovi, presupponendo una libertà di circolazione e soggiorno transnazionali, si entra in una ottica di un mondo senza confini in cui lo Stato nazione (i cui indefettibili elementi sono appunto la sovranità, il popolo ed il territorio) se proprio non muore, vivrebbe in una sorta di coma vegetativo avendo perso i suoi elementi essenziali: i suoi cittadini ed il controllo del proprio territorio. Se, viceversa, a prevalere ed anzi a vincere sono le esigenze di uno Stato fortezza, inevitabilmente i diritti della persona umana risultano essere coincidenti con i diritti dei cittadini o al più di coloro i quali divengono sempre più simili ai propri cittadini. Rimane evidente che teoricamente le due prospettive ove assolutizzate, si escludono reciprocamente. Ma molto spesso ciò che è teoricamente inconciliabile, nella pratica deve essere conciliato tanto che a prevalere sono soluzioni di compromesso. Ma cosa implica una soluzione di compromesso? Che i diritti universali, a scapito dell’aggettivo, in tanto valgono in quanto vi sia un determinato luogo (territorio) in cui possano essere esercitati (con la sola accezione di asilanti e rifugiati). In altre parole, con la positivizzazione, dei diritti fondamentali (si veda l’art. 13 della Costituzione italiana o l’art. 9 del Patto internazionale sui diritti civili e politici), quando cioè i vecchi diritti naturali vengono consacrati dalle Costituzioni come universali, acquistano in concretezza ma perdono in universalità, non solo più diritti dell’uomo, ma diritti del cittadino di questo o quello Stato particolare (Bobbio); questo perché il loro universo giuridico positivo coincide con quello dell’ordinamento interno dello Stato, in maniera tale che i diritti dell’uomo finiscono per appiattirsi sui diritti del cittadino e l’universalità dei diritti umani si stempera in una universalità parziale, viziata dal suo stampo statalistico, e quindi dai meccanismi di esclusione da esso innestati nei riguardi dei non cittadini (Ferrajoli). In secondo luogo, il bilanciamento tra universalità dei diritti e prerogative della sovranità implica che non per tutti i diritti universali la presenza sul territorio è 35 36 condizione necessaria e sufficiente per poterne godere. Alcuni diritti sono fruibili dai soli cittadini, quali i diritti politici ma anche la libertà di circolazione e di soggiorno all’interno del territorio dello Stato che per gli “stranieri” è assoggettata ad una autorizzazione all’ingresso nel territorio stesso. Proprio con riferimento a quest’ultima ipotesi può parlarsi di diritti temporanei e sub condicione proprio in quanto subordinati a scelte discrezionali. Queste premesse inducono ad affrontare la questione della condizione giuridica dello straniero, da un lato, distinguendo tra straniero-persona umana, individuo richiedente asilo, soggetto individuale presente regolarmente o irregolarmente e, dall’altro, sottolineando la centralità delle norme che regolano l’ingresso e l’espulsione dal territorio come termometro del tipo di bilanciamento compiuto e chiave di lettura nel processo di inclusione/esclusione dal godimento dei diritti. Come ha giustamente sottolineato Rescigno «il problema principale e più drammatico non è quello del godimento dei diritti delle persone una volta entrate, ma proprio quello di entrare e rimanere nel territorio di uno Stato». Ovvio che una politica dell’immigrazione che preveda ampie possibilità di ingresso per ricongiungimento familiare o ricerca di lavoro o di studio, sarà sintomatica di un certo modo di considerare il principio della effettività dei diritti umani; viceversa, una politica orientata piattamente alla volontà di subordinare l’ingresso a presunte curve di offerta di lavoro, corrisponde agli interessi dello Stato fortezza. Come vedremo, se il legislatore italiano del 1998 (anche in ottemperanza dei vincoli derivanti dall’Accordo di Schengen) ha tentato un bilanciamento tra “diritti per chi entra, ma rigidi controlli sull’ingresso”, la legislazione del 2002 (la legge Bossi-Fini) e quella del 2009 (il c.d. “pacchetto sicurezza”, legge 15 luglio 2009, n. 94 “Disposizioni in materia di pubblica sicurezza) hanno progressivamente e vigorosamente sterzato nella direzione di un utilizzo strumentale dello straniero come mera forza lavoro, come soggetto la cui unica “merce di scambio” rimane la prestazione del proprio lavoro, divenendo sempre più recessiva la qualità di persona umana del non cittadino. Certamente vi sono alcuni diritti che, proprio in quanto riconosciuti dalla Costituzione come dotazione giuridica inalienabile di ogni singola persona umana25, neanche il legislatore più restrittivo potrebbe negare senza “allertare” tutti gli organismi internazionali (Onu, Acnur, Oil, Ue, per citarne alcuni). E questo anche perché, come si è detto prima, tali diritti sono previsti dal c.d. “diritto internazionale dei diritti umani” ai quali la legge che disciplina la condizione giuridica degli stranieri deve conformarsi. Un ultimo aspetto merita di essere sottolineato, prima di addentrarci nello studio della disciplina dello straniero nell’ordinamento italiano. 25 E sottratti anche al potere di revisione costituzionale in quanto principi supremi su cui si regge l’intero ordinamento. 36 37 La “punizione” tipica riservata allo straniero per aver violato le norme dell’ordinamento giuridico è l’espulsione (una riedizione dell’antico istituto dell’esilio). Nella attuale fase di globalizzazione, le legislazioni nazionali si uniformano verso l’esclusione dei non cittadini, predisponendo meccanismi di controllo transnazionali, stipulando accordi con i governi dei paesi di provenienza per impedire la partenza dei migranti o facilitarne la riammissione, stabilendo regole di competenza per le domande di asilo al fine di impedirne la reiterazione in altri paesi e così via. Gli immigrati espulsi da uno dei paesi dell’Unione europea, o «segnalati» dalla polizia di uno degli Stati membri, vengono inseriti in una banca dati comune per assicurare l’effettività del divieto di reingresso in tutti gli altri stati dell’Unione. Cosicché l’espulsione si trasforma in un meccanismo transnazionale che può arrivare a precludere l’accesso legale a una parte considerevole del mondo occidentale e sviluppato. Le conseguenze “umane” di tale meccanismo, si crede, non necessitino di essere commentate ma rimangono nella disponibilità della coscienza di ognuno dei “cittadini” e delle “cittadine” degli Stati “democratici”. 37