Il paradigma della memoria: la riscrittura di Marianno e

Caterina Verbaro
Il paradigma della memoria:
la riscrittura di Marianno e la sua datazione
Nel disorganico repertorio testuale che, negli anni del dichiarato esilio dalla letteratura, prelude
alla Coscienza di Zeno, Marianno è spesso stato segnalato dalla critica come avamposto di motivi
freudiani, attestanti le prime letture psicoanalitiche di Svevo e la loro immediata e un po’ meccanica
trasposizione narrativa. Tra i motivi riconducibili a un palinsesto psicoanalitico, che palesano
un’“utilizzazione della teoria freudiana come serbatoio di temi e come espediente stilistico” (Nardi
1994, 213), colpisce in particolare il sogno, o più propriamente il “delirio” (Svevo 2004b, 332;
2004c, 344) dovuto alla febbre, del piccolo Marianno, da poco adottato dalla famiglia Perdini, uno
dei più classici “sogni di nascita” (Freud 1914, 368), che applica alla lettera il principio onirico
freudiano dell’inversione; ma anche la natura ambiguamente erotica del rapporto del protagonista
con la sorellastra Adele, riconducibile ai Tre saggi sulla sessualità (Freud 1905), e le sue fantasie
filiali, che sembrano echeggiare il Romanzo familiare dei nevrotici (Freud 1909)1. Si tratta di tracce
freudiane così scoperte e invadenti da aver predestinato questo breve racconto incompiuto a una
rilevanza più documentaria, relativa alla mappa delle letture e competenze psicoanalitiche di Svevo,
che non effettivamente letteraria.
Accanto al retaggio psicoanalitico, la critica corrente ha a lungo letto la novella dentro
l’ambigua cifra, inaugurata dall’edizione curata da Gabriella Contini (Svevo 1985), delle “novelle
muranesi”, associata dunque ai due più esili cartoni lagunari Cimutti e In Serenella, in base a un
generico nesso di tipo ambientale2, laddove una lettura unitaria del trittico muranese, come ad
esempio quella proposta da Moloney (1998b), pur con l’indubbio merito di aver rilevato le affinità
compositive joyciane legate in particolare al modello policentrico dei Dubliners, rischia di
omologare il più moderno fra i tre racconti entro topoi non particolarmente pregnanti.
La non riducibilità del racconto al gruppo dei muranesi ci è oggi confermata dalla revisione
filologica compiuta da Clotilde Bertoni per l’edizione critica diretta da Mario Lavagetto nel 2004
(Svevo 2004a), che attesta come ultima stesura di Marianno una redazione finora pubblicata, tanto
su rivista che nelle edizioni curate da Umbro Apollonio e Bruno Maier, solo in forma di frammento
al testo (cfr. Svevo 1946; 1949b; 1969b). È su quest’ultima redazione del racconto (Svevo 2004b),
che per semplicità chiameremo talvolta Marianno 2, che intendiamo qui soffermarci, osservando
che ci troviamo di fronte a una situazione testuale del tutto nuova, non ancora meditata dalla critica,
che a nostro avviso cambia completamente la fisionomia del racconto, da “muranese” bozzetto
incompiuto in cui si tenta con dubbio successo l’innesto di svariati motivi freudiani in un contesto
sociale popolare, ad abbozzato tentativo di una narrazione memoriale e, più precisamente, di
ricostruzione del trauma della separazione simbiotica.
Particolarmente utile appare la possibilità di confrontare le due successive stesure, se pensiamo
che la riscrittura sveviana è solitamente costruita sul modello della “copiatura correttiva” (Tortora
2003, 49; cfr. Carrai 1983; 2010), che spesso, come accade ad esempio per la prima parte di Corto
viaggio sentimentale, ci priva dei testimoni antecedenti. Nel caso invece delle due stesure qui in
questione, la loro stessa incompiutezza e provvisorietà si fa probabile motivo del mancato
cestinamento del primo testimone, poiché l’autore non è evidentemente confortato dall’approdo a
1
Si rimanda all’Apparato genetico e commento al testo curato da Bertoni 2004a, 1060, 1068, 1072. Per una lettura del
sogno di Marianno secondo parametri freudiani, si veda Dradi 1996.
2
Il terzo capitolo, comprendente Marianno, Cimutti e In Serenella, si intitola appunto Novelle muranesi (cfr. Svevo
1985, 145-190), una sigla da quel momento adottata dalla critica e ripresa anche nel titolo di una più recente raccolta
novellistica, Racconti di Murano e altri racconti (cfr. Svevo 2004e), in cui tuttavia il curatore conduce di Marianno una
lettura molto più ampia e approfondita rispetto agli altri “muranesi”: cfr. Fontanella 2004, 9-13.
1
una versione avvertita come definitiva3.
Cosa c’è dunque di nuovo, di diverso e soprattutto di rilevante nella nuova versione di
Marianno? A differenza che nella vecchia stesura, fin dall’incipit la scansione dell’enunciato è
interamente costruita non già come naturalistica narrazione di eventi, bensì come un serrato
catalogo della memoria e della consapevolezza, che intende mettere a fuoco l’esatto momento
coscienziale vissuto dal giovane protagonista. Leggiamo:
La mente di Marianno s’aperse il giorno in cui abbandonò l’ospizio. Da quel giorno
ricordò. Non il caso aveva portato a maturità il fanciullo proprio in quell’istante tanto
importante; ma l’avvenimento che sconvolgeva la sua giovine esistenza lo aveva spinto
violentemente alla consapevolezza. Aveva aperto gli occhi dal sonno dell’infanzia come
li apre il dormente se viene strappato dal suo giaciglio. E quel giorno restò nel suo ricordo
come una muraglia. Al di là non un bagliore: la cieca vita della pianta (Svevo 2004b,
329)4.
A differenza che nella vecchia stesura, nelle prime pagine del nuovo racconto il protagonista è
sempre colto nello sforzo di ricordare (“ricordò”, “credeva di ricordare”, “ricordava”, “si alterò nel
ricordo”, “un’altra cosa Marianno ricordò”, Svevo 2004b, 329-331), acquisendo in ciò un’attitudine
riflessiva e memoriale che lo apparenta ai personaggi dell’ultimo periodo sveviano. Il narratore
sembra così voler riformulare la scena mitica del suo ingresso nel mondo – il momento in cui
Marianno abbandona l’ospizio degli orfani ed è accolto dal bottaio Alessandro Perdini –
ricostruendo a posteriori un tracciato memoriale dell’avvenimento, che comprenda ciò che il
personaggio ricorda e ciò che non ricorda, come in una mappa di chiaroscuri memoriali:
La vita cosciente cominciò così: Una grande sala oblunga oscura con un Crocifisso in
pietra in mezzo ai cui piedi ardeva un lumicino circondato da fiori freschi. Altri oggetti
non vide. Dovevano poi esserci molte persone in quella sala ma egli non ne vide che una,
Alessandro. […] Marianno credeva di ricordare anche delle parole mentre non ricordava
oggetti e persone, ma poteva ingannarsi. […] Non era del tutto esatto di considerare
quell’importante giornata quale un muro che dividesse nettamente la sua vita. Al di là di
quel muro non c’era infatti niente che fosse ricordato ma al di qua certi tratti e non brevi
scomparvero anch’essi dal ricordo e avrebbero appartenuto piuttosto al di là. Intanto
subito le ore e i giorni che immediatamente seguirono a quella giornata! Egli non
ricordava il suo ingresso in casa Perdini, né la prima volta in cui entrò nella bottega del
bottaio. Gli parve di aver conosciuto sempre la signora Berta, Adele, la bottega, gli
ordigni del mestiere, le doghe di resina ruvide e nodose, e la sua stanzetta, la più oscura
della casa, priva di finestre, funestata dalle zanzare d’estate e dal freddo glaciale
d’inverno.
3
Le due stesure del racconto, insieme a una serie di frammenti ad esso riconducibili designati in Bertoni 2004a con le
sigle A¹, A² e A³,sono conservate presso il Museo sveviano di Trieste. La versione più ampia e antica, M¹, è interamente
manoscritta in inchiostro nero, in undici fogli doppi; al contrario, l’autografo della seconda e più breve stesura, M², è
per sette pagine e mezza dattiloscritto in inchiostro rosso, mentre la seconda metà dell’ottava e la prima metà della nona
pagina (quest’ultima scritta su una facciata dell’autografo di M¹) sono manoscritte in inchiostro nero. Rispetto ai dati
materiali del manoscritto, ci sembra importante rilevare che la macchina da scrivere con l’inchiostro rosso con cui
Svevo scrive la seconda redazione di Marianno è quella il cui utilizzo è attestato a partire dal 1915 (cfr. Tortora 2003,
46). Sui testimoni di Marianno, si veda anche Bertoni 2004a, 1049-1051.
4
Si osservi nell’incipit della prima stesura, che pure percorre la medesima traccia tematica, l’assenza di una precisa e
intenzionale connotazione memoriale e coscienziale: “Quando si domandavano a Marianno particolari della sua
gioventù egli ben poco ne sapeva dire. Del suo soggiorno all’Ospizio egli poco ricordava. La mente dovette aprirglisi il
giorno in cui lasciò l’Ospizio. Alessandro il suo futuro padrone vestito a festa era venuto a prenderlo ed egli lo
ricordava come prometteva di aver cura di lui con quel suo sorriso bonario e affettuoso. Poi di quello stesso giorno
ricordava qualche cosa d’altro ma come parlarne quando non sapeva di chi si trattava? Ecco! Qualcuno staccandosi da
lui aveva pianto. Egli che anelava di esser fuori di quel povero luogo era stato stupito al sentirsi bagnare la faccia da
lagrime. Chi poteva aver pianto per lui?” (Svevo 2004c, 343).
2
Poi sorgevano dall’oblio delle isole che gli lascia[va]no scorgere ogni dettaglio di
avvenimenti che invero non sembravano tanto importanti. […] Uno di questi avvenimenti
fu la sua prima uscita in barca con Alessandro. […] Doveva aver dedicata tutta la sua
attenzione al suo ufficio perché il ricordo fu esclusivamente di barca, di remo e di forcola.
Il silenzioso rio e il rumoroso Canalazzo per cui dovevano essere passati non esistettero
(Svevo 2004b, 329-331).
Questo modulo narrativo fondato sulla scansione memoriale, in positivo e in negativo, degli
avvenimenti, è del tutto assente nella prima stesura di Marianno, in cui l’episodio dell’uscita
dall’ospizio è risolto in termini tendenzialmente bozzettistici5. È piuttosto un altro il testo gemello
della seconda stesura di Marianno, il racconto incompiuto L’avvenire dei ricordi, anch’esso
scandito dal catalogo chiaroscurale di ciò che il protagonista Roberto ricorda e di ciò che invece è
svanito dalla sua coscienza, un “accumulo di negazioni, che trasforma il regesto della memoria in
un elenco di assenze” (Stasi 2011, 65):
Ricordava l’arrivo e la partenza e non il soggiorno, probabilmente una notte dal sonno
profondo dopo la giornata di ferrovia. […] La notte passata ad Innsbruck non esisteva più
di quella di Verona. […] Non fu obliato quel soggiorno su quella piattaforma non
riempito da nessuna parola, nessun avvenimento memorando. […]. Di quell’arrivo, di
tutta quell’ora egli non ricordò né il signor Beer, né tutti i suoi compagni di viaggio e
alcun loro atteggiamento, vestito o parola. L’erta, la cittadina, il fiume non erano di
quell’ora. Egli ricordava solo con piena sicurezza il facchino del collegio, un ragazzotto
un po’ zoppo che pochi giorni appresso doveva abbandonare il luogo senza ch’egli più lo
rivedesse. (Svevo 2004d, 431-436).
Che la somiglianza tra i moduli narrativi dei due racconti non sia una semplice coincidenza, lo
conferma l’uso in entrambi i testi di un identico riferimento metaforico, le “isole della memoria”,
che allude a una personale teoria della memoria su cui Svevo sta evidentemente riflettendo in quel
periodo. Si legge infatti nell’Avvenire dei ricordi: “Bisognava continuare a ricercare in quel mare le
poche e piccole isole emergenti e rivederle attentamente quanto era possibile per ritrovarci qualche
comunicazione fra l’una e l’altra” (ibid., 438); e in Marianno: “Poi sorgevano dall’oblio delle isole
che gli lasciavano scorgere ogni dettaglio di avvenimenti che invero non sembravano tanto
importanti” (Svevo 2004b, 331)6. E nella costruzione narrativa dei due racconti incompiuti, tali
“isole” sono appunto gli episodici ricordi a cui il personaggio si appiglia per tentare di ricostruire la
propria vicenda.
Probabile referente teorico di tale sveviano concetto di “isole di memoria”, che con tutta
evidenza accomuna L’Avvenire e la seconda redazione di Marianno, è il trattato di Ribot del 1881,
Les maladies de la mémoire, tradotto in italiano già nel 1905, in cui si individua, accanto alla
memoria organica, una memoria coscienziale o psichica, definita “localizzazione nel tempo” (Ribot
1881, 39; cfr. Bertoni 2004, 1058-59; Benussi 2007, 183). Secondo Ribot esistono dei “punti di
riscontro” (Ribot 1881, 43) che consentono di “ricordarsi che il tale fatto ci accadde in quella data
epoca ed in quel luogo” (ibid., 38) e la cui funzione è quella di “semplificare il meccanismo di
localizzazione” (ibid., 44), come “termini chilometrici o punti indicatori messi sulle strade”
(ibidem). Così come le “isole” sveviane, anche i punti di riscontro di Ribot sono dunque veri e
propri regolatori della memoria e della coscienza, che rendono possibile la relazione tra il presente e
5
Si pensi ai racconti sulla presunta medaglia d’oro di Marianno all’osteria, topos tipicamente ottocentesco, ben
appropriato a quel sentore dickensiano che Moloney (1998b, 130-132) ha riscontrato nella sequenza relativa al pegno di
riconoscimento che, così come accade nell’Oliver Twist, la madre avrebbe lasciato a Marianno. Si noti che la nuova
stesura di Marianno abolisce entrambi gli elementi, a conferma che il progetto narrativo procede ora in tutt’altra
direzione.
6
Le “isole” sono citate anche in uno dei frammenti che compongono la costellazione testuale del racconto, A³: “Una di
queste isole fu la sua prima uscita in barca con Alessandro” (Bertoni 2004a, 1056).
3
quel determinato punto del passato, mentre la maggior parte degli eventi accaduti viene a essere
cancellata: per Ribot come per Svevo non potremmo ricordare se non dimenticando gran parte del
passato e conservandone in compenso questi nuclei salienti.
Ad accreditare l’ipotesi che Svevo volesse sperimentare narrativamente il funzionamento della
memoria e della coscienza studiato da Ribot, concorre lo stesso paradigma narrativo elencativo e
paratattico che accomuna Marianno 2 e L’avvenire dei ricordi. Se nell’Avvenire tale paradigma è
evidenziato dal ricorso al topos del viaggio, anche in Marianno 2 si procede scandendo le sequenze
memoriali sulla base di una precisa sequenza di “isole” o “punti di riscontro” cronologicamente
allineati: “Questa prima persona che Marianno vide”, “Ma un’altra cosa Marianno ricordò di quella
scena”, “Uno di questi avvenimenti fu la sua prima uscita in barca con Alessandro”, “Poi una
malattia creò una sequela di ricordi” (Svevo 2004b, 330-331).
Le tracce intertestuali tra Marianno 2 e L’avvenire dei ricordi comprendono inoltre un ricco e
comune tessuto simbolico che non si limita alle già notate “isole della memoria”; e se in alcuni casi
si tratta di simbologie piuttosto consuete, come nel caso della luce intesa come epifania memoriale,
in altri casi tali simboli sono molto specifici e indicativi di una sicura interconnessione tra i due
racconti. Pensiamo in particolare al simbolo della “muraglia”, del tutto assente nella prima stesura
di Marianno, che allude alla separazione dal passato incombente sui due protagonisti, Marianno e
Roberto7. Ricordiamo infatti che i due ragazzi, gli unici protagonisti adolescenti del macrotesto
sveviano, hanno nei due racconti la stessa età anagrafica, 12 e 13 anni8, ma che di entrambi il
narratore intende focalizzare un momento cruciale della vita, quello della separazione dalla madre:
una separazione più apertamente dichiarata nel caso di Roberto, affidato insieme al fratello dai
genitori all’educatore che lo condurrà in collegio; più ambigua e fantasmatica, nel caso di
Marianno, che nell’ospizio sembra lasciare un’imprecisata figura materna, dal cui strappo riterrà
soltanto il ricordo di un’ombra dolorosa, la sensazione “che qualcuno aveva pianto, forse però in
modo da non farsi vedere che da Marianno stesso”(Svevo 2004b, 330).
È chiaro dunque che quando Svevo si dedica alla prima stesura di Marianno, in un’epoca fissata
dai diversi esegeti tra il 1911 e il 19149, in immediata successione agli altri due racconti muranesi,
ha in mente un progetto narrativo di tipo completamente diverso da quello che oggi si palesa
leggendo l’abbozzo di Marianno 2. Al centro del ‘vecchio’ Marianno troviamo non solo temi
ricorrenti nello Svevo precedente alla Coscienza di Zeno, come la rivalità con l’altro e la relazione
7
In Marianno 2 si legge: “E quel giorno restò nel suo ricordo come una muraglia”; e ancora: “Non era del tutto esatto di
considerare quell’importante giornata quale muro che dividesse nettamente la sua vita” (Svevo 2004b, 329 e 331). E in
L’avvenire dei ricordi: “Curioso! Non fu obliato quel soggiorno su quella piattaforma non riempito da nessuna parola,
nessun avvenimento memorando. Ma può essere che Roberto avesse sentito di aver varcato le Alpi e di trovarsi al di là
della muraglia che chiudeva la sua patria” (Svevo 2004d, 432). Quanto alla luce, ci sembra interessante rilevare che nel
passaggio dalla prima alla seconda redazione di Marianno, nella sequenza relativa al racconto onirico e al suo seguito,
si accentua notevolmente proprio l’elemento simbolico della luce: “Usciva dal rio stretto e arrivava al Canalazzo
inondato da luce e calore. Troppa luce, troppo calore! […] Per Marianno, uscito da tanta luce abbacinante e da tanto
pericolo, quella stanza oscura […] fu un grande conforto […]” (Svevo 2004b, 332-333).
8
Nella prima stesura di Marianno si diceva che il ragazzo “era entrato in casa a 12 anni” e il tempo della storia è di
circa due anni (“dopo due anni di pratica Marianno ancora non aveva capito di tener giuste le misure”, Svevo 2004c,
346 e 345). Invece in Marianno 2, nella fase della controversa relazione con la sorellastra Adele, si dice che Marianno
ha 13 anni e la sorella 14 (cfr. Svevo 2004b, 338). Il narratore ci fa però capire che al momento del sogno-delirio
Marianno, a differenza che nella prima versione, è un bambino: “L’odio dovette essere nato nella primissima infanzia,
dopo di quella febbre, quando vide la differenza tra la sua convalescenza e quella della bambina” (ibidem). Le
incongruenze cronologiche sono d’altronde compatibili con lo stato di incompiutezza del testo.
9
Pur nella complessiva incertezza sui tempi di composizione, Clotilde Bertoni postula una possibile gestazione delle
due redazioni di Marianno intorno al 1911, anno di intense letture freudiane, e una loro ravvicinata stesura tra il 1913 e
il 1914, forse dopo la riedizione della Traumdeutung freudiana del 1914 che recepisce gli studi onirici di Stekel (1911)
(cfr. Bertoni 2004a, 1051-52 e 1060). Moloney (1998b, 130-132) invece fa coincidere la stesura di Marianno con il
centenario della nascita di Charles Dickens nel 1912, anno in cui, anche grazie alla mediazione joyciana, Svevo ha
probabilmente avuto modo di leggere Oliver Twist. Tortora (2003, 50), soprattutto in base alle condizioni materiali dei
testimoni, ritiene che la prima stesura di Marianno sia precedente al 1913, mentre sposta a dopo il 1915, ma senza
ulteriori precisazioni, la seconda stesura del racconto.
4
forte-debole che si esplica nel rapporto con l’amico Menina, l’attenzione alle tematiche sociali ed
economiche che emerge dal racconto della decadenza del lavoro artigianale, ma anche una certa
tonalità feuilletoniste del racconto sociale ottocentesco che indulge alla compassione per il
personaggio dell’orfano Marianno “scelto come al mercato” (Svevo 2004c, 344). Di tutto questo
non resta traccia nel secondo Marianno. Allo stesso modo, è abolita l’eccessiva esibizione del
sottotesto freudiano, a vantaggio di una più meditata dimensione analitica.
Tutto ciò, unito alle forti tracce intertestuali che associano la seconda stesura di Marianno
all’Avvenire dei ricordi e di cui si è visto qualche esempio, ci porta a dissentire da quanto afferma
Clotilde Bertoni (2004a, 1051) a proposito dei tempi ravvicinati delle due stesure di Marianno, e a
ritenere piuttosto che Marianno 2 sia redatto in un periodo prossimo a quello della composizione
dell’Avvenire dei ricordi. Infatti, se Svevo avesse davvero scritto Marianno 2 intorno al 1914, e
considerando che L’avvenire dei ricordi è uno dei pochissimi racconti il cui manoscritto contiene
una data autografa e dunque pressoché inoppugnabile, indicante la data 1.5.1925, come sarebbe
stato possibile recuperare dopo più di dieci anni non solo un tessuto simbolico, semantico e
concettuale così preciso e coincidente, ma anche un modello e un’intenzione narrativa così
palesemente simili? C’è invece a nostro avviso un determinato momento, che in base alla datazione
autografa dell’Avvenire dei ricordi si colloca intorno al 1925, in cui Svevo lavora a un progetto
narrativo poi abbandonato, che prevede in sequenza la riscrittura di Marianno e la stesura
dell’Avvenire, su una base teorica fornita dalle letture di Ribot e, come vedremo in seguito, dal
repertorio onirico di Stekel. Quello che Svevo vuole scrivere, in quel preciso periodo del suo
percorso creativo, sembra essere un racconto sulla memoria traumatica della separazione dalla
madre, di cui è chiara la sottotraccia autobiografica e autoanalitica. E possiamo ipotizzare che
questa idea sia perseguita prima recuperando il suo vecchio racconto Marianno, nel cui protagonista
orfano Svevo avvertiva giustamente molte potenzialità inespresse; e che poi, fallito anche il secondo
tentativo di scrittura di Marianno, il progetto narrativo di memoria della separazione dal materno
venga recuperato a quella dimensione autobiografica a cui con tutta evidenza appartiene, dando
origine a L’avvenire dei ricordi, che com’è noto ripercorre un tratto della biografia del giovane
Ettore Schmitz10.
La postdatazione della seconda stesura di Marianno dovrà poi tenere conto di un episodio
testuale sospetto che vale la pena di ricordare. Si tratta del più noto passaggio della prima stesura di
Marianno, in cui il ragazzo domanda a se stesso e poi al padre adottivo Alessandro “sono io cattivo
o buono?” (Svevo 2004c, 352)11. L’episodio verrà trasposto di lì a qualche anno nella Coscienza di
Zeno, non solo a significare la fondamentale duplicità del soggetto, ma anche a legare il destino del
bambino a quello dell’adulto:
Il dubbio: ero io buono o cattivo? Il ricordo, provocato improvvisamente dal dubbio che
10
La nostra proposta di datazione cronologicamente differenziata per le due stesure del racconto, condotta su base
interpretativa, è confermata anche dall’indagine sullo stato degli autografi, per la cui descrizione si rimanda alla nota 4.
Non solo infatti tra le due stesure autografe conservate al Museo sveviano cambiano le prevalenti modalità materiali di
scrittura, dal manoscritto al dattiloscritto, ma, per quanto poco oggettivi possano essere tali criteri, appaiono
decisamente differenti gli stessi caratteri della grafia tra M¹ e la breve parte conclusiva manoscritta di M² (sulla grafia
sveviana, cfr. Tortora 2003, 46-48). Inoltre, particolarmente importante ci appare il fatto che la macchina da scrivere
usata da Svevo per la stesura di M² è la stessa utilizzata per gli autografi di molti dei racconti dell’ultimo periodo (cfr.
ibidem). Infine, non appare filologicamente dirimente il fatto che le ultime venti righe di M² occupino il retro di un
foglio di M¹.
11
“Mamma Berta gli diceva sempre ch’egli era cattivo mentre Alessandro e Adele gli dicevano ora ch’era cattivo ed ora
ch’era buono. Un giorno fra doga e doga egli si domandò: ‘Sono io cattivo o buono?’. Non pensò neppure per sogno
ch’egli avrebbe potuto essere quello ch’egli voleva. No! Si era cattivi o buoni come si era cane o gatto. […] Tentava di
guardare se stesso come ci si guarda in uno specchio. Naturalmente vedeva di sé la grandezza, la grossezza e il colore
ma non altro. – Vuoi andare avanti? – gli gridò Alessandro. E allora Marianno con gravità infantile gli disse esattamente
i suoi pensieri: - Mamma Berta dice sempre che sono cattivo, Adele e tu lo dite talvolta. Sono io cattivo o buono? -.
Alessandro si mise a ridere […]. Trascorsero molti anni prima ch’egli arrivasse a comprendere l’importanza della
domanda ch’egli si era rivolta” (Svevo 2004c, 352-353).
5
non era nuovo: mi vedevo bambino e vestito (ne sono certo) tuttavia in gonne corte,
quando alzavo la mia faccia per domandare a mia madre sorridente: “Sono buono o
cattivo, io?” […] Oh incomparabile originalità della vita! Era meraviglioso che il dubbio
ch’essa aveva già inflitto al bimbo in forma tanto puerile, non fosse stato sciolto
dall’adulto quando aveva già varcata la metà della sua vita (Svevo 2004g, 974).
Trattandosi di un passaggio così saliente, è legittimo chiedersi per quale motivo la riscrittura di
Marianno decida di escludere questo brano. Pur tenendo presente che la natura di frammento del
testo ci impone un sovrappiù di cautela, è sensato pensare che questo passaggio fosse diventato
ormai inutilizzabile dopo l’uscita della Coscienza di Zeno. Tutto ciò significa in conclusione
ascrivere Marianno 2 al manipolo di testi non precedenti ma successivi alla Coscienza di Zeno e più
precisamente, per analogia con L’avvenire dei ricordi, ipotizzare che la sua data di composizione
sia situabile intorno al 1925, che è peraltro l’anno in cui Svevo dichiara di dedicarsi alla lettura di
Proust12.
Per dare ulteriore fondamento alla nostra ipotesi cronologica, resta però da indagare brevemente
il motivo profondo di tale operazione, chiedendosi perché mai Svevo possa aver deciso di
recuperare, dopo dieci anni, lo scartafaccio della vecchia novella muranese e quale fosse il nucleo
avvertito come essenziale e sospeso, attorno a cui edificare il nuovo racconto13.
Se è vero che del tanto materiale freudiano accumulato nella prima stesura del racconto Svevo
recupera solo il sogno-delirio, è su questo che converrà evidentemente soffermarsi:
Vogava solo su un sandolo popparino di quelli che esigono dal vogatore tanta forza e
destrezza. Usciva da un rio stretto e arrivava al Canalazzo inondato da luce e calore.
Troppa luce, troppo calore! Il suo sandolo tagliava l’acqua come se fosse stato spinto da
una forza sovrumana. E pescava troppo! Egli sciava, ma i suoi sforzi non servivano ed
egli sapeva che l’acqua irruente gli avrebbe strappato di mano il remo e l’avrebbe
ribaltato. Un vaporino s’avanzava proprio verso di lui e, accanto al suo sandolo, un
gondoliere eretto e calmo sul suo remo diceva: - El voga inveze de tetar -. Marianno si
mise ad urlare dallo spavento e dalla vergogna (Svevo 2004b, 332).
Marianno sta sognando la propria nascita, secondo i più tipici dettami freudiani che Svevo ben
conosce, rappresentata non solo dal passaggio dal “rio stretto” al “Canalazzo inondato da luce e
calore”, ma anche dall’ingresso nelle acque tumultuose14. Una comparazione con la prima versione
del narrato onirico ci fa notare un’accentuata trasparenza simbolica del segmento centrale
dell’episodio, relativo all’irruenza dell’acqua e alla perdita di controllo (“Il suo sandolo tagliava
12
Scrive Svevo (1965, 144) nella lettera a Montale del 17 febbraio 1926: “In quanto al Proust, m’affrettai a conoscerlo
quando l’anno scorso il Larbaud mi disse che leggendo Senilità (ch’egli come Lei predilige) si pensa a quello scrittore”.
13
Ci sembra utile registrare due possibili precedenti di tale procedimento di ripresa a lungo termine. Il primo riguarda il
racconto Argo e il suo padrone, degli anni 1925-1927, che presenta un testimone, il frammento La morte di Argo,
secondo Tortora (2003, 59) precedente al 1913-14, sebbene di diverso avviso sia Bertoni 2004b, 862. Altro caso, ma
non suffragato da documentazione, è relativo a La madre, racconto pubblicato in una prima versione in “La Sera della
Domenica” il 7 dicembre 1924 e poi rivisto dall’autore e ripubblicato nel “Convegno” il 15 marzo 1927. Ma secondo la
testimonianza di Livia Veneziani, negli anni Venti Svevo avrebbe ripreso una prima stesura risalente al 1910: “Sono del
1926 alcune novelle: La madre, di cui ricordo una prima stesura fatta già nel 1910, una specie di favola o apologo”
(Veneziani Svevo 1976, 148).
14
Nella seconda edizione dell’Interpretazione dei sogni, Freud (1914) scrive che “alla base di numerosissimi sogni, che
spesso sono colmi d’angoscia e hanno per contenuto il passaggio per ambienti stretti o la permanenza nell’acqua, stanno
fantasie sulla vita intrauterina, sulla dimora nel ventre materno e sull’atto della nascita” (ibid., 367). Dopo aver
raccontato il sogno di una paziente che presenta la situazione del gettarsi in acqua, afferma che, in base al meccanismo
onirico dell’inversione, “sogni di questo genere sono sogni di nascita; alla loro interpretazione si giunge invertendo il
fatto presentato nel sogno manifesto; dunque, anziché gettarsi in acqua, uscire dall’acqua, vale a dire nascere” (ibid.,
368). La stessa inversione simbolica si riscontra nella mitologia: “Nei sogni come nella mitologia, la nascita di un
bambino dal liquido amniotico viene rappresentata di solito mediante un’inversione, come entrata del bambino
nell’acqua; con molti altri, ne sono esempi ben noti la nascita di Adone, di Osiride, di Mosè e di Bacco” (ibid., 369).
6
l’acqua come se fosse stato spinto da una forza sovrumana”, “i suoi sforzi non servivano”, “egli
sapeva che l’acqua irruente gli avrebbe strappato di mano il remo e l’avrebbe ribaltato”). Crediamo
che l’apporto maggiore a tale scenario immaginativo relativo alla perdita di controllo provenga non
tanto da Freud, che nell’Interpretazione dei sogni cita il motivo dell’acqua corrente in modo
piuttosto sobrio e sintetico, quanto dai numerosi e suggestivi casi clinici riportati da Wilhelm Stekel
in Die Sprache des Traumes, un libro del 1911 che Svevo certamente conosceva15. Nei due capitoli
intitolati Wasser-, Feuer- und Schwangerschaftsträume e Geburtsträume, Stekel documenta molti
sogni riferiti dai pazienti, caratterizzati proprio dall’improvviso tumulto delle acque e dalla perdita
di controllo dell’io, alcuni dei quali decisamente simili al racconto onirico di Marianno per
dinamica e simbologia. Ne riportiamo uno come esempio:
Ich schwimme in einem Flusse (Donau?) fröhlich hin und her. Besonders wundert es
mich, daβ ich so leicht gegen den Strom schwimme. Das dauert so längere Zeit. Plötzlich
fühle ich, daβ die Fluten über meinem Kopf zusammenschlagen. Ich bekomme ein groβes
Angstgefühl und klammere mich an einen Pfahl oder Stock (Weidengerte?). Ich erwache
(Stekel 1911, 214)16.
L’altro elemento che colpisce nel sogno di Marianno, e che costituisce probabilmente il vero
motore profondo della decisione sveviana di riprendere questo racconto, è, in immediata
successione a questa scena di nascita, il monito pronunciato dal gondoliere, “El voga inveze de
tetar”, voga invece di succhiare, un chiaro richiamo a una necessaria e dolorosa abiura del materno
(il “tetar”, la dimensione orale dell’infante), a favore del maschile e del paterno, alluso dal gesto e
dalla simbologia del “vogare”. Marianno sogna insomma non tanto la propria nascita, ma più
precisamente il proprio destino di rinuncia alla madre, di perdita simbiotica, di orfanità. È
significativo che la scena del sogno duplichi perfettamente quella dell’uscita di Marianno
dall’ospizio su cui ci siamo soffermati in precedenza: e ricorderemo che anche in quel caso
Marianno, uscendo dall’utero-ospizio, trova ad attenderlo non la madre adottiva Berta, sempre
connotata nel racconto da tratti di aridità e distanza, ma il ciarliero padre Alessandro. E ugualmente
non è casuale che uno dei primi ricordi-isole di Marianno sia “la sua prima uscita in barca con
Alessandro” (Svevo 2004b, 331) e l’orgoglio di avere imparato a remare.17
In questa figura dell’orfano adottato dal padre piuttosto che dalla madre, è presente con tutta
evidenza un nodo sveviano di lunga data, se è vero che il fantasma materno attraversa tutta la sua
opera, dalla lettera che apre Una vita fino alla madre cancellata dalla Coscienza di Zeno18. Il tema
dell’orfanità, pur essendo un unicum nell’opera di Svevo, in realtà non fa che esplicitare una
costellazione semantica fondamentale, traducendo in una sigla sinteticamente patetica tutto uno
scenario psichico che è quello del soggetto modernista: il soggetto estraneo, esiliato, che ha abiurato
le proprie radici, irrimediabilmente straniero alla propria origine19. Cosicché anche Marianno, che
15
Per una dettagliata ricostruzione dei rapporti tra Svevo e Stekel, si veda Accerboni Pavanello 2008.
“Nuoto avanti e indietro serenamente in un fiume (Danubio?). Mi meraviglia soprattutto che io possa nuotare così
leggero controcorrente. Ciò continua per parecchio tempo. All’improvviso sento che le onde si accavallano sopra la mia
testa. Sono preso da una grande paura e mi aggrappo a un palo o a un bastone (una bacchetta di salice?). Mi sveglio”
(trad. nostra).
17
Ancora più esplicitamente nel frammento A³ si legge: “Una di queste isole fu la sua prima uscita in barca con
Alessandro” (Bertoni 2004a, 1056). Nel sistema semantico del racconto, l’uscita in barca è legata all’universo maschile
e paterno: nella prima stesura di Marianno c’è una scena in cui la barca di Alessandro e Marianno, su cui è salito anche
l’amico Menina, si incaglia sotto un ponte, acutamente letta da Cristina Benussi (2007, 142) come un anticipo simbolico
di quella abiura del padre su cui si chiuderà il racconto.
18
Si segnala a questo proposito una lettura della Coscienza di Zeno come percorso di tentata integrazione col materno,
alla luce dello Ione di Euripide: cfr. Palmieri 1996. Sulle madri sveviane si veda anche Francone 2007.
19
Tale tematica accomuna non a caso Svevo a Joyce, tanto che la questione dell’”esilio” è una delle chiavi della lettura
sveviana di Joyce in occasione della conferenza tenuta a Milano l’8 marzo 1927, in cui, oltre all’essere “senza patria” di
Joyce, si osserva anche il meccanismo di reciproca adozione di Bloom e Stephen nell’Ulisse, topos non estraneo al
nostro racconto; cfr. Svevo 2004i. Sul tema del viaggio e dell’esilio, mi permetto di rimandare a Verbaro 2009.
16
7
nasce e rinasce ma sempre “in nomine patris” (Accerboni Pavanello 2008, 119), come tutti i grandi
protagonisti sveviani da Zeno in poi, sarà costretto a inscenare un conflitto col padre che muove da
una fondamentale condizione di esilio – quell’esilio dalla madre-terra che sarà di lì a poco
esplicitato nel nome stesso del “viaggiatore” Aghios, α-γη, senza terra, senza madre.
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