Avv. Marika Ballardin
Via Lucrezio Caro 63, 00193 Roma Tel. 06/36004333 – Fax 06/36003838
Università degli Studi di Teramo
Facoltà Scienze Politiche
Corso di laurea in Scienze giuridiche economiche e manageriali dello sport
LA TUTELA IN SEDE PENALE DEL MOBBING
Il mondo del lavoro è chiamato a risolvere un fenomeno che da svariati anni sta
minando la sua organizzazione e funzionalità: il mobbing.
Un fenomeno caratterizzato da persistenti atti di violenza, di minaccia ed aggressività,
non troppo dissimile, per la verità, da quello che ha riguardato ed investito gli ambienti
militari, come il “nonnismo”, o certe strutture sociali, come il “bullismo”.
Rimasto per molto tempo nell’oblio, circondato da omertà ed indifferenza, il fenomeno
ha iniziato ad imporsi attraverso l’attività di associazioni ed istituzioni che hanno
attirato sempre di più l’attenzione dei media.
In questo contesto sono stati presentati i primi progetti di legge, ma ancor prima è stata
la giurisprudenza ad intraprendere un percorso per ottenere un esplicito riconoscimento
sia del mobbing che delle conseguenze che da esso derivano.
Trattandosi di un concetto che non nasce nelle aule di giustizia, ma nel mondo del
lavoro, la sua definizione è stata opera di tecnici, in special modo psicologi, non
appartenenti al mondo del diritto.
Tale concetto, squisitamente psico-sociologico, non è acquisibile tout court nelle
scienze giuridiche; pertanto il travaglio giurisprudenziale del mobbing, in quest’ultimo
decennio, è stato proprio quello di ricondurre nell’ambito del diritto un fenomeno
elaborato dalle scienze estranee al mondo della giustizia.
Ormai nell’ambito diritto del lavoro e del diritto civile il mobbing è divenuto una realtà
sia dal punto di vista giurisprudenziale sia, anche se indirettamente, dal punto di vista
normativo, esistendo nell’attuale panorama legislativo diverse norme che disciplinano,
anche se sotto diverso nomen juris, le condotte caratterizzanti il mobbing.
Esiste ormai un’ampia produzione giurisprudenziale civilistica che definisce e riconosce
pacificamente il mobbing come una realtà alla quale corrisponde una reazione
dell’ordinamento
Sotto il profilo civilistico e laburistico moltissime sono infatti le norme che regolano i
rapporti nell’ambito del lavoro e che permettono l’agevole ingresso in sede civile del
mobbing.
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Non così in ambito penale, settore nel quale il mobbing sta muovendo i primi passi
osteggiato non da un vieto non riconoscimento di un fenomeno penalmente rilevante ma
dall’esistenza del principio della tipicità del reato. Principio dettato da un’esigenza di
tassatività nella enunciazione delle norme penali e delle condotte ivi descritte.
Il principio di tassatività, o determinatezza della legge penale, impone una puntuale
formulazione della stessa ed una precisa determinazione delle fattispecie legali, affinché
risulti tassativamente stabilito tutto ciò che rientra nella sfera del penalmente lecito, e
tutto ciò che, invece, rientra nella sfera del penalmente illecito. Si esamini a tal fine la
norma contenuta nell’art. 25 della Costituzione.
Pertanto quella libertà di condotte che si possono avere in ambito civile, proprio per la
atipicità dei fatti illeciti (art. 2043 c.c.) diventa, in ambito penale, un muro
insormontabile, proprio perché, al di là delle condotte tipiche vi è l’irrilevanza penale
del fatto e quindi la sua non punibilità.
Nell’attuale ordinamento penale manca una norma che sanzioni in modo complessivo
tutti gli atteggiamenti di vessazione
morale, umiliazione e dequalificazione
professionale, cosicchè saranno le singole ipotesi di reato, previste dal codice penale, o
dalle leggi speciali, ad essere utilizzate dal giudice per sanzionare quelle condotte
delittuose che determinano, ciascuna nella sua specificità, il fenomeno.
Molte condotte rientranti nelle dinamiche del mobbing trovano così una precisa
connotazione negli articoli del codice penale.
Si potranno verificare ipotesi di condotte che ledono l’onore della persona, come frasi
ingiuriose o diffamatorie (art. 594 e 595 c.p.); condotte che direttamente incidono sulla
sfera psico-fisica dei soggetti, come minacce o di molestie (art. 612 e 660 c.p.), o, non
meno gravi, condotte caratterizzanti il reato di violenza privata (art. 610 c.p.), per non
dimenticare quelle afferenti le lesioni o le violenze e molestie sessuali.
Nel caso invece in cui la condotta mobbizzante si realizzi all’interno di una Pubblica
Amministrazione, ci si potrà trovare difronte a quei reati propri, come per esempio
l’abuso d’ufficio.
Individuata la fattispecie tipica a cui il comportamento incriminato può essere
ricondotto, il passo successivo che si troverà ad affrontare il tecnico del diritto sarà
quello dell’accertamento probatorio.
La legge penale garantisce la libertà individuale proprio nella misura in cui, rifiuta
ipotesi di responsabilità oggettiva, basata sul puro nesso di causalità materiale, e
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subordina invece la punibilità alla presenza di coefficienti soggettivi come il dolo e la
colpa.
L’indagine probatoria dovrà pertanto addentrarsi nella valutazione di questi coefficienti
esistendo condotte dolose e condotte colpose, a seconda della volontà e consapevolezza
delle conseguenze.
Nell’area della colpa ricadranno quindi tutte quelle forme di aggressione alla sfera
morale e psichica del lavoratore cui possa riconoscersi una matrice inconsapevole (per
esempio la violazione di specifiche norme, quali l’art. 2103 o 2087 c. c. o l’art. 3 co 1,
lett. s) del D.Lgs 626/94).
Se invece la condotta verrà qualificata come dolosa, sarà utile valutare se trattasi di dolo
diretto o intenzionale, dove l’agente deve rappresentarsi l’evento come conseguenza
precisa del suo comportamento, oppure di dolo indiretto o eventuale, nel caso in cui
l’agente, ponendo in essere una comportamento, seppur diretto verso scopi diversi da
quello di ledere l’integrità psico-fisica del lavoratore, si rappresenta la concreta
possibilità del verificarsi dell’evento ulteriore rispetto alla propria idea, accettando il
rischio di cagionarlo
Individuato l’autore del mobbing, inquadrata la sua condotta, individuato il danno,
l’esigenza successiva sarà quella di dimostrare il
nesso di causalità, ovvero quel
rapporto di causalità che si colloca nella struttura del reato come elemento di
dipendenza causale tra la condotta e l’evento. La malattia derivante dal mobbing deve
essere infatti una conseguenza immediata e diretta della condotta, e a sua volta la
condotta deve essere causa unica ed efficente capace di determinare l’evento dannoso.
Un altro importante profilo che questa indagine si ripropone è quello di analizzare e
confrontare le diverse iniziative legislative, nazionali ed estere, nonché le innumerevoli,
oramai, pronunce giurisprudenziali.
Si porrà l’accento sulla direttiva del Parlamento Europeo, che ha evidenziato la
necessità per gli stati membri di approfondire lo studio del fenomeno delle violenze
psicologiche in ambito lavorativo per pervenire ad una comune definizione della
fattispecie del mobbing e creare una solida base statistica sulla sua diffusione.
L’analisi si soffermerà in particolare modo sulle specifiche leggi entrate in vigore in
Francia e in Svezia, senza tralasciare i progetti di legge che fino ad oggi sono stati
presentati al Parlamento Italiano, in particolare la n. 1813, 6410 e 6667, nonché alcune
leggi regionali e altre iniziative legislative come ad esempio quella in tema di molestie
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sessuali, che si ricorda, possono costituire una modalità attraverso la quale si manifesta
il mobbing.
L’analisi si soffermerà anche sulle ragioni e sull’opportunità, o meno, di adottare nel
nostro Paese una specifica legge in materia.
Se dal punto di vista normativo il mobbing è lontano da un’appagante sistemazione, dal
punto di vista giurisprudenziale invece esistono diverse pronunce, molte provenienti dai
giudici di prime cure, talune dalle aule della Suprema Corte, che affrontano e
sanzionano il fenomeno.
Come si può ben vedere comunque le pronunce, pur riferendosi a comportamenti di
mobbing, considerano tali condotte come rientranti nell’alveo dei reati già previsti
dall’attuale normativa, anche se, comunque, sono oggetto di interpretazioni che si
modellano alle attuali esigenze.
E’ ormai chiaro che il fenomeno del mobbing sebbene trovi il suo ambiente naturale nel
mondo del lavoro, tuttavia molte sono le istituzioni o le strutture, pubbliche o private,
in cui si sviluppa.
Non è sconosciuto ai più il fenomeno del nonnismo nelle caserme o ipotesi di mobbing
all’interno delle strutture carcerarie.
Oggi le Istituzioni politiche e le strutture militari finalmente ammettono l’esistenza del
mobbing militare.
Si è preso finalmente coscienza che il nonnismo nelle caserme rappresenta una
questione di estrema delicatezza, che lede principi di rilievo costituzionale. Tale
fenomeno rappresenta un pericolo per l’organizzazione di moderne e strutturate Forze
Armate, che non può avere alcuna valenza positiva e va di conseguenza sradicato.
Anche qui, partendo dall’analisi delle sue cause, dalla fine degli anni novanta ad oggi è
stata posta in essere un’opera finalizzata, assieme all’osservazione e alla repressione,
all’adozione di iniziative atte a prevenire il fenomeno della violenza nelle caserme.
Uno dei progetti di contrasto di maggior rilievo è stato quello attuato dallo Stato
Maggiore dell’Esercito, struttura maggiormente interessata, in termini numerici e
quantitativi, dal fenomeno del nonnismo.
Nell’aprile 1998 è stata all’uopo predisposta, per l’approfondimento e la prevenzione
del fenomeno, una “Commissione di esperti” idonea ad offrire elementi utili ai fini
della prevenzione e la soluzione del problema, attraverso l’analisi delle condizioni di
disagio e di violenza all’interno delle caserme.
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Alla fine dei lavori della Commissione è stata emessa una circolare a firma del Capo di
Stato Maggiore dell’Esercito che, emanando una serie di direttive ad hoc, ha istituito,
quale diretto organo di consulenza, un “Osservatorio permanente sulla qualità della vita
nelle caserme e sui disagi sofferti dal personale”.
È stato altresì attivato un “numero verde” che provvede alla ricezione delle denunce da
parte dei soggetti interessati.
Già dal maggio 1998, lo Stato Maggiore della Difesa ha creato un altro strumento che
possa fornire un quadro esauriente e approfondito del fenomeno attraverso l’analisi dei
dati statistici e delle situazioni socio-ambientali: l’ “Osservatorio Permanente sul
Nonnismo” (OPN), che abbraccia tutte le Forze armate.
Mentre dal punto di vista sanzionatorio non si deve dimenticare che, laddove manchi
nel codice penale militare una tutela specifica in merito ad una condotta penalmente
rilevante, trovano sempre applicazione le tipiche fattispecie disciplinate dal codice
penale comune, come il delitto di percosse, lesioni personali volontarie o colpose,
ingiuria, diffamazione, violenza privata, minacce e molestie, tutte condotte che rientrano
nella dinamica del mobbing.
Nell’ambiente carcerario, sebbene il fenomeno del mobbing non sia del tutto
sconosciuto, tuttavia esiste una pressoché totale impermeabilità al problema.
Un’analisi dei diversi settori della struttura carceraria ha evidenziato a livello empirico
l’esistenza del fenomeno. Gli indici indicano le percentuali, con un certo margine di
precisione, e le categorie di soggetti, detenuti e non, che lo attuano e lo subiscono. Ma
ad oggi manca un qualsiasi intervento per prevenire o sanzionare il fenomeno.
Senza dimenticare tuttavia che in questo, come in qualsiasi altro ambito esterno, se una
condotta, rientrante nelle dinamiche del mobbing, realizza un illecito penale, la tutela a
disposizione è quella offerta dalla legge ordinaria.
Avv. Marika Ballardin
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