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26 novembre, ore 16.00, Teatro Goldoni di Venezia
Decamerone, vizi, virtù, passioni
liberamente tratto dal Decameron di Giovanni Boccaccio
produzione Nuovo Teatro in collaborazione con Fondazione Teatro della Pergola di Firenze
adattamento teatrale e regia di Marco Baliani
drammaturgia Maria Maglietta
scene e costumi Carlo Sala
disegno luci Luca Barbati
LA COMPAGNIA
STEFANO ACCORSI – PANFILO – Mastro di Brigata
SALVATORE ARENA – FILOSTRATO – Il fedele
SILVIA BRIOZZO – ELISSA – La generosa
FONTE FANTASIA – PAMPINEA – La giovine
MARIANO NIEDDU – DIONEO – Lo scaltro
NAIKE ANNA SILIPO – FIAMMETTA – L’innamorata
(Ciascuno di loro interpreta
)
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Lo spettacolo porta a teatro sette novelle dell’opera di Boccaccio. Nella finzione scenica, Stefano Accorsi
capeggia un’allegra e scanzonata compagnia di giro che arrangia come può la messinscena dell’opera. La
selezione delle novelle intende essere il più possibile varia:
La leggerezza dell’episodio di Calandrino (beffato dai suoi più astuti compagni, Bruno e Buffalmacco)
I discorsi sull’amore di Masetto da Lamporecchio (fortunato ospite di un convento di monache poco osservanti)
Le storie più drammatiche di Elisabetta da Messina e dei suoi crudeli fratelli
L’amore soffocante di Tancredi per la figlia Ghismunda
Frate Alberto e la piuma dell’Agnolo Gabriele
Il Zima e messer Francesco Vergellesi
Gli attori interpretano sia i narratori delle novelle, cioè sei dei dieci
giovani fiorentini che si succedono nel racconto del Decameron, sia
i personaggi protagonisti delle storie stesse. Sostituendo però
l’idilliaca casa del Decameron, con una fatiscente roulotte attorno
alla quale ruotano i tre attori e le tre attrici che danno vita all’opera;
lo fanno con vivacità e ironia, non rinunciando a parecchi interventi
che rompono la finzione scenica e che riescono bene, il più delle
volte in forme farsesche, nello scopo di dare una forma anche alla
vita della compagnia di giro (mancanza di attori e di denari, necessità di riciclare i costumi, contrapposizione tra l’amoralità degli attori
e l’idealismo del capocomico).
Questa nuova cornice dialoga bene con lo spirito dell’opera boccaccesca; i toni da commedia dell’arte colorano ulteriormente le
novelle; efficace in questo senso l’uso del dialetto per connotare le
storie servendosi anche dei cliché regionali: il forte senso della famiglia nella novella siciliana, la bonomia della società bolognese.
Sulla scena è parcheggiato un carro-furgone, “casa” e teatro viaggiante della compagnia che si appresta a mettere in scena l’opera.
La modularità del carro, favorirà la messa in scena di sette novelle
del Decamerone, permettendo di volta in volta la creazione degli
spazi e delle suggestioni necessarie alle storie che si vanno a narrare.
Una grande passione anima la compagnia, ma non altrettanto grandi sono le loro risorse materiali, si alterneranno quindi in un susseguirsi di ruoli e vicende, forti della loro arte teatrale.
La scenografia riesce ad essere un valido corredo, grazie soprattutto alla capacità di sfruttare ogni funzionalità dell’anacronistica roulotte parcheggiata sul palco, sopra, sotto, dentro, intorno alla quale gli attori giocano
e si muovono adeguandola all’ambientazione differente che richiedono le novelle raccontate.
Il Decameron riesce ad essere vivace, l’adattamento ispirato e creativo. È una scelta decisiva in questo senso, affiancare all’attore principale un gruppo di validi comprimari. Tutti gli attori in scena, come prevedibile,
risultano più bravi in certi ruoli e meno naturali in altri: Silvia Briozzo, ad esempio, è perfetta nei panni della
moglie di Calandrino, più ingessata quando viene circuita da Frate Alberto.
NOTE DI REGIA
Le storie servono a rendere il mondo meno terribile, a immaginare altre vite, diverse da quella che si sta faticosamente vivendo. Le storie servono ad allontanare, per un poco di tempo, l’alito della morte. Finché si
racconta, e c’è una voce che narra siamo ancora vivi, lui o lei che racconta e noi che ascoltiamo. Per questo
nel Decamerone ci si sposta da Firenze verso la collina e lì si principia a raccontare. La città è appestata,
servono storie che facciano dimenticare, storie di amori, erotici, furiosi, storie grottesche, paurose, purché
siano storie, e raccontate bene, perché la morte là fuori si avvicina con denti affilati e agogna la preda.
Abbiamo scelto di raccontare alcune novelle del Decamerone di Boccaccio perché oggi ad essere appestato
è il nostro vivere civile. Percepiamo i miasmi mortiferi, le corruzioni, gli inquinamenti, le mafie, l’impudicizia e
l’impudenza dei potenti, la menzogna, lo sfruttamento dei più deboli, il malaffare.
In questa progressiva perdita di un civile sentire, ci è sembrato importante far risuonare la voce del Boccaccio attraverso le nostre voci di teatranti. Per ricordare che possediamo tesori linguistici pari ai nostri tesori
paesaggistici e naturali, un’altra Italia, che non compare nei bollettini della disfatta giornaliera con la quale la
peste ci avvilisce. Per raccontarci storie che ci rendano più aperti alla possibilità di altre esistenze, fuori da
questo reality in cui ci ritroviamo a recitare come partecipanti di un globale Grande Fratello. Perché anche se
le storie sembrano buffe, quegli amorazzi triviali, quelle strafottenti invenzioni che muovono al riso e allo
sberleffo, mostrano poi, sotto sotto, il mistero della vita stessa o quell’amarezza lucida che risveglia di colpo
la coscienza. Potremmo così scoprire che il re è nudo, e che per liberarci dall’appestamento, dobbiamo partire dalle nostre fragilità e debolezze, riconoscerle e riderci sopra, magari digrignando i denti.
Le storie servono a rendere il mondo meno
terribile, a immaginare altre vite, diverse da
quella che si sta faticosamente vivendo, le
storie servono ad allontanare, per un poco
di tempo, l’alito della morte. Finché si racconta, finché c’è una voce che narra siamo
ancora vivi, lui e lei che racconta e noi che
ascoltiamo. Per questo ci si sposta da Firenze verso la collina e lì si principia a raccontare. La città è appestata, la morte è in
agguato, servono storie che facciano dimenticare, storie di amori ridicoli, erotici,
furiosi, storie rozze, spietate, sentimentali,
grottesche, paurose, purché siano storie,
Il duo Marco Baliani-Stefano Accorsi
e raccontate bene, perché la vita reale là fuori si avvicina con denti affilati e agogna la preda. Abbiamo scelto
di raccontare alcune novelle del Decamerone di Boccaccio perché oggi ad essere appestata è l’intera società. Ne sentiamo i miasmi mortiferi, le corruzioni, gli inquinamenti, le conventicole, le mafie, l’impudicizia e
l’impudenza dei potenti, la menzogna, lo sfruttamento dei più deboli, il malaffare. In questa progressiva perdita di un civile sentire, ci è sembrato importante far risuonare la voce del Boccaccio attraverso le nostre voci
di teatranti. Per ricordare che possediamo tesori linguistici pari ai nostri tesori paesaggistici e naturali,
un’altra Italia, che non compare nei bollettini della disfatta giornaliera con la quale la peste ci avvilisce. Per
raccontarci storie che ci rendano più aperti alla possibilità di altre esistenze.
Perché anche se le storie sembrano buffe, quegli amorazzi triviali e laidi, quelle strafottenti invenzioni che
muovono al riso e allo sberleffo, mostrano poi, sotto sotto, il mistero della vita stessa, un’amarezza lucida
che risveglia di colpo la coscienza, facendoci scoprire che il “re è nudo” e che per liberarci dalla peste dobbiamo partire dalle nostre fragilità e debolezze.
Stefano Accorsi in “Decamerone: vizi, virtù e passioni”
Un leggio in apertura d’atto (unico, grazie a Dio!), un furgoncino da food truck per il peregrinare della compagnia di palco in palco a giro per l’Italia, travestimenti da teatro di piazza dove con un lenzuolo si è prima
prete poi suora poi Arcangelo Gabriele. Sullo sfondo dei telari di vaga memoria pasoliniana, così come le
palme sul tettuccio del veicolo incagliato on stage e qualche lontana musica arabeggiante.
Di fronte a questa scarna scenografia in Decamerone Accorsi e Co. mettono in scena un selezione di sette
delle cento novelle di messer Boccaccio con il debole pretesto di sottolinearne la portata attuale, di una nuova “pestilonza” che ha invaso la nostra società in preda a corruzione e immoralità. Una dichiarazione
d’intenti espressa in apertura e dimenticata nel giro di una manciata di minuti. Lo spettacolo di Baliani smarrisce quindi in partenza la sua potenziale vena pungente, riducendosi ad essere un facile e facilotto momento teatrale per tutti, grandi e piccini, strappando risate superficiali che non vanno oltre la pancia.
Ad interpretare decine di personaggi nati dalla penna del celebre novelliere di Certaldo, sei attori (tre uomini
e tre donne), capeggiati dal capocomico Stefano Accorsi, che spicca in bravura sui colleghi per più di una
spanna. Se non fosse per lui, che strappa applausi e riempie il teatro, Decamerone sarebbe uno spettacolo
da vedere a tempo perso, senza alcuna aspettativa, che tra un mezzo sbadiglio e una mezza risata lascia il
tempo per farsi dimenticare in fretta.
Vengono presentati i personaggi, ognuno caratterizzato da un preciso vizio o da una precisa virtù umana. Vi
sono: Panfilo-Mastro di Brigata; Filostrato – Il fedele; Elisa – La generosa; Pampinea – La giovine; Dioneo – Lo scaltro e Fiammetta – L’innamorata. Ogni personaggio presenta una novella: ne vengono rappresentate sette, scelte tra le cento del Boccaccio in base alla loro maggiore attualità. Le varie novelle si susseguono con dei cambi di scena in cui chi narra storie è sempre un personaggio diverso ed ogni attore interpreta ruoli diversi modificando velocemente abito (aspetto reso possibile grazie alla semplicità dei costumi
usati, principalmente mantelli). Centro attorno a cui si realizzano le varie novelle e scenografia in continua
trasformazione è un furgoncino stile anni 60, parcheggiato al centro della scena, il quale diventa casa e teatro viaggiante della Compagnia. Il linguaggio usato è reso fruibile grazie ad un lavoro di adattamento, compiuto dal regista Marco Baliani, della lingua usata da Boccaccio, nota per essere assai complessa e ricca di
periodi lunghi.
A tal fine sono stati utilizzati nella messa in
scena delle varie novelle diversi dialetti, in
base alla città in cui era ambientata la novella rappresentata. Parole chiave di tutte
le novelle: Eros e Inganno, due aspetti
secondo Boccaccio caratteristici della natura umana. L’intero spettacolo è metafora
della società contemporanea, colpita da
una “pestolenza” che non piega il corpo,
ma lo spirito, ed è rappresentata dalla corruzione, la bramosia, la falsità, la rozzezza
dei sentimenti. Questa la dichiarazione
d’intento resaci dallo stesso Mastro di Brigata, interpretato da Stefano Accorsi.
Peccato però che il nobile obiettivo di ritrarre la società odierna e far riflettere sui suoi
vizi non sia stato raggiunto in maniera
piena e soddisfacente. L’indagine sembra mancare di una certa percentuale di profondità. Lo spettacolo inoltre manca talvolta di energia e ritmo comico. Nonostante ciò l’ilarità è diffusa in sala e non mancano risate
più o meno sonore tra il pubblico, risate che però non riescono ad andare al di là della pancia. Bravo Accorsi
e dignitosi gli altri interpreti. E bravo sicuramente Boccaccio che a distanza di 700 anni è sempre attuale e ci
mostra come noi italiani siamo sempre stati bravi a prenderci in giro e a giocare con i nostri vizi,le nostre virtù, le nostre passioni. Basta non compiacersene troppo.
Accorsi e Baliani portano in scena il Decamerone di Giovanni Boccaccio. Recensione.
Una compagnia girovaga, il cui colorato carro-camper risponde ai diversi luoghi dell’azione scenica ed è
quasi un gioco da bambini, da aprire e smontare, sul quale arrampicarsi e fingere di osservare tutti da un
giardino. Agli attori, tra i quali spiccano, oltre Stefano Accorsi, anche Salvatore Arena e Naike Anna Silipo,
il compito di interpretare i diversi ruoli protagonisti delle sette tra le cento novelle raccolte. Montate per opposizioni e raccontate ora dal Mastro di Brigata, ora dagli altri componenti della compagnia, alternano ad esempio – per vendicarne il genere, dicono gli attori tra una novella e l’altra – il raggiro di una donna alla storia in cui a cadere nel tranello è un uomo gelosissimo della moglie, che riscatta la propria clausura a discapito del marito. Oltre ad alcuni episodi segnati da una certa trivialità, ve ne sono altri, più tragici, nei quali la
purezza dei sentimenti viene spezzata dalla morte, come la quinta novella raccontata: quella di Tancredi re
di Salerno che finì per uccidere la figlia Ghismunda perché innamorata dello stalliere Guiscardo, che qui citiamo perché a nostro avviso risulta, per la propria asciuttezza di gesti e intenzioni, la più riuscita
dell’operazione.
Del facile sollazzo che vede il carro muoversi a ritmo ancheggiante dei protagonisti di un amplesso,
delle file di suore appartatesi col finto muto, se ne
ride ora come se ne rideva allora. Si ride meno
quando il grottesco pervade i toni di certi personaggi, che rischiano di perdersi nel ridicolo. Al di là
del trattamento della lingua trecentesca, semplificata – veniamo a conoscenza durante il prologo –
rimane l’impressione di una lingua anticata, così
come per i costumi che danno l’apparenza di un
tempo più o meno passato; l’intero lavoro, partendo dal pur nobile presupposto di andare a sondare
come ancora questi testi possano parlare oggi, rischia di rimanere ad un livello di superficie.
In che maniera Boccaccio parli a noi contemporanei non lo scopriamo solo sostituendo un male con un altro,
peste del corpo con la peste del pensiero (intenzione questa relegata all’idea della messinscena più che alla
sua concretizzazione), racconti, temi e personaggi, a noi inequivocabilmente lontani, possono parlarci delle
afflizioni del nostro tempo, ma si deve essere in grado di riconoscerne la distanza.
Trasferire sulla scena un testo letterario, e principalmente, restare fedeli alla sua struttura, è un’impresa difficile, una sfida per attori/autori/registi. Sfida accettata e vinta da Marco Baliani, Stefano Accorsi e Marco
Balsamo. Dopo la prima realizzazione Orlando Furioso, Baliani ha pensato che fosse opportuno, per il tempo presente appestato nella sua anima culturale, mettere in scena il Decamerone, in modo da dare una
possibile metalettura del tempo presente avvelenato dal disequilibrio socio-economico, invaso dall’ansia e
dalla paura del futuro, dalla fobia della diversità, dove le certezze delle regole sono scomparse.
Baliani afferma nelle note di regia “Abbiamo scelto di raccontare alcune novelle del Decamerone di Boccaccio perché oggi ad essere appestato è il nostro vivere civile.
Percepiamo i miasmi mortiferi, le corruzioni, gli inquinamenti, le mafie, l’impudicizia e l’impudenza dei potenti, la menzogna, lo sfruttamento dei più deboli, il malaffare. In questa progressiva perdita di un civile sentire,
ci è sembrato importante far risuonare la voce del Boccaccio attraverso le nostre voci di teatranti.”
Se Boccaccio trasferisce l’allegra brigata in una villa alle porte di Firenze per recuperare le regole socioculturali destituite dalla pestilenza, Baliani riporta la riflessione sul tempo presente e la produzione di nuova
cultura nel teatro.
Così il teatro come la villa è il luogo dove avviene la ricomposizione sociale, realizzando il tutto attraverso
narrazioni esemplari di tipologie umane e di situazioni paradossali.
Ancora Baliani afferma “Per raccontarci storie che ci rendano più aperti alla possibilità di altre esistenze,
fuori da questo reality in cui ci ritroviamo a recitare come partecipanti di un globale Grande Fratello.
Perché anche se le storie sembrano buffe, quegli amorazzi triviali, quelle strafottenti invenzioni che muovono
al riso e allo sberleffo, mostrano poi, sotto sotto, il mistero della vita stessa o quell’amarezza lucida che risveglia di colpo la coscienza. Potremmo così scoprire che il re è nudo, e che per liberarci dall’appestamento,
dobbiamo partire dalle nostre fragilità e debolezze, riconoscerle e riderci sopra, magari digrignando i denti.”
Quel che manca alla messa in scena è l’arguzia, il varcare il confine della satira, il gusto della beffa propri di
Boccaccio, la sua impudicizia, la sua capacità di trasgredire proprio perché sceglie di scrivere un testo dedicato ai non dotti, alle donne. Quel che emerge dalla riduzione di Baliani è una fedeltà intellettuale
all’impianto originario di Boccaccio.
Infatti se per Boccaccio la cornice
della narrazione è la peste, per Baliani è la compagnia di attori che mostrano le loro difficoltà quotidiane e
l’arte di arrangiarsi. La cornice materiale è data dal “carro-furgone, “casa”
e teatro viaggiante della compagnia”
che invade la scena, si trasforma e da
essa si animano le differenti novelle.
L’associazione di immagine ci riporta
al carrozzone più famoso dello
schermo di felliniana memoria.
Al tempo stesso il carrozzone è un
omaggio al TEATRO nella sua forma
delle compagnie di giro, rievoca le figure di Shakespeare, Molière, Goldoni.
Se Boccaccio ha usato la novella per
creare un nuovo immaginario e una
nuova epica italiana, Shakespeare
Molière Goldoni con le loro opere,
hanno creato il nuovo teatro.
Lo spettacolo si apre con un proemio che introduce lo spettatore nel mondo/messa in scena del Decamerone, seguito dalla presentazione degli attori/narratori, conserva lo sdoppiamento tra il narratore e i personaggi
agenti sulla scena delle singole novelle –senza abbandonare mai la sensazione della finzione-, si chiude con
un epilogo di commiato dallo spettatore richiedendone la benevolenza. Non casualmente la musica finale
era di origine tzigana.
Così come nel testo letterario la brigata commenta al termine le novelle, gli attori commentano ponendo relazioni e riflessioni in merito al tempo presente, e come delle modalità di comportamento non si siano esautorate ma si protraggano all’oggi. Soprattutto emerge la condizione di disagio del mondo culturale attuale e
come la direzione politica non investa nel mondo dell’arte e della cultura ponendolo in condizioni di estrema
indigenza, ma l’amore per il teatro fa sì che si continuino a produrre spettacoli in cui il livello tecnico/espressivo/motivazionale è elevato.
La similitudine tra testo e messa in scena continua anche nella scelta di rituali: come nel Decamerone i giovani dedicavano tempi precisi ai giochi, al risposo, alla cena e alle narrazioni, per gli attori il rituale è dato
dalla rappresentazione, e il leitmotiv, tutto terreno, dalla preparazione delle tagliatelle, e perché non finire
omaggiando un’altra finzione teatrale, del mangiare tutti dalla stessa scodella, di Miseria e Nobiltà.
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