realismo e nominalismo nella teoria musicale settecentesca

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Giovanni Guanti
“REALISMO E NOMINALISMO
SETTECENTESCA”
NELLA
TEORIA
MUSICALE
Proprio perché dotato di una memoria madornale Ireneo Funes, protagonista di uno dei più
ispirati racconti di Jorge Luis Borges, soffriva di un’insolita patologia dei meccanismi
cognitivi. Egli infatti
“era quasi incapace di idee generali, platoniche. Non solo gli era difficile di comprendere
come il simbolo generico ‘cane’ potesse designare un così vasto assortimento di individui
diversi per dimensioni e per forma; ma anche l’infastidiva il fatto che il cane delle tre e
quattordici (visto di profilo) avesse lo stesso nome del cane delle tre e un quarto (visto di
fronte)”.1
Nominalismo intransigente, esasperato, assoluto. Si potrebbe definire così quest’abnorme
incapacità di concepire idee generali, che Borges ci ha descritto con immagini assai
suggestive:
“Noi, in un’occhiata, percepiamo: tre bicchieri su una tavola. Funes: tutti i tralci, i grappoli e
gli acini d’una pergola. Sapeva le forme delle nubi australi dell’alba del 30 aprile 1882, e
poteva confrontarle, nel ricordo, con la copertina marmorizzata d’un libro che aveva visto una
sola volta<...> Un cerchio su una lavagna, un triangolo rettangolo, un rombo, sono forme che
noi possiamo intuire pienamente; allo stesso modo Ireneo vedeva i crini rabbuffati d’un
puledro, una mandria innumerevole in una sierra, i tanti volti d’un morto durante una lunga
veglia funebre. Non so quante stelle vedeva nel cielo”<...Funes> Mi disse che verso il 1886
aveva scoperto un sistema originale di numerazione e in pochi giorni aveva superato il
ventiquattromila. Non l’aveva scritto, perché d’averlo pensato una sola volta gli bastava per
sempre. Il primo stimolo, credo, gli venne dallo scontento che per il 33 in cifre arabe ci
volessero due segni e due parole, in luogo d’una sola parola e d’un solo segno. Applicò subito
questo stravagante principio agli altri numeri. In luogo di settemilatredici diceva (per
esempio) ‘Máximo Perez’; in luogo di settemilaquattordici, ‘La Ferrovia’; altri numeri erano
‘Luis Melián Lafinur, Olimar, zolfo, il trifoglio, la balena, il gas, la caldaia, Napoleone,
Agustín de Vedia’. In luogo di cinquecento, diceva ‘nove’. A ogni parola corrispondeva un
segno particolare, una specie di marchio; gli ultimi erano molto complicati .... Cercai di
spiegargli che questa rapsodia di voci sconnesse era precisamente il contrario di un sistema di
numerazione. Gli feci osservare che dire 365 è dire tre centinaia, sei decine, cinque unità:
1
analisi che non è possibile con i ‘numeri’ ‘Il Negro Timoteo o Mantello di carne”. Funes non
mi sentì o non volle sentirmi”.2
Votato a imprese grottescamente insensate - e che nondimeno “rivelano una certa
balbuziente grandezza” come la stesura di “un vocabolario infinito per la serie naturale dei
numeri”3 - Funes (possiamo scommetterci!) non avrebbe mai potuto conseguire neppure la
licenza di Cultura Musicale Generale in uno dei nostri Conservatori, data la sua conclamata
inettitudine a elaborare concetti vuoi troppo generici vuoi troppo astratti quali ‘forma-sonata’,
‘tonalità di do minore’, ‘cadenza d’inganno’. Percependo egli, e ricordando poi, non soltanto
“ogni foglia di ogni albero di ogni montagna, ma anche ognuna delle volte che l’aveva
percepita o immaginata”4, sarebbe stato condotto da una logica follemente consequenziale ad
assegnare anche un nome proprio a ciascuna entità. Infatti, se il Tempo nel suo fluire
inarrestabile modifica incessantemente tutte le cose, perché non associarle a nomi sempre
diversi invece che sempre agli stessi nomi?
“Locke, nel secolo XVII, propose (e rifiutò) un idioma impossibile in cui ogni singola cosa,
ogni pietra, ogni uccello e ogni ramo avesse un nome proprio; Funes aveva pensato, una volta,
a un idioma di questo genere, ma l’aveva scartato parendogli troppo generico, troppo
ambiguo”.5
Ripercorrendo criticamente la storia di questo particolare orientamento filosofico, Leibniz
aveva definito nominalisti “coloro che credono che, oltre le sostanze singolari, non ci sono
che i puri nomi e quindi eliminano la realtà delle cose astratte e universali” (De stilo
philosophico Nizolii); e Guglielmo di Ockham - il più insigne esponente del nominalismo
medievale, che si meritò appunto l’appellativo di Princeps Nominalium - già quasi quattro
secoli prima aveva argomentato con chiarezza meridiana che l’universalità del nome ha senso
solo per convenzione e non rinvia quindi ad alcun significato universale nelle cose, che sono
assolutamente individuali.6
Anche se nel corso del tempo le sue declinazioni furono tanto varie quanto numerose - per
sincerarsene basta la lettura della voce “Nominalismo” di ogni buon lessico filosofico - non si
sbaglia a definirlo in estrema sintesi, e astraendone i connotati profondi e immutabili dalle
molteplici variabili storiche, come la dottrina filosofica secondo cui
“gli universali o concetti generali non esistono come realtà anteriori e indipendenti né nelle
cose né fuori di esse, e la forma in cui si presentano alla mente umana è quella del nome. I
concetti generali o universali non sono che segni i quali godono della proprietà di poter esser
predicati di più individui concreti; tipica del nominalismo è quindi l’assunzione ontologica
secondo cui propriamente reali sono soltanto gli individui o le entità particolari”.7
2
Detto questo, proviamo a immaginarci l’universo musicale di un nominalista assoluto
come Funes, il cui più insignificante ricordo “era più minuzioso e vivo della nostra percezione
d’un godimento o d’un tormento fisico”.8 Capace di rammentarsi, anzi di risentire esattamente
fin nei minimi dettagli di intonazione dinamica o durata ogni singola nota, non potrebbe
rimproverare a noi poveri smemorati l’ostinazione con cui - a dispetto del passare degli anni e
del mutare delle sale da concerto e degli interpreti, dei pianoforti su cui sono eseguiti e degli
stati d’animo con cui vengono recepiti - continuiamo a designare con lo stesso nome (per
esempio: sonata Patetica) eventi sonori tanto più reali quanto più individualmente distinti?
Certo, potremmo appellarci agli insegnamenti filosofici di Vittorio Mathieu, Roman
Ingarden o Luigi Pareyson per ribattere che la Patetica resta bensì una e unica nella propria
identità anche se se ne moltiplicano le interpretazioni.9 Ma Funes, incapace di seguire queste
troppo astratte argomentazioni perché recluso nel suo vertiginoso delirio di “solitario e lucido
spettatore d’un mondo multiforme, istantaneo e quasi intollerabilmente preciso”,10 avrebbe già
consegnato alla sua infallibile memoria e sotto nomi sempre rinnovati tutte le diverse
interpretazioni della Patetica di Backhaus, Rubinstein, Horowitz, Gieseking, Kempff, Serkin,
Gulda o Baremboim.....
Prima di prendere le distanze dall’emblematico personaggio borgesiano gioverà
sottolineare che egli era anche capace di “intuire pienamente<....>in un’occhiata”, di
comparare tra di loro e di serbare indelebili nella memoria le forme assunte in un preciso
istante “dalle nubi australi, dalle spume che sollevò un certo remo nel Rio Negro, dai crini
rabbuffati d’un puledro”,11 proprio come noi cogliamo immediatamente e serbiamo indelebili
nella memoria le forme del cerchio, del triangolo e del quadrato o (come qualcuno sostiene)
quelle della triade maggiore e dell’intervallo di quinta giusta o di terza maggiore e minore.
Proprio per questo gli sarebbe stato impossibile distinguere qualitativamente queste forme
semplici e primarie da quelle complesse e derivate da esse; e a maggior ragione gli sarebbe
stato impossibile penetrare nel discorso della stereometria timaica, da più di due millenni
ispiratrice occulta o palese della stragrande maggioranza delle teorie musicali elaborate in
Occidente: comprese quelle, a noi più vicine nel tempo, di Hans Kayser (Harmonia
Plantarum, 1943), Joseph Schillinger (The Schillinger System of Musical Composition, 1941 e
The Mathematical Basis of the Arts, 1948), Alain Danielou (Sémantique Musicale, 1967).
Tutti autori i quali, mutatis mutandis, sembrando condividere una stessa concezione realistica
(ossia non nominalistica e non convenzionalistica) dei numeri naturali e delle figure
geometriche semplici, abbracciano ancora una visione della musica di chiara matrice
neoplatonico - pitagorizzante in cui non vi è posto per il moderno modo di concepire il
numero, così espresso già da Cartesio, il quale fu tra i primi che invece lo difese: “Il numero
che consideriamo in generale, senza riflettere su alcuna cosa creata, non esiste fuori del nostro
pensiero, come non esistono tutte le altre idee generali che gli scolastici comprendono sotto il
nome di universali”.12
3
Di conseguenza, e nonostante abbiano saputo rivendicare spesso assai abilmente una
patente di “rispettabilità scientifica” per le proprie teorie, essi hanno pagato con
l’incomprensione o l’emarginazione il non aver sottoscritto appunto quel ‘protocollo
nominalistico’ che appare scelto da (o prepotentemente imposto a) quasi tutta l’attuale
speculazione scientifica e pratica artistica.13 Protocollo che, con conseguenze di enorme
portata in campo musicale, implica un concetto del Tempo fondato sulla convinzione
dell’irripetibilità di ogni singolo evento, e quindi del suo scorrere inesorabilmente entropico.
Non a caso, “nel mondo sovraccarico di Funes non c’erano che dettagli, quasi immediati”14 e
“Il suo proprio volto nello specchio, le sue proprie mani, lo sorprendevano ogni volta”:15
esperienza quant’altre mai traumatica per i più, anche se non forse per compositori o teorici
della sorpresa rivoluzionaria permanente come John Cage.
Ciò che a noi comunque interessa è che non venga accantonato o minimizzato il seguente
problema: qual’è lo ‘statuto ontologico’ dei numeri naturali, delle proporzioni e delle figure
geometriche semplici - vale a dire dei principi primi ed essenziali su cui sono state edificate
tutte le teorie musicali antiche nonché moltissime di quelle moderne - in una realtà
nominalisticamente consegnata alla dispersione nell’incessante divenire? Credo che
interrogarsi, sia pure ingenuamente, sulla natura del numero e sui fondamenti della geometria
sia iniziativa utile anche per i musicisti, ai quali consiglierei di leggere - prima dei
summenzionati trattati di Hans Kayser, Joseph Schillinger e Alain Danielou - due testi di alta
divulgazione scientifica, che ben riassumono la complessità della questione: Triangolo di
pensieri, di Alain Connes, André Lichnerowicz e Marco Schützenberger (Torino, Bollati
Boringhieri 2001); e La serva padrona. Fascino e potere della matematica, di Edoardo
Boncinelli e Umberto Bottazzini (Milano, Raffaello Cortina Editore 2000).
Fulcro di entrambi i lavori è appunto l’annoso, irrisolto (e forse irrisolvibile), problema
della natura degli enti matematici: innanzitutto numeri, ma anche figure geometriche semplici
o complesse, funzioni, gruppi e spazi. In Triangolo di pensieri, Marco Schützenberger si
dichiara seguace dell’antica visione di Pitagora, secondo il quale “i numeri interi naturali
danno forma al mondo”; Alain Connes sposa invece in pieno una tesi di tipo “platonico”,
secondo la quale gli enti matematici hanno una loro propria realtà, indipendente dai tentativi
da noi fatti per comprenderla e enormemente più ricca di qualsiasi nostra rappresentazione, in
analogia con quanto succede, secondo lui, per il mondo materiale: “La matematica - afferma ha un oggetto altrettanto reale di quello delle scienze sperimentali, ma un oggetto non
materiale, non localizzato né nello spazio, né nel tempo”. La posizione cartesiana decisamente nominalistica, poiché per essa il numero non è più un elemento costitutivo della
realtà, bensì un’idea, un atto o una manifestazione del pensiero - è invece difesa dal terzo
interlocutore, André Lichnerowicz, che aderisce senza riserve al punto di vista secondo cui la
matematica sarebbe una collezione di strumenti mentali particolarmente potenti e capaci di
gestire un gran numero di affermazioni riguardanti le relazioni fra le entità materiali più
diverse. Per questa sua capacità di astrazione, per questa sua struttura “linguistica”, la
matematica risulterebbe intrinsecamente indifferente a “l’essere delle cose” che tratta,
4
potendosi essa applicare agli enti e ai campi di esperienza più disparati. In quest’ottica, la
matematica sarebbe insomma nient’altro che una “testimonianza”, per quanto distillata e
“purificata”, del funzionamento della nostra mente.
Anche nel volume La serva padrona. Fascino e potere della matematica risuonano le
stesse ineludibili domande: Che cosa sono gli enti matematici? Come arriviamo a conoscerli?
Come sono collegati alle cose? A che cosa servono? Perché sono utili? La sua lettura potrà
aiutarci a chiarire e a ricalibrare le nostre convinzioni sul perché i numeri riescono così
efficaci per comprendere organizzare ordinare padroneggiare e prevedere ogni aspetto della
realtà, musica compresa. Sotto un titolo che riprende quello del fortunato Intermezzo di
Pergolesi, un fisico-biologo e uno storico della matematica hanno raccolto i loro dialoghi su
“quella che una volta si sarebbe chiamata filosofia naturale e sul suo rapporto con la
matematica”. Al centro del volume, dunque, il più arduo degli interrogativi: come è possibile
che la matematica abbia tanto successo nelle scienze della natura? Nonostante su molti punti
restino distanti, i due interlocutori mettono a fuoco nella matematica non solo il prodotto
dell'evoluzione biologica, utile alla specie per meglio adattarsi all'ambiente decifrandolo nel
modo più economico possibile; ma anche l’esito raffinato di una continua evoluzione
culturale, il cui formidabile potere descrittivo - esplicativo si estenderebbe dalla fisica e dalla
biologia alle scienze umane e alla pratiche artistiche. Alla fine, ancillare e/o egemone che sia
rispetto alle altre scienze, la matematica risulta per Bottazzini e Boncinelli l’interfaccia
privilegiata tra cervello e mondo.16
Interrogandoci ulteriormente sulla natura del numero, potremmo cogliere nuovi risvolti
della prospettiva nominalistica, a essa peculiari e che potrebbero servirci per meglio opporla
paradigmaticamente e irriducibilmente alla prospettiva realista. Basti pensare, per esempio,
che mentre per il realista esiste soltanto un mondo e uno soltanto che ci aspetta per essere
scoperto, per il nominalista - il quale nega che il mondo sia costruito in un modo ben definito
e particolare, indipendentemente da come lo si pensa - esistono, per così dire, mondi multipli
che dipendono dalle differenti descrizioni che ne facciamo. Ma, in questa sede, penso sia
meglio non insistere oltre con rilievi filosofici ed epistemologici forzatamente troppo generici,
per passare invece all’esame particolareggiato di un trattato musicale tardo-settecentesco: la
Scienza platonica fondata nel cerchio17 di Giuseppe Tartini, composto in un non meglio
precisabile lasso di tempo tra il 1767 (anno di pubblicazione De principj dell’armonia
musicale contenuta nel diatonico genere, nella Scienza platonica ripetutamente citati) e il
1770, anno della morte dell’autore.
Vero e proprio testamento spirituale non soltanto di un compositore, violinista e didatta
così eccelso da meritare il titolo di “Maestro delle Nazioni” ma anche di un intellettuale e
teorico della musica la cui lezione attirò l’attenzione e il rispetto dei dotti di tutta Europa,18 la
Scienza platonica costituisce a nostro avviso un esempio magistrale, e per molti versi ancora
insuperato, di difesa di quella concezione realistico-platonica del numero che, come si è visto,
lungi dall’essere stata definitivamente confutata e accantonata, costituisce ancor oggi (se non
5
per i compositori, certo per i matematici, i filosofi e gli epistemologi) un’ipotesi di lavoro
altrettanto valida dell’opposta e complementare ipotesi nominalista.
Appellandosi all’insegnamento di Pitagora e di Platone e alla certezza che “il numero e
molto più le ragioni, le proporzioni, le differenze, delle quali è segno il numero, sono entità
positive e reali, non umane disegnazioni, o entità unicamente esistenti nell’umano intelletto da
cui falsamente si credono ideate, e concretate”19 Tartini può dunque stigmatizzare
l’arbitrarietà delle costruzioni scientifiche erette muovendo appunto dal paradigma scientifico
- cartesiano imperante in quello che egli definisce “il borioso secolo illuminato”. E noi
postmoderni, che abbiamo meditato su Popper e Kuhn, Koyré e Feyerabend, siamo meglio
attrezzati dei contemporanei di Tartini per valutare e distinguere, in questo suo assunto, il
peso del retaggio mitico e l’attaccamento alla tradizionale visione ermetico-platonica dalla
coraggiosa e profetica critica ai fondamenti teorici stessi dell’investigare scientifico a lui
contemporaneo.
Infatti, forte soprattutto della sua lunga confidenza con il pensiero di Platone,20 Tartini poté
scongiurare l’inclinazione nominalistica e convenzionalistica che cominciava già ad avvertirsi
nella cultura a lui coeva (e che avrebbe finito col dominare gli ultimi decenni del Novecento
tramite le diverse scuole di “ermeneutica selvaggia”), riaffermando la sovrabbondanza
ontologica del mondo rispetto a tutte le sue descrizioni e la non-coincidenza della Realtà con
le ipotesi che si formulano su di essa: il che costituisce il messaggio essenziale della Lettera
settima, lo scritto di Platone da cui Tartini ricavò non soltanto ampie citazioni ed efficaci
strategie di difesa e di attacco contro i “moderni professori”, ma anche il titolo stesso del suo
ultimo e più impegnativo trattato.21
Soltanto dall’esistenza dell’unico mondo reale - che Tartini contrappone alla pluralità dei
mondi immaginari - è garantita la possibilità della scienza, la quale, per ritradurre il pensiero
del violinista istriano in termini attuali, potrà bensì verificare la falsità o la correttezza delle
proprie ipotesi o ‘descrizioni’, non già dimostrare e garantire la realtà del mondo stesso:
“giacché per quanti se ne formino modernamente di mondi immaginari, tra tanti possibili
d’immaginazione non vi sarà certamente neppur uno dei professori suddetti, il quale per
volontaria immaginazione, ma nemmeno per caso fortuito, per puro azzardo colga, e s’incontri
in questo, ch’è l’unico mondo reale.<...>Potranno dunque immaginarsi o per volontà, o per
caso tutti i possibili ed ammetterli come ipotetici, ma questo uno reale non mai, perché
concesso anche possibile alla loro immaginazione, non può esser ammesso dai medesimi
obbligati dal retto discorso dei loro ipotetici principi a doverlo rifiutare come falso. Questo e
non altro è il vero stato di quel tal scibile moderno che tanto si esalta e per cui si vuole
arrogare al secolo presente il quanto borioso, altrettanto falso titolo d’illuminato. Sì , è vero,
in questo meglio che negli altri secoli si veggono le pagliucce e gli atometti di polvere, perché
unicamente si cerca questo, si attende a questo e quando riesca il vederlo ed il toccarlo si
trionfa con pubblico rumore, si applaude con universale approvazione. Si veggono poi le travi
6
e le montagne benché siano sotto gli occhi? Oibò: non si sa nemmeno il nome, non che si
vegga la cosa”.22
in altre parole, ed è sempre un Platone correttamente ritradotto e volgarizzato, la realtà di
ciò che davvero è non potrà mai essere confermata come tale unicamente in base alla verifica
della correttezza o falsità di un’ipotesi su di essa; semmai, al contrario, proprio perché la
realtà di ciò che davvero è esorbita il raggio del pensiero che vuole comprenderla, resta
sempre un margine incolmabile tra le ipotesi e il mondo, tale da garantire al contempo
l’incessante riformulabilità di quelle e l’inesauribilità per il concetto di questo.
Si potrebbe anche riassumere nel più logoro dei luoghi comuni - “la realtà supera ogni
immaginazione” - la prospettiva teoretica tartiniana, se tale sintesi troppo disinvolta non
minimizzasse una serie di importanti implicazioni dall’evidenza tutt’altro che immediata.
Innanzitutto, dal principio che il mondo è uno e uno solo per tutti e che questa sua unicità
garantisce che esso sia il solo mondo reale, consegue che la scienza scopre e non inventa.
Ecco dunque perché quel che risulta più grave, a giudizio di Tartini, è che tutto il “dotto
mondo” manchi del coraggio morale e intellettuale necessario per affrontare questo nodo
cruciale:
“O si cerca ciò ch’è realmente nella natura dell’universo, o ciò che si vuol e giova supporre
nel proprio intelletto. Se questo, ciascun intelletto può formarsi un mondo a sua posta. Ma se
quello, chi è mai che non sappia essere impossibile il ritrovarsi nell’universo un termine
qualunque senza il suo relativo e per conseguenza sia impossibile il concepire principio
assoluto la forza separata dalla resistenza: il grave dal leggero, il solido dal fluido, l’attrazione
(per parlar coi moderni) dalla repulsione ecc. ecc. in infinito?”.23
Da parte sua, e conformemente alla propria prospettiva platonizzante, Tartini ritiene che
alla base della musica ci sia l’armonia, alla base dell’armonia le leggi fisico-acustiche, alla
base delle leggi fico-acustiche quello che egli chiama “l’aritmetico numero comune”, il quale
appunto non è invenzione umana ma realtà totalmente autonoma dal nostro intelletto:
“Rispetto all’astronomia Platone nell’Epinomide cercando il soggetto in cui unicamente
risiede la sapienza, lo trova unicamente nel numero, mancando il quale ‘il genere umano
sarebbe insipido e pazzo’ e però lo chiama dono puramente divino. Indi proseguendo a
considerar in numero nella varietà e giri delle stelle e delle stagioni con riflessioni tutte
importanti, né omettendo la necessità ch’egualmente ha la musica del numero e del moto,
perviene finalmente alla considerazione del modo con cui si ha imparato ad annoverare. Il di
lui testo (a carte 323) è lungo, qui si abbrevia nella sua sostanza, ed è che volente, nolente,
‘tutto il genere umano è costretto ad imparar il numero dai giorni e dalle notti, cosicché sia
costretto ad impararlo anche il tardissimo ad apprender tra tutti gli uomini’. Benché in seguito
Platone avanzi molto più il numero in altri rispetti astronomici, qui nulla più abbisogna di
7
questa sola palpabile verità per comparar fondatamente i due concetti di principio, cioè il
concetto del punto, linea e superficie, fondamento della geometria, il concetto del giorno e
della notte fondamento del numero comune. E’ qui più ch’evidente la specifica diversità dei
due concetti, perché il primo della geometria dipende puramente dall’arbitrio e disegnazione
umana come ipotesi e perciò è concetto sì fattamente particolare che la massima parte del
genere umano nulla sa di punto, linea e superficie, perché la idea non essendo di cosa reale,
non obbliga l’intelletto a doverla necessariamente assumer e concepire. Per il contrario il
secondo concetto del numero dipende da soggetto fisico e reale, che vuol dire da vera tesi e
però è concetto sì fattamente universale che l’uman genere non solamente sa il numero, ma
voglia o non voglia, è costretto a doverlo sapere, perché la idea essendo di cosa reale e
necessariamente ed universalmente nota, obbliga l’intelletto a doverla necessariamente e
universalmente assumer e concepire. Qui constatando ad evidenza la specifica diversità dei
due concetti, si chiede ai dotti moderni ch’essi dicano e rispondano in che precisamente
consista questa specifica differenza. Quanto è costretto il genere umano a dover sapere il
numero, tanto sono essi costretti a dover rispondere che la specifica differenza precisamente
consiste nell’esser l’uno dei concetti positivo e reale, l’altro ipotetico, immaginario e di
umana disegnazione, e qui si compari il falso pensar dei filosofi moderni col vero pensar di
Pitagora e Platone sú questo punto il più essenziale di tutti, che decide di cosa somma qual’è
la realità del genere dimostrativo fondato sul numero comune insegnato dalle cose e riferito
alle cose come realmente sono”.24
Nel lungo passo surriportato merita fermarsi non tanto sulle “pagliuzze”
- l’Epinomide,
come spurio, da lunga data è stato espulso dal corpus dei dialoghi platonici; tanto fantasiosa
quanto discutibile risulta la tesi ivi contenuta che “tutto il genere umano è costretto ad imparar
il numero dai giorni e dalle notti, cosicché sia costretto ad impararlo anche il tardissimo ad
apprender tra tutti gli uomini” - quanto sulla trave che regge l’intero edificio argomentativo. E
cioè che quel “numero comune insegnato dalle cose e riferito alle cose come realmente sono”
garantisce all’aritmetica (e di riflesso, mediante le prime e più semplici proporzioni
aritmetiche, anche alla scienza armonica) una realtà e un’autorità che invece la geometria,
scienza puramente ipotetica, non potrà mai avere (appunto: “la geometria dipende puramente
dall’arbitrio e disegnazione umana come ipotesi e <...> perché la idea non essendo di cosa
reale, non obbliga l’intelletto a doverla necessariamente assumer e concepire”). Sulla
geometria, ontologicamente subordinata all’aritmetica come l’ipotesi lo è al “soggetto fisico e
reale”, non potrà dunque mai essere edificata una teoria musicale perfettamente immune da
derive nominalistiche e che obblighi “l’intelletto a doverla necessariamente e universalmente
assumer e concepire”.
Ferma restando la definizione della geometria come scienza che studia le possibilità
metriche degli insiemi, ci è oggi facile valutare in prospettiva storica il trapasso dall’epoca in
cui essa era ancora considerata unica e necessaria nella sua canonica espressione euclidea, a
quella in cui venne invece intesa come molteplice o indefinitamente variabile (la possibilità di
8
geometrie diverse, aventi per oggetto strutture metriche spaziali diverse o dotate di diverso
grado di generalità, dopo Legrende, Gauss, Lobacevskij e Bolyai). Tartini visse invece proprio
nell’epoca in cui tale trapasso cominciava appena a essere avvertito come necessario e
inevitabile - si pensi soltanto all’ Euclide vendicato (1733) di Giovanni Girolamo Saccheri anche se i più ritenevano ancora scandaloso ammettere la possibilità di una geometria diversa
da quella di Euclide. Con ciò, non vogliamo in nessun modo attribuire meriti scientifici
particolari a Tartini, fatto salva la scoperta del “terzo suono”; e tantomeno accreditargli un
genio matematico che egli non ebbe, anche se sul classico dilemma della “quadratura del
circolo” prese tutto sommato una posizione per l’epoca assai originale.25 Siamo anzi tra coloro
che, ritenendo ampiamente bastante per segnalarlo ai posteri il suo genio musicale, avrebbero
preferito che Tartini dedicasse il poco tempo che gli restava ancora da vivere alla
composizione piuttosto che a queste astruse riflessioni filosofiche ed epistemologiche.
Ricordando però che già Leibniz aveva definito Hobbes “sommamente nominalista” e rilevato
che la sua filosofia sfociava inevitabilmente in un empirismo e sensualismo integrali,
espressione di una visione materialistica o, più esattamente, meccanicistica del mondo, ci
sono ancora più chiari e l’importanza della posta in gioco e il principale obiettivo polemico
della Scienza platonica. Infatti, in uno dei numerosissimi sfoghi autobiografici che ne
insaporiscono le compassate disquisizioni scientifiche, leggiamo:
“L'animo è talmente grande che solo, illiterato, senza verun appoggio umano, cognito a tutta
Europa come suonator di violino, attacca pubblicamente quello scibile moderno che fa più
strepito ed ha maggior forza di tutti. Che la mascella di un asino accoppi un leone e che un
sassolino getti a terra e infranga la massima delle statue, non sono fatti e misteri nuovi, e tutto
può, chi tutto è e tutto fa. Il presente contegno è di giusta indegnazione contro quei nemici del
genere umano, i quali appoggiano e dilatano la empità col loro preteso sapere, maligni,
rigettando qualunque verità che non si accomodi alle loro scienze e qualunque scienza che non
si accomodi al loro cuore; maliziosi, antivedendo i colpi mortali che da qualche parte possono
vibrarsi contro il loro sistema e schermendoli non con quella verità che non sanno e saputa
non vogliono confessare, ma con qualunque delle arti più indegne, che possano esser
suggerite all'intelletto dalla malizia di un cuor guasto e vile. L'autore non esagera punto:
racconta fatti ad esso e non ad altri occorsi. Il vero fondo di religiosa onestà che professa, gli
proibisce d'individuarli con le circostanze del nome, tempo e luogo, e molto più gli proibisce
di palesare quanto gli è noto dell'empio vortice che sta per scoccare. Ma non gli proibisce
altrimenti d'inveire in genere contro quelli della stessa sua specie, i quali non solamente
amano e scelgono per se stessi di voler esser bestie senza ragione, meglio che uomini
ragionevoli, ma per professione si pongono intorno agli altri per disalvearli dal creder di esser
uomini ragionevoli e persuaderli a credere di esser nulla più di quelle bestie che tutto il gener
umano sa, da che si sa che vi è l'uomo, esser sotto il suo dominio. Questo è castigo di
stolidezza e ignoranza degno veramente della superbia e malizia di costoro, perché se
attribuiscono un sí fatto costante dominio alla industria ed alla società umana, non veggono
9
poi che sono costretti di assegnare un principio della industria e società umana specificamente
diverso dal comune principio di animalità, giacché senza patente assurdo non possono
ammettersi nello stesso genere due specie, l'una delle quali sia in potenza di distrugger l'altra e
sia in atto di dominarla a proprio talento”.26
Rifiutandosi di ancorare la scienza armonica a una geometria di cui era evidente il
carattere ipotetico e congetturale, Tartini le assicurava lo stesso fondamento reale
dell’aritmetica, impedendo che la musica potesse venir considerata il veicolo vuoi di mere
esperienze sensuali, vuoi di astratte costruzioni intellettuali. Tale fondamento è nient’altro che
l’aritmetico numero comune; e, seguendo le orme di Platone, Tartini lo dichiara ‘dono
divino’. Il che significa che la sua comprensione può essere da Dio comunicata anche a chi
non possiede tutte le specialistiche conoscenze scientifiche dei ‘moderni dotti’. (Vi pregherei,
caso mai vi fossero sfuggite, di soppesare le implicazioni non soltanto estetiche ma anche
socio-politiche di tale tesi, indigesta forse soprattutto per quegli autori di ‘musica reservata’ spesso, a dire il vero, soltanto a se stessi..- i quali, senza neppure aver letto e tanto meno
confutato in modo convincente non dico Tartini, ma neppure Schillinger Kayser o Danielou,
non hanno forse mai riflettuto a fondo sulla potenza formativa e costrittiva del senario
(1:2:3:4:5:6), pur abbondandosi virtuosisticamente e fin dall’opus 1 ai ludi cartacei con le
frazioni di semitono e gli ‘sciami ritmici irrazionali’).
Se tutti dunque possono aver esperienza dell’ aritmetico numero comune, tutti possono
beneficiare dei meravigliosi effetti della musica. Infatti, nella sua dimensione armonica,
quest’arte ha tutti i crismi di una scienza,
“per sé tanto semplice, quanto è semplice l’aritmetico numero comune, ch’è il suo piano
materiale. Le sue principalissime operazioni sono le più semplici e triviali, che s’insegnano
dall’aritmetica e dalla geometria comune. Qui nulla si cerca più di quanto esiste nel numero:
unico libro che si deve legger e studiare, libro aperto agli occhi di tutto il mondo, libro
donatoci tale dalla Divina Beneficenza che ne ha voluto partecipe tutto il genere umano”.27
Prima di concludere invitandovi alla discussione, vorrei almeno accennare a un ultimo
argomento. Come ci ha insegnato Koyré,
“E’ impossibile dare una deduzione matematica della qualità. E sappiamo bene che Galileo,
come Cartesio un po’ più tardi e per la stessa ragione, fu costretto a rinunziare alla nozione di
qualità, a dichiararla soggettiva, a bandirla dal regno della natura. Il che allo stesso tempo
significa che fu costretto a rinunciare alla percezione dei sensi come fonte di conoscenza e a
dichiarare che la conoscenza intellettuale e aprioristica è la nostra base e l’unico mezzo per
conoscere l’essenza della realtà”.28
10
Certo, può anche far sorridere il tono con cui il conclamato discepolo di Platone, Giuseppe
Tartini, dichiarò spavaldamente il proprio amicus Plato sed magis amica veritas:
“Dall’astronomia passando alla musica per veder se ancor questa porti e obblighi
necessariamente alla nozione del numero, a questo bisogno crede l’autore di esser più forte di
Platone, sì perché l’autor è professore di musica e no’l fú Platone, sì perché da due secoli si
sono scoperti molti fenomeni fisico-sonori che giovano al bisogno, certamente ignoti a
Platone”.29
Ma, lungi dall’essere un’attestazione di superba sicumera, queste parole ci sembrano
soltanto una testimonianza della consapevolezza che ebbe Tartini di essere “un nano sulle
spalle di giganti”: di Platone appunto, nonché di Pitagora, di Ermete Trismegisto e di Zarlino,
ma anche dei padri della cosiddetta “rivoluzione scientifica”, a cominciare dallo stesso
Galileo.30 Ora, l’esplosione del metodo galileiano, con i successi che ottenne, soprattutto con
Keplero e Newton, è da considerarsi, sempre secondo Koyré, una vera e propria vittoria del
platonismo sull’aristotelismo, che ha orientato tutta la scienza verso il metodo matematico,
aprendo l’orizzonte alla prospettiva del riduzionismo, cioè all’obiettivo della graduale
riconduzione di tutte le scienze alla fisica e alla matematica. Ed è proprio entro questa
prospettiva che, per meglio focalizzare quell’obiettivo, andrebbero accuratamente evidenziati
e distinti gli aspetti della qualità che sono irriducibili alla quantità dalla possibilità di misurare
l’intensità della qualità stessa. A noi sembra che Tartini, ben più avveduto di tanti scienziati
dell’Ottocento positivista che s’illusero che la realtà coincidesse con le sue misurazioni, nella
Scienza platonica abbia avanzato validi argomenti contro questo riduzionismo analitico
armato di tutti gli strumenti di quantificazione e calcolabilità; e, quindi, contro una scienza
(ma meglio sarebbe dire uno scientismo) interessata soltanto - per riprendere la sua colorita
espressione - a cercare, vedere e toccare “le pagliucce e gli atometti di polvere” fino a ridurre
l’universo animato, il ‘grande animale’ del Timeo, l’ anima mundi del pensiero medievale, e
con esso l’uomo, a un mero meccanismo corporeo.
Abbiamo già visto come Tartini non condividesse questa visione, in primo luogo perché la
considerava incompatibile con i dogmi della fede cristiana e con la propria altissima
considerazione della musica.31 Ora vorrei aggiungere che, pur restando fedele al ‘suo’ Platone,
Tartini, le cui riflessioni fisico-acustiche non furono forse sempre congrue all’epistemologia
che invece difendeva la coessenzialità del numero naturale con la mente umana, volle
fonderne l’insegnamento con quello della moderna acustica sperimentale, eliminando il
dualismo tra le due opposte concezioni. Che egli non si fosse accontentato di delegare la
conoscenza dell’armonia ai fisici-matematici, bensì avesse cercato di valorizzare anche
l’empirica dottrina dei musici pratici, in modo tale che, alla fine, verità filosofica, scienza
fisico-acustica e sapienza musicale potessero trovare conferma l’una nell’altra, appare
evidente fin dalla Prefazione De’ principj dell’Armonia musicale contenuta nel diatonico
11
genere (1767). Nella quale, consapevole che un fenomeno complesso non doveva essere
spiegato e ridotto a lineamenti troppo schematici da un metodo di analisi semplicistico ed
unilaterale, Tartini dichiarò di aver costruito le proprie tesi non su un unico, ma su ben
“tre diversi fondamenti, quali sono il fisico, il dimostrativo, e il pratico musicale: cosa, per cui
l’autore non ha potuto obbligarsi ad un metodo rigoroso, ma obbliga bensì chi legge a
particolare attenzione <...> giacché falso è certamente qualunque musicale sistema, che non
regge alla prova dei tre suddetti fondamenti congiunti”.32
Un simile tentativo di mediazione tra idealismo platonico e empirismo si era già avuto con
il metodo del cogitare videre di Francesco Bacone, che Tartini conosceva e dai cui scritti
probabilmente desunse la passione per la scrittura diplomatica cifrata; un metodo, va detto per
inciso, di cui si avvalse Vico per sciogliere la tensione tra le due epistemologie della Scienza
nuova e tra i due tipi di conoscenza della storia che tali due teorie della conoscenza
producono, l’uno basato sulla cognizione, l’altro sull’osservazione. I filosofi dovrebbero
procedere con la ragione e raggiungere la verità - il verum - mentre i filologi dovrebbero
osservare le azioni passate degli uomini, le loro lingue, i loro usi e costumi, le leggi, le guerre,
le paci, le alleanze, i viaggi e i commerci - il factum. Anche per Tartini, a ben vedere, ci fu un
verum (la “scienza platonica fondata nel cerchio”) e ci fu un factum (l’evidenza acustica
sperimentale del “terzo suono”): e il suo non del tutto infruttuoso tentativo di combinare
metodi e ambiti diversi in un sistema coerente e unitario è probabilmente il motivo
fondamentale della confusione e dell’incoerenza, ma anche del fascino, che caratterizzano
l’estrema testimonianza della sua tensione teorica che oggi vi ho voluto, sia pure per scorci
molto sintetici, presentare.
1
BORGES, JORGE LUIS, Funes , o della memoria, in ID., Tutte le opere, a cura di Domenico Porzio,
Milano, Mondadori 1984, vol. I, p. 714. Cfr. REST, JAIME, El laberinto del universo: Borges y el pensamiento
nominalista, Buenos Aires : Ediciones Librerias Fausto, 1976.
2
BORGES, JORGE LUIS, Funes , o della memoria, cit., pp. 712 - 713.
3
BORGES, JORGE LUIS, Funes , o della memoria, cit., p. 714.
4
BORGES, JORGE LUIS, Funes , o della memoria, cit., p. 713.
5
Ibid.
6
“Nessuna cosa fuori dell’anima né di per se né per qualcosa che le venga aggiunta, di reale o di razionale,
e comunque si consideri e si intenda, è universale: giacché tanta è l’impossibilità che una cosa fuori
dell’anima sia in qualsiasi modo universale (a meno che ciò non avvenga per convenzione come quando si
considera universale la parola ‘uomo’ che è singolare) quanta è l’impossibilità che l’uomo, per qualsiasi
considerazione o secondo qualsiasi essere, sia l’asino” (GUGLIELMO DI OCKHAM, Quaestiones in IV
sententiarum libros I, d. II, q. 7 S-T).
7
Cfr. “Nominalismo”, in Enciclopedia di Filosofia, Milano, Garzanti 1993 (rist. 1999), p. 798.
8
BORGES, JORGE LUIS, Funes , o della memoria, cit., p. 715.
9
Cfr. MATHIEU, VITTORIO, “L’opera d’arte come organismo”, in ‘Annuario filosofico’ 4 (1988), pp. 67 - 101;
INGARDEN, ROMAN, L’opera musicale e il problema della sua identità, ediz. it. a cura di Antonino Fiorenza,
Palermo, Flaccovio 1989; PAREYSON, LUIGI, Estetica. Teoria della formatività, Milano, Bompiani 1988.
10
BORGES, JORGE LUIS, Funes , o della memoria, cit., p. 714.
11
BORGES, JORGE LUIS, Funes , o della memoria, cit., p. 712.
12
Cfr. “Numero”, in Enciclopedia di Filosofia, Milano, Garzanti 1993 (rist. 1999), p. 803.
13
Vorrei ricordare infatti che, nella filosofia contemporanea, la tendenza nominalistica risulta fortemente
accentuata nel positivismo logico, che ha elaborato il progetto di ridurre ogni asserto scientifico e ogni
12
termine universale a dati ultimi percettivi assolutamente individuali; ma il termine nominalismo è stato anche
impiegato per indicare certe forme radicali di convenzionalismo, per es. quello di E. Le Roy. Più
recentemente, infine, alcuni logici e filosofi del linguaggio hanno sostenuto una concezione nominalistica:
secondo W.V. O. Quine il nominalismo, in opposizione al platonismo, ammette soltanto variabili individuali,
ossia variabili che si riferiscono a oggetti concreti spazio-temporali, mentre non fa uso di classi, proprietà,
relazioni ecc; e il ‘nominalismo costruttivo’ di N. Goodman ammette solamente quei predicati di oggetti
astratti che sono riducibili a predicati di individui. In campo artistico, l’orientamento nominalistico è ben
rappresentato da John Cage, qui almeno tendenzialmente quasi un emulo di Funes: “In primissimo luogo,
Cage aveva scelto di non servirsi della tonalità, che per definizione esclude certe altezze, considerandone
invece altre come centrali. Cage propose perciò di accettare i dodici suoni cromatici e di trattarli in modo
equivalente; in questo senso si ricollegava a Schönberg. Ma si rese presto conto che il metodo di Schönberg
era discriminatorio sotto altri aspetti: considerava tutti i fa diesis, ad esempio, come una singola astrazione,
al di là del fatto che un fa diesis suonato nel registro acuto di un pianoforte è radicalmente differente da un fa
diesis suonato nel registro grave. Cage sviluppò allora un sistema più elaborato di composizione cromatica,
trattando ogni altezza in modo indipendente” (BROOKS, WILLIAM, “Scelte e cambiamenti nella musica
recente di Cage”, in John Cage, a cura di Gabriele Bonomo e Giuseppe Furghieri, Milano, Marcos y Marcos
1998, p. 352). Cfr. anche GOEHR, LYDIA, The imaginary museum of musical works: an essay in the
philosophy of music, New York, Oxford University Press, 1992 (soprattutto i paragrafi “A Nominalist Theory
of Musical Works” e “A Platonist Theory of Musical Works”.
14
BORGES, JORGE LUIS, Funes , o della memoria, cit., p. 715.
15
BORGES, JORGE LUIS, Funes , o della memoria, cit., p. 714.
16
La soluzione proposta è che l’aritmetica, la geometria e la logica siano sviluppi culturali e mentali di
rudimenti biologici e cerebrali: lo dimostrerebbe, ad esempio, la capacità del bambino appena nato di saper
distinguere fra uno, due o tre oggetti. Poiché poi, come ha notato l’etologo Konrad Lorenz, premio Nobel per
la medicina nel 1973, gli a priori dell’individuo sono a posteriori per la specie, proprio nella loro efficacia
risiederebbe il motivo della loro selezione evolutiva. In parole povere, la matematica funziona perché
sviluppa e raffina meccanismi che l’evoluzione biologica ha selezionato perché funzionavano. Di come, a
sua volta, l’evoluzione culturale agisca in tempi storici, selezionando le nozioni più adatte alla sopravvivenza,
tratta invece l’analista matematico Enrico Giusti in Ipotesi sulla natura degli oggetti matematici (Torino,
Boringhieri 1999). Attraverso una serie di quadri espositivi, Giusti espone il concepimento e lo sviluppo di
vari concetti che hanno superato il test di sopravvivenza: dalle curve alle formule risolutive per le equazioni,
dalle geometrie non euclidee ai gruppi. Senza trascurare, però, esempi di nozioni che hanno invece fallito
quel test, abortendo senza giungere a maturità: dagli indivisibili agli infinitesimi. Proprio in questi successi e
fallimenti si manifesta il calore dinamico della matematica, troppo spesso immaginata fredda e statica da chi
non la conosce.
17
TARTINI, GIUSEPPE, Scienza platonica fondata nel cerchio, a cura di Anna Todeschini Cavalla, Padova,
CEDAM 1977.
18
Basti menzionare i nomi di D’Alembert, Rousseau, Algarotti, Arteaga, Carli, Grimm, Martini, Jacopo e
Giordano Riccati, Rameau, Serre e Vallotti.
19
TARTINI, GIUSEPPE, Scienza platonica fondata nel cerchio, cit., p. 528.
20
“E qui giova far notare, a chi vuole intendere il linguaggio tartiniano, che in tutta la sua opera scientifica
egli usò colla massima frequenza i termini stessi della tradizione completa di Platone fatta negli ultimi del
cinquecento da Dardi Bembo e ripubblicata a Venezia presso Giuseppe Bettinelli nel 1742-43. Questa
ampollosa traduzione egli leggeva e rileggeva, e citava spesso”. Così Letizia Caico (“Due giorni nel civico
archivio di Pirano”, in ‘La cultura musicale”, anno II, fascicolo I, Bologna 1923, pp. 28-29) in un articolo certo
assai datato, che tuttavia ci è stato di sprone per mettere in cantiere per il futuro un saggio nel quale
raccogliere e ordinare tutti i passi platonici citati da Tartini. Con muta eloquenza, gli emblemi che appaiono a
destra del ritratto che, sul finire del 1761, l’abate padovano Vincenzo Rota eseguì per conto di Tartini - vale
a dire i due volumi che recano sul dorso il nome rispettivamente di Zarlino e di Platone - riecheggiano la
testimonianza del Fanzago: “potrebbe darsi ch’essendo egli <Tartini> studiosissimo di Platone leggesse il
Petrarca per vagheggiare le immagini di quel Filosofo Poeta in un Poeta Filosofo”(F. Fanzago, Elogi di
Giuseppe Tartini primo violinista nella cappella del Santo di Padova e del p. Francesco Antonio Vallotti
maestro della medesima, Padova, Conzatti 1792, p. 51 nota 34). “Studiosissimo di Platone”, dunque, e del
Timeo, della Repubblica, del Parmenide, del Teeteto, delle Leggi e della Lettera settima (tutte fonti
espressamente citate da Tartini nella Scienza platonica), nonché dell’Epinomide, il dialogo attribuito in
passato a Platone (ma verosimilmente scritto da Filippo di Opunte) da cui Marsilio Ficino, Franchino
Gaffurio e Giovanni Pico della Mirandola trassero quella nozione, assolutamente fondante per le rispettive
dottrine come lo sarà poi anche per quella di Tartini, del numero inteso non già come “umana cogitazione” ma
come donum Dei. E studiosissimo, il “Maestro delle Nazioni”, anche di quelle mistiche geometrie che
trovarono le loro più pregnanti formulazioni nel naturalismo platonizzante francescano (soprattutto veneto), i
cui massimi esponenti furono Francesco Patrizi e, appunto, Gioseffo Zarlino. Alla feconda assimilazione del
pensiero di Zarlino da parte di Tartini dovettero ovviamente cooperare tanto la solitaria meditazione sui suoi
13
trattati teorici quanto il quotidiano, amicale dialogo e confronto professionale, protrattosi per decenni
nell’ambito del comune servizio nella basilica antoniana, con i colleghi armonisti francescani, i padri
Francesco Antonio Vallotti e Francesco Antonio Calegari (cfr. P. Barbieri, “Gli armonisti padovani nel
Settecento”, in Storia della musica al Santo di Padova, a cura di Sergio Durante e Pierluigi Petrobelli,
Vicenza, Neri Pozza 1990, pp. 199-221).
21
La soluzione di molti enigmi che i matematici ritengono insolubili è infatti racchiusa, secondo Tartini, in
quell’epistola settima in cui Platone riespose in suprema sintesi tutto ciò che aveva già espresso nei suoi
dialoghi, e specialmente nella Repubblica. Epistola restata per secoli e secoli sotto gli occhi del “dotto
mondo”, anche se sempre incompresa e fraintesa, dove si legge che con tre mezzi si può raggiungere la
scienza: la parola, la definizione e l’immagine. Al quarto posto c’è il sapere, che è al di là dei mezzi che
servono a conquistarlo. Al di là del sapere stesso, al quinto posto, c’è l’oggetto conoscibile, l’essere che è
veramente tale (Lettera VII, 342 b). Platone chiarisce tutto ciò con l’esempio del cerchio. Cerchio è, in primo
luogo, la parola da noi pronunciata. In secondo luogo, noi diamo la definizione del cerchio, definizione che è
formata di altre parole, per esempio: cerchio è ciò che ha le parti estreme equidistanti dal centro. In terzo
luogo, noi tracciamo la figura del cerchio, che è l’immagine di esso. Ma questi tre elementi, per quanto si
rapportino tutti al cerchio in sé, non hanno niente a che fare con esso. Conducono tuttavia al quarto
elemento, il quale comprende tutte le attività soggettive del conoscere: l’opinione vera, la scienza e
l’intelligenza. Questi elementi non risiedono né nei suoni pronunciati, né nelle figure corporee, ma nelle
anime. (Cfr. l’ampia citazione dalla Lettera settima in TARTINI, GIUSEPPE, Scienza platonica fondata nel
cerchio, cit., pp. 3 - 4). Fedele a questa impostazione, Tartini può affrontare quei “pretesi filosofi che
affettano il nome di spirito forti”, intimando un coraggioso “procul este profani. E’ una loro pazzia se
presumono di arrivare al possesso di questa scienza con la sola forza del loro ingegno”(Ibid., p. 84).
Pertanto, “Guardi pure chi s’impegna all’esame o allo studio di questa scienza di non azzardarsi a tanto se
non che premunito di sincerità di cuore per il vero, di talento atto al grave bisogno e di coraggio per la
necessaria fatica e principalmente se sia matematico profondo, si guardi dalla natural presunzione del
proprio sapere, ostacolo più fatale di tutti”(Ibid., p. 318).
22
TARTINI, GIUSEPPE, Scienza platonica fondata nel cerchio, cit., pp. 416 -417.
23
TARTINI, GIUSEPPE, Scienza platonica fondata nel cerchio, cit., p. 285.
24
TARTINI, GIUSEPPE, Scienza platonica fondata nel cerchio, cit., pp. 29-30.
25
Tartini dichiarò impossibile la quadratura del cerchio, cioè la costruzione di un quadrato avente la stessa
superficie di un cerchio dato con soltanto l’ausilio della squadra e del compasso (cfr. TARTINI, GIUSEPPE,
Scienza platonica fondata nel cerchio, cit., pp. 64, 215, 342-346, 456, 489, 511, 572 e passim). Se, oltre alla
semplice enunciazione intuitiva di questa sua certezza ne avesse dato anche la dimostrazione scientifica,
sarebbe stato non soltanto un genio della musica ma anche della matematica. Come è noto, la
dimostrazione che il ? è un numero irrazionale fu fornita da J. H. Lambert nel 1767, lo stesso anno in cui
Tartini cominciò a redigere la Scienza platonica del cerchio; ma solo nel 1882 F. Lindemann avrebbe
dimostrato che il ? non soltanto è irrazionale, ma anche trascendente. Forse nessun’altra affermazione
platonica ha suggestionato Tartini più di questa: “Ciascun cerchio, di quelli che nella pratica si disegnano o
anche si costruiscono col tornio, è pieno del contrario del quinto <cioé del cerchio reale, ossia del cerchio
inteso come idea che nella propria ipseità non accoglie nulla di estraneo>, perché ogni suo punto tocca la
linea retta, mentre il cerchio vero e proprio non ha in sé né poco né molto della natura contraria”(Lettera VII
343 a). Infatti, se il compositore istriano ha dedicato tante pagine (soprattutto della sua Scienza platonica) al
problema della quadratura del cerchio, svolgendo anche una puntigliosa indagine comparativa sulle soluzioni
di esso via via prospettatesi nel corso del tempo (da Archimede a van Ceulen, da Calcidio a Newton, da
Euclide a Leibniz) è perché in tale problema egli avvertì qualcosa che esulava dal mero ambito geometrico
- matematico: e cioé l’enigmatica cifra simbolica del movimento di integrazione dei molti perfettibili nella
perfezione dell’Uno-Tutto, attorno a cui continuò a ruotare con costanza per decenni il suo immaginario più
profondo di compositore e di teorico della musica. Ora, quello che tra i problemi classici della geometria è il
più antico - dato un cerchio, determinare il lato di un quadrato avente area uguale a quella del cerchio dato affascinò anche gli alchimisti e gli ermetisti di tutti i tempi e di tutti i paesi, che lo interpretarono in chiave
simbolica. L’espressione “ricerca della quadratura del circolo” ricorre infatti insistentemente nella letteratura
ermetico-alchimistica come sinonimo di “ricerca della pietra filosofale” perché, per dirla con Carl Gustav
Jung (Mysterium coniunctionis, in Opere, vol. 14 (2 tomi), ediz. italiana a cura di M. A. Massimello, Torino,
Boringhieri 1989, vol. 2°, p. 326 e 543): “Ciò che è angolare è imperfetto e viene sostituito da una forma
perfetta, nella fattispecie il cerchio.<...> Dato che il quadrato rappresenta il quaternio dei quattro elementi
ostili, il cerchio evoca invece la loro riunione in unità. L’Uno nato dai Quattro è la quintessenza.<...> Come ho
più volte sottolineato, le asserzioni relative alla pietra, se considerate dal punto di vista psicologico,
descrivono l’archetipo del Sé, la cui fenomenologia è esemplificata nel simbolismo del mandala.
Quest’ultimo descrive il Sé come una struttura concentrica, spesso nella forma della quadratura del cerchio”.
Se, lasciati da parte tutti gli evidenti e preponderanti risvolti matematici del problema, suggeriamo una
possibile interpretazione in chiava psicoanalitica junghiana dell’ossessiva concentrazione di Tartini sulla
quadratura del cerchio, è perché attorno a essa continuò a ruotare per decenni il pensiero del musicista, il
14
quale correttamente ne dichiarò l’irrisolvibilità, avvalendosi tuttavia di argomenti o incomprensibili o
inaccettabili dagli scienziati della sua epoca.
26
TARTINI, GIUSEPPE, Scienza platonica fondata nel cerchio, cit., p. 374.
27
TARTINI, GIUSEPPE, Scienza platonica fondata nel cerchio, cit., p. 109.
28
KOYRÉ, ALEXANDRE, “Galileo e Platone”, in Introduzione a Platone, Firenze, Vallecchi 1973, p.162.
29
TARTINI, GIUSEPPE, Scienza platonica fondata nel cerchio, cit., p. 30.
30
Cfr. TARTINI, GIUSEPPE, Scienza platonica fondata nel cerchio, cit., pp. 362-363, 424, 527.
31
Cfr. TARTINI, GIUSEPPE, Scienza platonica fondata nel cerchio, cit., p. 384: “Qui sia finalmente il
termine del litterario bordello (questo è il suo vero nome) a cui l’autore non per difender la propria causa (qui
di suo non vi è che fatica e dolore), ma per difender la causa di Dio è stato strascinato dal fondo d’empietà
coperto e mascherato da superficie di dottrina. In causa proprio l’autore è altro uomo, non strapazza, ma
soffre gli strapazzi. Non può, né dev’esser tale nella causa presente, in cui si tratta di un pubblico beneficio
sul più importante di tutti gli argomenti, qual’è la cristiana religione”.
32
TARTINI, GIUSEPPE, De’ principj dell’Armonia musicale contenuta nel diatonico genere (1767), ristampa
anastatica, Padova, CEDAM 1974 , senza numero di pagina (ma VII).
15
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