La mia vita cade a pezzi!
Come smettere di recitare
il copione del malato
(dal Blog Rigantur mentes di p. Gaetano PICCOLO)
Meditazione sul Vangelo
della XXVIII domenica del T.O. anno C
9 ottobre 2016
Lc 17,11-19
O una mano impietosa di malato
saliva piano sulla tua finestra
sillabando il tuo nome e finalmente
sciolto il numero immondo ritrovavi
tutta la serietà della tua vita.
Alda Merini
Nel 1521, Hans Holbein il Giovane dipinge Il corpo di Cristo morto nella tomba,
un’opera drammatica nella quale il pittore esprime tutta la sua perplessità davanti alla
possibilità della risurrezione. Il volto e le mani di Cristo, racchiuso dentro lo spazio angusto
del loculo, appaiono infatti in un iniziale stato di putrefazione.
Forse attraverso questo dipinto Holbein non affrontava solo un tema religioso, ho
l’impressione che quell’immagine di Cristo, irreparabilmente in decomposizione, stretto
dentro una tomba, sia anche l’immagine dell’uomo di ogni tempo. Tutti attraversiamo
momenti della vita in cui ci sentiamo morire, anzi talvolta ci sentiamo già in
decomposizione, senza speranza. Le situazioni che viviamo ci appaiono talvolta come
loculi stretti che ci fanno mancare l’aria e da cui non riusciamo a uscire.
L’immagine biblica del lebbroso evoca questa condizione esistenziale. Il lebbroso è uno
che sta morendo lentamente. È uno che si sta spegnendo e non ha più vita. E quando ci
sentiamo senza speranza, quando ci sentiamo malati, quando sentiamo che la nostra vita
si sta svuotando perché cade a pezzi, rischiamo di allontanarci, ci facciamo da parte, ci
isoliamo anche se continuiamo a stare in mezzo alla gente.
I lebbrosi sono esclusi perché quella malattia è ritenuta contagiosa. A volte siamo noi
stessi che ci escludiamo perché pensiamo che gli altri, vedendoci così malati, non
potranno amarci. A volte sono gli altri che con i loro giudizi imprudenti e sferzanti, senza
conoscere la storia della nostra malattia, ci escludono dalle relazioni.
E così, come i dieci lebbrosi di cui parla questo testo del Vangelo, continuiamo a
vagare, senza sapere bene cosa cerchiamo. Questi lebbrosi sono dieci, ma parlano con
una sola voce, come se ci fosse una solidarietà nella malattia. Sono dieci storie diverse
eppure cercano la stessa cosa. In fondo la malattia è sempre la stessa: ci sentiamo
morire!
Benché Gesù stia andando verso Gerusalemme, verso il luogo del Tempio, il luogo del
sacro e della presenza di Dio, non esita a passare attraverso la Galilea e la Samaria, cioè
attraverso i luoghi della contaminazione, i luoghi in cui l’eco della sacralità giunge più
affievolita e ambigua. Forse Gesù vuole addirittura mostrare che non è possibile arrivare a
Gerusalemme senza passare attraverso quei luoghi. La strada necessaria per arrivare a
comprendere il sacro passa attraverso la malattia dell’umanità.
A volte ci siamo talmente abituati a vivere da esclusi che continuiamo a tenerci a
distanza anche davanti a chi invece vuole accoglierci: davanti a Gesù, i dieci lebbrosi
continuano a recitare il loro copione e si tengono a distanza. C’è un incontro invece che
può mettere in moto un cammino di guarigione. La parola di Gesù è semplicemente un
invito a tornare nelle relazioni: andate a presentarvi ai sacerdoti, lasciatevi riconoscere,
perché è in quel riconoscimento che si guarisce. La vera malattia è la paura di essere visti,
nonostante il desiderio di essere riconosciuti.
La guarigione non è ancora avvenuta, ma questi dieci lebbrosi si mettono in
cammino. È un atteggiamento di fiducia. Ed è proprio la fiducia nella vita, la fiducia nella
possibilità che io possa uscire da questo copione di malattia, che mi sono messo addosso
o che gli altri mi hanno messo addosso, che mi permette di cominciare a guarire.
Ma la guarigione non sarà mai piena fino a quando non saremo arrivati a ringraziare.
Non è certamente un caso che sia proprio un Samaritano a tornare da Gesù: gli altri sono
andati a Gerusalemme, cioè là dov’è il Tempio, hanno semplicemente fatto il loro dovere.
Ma per un samaritano il luogo sacro non è a Gerusalemme, ma sul Garizim. Eppure
attraverso questa deviazione, Luca mostra che c’è un altro luogo ancora dove poter dare
gloria a Dio, anzi Luca vuole mostrare che l’unico vero luogo in cui dare gloria a Dio è
in Cristo stesso.
Gli altri nove lebbrosi hanno fatto semplicemente quello che dovevano fare, ma spesso
proprio la ripetitività del nostro senso del dovere, ci impedisce di riconoscere la
novità che si fa avanti nella nostra vita. Nulla di male, dunque. Ma dare per scontato ci
impedisce di arrivare a ringraziare.
Non c’è guarigione autentica senza ringraziamento. La nostra vita non sarà mai
veramente piena se non saremo giunti a essere grati per essa. La fiducia è la prima tappa
per un cammino di guarigione (siamo servi inutili che si fidano della vita, come i nove
lebbrosi), ma la guarigione diventa piena solo se trasformiamo la vita in una celebrazione
di lode, come il decimo lebbroso che torna a ringraziare, l’unico che sia veramente guarito.
La fiducia e la gratitudine sono i due atteggiamenti di chi vuole smettere di fare il malato a
vita.
Leggersi dentro
–
Ci sono ambiti delle tua vita in cui ti senti morire?
–
Quale spazio hanno nella tua vita la fiducia e la gratitudine?