LLP-LDV/TOI/09/IT/0405
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ISSUE N 1
Marzo 2010
“Perché scrivo? Per paura. Per paura che si perda il ricordo della vita delle persone
di cui scrivo. Per paura che si perda il ricordo di me. O anche solo per essere protetto
da una storia, per scivolare in una storia e non essere più riconoscibile, controllabile,
ricattabile.”
Fabrizio De Andrè
Indice
“Mi aggrappo a questi fogli come ad alcunché di fisso tra tante cose sfuggenti…”
Andrè Gide
Editoriale:
LA FUNZIONE DELLA
SCRITTURA............... pag 1
L’intervista:
PINO DI BUDUO
DEL TEATRO
POTLACH ..................pag 2
Approfondimento:
“ASPETTANDO GODOT”
di Samuel Beckett ... pag 10
I PARTNER .............. pag 13
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LA FUNZIONE DELLA SCRITTURA
In questo primo editoriale dedicato ai laboratori di scrittura teatrale nell’ambito
del progetto Writing Theater, mi sembrava interessante parlare di scrittura.
Non di scrittura teatrale in particolare, ma di scrittura in termini più ampi,
considerando non tanto i contenuti, piuttosto la necessità che ne sta alla base, i
meccanismi che la sottendono e la funzione ‘riparativa’ che è un aspetto importante
che sta alla radice della creazione artistica.
La scrittura infatti in ambito letterario, comprendente le varie tipologie, dal
romanzo, al diario, alla scrittura drammatica, alla poesia, è un modo per colmare
l’insoddisfazione e la frustrazione del desiderio.
La scrittura è un bisogno fisiologico e biologico prima ancora che essere un atto di
comunicazione. E’ l’orma presente e tangibile del nostro pensiero che si materializza
attraverso i segni, i grafemi che vengono lasciati fisicamente su una superficie.
L’atto della scrittura è quindi primariamente un gesto fisico, un prolungamento del
nostro corpo all’esterno, che dal braccio si trasferisce alla mano, da questa alle dita,
e poi alla penna per essere, infine, compiutamente visibile sul foglio. E’ il piacere
funzionale della scrittura, di vedere un prolungamento di noi stessi all’esterno, che
ha un carattere di allentamento della tensione interna come scarica motoria.
Solo in un secondo momento la scrittura diviene comunicazione, assumendo
la funzione narrativa, attraverso la quale vengono rappresentate le pulsioni del
nostro mondo interno. Le storie e i contenuti, infatti, sono solo pretesti, dei traslati,
per mettere fuori le nostre angosce e i nostri desideri insoddisfatti, le paure o la
felicità che proviamo.
I contenuti delle storie rappresentano la realizzazione dei nostri desideri,
la esteriorizzazione delle nostre angosce e dei nostri sensi di colpa, che si
materializzano proprio attraverso la scrittura, senza la quale resterebbero come
una energia potente e violenta che non avrebbe la possibilità di essere circoscritta,
di essere resa tangibile attraverso i segni della scrittura, e che acquistano così il loro
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statuto di realtà.
Per fare ciò, chi scrive, deve passare attraverso una fase di spersonalizzazione,
che permette una certa distanza emotiva dagli eventi personali, sottoponendo il
proprio vissuto privato ad un’opera di deformazione e rielaborazione, che viene
così trasformato e sublimato, prendendo la forma di una narrazione o ‘scritto’. Ma
questo prodotto, questo scritto, deve essere in qualche modo, però, riconosciuto.
Infatti, accanto alla funzione narrativa e comunicativa, accanto all’espressione
del mondo interiore, attraverso la scrittura, si cerca una conferma da parte
dell’autorità della tradizione, cercando di rispondere a precise regole estetiche
e formali. Allora chi scrive adotta un determinato stile che collega il suo mondo
privato con il mondo esterno, il dentro con il fuori, il soggetto con l’oggetto. Si
tratta di un confine, un limite che collega due campi separati ma interconnesi
tra di loro: “Al di là dello stile, si potrebbe dire, c’è soltanto il confuso vociare
dell’inconscio e dei suoi molteplici dialetti o il silenzio estetico della fredda,
piatta, sterile adeguazione alla norma”. La scrittura dunque è il mezzo attraverso
cui, attingendo allo stile, si arriva ad esternare e fare chiarezza dentro di sé.
La scrittura è un atto liberatorio, che usa tutte le identificazioni possibili per
poter vivere ogni cosa possibile. Per vivere ogni emozione anche la più terribile,
persino la morte. Chi scrive può essere ogni personaggio e può assumere
qualsiasi stato emotivo, senza paura, senza vergogna, senza timidezza. Si può
diventare chiunque, in quel momento delimitato alla scrittura, si può essere ogni
cosa possibile.
L’Intervista
INTERVISTA A PINO DI BUDUO DEL TEATRO
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Il Teatro Potlach - laboratorio di ricerca e sperimentazione teatrale - è stato fondato
nel 1976, scegliendo come propria sede un piccolo paese, Fara Sabina in provincia
di Rieti, a 60 Km da Roma. Il fondatore, nonché regista, è stato Pino Di Buduo, che
porta avanti il teatro insieme ad altri collaboratori che hanno iniziato con lui questa
avventura che dura da 34 anni.
Potlach è un termine che Pino Di Buduo ha mutuato dall’antropologia. Un termine
che ha un significato ben preciso. Letteralmente significa scambio, baratto ma anche
spreco. È un termine molto antico usato dalle tribù nordoccidentali americane ed era
utilizzato in relazione alle feste d’inverno, caratterizzate da canti, danze, mascherate
e banchetti e finivano con la distribuzione di doni a tutti i partecipanti da parte di chi
organizzava la festa. Ad ogni potlach si rispondeva con un altro potlach da parte di
qualcun altro.
Il teatro Potlach si dedica a varie attività: dal teatro di strada, agli spettacoli teatrali,
al teatro per ragazzi. L’attività teatrale del Potlach è attenta anche alle esperienze
all’estero partecipando ai principali festivals e alle rassegne più note. Inoltre
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organizza seminari, laboratori teatrali e workshops, tra i quali bisogna segnalare il
festival laboratorio interculturale di pratiche teatrali.
Il Potlach, attraverso i suoi lavori, ha ottenuto anche dei riconoscimenti, per esempio
con lo spettacolo “Giovanna degli Spiriti” ha ottenuto nel 1987, il riconoscimento di
miglior spettacolo all’Israel Festival a Gerusalemme o, nel 1998, il progetto “Città
Invisibili” viene indicato dalla Comunità Europea come uno degli 8 progetti culturali
teatrali scelti come modelli di azione culturale.
Il Teatro Potlach nasce nel 1976. La sua storia è piuttosto lunga. In questi 34 anni è
stato realizzato molto: spettacoli teatrali, spettacoli di strada, danze drammatiche,
concerti d’attore, festival teatrali sia nazionali che internazionali. Siete riusciti a
fare un teatro che fosse aperto ad esperienze internazionali e sperimentali, e nello
stesso tempo a calarvi in una realtà tutta locale, con l’ideazione del festival dei
centri storici e il teatro ragazzi. Organizzate laboratori, seminari, workshop. La
vostra attività si muove attraverso varie direzioni. Non state mai fermi. Come è
nata quest’idea di teatro?
Quest’idea di teatro è una nata da un’esigenza di fare teatro, di esprimere
se stessi, attraverso la forma teatrale. Io ho una formazione antropologica,
ero assistente all’ università di antropologia culturale e tradizioni popolari.
Parallelamente alla formazione universitaria, facevo teatro per passione……..
e poi invece questa è diventata una professione. E’ nato in un momento nel
quale era importante per me creare un gruppo di persone con le quali lavorare
a tempo pieno e soprattutto lavorare su quella che è l’arte dell’attore, che penso
sia, soprattutto, il corpo dell’attore. Era un periodo, quando ho cominciato,
in cui il teatro andava in un’altra direzione. C’era l’Avanguardia Romana…
era molto concettuale. A me piaceva di più qualcosa che oggi chiameremmo
il teatro danza. L’incontro con tutte quelle forme espressive che hanno al
centro, il lavoro dell’attore. Dove l’attore è in grado di recitare, di cantare, di
danzare. Un po’ come sono ancora gli attori orientali, ma come è stato nella
commedia dell’arte e come a volte è nel balletto. Per cui il centro del nostro
lavoro è stato sempre il training fisico, il training vocale, allenamenti che
sono quelli che l’attore porta avanti tutta la vita per poter acquisire tecniche,
ma anche per poter mantenere un livello di qualità altissimo.
Nel realizzare questo tipo di teatro, quello che è il Potlach oggi, quanto è stata
importante per te l’esperienza dell’Odin Teatret e la vicinanza ad Eugenio Barba?
Ho fatto parte di una scuola internazionale che è stata ad Otterlo in Danimarca
nell’Odin Teatret. Ma..io lavoravo appunto in questa direzione…e nel
momento in cui ho incontrato l’Odin Teatret… ho visto uno spettacolo e poi
ho incontrato Eugenio Barba, che mi ha invitato a partecipare a questa scuola
internazionale. Io avevo un’esperienza molto empirica, avevo interesse sia
dell’uso del corpo e sia dell’attore. Quando ho letto il libro “Il Teatro Povero”
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e poi ho visto l’Odin Teatret, ho visto che loro stavano molto più avanti. E
allora quando ho incontrato Eugenio Barba e mi ha invitato io ho detto di si.
Lui e l’Odin Teatret sono diventati i miei maestri.
Possiamo dire che l’odin Teatret è stata la tua formazione.
La formazione….si. Continuo ad avere un rapporto…ognuno trova la propria
identità, la propria strada…ma continuiamo ad avere rapporti
Avete fatto anche dei progetti insieme…
Si. Ad esempio questo festival laboratorio interculturale di pratiche teatrali
infatti è fatto in collaborazione con Eugenio Barba..
Infatti tra le tante attività che organizzate e realizzate, è attivo presso la sede
del Potlach un Laboratorio Interculturale di Pratiche Teatrali. Di cosa si tratta
esattamente?
Il confronto tra diverse culture è il centro della nostra epoca e questo può
dare dei frutti positivi anche nella creatività, partendo dalla conoscenza e
dal confronto con le forme classiche teatrali orientali e occidentali: le forme
classiche indiane, oppure quelle balinesi, giapponesi, oppure quelle cinesi,
come l’opera di Pechino. Queste sono le grandi forme di teatro orientale
con le quali noi cerchiamo un confronto continuo mettendole accanto alla
commedia dell’arte o mettendole accanto alla danza e al balletto e mettendole
in confronto con tutte le forme nostre occidentali. E cercando, in un certo
senso, quelli che sono i principi che sottendono….tutti hanno al centro il
corpo dell’attore…l’uomo…
I principi comuni… li avete trovati questi principi che accomunano tutte le forme
d’arte?
E’ un lavoro continuo, però ci sono alcuni principi che sono presenti in
tutte le culture teatrali, che sono quelli del bios. Sono principi basilari che
permettono all’attore di essere presente in scena, prima della espressione.
Questo è quello che abbiamo trovato.
Da un po’ di tempo si parla di teatro multimediale. Voi l’avete anche sperimentato
in qualche maniera.
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Si, perché noi siamo un laboratorio di ricerca e sperimentazione teatrale. Al
centro è sempre il lavoro dell’attore, però poi noi andiamo in direzioni di
ricerca per tutto quello che riguarda il campo teatrale: scenografie, costumi,
musica, danza. Abbiamo sempre avuto un interesse molto forte, in particolare,
per la scenografia e il canto. In tutti i nostri spettacoli c’è musica, canto e c’è
scenografia. Sono importanti. Il rapporto, soprattutto, con Luca Ruzza che è il
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nostro scenografo da più di 20 anni. Con lui abbiamo sviluppato, soprattutto
in alcuni progetti, anche con “Le città invisibili” che vengono fatte all’esterno
e all’interno dei teatri, abbiamo sviluppato quello che sono le proiezioni,
le scenografie digitali. Poco tempo fa, abbiamo affrontato uno spettacolo.
Abbiamo pensato a Ventimila leghe sotto i mari e l’abbiamo fatto tutto con
scenografie digitali, cioè proiettate. Non tanto per illustrate come sottofondo,
ma proprio come elemento drammaturgico. Cioè l’immagine come elemento
drammaturgico che porta avanti la storia. Tra l’altro abbiamo inventato
letteralmente un impianto scenico particolare che dà una certa profondità e
che rispondeva ad una esigenza. Ventimila leghe sotto i mari, sono..capisci
stanno tutto il tempo sotto il mare, allora, in qualche modo, attraverso il suono
e attraverso le immagini, volevamo dare la sensazione agli spettatori di stare
anche loro nelle profondità del mare. E così abbiamo messo due schermi
paralleli, in modo che il primo schermo è trasparente e il secondo schermo
è uno schermo normale. E proiettiamo contemporaneamente su tutte e due
gli schermi, in modo che gli attori che stanno tra i due schermi sembra che
stanno in mezzo all’acqua.
L’uso di schermi e proiezioni, in realtà, aumenta la storia, dà un qualcosa in più?
Si. L’immagine è un’ immagine dinamica ed è un’ immagine non realistica.
Cioè partiamo dalle immagini realistiche e le elaboriamo. Le abbiamo alterate
in modo che siano sempre riconoscibili, pero siano non realistiche. Questo è
stato il lavoro che abbiamo fatto. È un lavoro enorme, perché siamo partiti
dall’accumulo di una quantità enorme di immagini, per esempio stavamo
nel mare. Abbiamo fatto ricerche, abbiamo accumulato una quantità di
immagini, sia immagini fisse che dinamiche, enorme. Sono tutte bellissime,
però poi quando dopo un po’ ci lavoravamo non funzionavano, in qualche
modo. Allora abbiamo cominciato a lavorare sulle immagini come si lavora
su un attore, con un attore. A elaborare e alterare nei colori, nelle forme,
nelle dimensioni, nelle profondità. E le abbiamo tutte alterate fino a che,
appunto, abbiamo composto questo spettacolo. Questo è il primo risultato
di questa ricerca, che stiamo facendo in questi anni, utilizzando tecnologie
avanzatissime. Ma l’attore è sempre all’interno di questo, si comporta
esattamente secondo i propri principi e quindi è, diciamo, l’aspetto più antico
dell’attore insieme alla tecnologia più avanzata.
Voi realizzate anche spettacoli diretti ad un pubblico specifico, i ragazzi.
Noi siamo un gruppo di teatro. Siamo fissi, siamo sempre gli stessi, diciamo.
Si possono aggiungere persone, oppure qualcuno va via. Però il nucleo
fondamentale sono attori che hanno fondato il teatro e che vanno avanti da più
di 30 anni, lavorando insieme e solamente per questo teatro. Possiamo avere
un grande repertorio. Abbiamo anche due spettacoli per ragazzi. Soprattutto
li abbiamo creati perché noi stiamo a Fara Sabina. Per noi il lavoro, il teatro di
strada, è nato da una necessità - perché nel territorio della Sabina, soprattutto
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nel 1976, quando siamo arrivati, era un deserto dal punto di vista teatrale,
non c’erano teatri e anche il teatro di Rieti, il Flavio Vespasiani, era inagibile.
Per intervenire nei Comuni abbiamo utilizzato il teatro di strada, abbiamo
cominciato a creare degli interventi che non avevano bisogno di uno spazio
al chiuso. E quindi soprattutto nell’estate, ma anche d’inverno, per poter
intervenire nei diversi comuni. La stessa cosa, in un certo senso, è il teatro
ragazzi. Perché le scuole qui erano i centri culturali del territorio e allora
portavamo gli spettacoli nelle scuole.
Per quanto riguarda il teatro ragazzi, volevo chiederti se indirizzavi una specifica
progettualità artistica e pedagogica…
Certo, ma… in Francia per esempio, chiamano tout pubblique, spettacoli
per tutto il pubblico, per ragazzi e per grandi. Noi tendiamo più in questa
direzione. Sono spettacoli che possono vedere i bambini, ma che possono
vedere anche i grandi, almeno alcuni di questi. Però ci sono spettacoli, ad
esempio uno è “Direttore d’orchestra” che è basato su tecniche che sono
adatte ai bambini, diciamo. Sono adatte anche per i grandi, però è chiaro
che la drammaturgia e il linguaggio ha un’immediatezza che può colpire e
provocare l’immaginazione dei bambini.
Il gioco e il teatro hanno una relazione tra di loro. Quanto il teatro può essere un
gioco?
Il teatro è un gioco. Per esempio in Francia si utilizza la parola jeux e in
Inghilterra play che significano anche gioco. Ci sono alcuni che partono
proprio dal gioco. Anche Peter Brook faceva dei giochi teatrali quando
cominciava a costruire un’ improvvisazione o uno spettacolo. Però ci sono tante
sfaccettature su questo. Non è il gioco come intendiamo noi normalmente. E’
una specie di ingaggio che si prende con lo spettatore. È chiaro che dobbiamo
sorprenderlo, dobbiamo nascondere per rivelare. Dobbiamo creare intensità.
Dobbiamo creare l’opposto. E quindi è un gioco continuo di tutti gli elementi
che il teatro può fornire per ottenere l’attenzione dello spettatore. L’attore sa
che sta per fregare lo spettatore, lo sa che in quel momento gli darà un pugno
allo stomaco, però prima di tutto questo , sembra che tutto quanto vada bene.
Per poter avere un effetto su questo, si deve prima creare il suo opposto. E
quindi si lavora su altri aspetti…però in questo senso è un gioco.
Parlavamo di teatro sociale..teatro terapeutico. Pensi che il teatro possa avere la
capacità di ridurre e prevenire il disagio?
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Penso…così, per scherzare…quando si entra dentro un teatro e si conoscono
un po’ meglio gli attori, dicono che sono tutti matti. Penso che il teatro è il
luogo nel quale l’uomo e la ricerca sull’uomo è centrale. In tutti gli aspetti e
in tutti i prodotti della società.
Ci sono problemi, o con nodi, o conflitti che il teatro affronta perché la società
o parti diverse della società entrano in conflitto, in collisione e creano dei veri
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e propri terremoti, che il teatro deve porsi come domanda e a volte deve anche
saper dare delle risposte. Ci sono delle zone emarginate con le quali entrare
in relazione. Per esempio noi abbiamo una sezione, abbiamo delle esperienze
con dei ragazzi che hanno dei disagi. Devo dire che sono delle esperienze
straordinarie. Non so se noi facciamo qualcosa verso loro o se loro fanno
qualcosa verso noi, però sono così legati all’essenziale della vita. Soprattutto
i down, per esempio, non hanno gli schermi che noi creiamo, le maschere
che noi creiamo, sono molto immediati. Se hanno un affetto, una simpatia
è subito evidente. Se hanno un bisogno è subito evidente. Quindi in questo
senso e per quello che riguarda proprio l’essenza del teatro penso che è molto
importante che esso si relazioni con loro, ma penso anche che il teatro è una
zona di terapia. Noi lo vediamo soprattutto con i giovani, anche con quelli
molto giovani. A volte ci capita di lavorare con le scuole, di lavorare su uno
spettacolo. Una volta, facevo un corso dentro le scuole e stavo lavorando sul
ritmo. Sceglievo sempre le persone che vedevo possedevano più ritmo, per
guidare le altre, per essere come esempio per gli altri. Un giorno l’insegnante
mi disse “Guarda che quello è sordomuto” e, invece, era quello che aveva
più ritmo. Allora, quello che a volte non funziona per l’apprendimento, o che
apparentemente non funziona per l’apprendimento, invece funziona per il
teatro. Il teatro è una zona franca, nella quale tutto è possibile. Si invertono
i pregiudizi, si annientano i pregiudizi, si invertono alcuni principi. E’ una
zona, sembra, di libertà,nella quale è possibile fingere. Però al limite della
finzione racconta se stesso.
Ci sono veicoli fondamentali del teatro, la creatività è un veicolo fondamentale,
il gioco.
Il teatro, diciamo, dà la possibilità di sviluppare, di mettere fuori le capacità che
magari in contesti tradizionali, normali non vengono assolutamente valorizzati?
Vengono intimidite, vengono inibite. Invece nel teatro tutto è possibile.
Cioè, quello che noi facciamo, il teatro fa, un attore fa, è cercare di dare uno
stimolo in modo che si sviluppi la creatività. Nel momento della creazione
non c’è giudizio. Nel momento in cui comincia a manifestarsi la creazione,
è possibile che esteticamente non sia bella e bisogna che non ci sia giudizio
estetico. La creatività comincia a manifestarsi.. e allora…bisogna aiutarla a
manifestarsi…in modo che mano mano prenda una forma. Ecco, questo nella
società normalmente viene inibito, ma nel teatro no. Nel teatro è possibile
questo e quindi una parte di sé viene alla luce e quel venire alla luce crea
un’energia unica. Un movimento di felicità.
Adesso parliamo invece di linguaggio, che è innanzitutto uno strumento per
comunicare. Assume diverse forme a seconda dell’uso in un ambito particolare.
Ma la scrittura teatrale ha una sua specificità.
Noi non abbiamo mai lavorato su testi teatrali, ma facciamo una scrittura
scenica. Cioè partiamo da improvvisazioni, partiamo da composizioni e poi
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mano mano cominciamo a costruire una drammaturgia e, certo, c’è bisogno di
testi. Per esempio, nel caso di ventimila leghe sotto i mari noi abbiamo preso
un romanzo, che non è un testo teatrale, e l’abbiamo rielaborato in modo che
funzionasse da un punto di vista teatrale. Questa è l’operazione più vicina
diciamo a una scrittura, se no normalmente prendiamo uno spunto, un tema,
o qualcosa del genere, o una direzione, o un orientamento e cominciamo a
lavorare su questo. E poi mano mano elaboriamo una scena che ha dei testi,
a volte poetici, ma che ha partiture fisiche, che ha partiture musicali e che
ha relazioni con la scenografia che, spesso, è necessaria e così con i costumi,
con la musica, con il canto…in questo senso noi scriviamo mentre andiamo
avanti. Non partiamo da un testo prestabilito. Questo non significa che non
può essere uno spunto un testo prestabilito.
Immagino che, quindi, possedere una tecnica ben specifica a questo punto sia
quasi inutile. Nel senso che alla fine tutto nasce lì, tutto nasce sul momento.
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Noi non abbiamo un metodo. Abbiamo un sistema di lavoro, però possiamo
partire da tutto, non è escluso che un giorno partiamo da un testo scritto,
se è una suggestione, faccio un esempio. Uno spettacolo che abbiamo fatto,
“Felliniana”, è ispirato cioè a Fellini. Non è che noi abbiamo preso un testo,
perché non c’è un testo. Abbiamo preso tutti i film di Fellini, abbiamo preso la
sua biografia, abbiamo cercato di vedere la visione del mondo di Fellini che
ha rappresentato un pezzo di storia nel secolo precedente, del Novecento.
Allora attraverso i suoi film attraverso la sua biografia - questo mentre
andavamo avanti diciamo - abbiamo raccontato un pezzo di storia dell’Italia.
Però quando noi siamo partiti, abbiamo preso tutti questi materiali, tutti i
film che aveva fatto, tutti libri che sono stati pubblicati , le interviste e le
abbiamo lette. Poi per procedere, abbiamo fatto una scelta. Abbiamo preso
una scena selezionata, una scena di ogni film e poi siamo andati a lavorare
su quella scena. Così è nato…poi mano mano abbiamo visto che Fellini
rappresentava un pezzo di storia, che il film stesso era dentro il contesto,
qual’ era la sua missione, che lui lavorara sull’isteria come elemento italiano
della creatività. Con la caratteristica italiana. Noi tutto questo lo scoprivamo
mentre andavamo avanti, e allora mano mano abbiamo visto che c’era
qualcosa che il momento descritto da Fellini era il momento del boom
economico nel quale sopravvivevano alcune cose che sarebbero andate a
scomparire. E che avevano una grande capacità poetica o artistica come ad
esempio “La Strada”. È chiaro che era un mondo che andava a scomparire.
Anch’io mi ricordo, quand’ero piccolo, ancora esisteva qualcuno che spezzava
le catene, per strada. Adesso non esiste più. È un momento veramente di
grande attrazione, però un elemento poetico oggi diremmo, ma allora era
veramente una sopravvivenza. Cioè, ci si inventava dopo la guerra, i mestieri
che permettevano di sopravvivere. Però tutto questo è scomparso. Allora
Fellini affrontava i nodi, i passaggi di quell’epoca, in un modo straordinario.
Quei nodi noi siamo andati a toccarli, quindi è un processo che non può
essere prestabilito in un testo. E’ qualcosa che cerchiamo.
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Arriviamo sempre però ad una sceneggiatura. Alla fine noi abbiamo
una scrittura, un testo. Però ci arriviamo. Ci piace anche lavorare con dei
drammaturghi. Anche con qualcuno che mentre andiamo avanti scrive,
anche.
Quindi è una scrittura che reagisce alle improvvisazioni, scrive dei testi.
Quindi, insomma, è una collaborazione tra tutti.
Tra tutti, perché stiamo tutti allo stesso livello. Tutti sono componenti, ma con
il principio comune che non è un testo che è stabilito prima e che mettiamo in
scena in quattro settimane. Abbiamo rotto questi meccanismi di produzione.
Se dovesse essere una produzione che decide per uno spettacolo, è chiaro
che i costi sarebbero enormi. Allora devono stabilire quattro settimane, sei
settimane per produrre uno spettacolo, allora è chiaro che, bisogna andare
con il testo già stabilito, che ogni giorno devi sapere quante scene fai. Per
noi non è così. Questa libertà ha dei costi ugualmente evidentemente, però
pensiamo che sia vitale per il teatro.
In relazione ai laboratori di scrittura teatrale che questi ragazzi andranno
a fare, nel loro avvicinarsi e approcciarsi al teatro e attraverso la scrittura un
po’ raccontare se stessi un po’ anche il loro approccio al teatro. Secondo te a
cosa dovrebbe guardare un ragazzo, tra i 15 e i 25 anni, a cosa dovrebbero dare
importanza e rilievo soprattutto.
Mi viene da dire alle proprie ferite. Alle ferite che hanno all’interno di se
stessi o che vedono nella società. Per quanto riguarda invece l’esperienza
dello scrivere, diciamo, alla loro sensibilità, fondamentalmente, come loro
reagiscono a quello che accade, a loro stessi e al mondo che li circonda, alle
esperienze che percorrono, a momenti essenziali della loro vita e della società.
C’è anche bisogno, però, di un’acquisizione di tecniche, di acquisizione di
capacità, ecco. Queste capacità si acquistano anche con il tempo. Almeno si
affinano. Si acquistano e poi si affinano con il tempo. Poi, per esempio, penso
che sia importante che vadano a visitare e addirittura direi ad abitare i teatri,
per vedere come funziona tutta la creazione teatrale.
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Approfondimenti
“ASPETTANDO GODOT”
di
Samuel Beckett
TITOLO:
ASPETTANDO GODOT
AUTORE:
SAMUEL BECKETT
ANNO PUBBL.:
1952
PRIMA TEATRALE:
1953 - Théâtre de Babylone – Parigi
ATTI:
2
PERSONAGGI:Estragone, Vladimiro, Lucky, Pozzo, Ragazzo
TRAMA:
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Due vagabondi, Estragone e Vladimiro, aspettano un certo signor
Godot che forse li aiuterà a trovare una sistemazione. Nell’attesa
incontrano altri due personaggi, Lucky e Pozzo, con cui passano
parte del tempo. Alla fine della giornata si presenta un ragazzo
con un messaggio del signor Godot, che per quella sera non
riuscirà a venire e che dovranno attendere il giorno dopo per
poterlo incontrare.
Nel secondo atto si svolge la seconda giornata, in cui tutto, tranne
piccole differenze, si ripete nella stessa modalità. Il signor Godot
non si presenterà neanche questa volta.
“Aspettando Godot” di Samuel Beckett è stato un testo importante nella carriera
dell’autore, che segna il suo successo come scrittore. Un successo che non aveva
raggiunto attraverso la scrittura dei suoi romanzi. La scrittura teatrale, in vista
anche della messa in scena, permette a Samuel Beckett uno sguardo più distaccato,
meno coinvolto dall’espressione di sé.
“Aspettando Godot” segna anche un momento fondamentale nel teatro
contemporaneo. Non solo mette in scena un linguaggio con registri alti e bassi,
dove il riferimento a momenti alti della cultura dell’uomo si accompagnano
momenti bassi, come possono esserlo la patta aperta dei pantaloni, o l’emissione
di scoregge, dove accanto ad una espressione lirica del linguaggio stesso
si accompagnano parti molto brevi e sintetiche, piuttosto asciutte e crude.
“Aspettando Godot” crea anche una commistione di stili diversi, dove convivono
insieme il burlesco, il drammatico, la commedia e la gag comica. Ma soprattutto,
il linguaggio di questo capolavoro beckettiano, rompe con la costruzione
drammaturgica razionale e la consequenzialità logica del linguaggio. Passando
soprattutto per la scrittura Joicyana, arriviamo alle soglie del teatro dell’Assurdo.
Beckett, però, a differenza di un Ionesco o di un Pinget, porta agli estremi
“l’oggettivazione dell’assurdo”, che non ha bisogno di essere motivato nel suo
caso, ma che diviene motore principale del suo scrivere. È la messa in scena
dell’Assurdo, la “dimostrazione di una commedia” che però si svela non essere
tale fino in fondo, poiché tenta disperatamente di calarsi in un ruolo che non può
non svelare tutta la sua amarezza di fondo, la tragedia che ne è alla base, ma a cui
tende invano, senza risoluzione.
La scrittura di Beckett è una scrittura amara, ma allo stesso tempo una scrittura
che fa ridere, e di gusto. Assomiglia agli artisti del circo, al clown di H.Boll, in
cui dietro la risata c’è solo tanta tristezza:per un’umanità perduta, per un‘ Attesa
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ROMANIA
interminabile, senza tempo e luogo, che tragicamente si ripete, continuamente
senza soluzione.
Vladimiro:
Estragone:
Vladimiro:
particolari.
Estragone:
Vladimiro: Estragone:
E se ci pentissimo?
Di cosa?
Be’….(cerca) Non sarebbe proprio indispensabile scendere ai
Di essere nati?
(scoppia in una gran risata, che subito soffoca, portandosi la mano al
pube, col volto contratto) Proibito anche il riso.
Si può solo sorridere. (Il suo viso si fende in un sorriso esagerato, che si
cristallizza, dura qualche istante, poi di colpo si spegne) Non è la stessa
cosa. Comunque…(Pausa). Gogo…
È una profondità che affiora lentamente. La burla, la risata si trasformano in un
istante. Un momento prima il ricordo di Pozzo che getta gli ossi ad Estragone, un
momento dopo quest’ultimo inveisce contro Vladimiro:
Estragone:
Allora non venirmi a rompere le scatole coi tuoi paesaggi!Parlami
del sottosuolo!
“Non è il vuoto che manca” in questa tragicommedia. Ma appunto è il vuoto
che la fa da padrone, quell’Attesa interminabile, quel desiderio, al di là di ogni
possibile reale, che continua a legare l’uomo all’esistenza. I personaggi vorrebbero
dileguarsi, sparire, non esserci, essere inghiottiti da quel vuoto – Estragone
(guardando l’albero) Peccato che non abbiamo un pezzo di corda –, percepiscono
la drammaticità dell’esistere, dell’essere umano in attesa, in attesa di non si sa
chi o cosa esattamente. Un’Attesa interminabile, insostituibile, a cui servono dei
diversivi per poterle resistere, ma che allo stesso tempo diviene l’unica scelta
possibile.
Vladimiro:
Estragone:
Vladimiro:
Estragone:
Vladimiro:
Estragone:
Vladimiro:
Estragone:
Vladimiro:
Estragone:
Vladimiro:
Estragone:
( sentenzioso) A ciascuno la sua piccola croce. (Sospira) Durante il
piccolo oggi e il breve domani.
E mentre aspettiamo, cerchiamo di conversare senza montarci la
testa, visto che siamo incapaci di star zitti.
E’ vero, siamo inesauribili.
Lo facciamo per non pensare.
Abbiamo delle attenuanti.
Lo facciamo per non sentire.
Abbiamo le nostre ragioni.
Tutte le voci morte.
Che fanno un rumore d’ali.
Di foglie.
Di sabbia.
Di foglie.
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Silenzio.
Vladimiro:
Estragone:
Parlano tutte nello stesso tempo.
Ciascuna per conto proprio.
Silenzio.
Vladimiro:
Estragone:
Vladimiro:
Estragone:
Direi piuttosto che bisbigliano.
Che mormorano.
Che sussurrano.
Che mormorano.
Silenzio.
Vladimiro:
Estragone:
Vladimiro:
Estragone:
Che cosa dicono?
Parlano della loro vita.
Non si accontentano di aver vissuto.
Bisogna anche che ne parlino…..
Come non trovare un legame con la scrittura proustiana, col suo dilungarsi su
uno stesso particolare, rivoltandolo attraverso tutte le sue sfumature, sentendone
l’essenza stessa, nell’interminabile descrizione degli oggetti, delle sensazioni,
della “Madeline”, del retrogusto che lasciano le cose dopo averle vissute,
mangiate, sentite. Come in Proust anche in Beckett è presente quella descrizione
tautologica che accentua momento dopo momento l’essenza delle cose e che
ne aggiunge significato, in un’ interminabile piacere dell’andare all’osso, allo
scheletro delle cose. Alla base. Ma mentre per Proust andare all’essenza delle cose
significa percepirne l’aspetto più intimo legato al ricordo, al momento primario
della sensazione vissuta e che rimane dentro noi come un aspetto fondante di
ogni esperienza successiva, in Beckett questa operazione si manifesta in una
manifestazione del pensiero scarnificato, spogliato di ogni sentimentalismo,
di ogni relazione personale, oggettivato in una dimensione umana comune,
attraverso un linguaggio privato di ogni simbolizzazione.
Non siamo in presenza di significati nascosti da scoprire, ma siamo all’essenza,
al nocciolo. Il linguaggio e la narrazione, persino il pensiero stesso, sono state
spogliate dal ricco tessuto che le circondava. Non c’è trama, non c’è sublimazione,
non c’è risoluzione del conflitto. Beckett sembra gridare sottovoce…siamo quello
che siamo.
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