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Zurigo, una sfida vinta
È stata recentemente inaugurata la nuova, insolita, e per certi versi molto
coraggiosa, ala del Museo nazionale di Zurigo - Il progetto è di Christ & Gantenbein
/ 01.10.2016
di Ada Cattaneo
Ci fu un periodo in cui disporre di un museo era essenziale per rappresentare e proclamare l’identità
di una nazione. Si trattò del momento in cui nacquero i più grandi musei d’Europa, quelli che
vengono definiti «musei enciclopedici» proprio perché l’ambizione era raccogliere tutto ciò che di
notevole fosse stato raccolto e collezionato. Edifici immensi, con sale che si susseguono senza fine,
che permettono di passare in pochi passi dall’archeologia preistorica alla pittura rinascimentale. Sul
finire dell’Ottocento, anche in Svizzera si sentì la necessità di un luogo dove presentare il proprio
patrimonio culturale e l’esito fu la creazione del Landesmuseum di Zurigo.
Il fascino di questi luoghi rimane invariato, anche a secoli di distanza. Ma ripensarne i metodi di
comunicare oggi è necessario, per fare sì che gli oggetti custoditi possano esprimere tutto il loro
valore, anche grazie ai metodi didattici del presente. Nel caso di Zurigo, la necessità di restauri
sostanziali si rese evidente nei primi anni Duemila, quando venne intrapresa una prima fase di
recupero dell’edificio originale del Museo Nazionale, conclusa nel 2009. In un secondo tempo, per
sbloccare i finanziamenti necessari alla realizzazione di una nuova ala sono stati necessari due
referendum popolari (città di Zurigo, 2010; canton Zurigo del 2011). Entrambi gli interventi si
devono allo studio Christ & Gantenbein, architetti basilesi poco più che trentenni al momento in cui
vinsero il concorso nel 2002.
Dal 31 luglio 2016 è possibile visitare il museo con la nuova ala appena conclusa, innestata
sull’edificio preesistente e rivolta verso Platzspitz a formare una corte interna. Il passaggio verso il
parco è reso possibile da una fenditura triangolare, cifra distintiva della nuova architettura, insieme
alla grande scala illuminata dalle finestre circolari, affacciate sulle foglie dei gingko, oltre che sulla
città. Una biblioteca, un auditorium e altre sale espositive sono ospitate nei nuovi spazi, tutti
realizzati secondo gli standard Minergie di sostenibilità ambientale, che hanno reso necessari gli
ottanta centimetri di sezione delle pareti – in cemento a vista – per un isolamento ottimale
dall’esterno.
Il rapporto con l’edificio ottocentesco non è in nessun modo improntato su un richiamo alle forme: i
due corpi si differenziano in modo sostanziale. Il legame è piuttosto da cercare in un certo approccio
ai materiali utilizzati. I pavimenti fanno per esempio uso di graniglia di cemento riciclato a
richiamare le più signorili superfici a «terrazzo alla veneziana» della parte antica. La facciata, poi,
utilizza un composto di cemento e tufo – pietra già utilizzata nella parte originaria – con l’obiettivo di
raggiungere unità cromatica fra le due sezioni. Il cemento è protagonista di tutta la realizzazione.
Già Gustav Gull, autore del progetto per la parte antica, realizzata fra 1892 e 1898, aveva utilizzato
questo materiale, insieme all’acciaio, impiegando tecniche estremamente all’avanguardia, ma
sempre premurandosi di nascondere queste novità per non contaminare le linee tradizionali
dell’edificio, esempio di Storicismo, che combinava elementi tardomedievali e rimandi
all’architettura «autoctona». Ma nei decenni a venire e, in particolare dagli anni Cinquanta del ’900,
l’edificio era sembrato fuori luogo nel centro della città moderna, tanto che le modifiche si
dimostrarono sostanziali e, come spiegano gli architetti Chris e Gantenbein, fu snaturato rispetto
all’idea iniziale.
Oggi anche l’allestimento delle collezioni è rinnovato, ma si dovrà aspettare il 2020 per vedere
conclusa la risistemazione dell’intero museo, con il restauro della sezione dedicata al design
d’interni e della Torre delle Armi. La sezione di archeologia, ospitata nella nuova ala, è stata tra le
prime ad essere inaugurata ed è già visitabile. Lo spazio – suggestivo, reso ulteriormente
scenografico dall’uso sapiente delle luci – è stato organizzato dallo studio tedesco Atelier Brückner.
Non sembra però che sia stata trovata una piena sintonia fra allestimento e architettura. Sarebbe
forse stato auspicabile un intervento degli stessi autori dell’edificio nella presentazione dei reperti,
per garantire una più profonda integrazione fra spazio e contenuto. Ciononostante, è da notare il
grande sforzo fatto per rendere attuali i reperti archeologici provenienti da molti cantoni e per
contestualizzarli nell’epoca in cui erano in uso. In questo senso sono realizzati gli exhibit, che
invitano a toccare repliche dei reperti e ad azionare dispositivi che illustrano lo sviluppo di specie
animali e vegetali, sempre sulla base di criteri esperienziali. L’uso delle nuove tecnologie è
pienamente integrato nel percorso espositivo, sostituendo le tradizionali didascalie con sistemi di
visualizzazione su touchscreen o inserendo gli oggetti in proiezioni immersive utili a capire per cosa
servissero gli oggetti.
Quest’uso appropriato di nuove tecniche d’allestimento caratterizza anche la sezione di «Storia della
Svizzera» (significativo che il primo tema sia quelle delle migrazioni) e la «Galleria delle Collezioni»,
riorganizzate dal 2009 ad opera del personale del museo in collaborazione con lo studio Holzer
Kobler. In particolare, la «Galleria delle Collezioni» risulta molto riuscita, soprattutto in confronto
all’allestimento precedente. Grande importanza è stata data qui alle arti applicate, utilizzando
allestimenti molto suggestivi adatti ad animare l’austera architettura zurighese e accostando
esemplari antichi e altri più recenti, secondo una tendenza ormai affermatasi grazie a musei come il
Victoria & Albert Museum di Londra o il Cooper Hewitt di New York.
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