“LA CRISI CONTEMPORANEA E L`INCONSCIO SOCIALE DI ERICH

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“LA CRISI CONTEMPORANEA E L’INCONSCIO SOCIALE
DI ERICH FROMM”
Marta Fedi
Sandra Vannucchi
Introduzione
La parola chiave oggi è crisi. Diciamo: tutto questo succede perché c'è la crisi, la crisi è la causa
di tutti i problemi, facciamo passare la crisi e tutto tornerà alla normalità.
Siamo sicuri di star puntando l'obiettivo nella giusta direzione?
Il termine "crisi" (dal greco krisis = separazione, scelta, decisione) rimanda etimologicamente al
concetto di rottura, al momento che separa un “modo di essere” diverso da un altro precedente. La
nozione di crisi ha al suo interno la capacità di metterci in contatto con i nostri limiti, ci comunica
che non possiamo continuare sulla stessa strada senza apportare modifiche a se stessi o al contesto
entro cui ci muoviamo, è un segnale del fatto che occorre reinventarsi perchè così non è più
sostenibile andare avanti. Così come dal punto di vista individuale la crisi si riferisce ad un
momento della vita caratterizzato dalla rottura dell'equilibrio precedentemente acquisito, anche dal
punto di vista sociale essere in un periodo di crisi significa trasformare gli schemi che si rivelano
non più adeguati a far fronte alla situazione presente.
Erich Fromm afferma che l'essere umano è da subito un essere socializzato la cui psiche è
fondata sull'interazione fra l'individuo e la società: diventa, quindi, centrale osservare le forme di
interazione e i modelli socialmente rilevanti che una società produce.
Il nostro lavoro si pone come obiettivo quello di analizzare alcuni aspetti del contesto
socioeconomico e culturale che ci circonda in una rilettura moderna dell'opera frommiana: quali
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sono gli effetti che la società moderna opera sugli individui? Il crescente sviluppo economico
genera prosperità e benessere, ma a scapito di che cosa? Siamo davvero liberi come pensiamo di
essere?
Nella società attuale l'individuo è portato ad accettare la realtà come dato di fatto, senza riflettere
criticamente sulla possibilità di trasformare i vincoli in risorse.
Il pensiero di Erich Fromm
Erich Fromm (Francoforte sul Meno 1900 - Locarno 1980), considerato uno dei maggiori
rappresentanti della psicologia post-freudiana, ha determinato un passaggio molto significativo
nell'ambito della psicoanalisi spostando l'attenzione dalle pulsioni alle relazioni sociali. La sua
posizione propositiva è stata definita "Socialismo umanistico", utopia di un mondo umano che
sappia realizzare le istanze sociali e superare l'alienazione dell'uomo, le spinte a fuggire dalla
libertà, che sappia vivere l'amore per la vita.
Fromm insieme a Adorno, Horkheimer e Marcuse diventa uno dei maggiori esponenti della
Scuola di Francoforte, che nei primi anni del secondo dopoguerra si afferma nella cultura tedesca.
La nuova corrente di pensiero, fortemente influenzata dal marxismo, si ispira a diverse matrici
culturali: la dialettica e la fenomenologia hegeliana, il nichilismo di Nietzsche e di Heidegger, la
psicoanalisi di Freud. Il compito che la Scuola si prefigge è quello di svolgere ricerche collettive e
interdisciplinari, tenendo presenti i metodi della sociologia, della ricerca storica, dell'economia
politica e del marxismo. Oggetto di studio sono le società industriali e i modi di vivere che in esse
tendono a realizzarsi. L'indagine è volta ad analizzare l'autoritarismo, il conformismo, l'alienazione
che si presentano in forma più o meno latente nelle società industrializzate ed è condotta prendendo
in considerazione anche le manifestazioni culturali e in particolare le avanguardie artistiche del
Novecento.
La società va indagata come un tutto nelle relazioni che legano gli ambiti economici con quelli
culturali e psicologici. La teoria critica si prefigge di far emergere le contraddizioni fondamentali
della società capitalistica e punta ad uno sviluppo che conduca ad una società senza sfruttamento.
Il primo lavoro di rilievo della Scuola di Francoforte è il volume collettivo Studi sull'autorità e
la famiglia (1936): la famiglia, come anche la scuola o le istituzioni religiose, viene vista quale
tramite dell'autorità e dell'insediarsi di questa nella struttura psichica degli individui.
Alla base del pensiero frommiano vi è sicuramente l'ebraismo da cui attinge principalmente il
tema dell'umanesimo, ma i due grandi filoni di pensiero che andranno a costituire l'intera opera di
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Fromm sono la psicoanalisi e la sociologia di orientamento marxista. Si può affermare che Fromm
tenta di fondere questi due indirizzi teorici per costituire quella che può essere chiamata una
psicologia sociale analitica (Calvano, 2012).
Fromm e Freud
Pur restando fedele alla dimensione inconscia dell'esistenza dell'uomo formulata da Freud,
Fromm sviluppa le sue teorie in una costante revisione critica, definendosi semplicemente un
allievo di Freud che ha tentato di sviluppare il suo pensiero. Come afferma egli stesso, "[...] io mi
sento [...] come un allievo di Freud che cerchi di tradurre il suo linguaggio e di presentare le sue
scoperte più importanti in termini più chiari; liberandole dalla troppo limitata teoria della libido"
(Evans, 1966, p. 58).
Fromm, infatti, delinea un'importante critica al carattere sociale borghese e patriarcalepatricentrico-maschilista della teoria di Freud (soprattutto contenuta nel complesso di Edipo), ne
contesta la sua universalità, analizza il concetto di Super-Io dimostrandone il relativismo sociale
come introiezione dei divieti paterni e delle norme sociali, critica il ruolo conformista borghese
dell'analista freudiano classico.
In particolare, nega l'importanza del complesso di Edipo come fattore centrale per la formazione
dell'identità dell'essere umano, reinterpreta tale complesso non come attrazione e desiderio sessuale
del bambino verso la madre, ma come desiderio di fusione, di protezione, di sicurezza presente nel
grembo materno. Dunque, riducendo l'estensione della teoria della libido come base interpretativa
della psiche e del comportamento umano, Fromm ridefinisce la teoria del carattere formulata da
Freud (a partire dai Tre saggi sulla vita sessuale), delineando una fenomenologia del carattere inteso
come modo di relazione con il mondo e "orientamento spirituale" anche con valore etico: 1)
ricettivo (orale in Freud); 2) sfruttatore (orale-aggressivo in Freud); 3) accumulatore (anale in
Freud); 4) produttivo (genitale in Freud), e al massimo grado biofilo (amante della vita in ogni sua
forma): costui ama e fa fiorire la vita in ognuna delle sue manifestazioni ed espressioni (biologiche,
sensoriali, emotive, sentimentali, artistiche, mentali, sociali, ecc.), vede l'insieme di un fenomeno
più che le singole parti, ama la spontaneità e la creatività, vive la vita come un'eccitante avventura,
ama l'umanità, è in un continuo processo di arricchimento e di autoformazione della propria identità
e della propria umanità stando nel Mondo, dà vita e reca qualità ad ogni cosa con cui è in contatto.
Come quinto ed ultimo tipo caratteriale Fromm definisce il carattere mercantile, tipico prodotto
della società del XX secolo: questo tipo caratteriale vede ogni cosa e persona solo come oggetti di
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un'utile scambio, ogni cosa è in vendita (anche le persone, i valori e i sentimenti): sono persone per
lo più fredde ed indifferenti, inconsapevoli dei propri sentimenti, senza un visione del mondo che
vada oltre il proprio angusto interesse personale che è quello dello scambio per un migliore profitto
e guadagno materiale (e di ciò se ne vantano come del possedere il senso pratico), senza nucleo
centrale d'identità, adattabili a ogni situazione purché sia loro vantaggiosa, proteiformi, simili ad un
guscio vuoto.
Nella forma più maligna diventano ostili alla vita e ai valori umani validi in sé e per sé, attratti
inconsciamente verso l'istinto di morte (la necrofilia, nel lessico di Fromm) in quanto negano il
valore senza prezzo, assolutamente non in vendita, non sul mercato, della vita umana.
Collegato alla tipologia caratteriale dell'individuo produttivo e biofilo sta, secondo Fromm,
l'istinto di vita, l'amore della vita, di cui ogni essere umano è dotato fin dalla nascita: ma se tale
"essere-per-la vita", "biofilia" (l'esatto termine da lui coniato), impulso ad essere ciò che si è in
potenza come uomini, viene impedito e spento allora l'energia positiva dell'individuo si corrompe,
degenera e diventa distruttività, desiderio di morte di sé o degli altri, concordando in ciò con
l'intuizione di Freud della presenza dell'uomo di una pulsione di morte, Thanatos. Per Fromm, la
potenzialità primaria positiva dell'uomo è per la vita, il ben-essere, però il suo fallimento porta
all’insorgenza del male, dell'aggressività distruttiva, dell'attrazione per la morte (Fromm la chiama
necrofilia appunto).
In conclusione a differenza di Freud, secondo lo psicoanalista tedesco l'essere umano è da subito
un essere socializzato la cui psiche è fondata sull'interazione fra l'individuo e la società; non risulta
essere l'esito di una maturazione fondata sull'eredità pulsionale, come affermava Freud.
Fromm: la società e i suoi problemi
“L’esistenza umana è un’assurdità; sarebbe impossibile vivere appieno la contraddittorietà della vita
umana e al contempo preservare la salute psichica. “Salute psichica” significa “normalità”,
e il suo prezzo è la narcotizzazione della piena percezione della vita mediante la falsa coscienza,
l’operosità di routine, il dovere, la sofferenza, e così via”
(Fromm & Funk, 1990)
Fu durante la Prima Guerra Mondiale che Fromm adolescente comincia ad interrogarsi sui
problemi della società: "[...] verso i quindici, sedici anni comiciai a chiedermi in modo sempre più
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insistente “come è possibile che uomini che non si conoscono, che non si sono fatti nulla si
uccidano e perché? Per che cosa? Chi c'è dietro, chi ne approfitta? Cosa significa tutto ciò?”
Questa domanda è stata al centro dei miei pensieri nella mia giovinezza dai sedici anni in poi e da
allora è stata lo stimolo più importante di riflessione. Come è possibile che gli uomini come massa
possano agire tanto irrazionalmente e che si lascino manipolare tanto facilmente e cosa può fare
l'uomo per evitarlo?" (Calvano, 2012).
L'analisi più significativa compiuta da Fromm è quella relativa al tema della fuga dalla libertà
che caratterizza la civiltà moderna: oggetto di studio per Fromm, nel celebre saggio Fuga dalla
libertà (1941), sono le società industriali e i problemi di vita che, al loro interno, si producono. Egli
indaga sull'autoritarismo, sul conformismo e sulle varie alienazioni che, in forme latenti, si
presentano nelle società contemporanee. La storia dell'umanità è storia della libertà e ha inizio
quando l'uomo, diventato consapevole della propria esistenza, spezza il legame che lo lega alla
natura entro la quale era immerso, così come la storia individuale ha inizio con la separazione dalla
madre. L'esistenza umana comincia quando l'adattamento alla natura perde il suo carattere
coercitivo; quando il modo di agire non è più fissato da meccanismi ereditari. In altre parole, sin
dall'inizio l'esistenza umana e la libertà sono inseparabili. Lo sviluppo della storia ha determinato
una serie di conquiste quali il dominio sulla natura, la crescita della ragione, lo sviluppo della
solidarietà verso altri uomini, ma ha causato anche isolamento, insicurezza, solitudine (Fromm &
Funk, 1990, pp. 18-21).
Fromm afferma:
Per comprendere la dinamica del processo sociale dobbiamo comprendere la dinamica dei processi psicologici
operanti nell'individuo, proprio come per comprendere l'individuo dobbiamo considerarlo nel contesto della cultura che
lo plasma. La tesi di questo libro è che l'uomo moderno, liberato dalle costrizioni della società preindividualistica, che
al tempo stesso gli dava sicurezza e lo limitava, non ha raggiunto la libertà nel senso positivo di realizzazione del
proprio essere: cioè di espressione delle sue potenzialità intellettuali emotive e sensuali. Pur avendogli portato
indipendenza e razionalità, la libertà lo ha reso isolato e, pertanto, ansioso e impotente. Questo isolamento è
intollerabile e l'alternativa che gli si presenta è la seguente: o sfuggire dal peso di questa libertà verso nuove dipendenze
e sottomissioni, o progredire verso la piena realizzazione della libertà positiva che si fonda sull'unicità e
sull'individualità dell'uomo (Fromm, 1941, pp. 3-4).
Dalla fine del Medioevo in poi è cresciuta la libertà degli uomini rispetto alla natura e ai legami
della tradizione e delle consuetudini del passato. Quest’accresciuta libertà ha determinato, però, una
perdita di significato dell'esistenza: l'uomo si sente solo, anonimo, impotente. La domanda che
quindi nasce spontanea è: che cosa me ne faccio di questa libertà in un mondo sempre più difficile?
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In questo mondo caotico e complesso l'uomo si sente perso, sente la fatica del dover decidere, la
fatica della libertà, la fatica dell'esercizio della responsabilità. Una volta che i legami primari che
davano sicurezza all'individuo siano stati recisi, una volta che egli abbia cominciato a vedere il
mondo esterno come un'entità completamente separata, può scegliere, se vuole superare
l'intollerabile stato di impotenza e solitudine, tra due vie. Per una via può progredire alla «libertà
positiva»; può mettersi in rapporto col mondo spontaneamente con l'amore e il lavoro, con
l'espressione genuina delle sue facoltà emotive, sensuali e intellettuali; può così ritrovare di nuovo
l'unità con l'uomo, la natura e se stesso, senza rinunciare all'indipendenza e all'integrità della propria
personalità.
L'altra via che gli è aperta è di ritirarsi, di rinunciare alla sua libertà, e di cercare di superare la
sua solitudine eliminando il vuoto che si è formato tra il suo essere e il mondo. Questa seconda via
non lo ricongiunge mai al mondo nel modo in cui era legato ad esso prima di emergerne come
«individuo», perché la realtà della sua separazione è irreversibile; è una fuga da una situazione
intollerabile, che se si prolungasse renderebbe la vita impossibile (Ivi, pp. 122-123). Fromm, infatti,
afferma che uno degli aspetti della libertà è l'impotenza e l'insicurezza dell'individuo isolato nella
società moderna, che è diventato libero da tutti i legami che un tempo davano significato e sicurezza
alla vita. Siccome l'impotenza e il dubbio paralizzano la vita, l'uomo per vivere cerca di fuggire
dalla libertà, dalla libertà negativa. La fuga non gli ridà la sicurezza perduta, ma semplicemente lo
aiuta a dimenticare il proprio io come entità separata: "l'uomo crede di volere la libertà. In realtà ne
ha una grande paura. Perché? Perché la libertà lo obbliga a prendere delle decisioni, e le decisioni
comportano rischi. E poi quali sono i criteri sui quali può basare le sue decisioni? L'uomo è
abituato che gli si dica cosa deve pensare" (Fromm & Ferrari, 2000, p. 28).
Lo psicoanalista tedesco utilizza il concetto psicoanalitico di meccanismo di fuga (strategie che
l'essere umano mette in atto per liberarsi dal peso della libertà) per analizzare la distruttività,
l'autoritarismo e il conformismo. Attraverso la distruttività l'individuo cerca di afforntare
l'impotenza utilizzando la violenza, la forza, spesso anche razionalizzandola indirizzando verso
specifiche persone o gruppi sociali considerati meritevoli di tale violenza.
Nell'autoritarismo l'individuo si getta nelle braccia di qualcun altro molto potente che dia
garanzia e sicurezza: infatti, se il soggetto si sottomette ad una autorità, può sperare che essa gli
dica ciò che è giusto fare e ciò vale tanto più se c'è un'unica autorità - come è spesso il caso - che
decide per tutta la società ciò che è utile e ciò che è nocivo. Secondo l'autore questo meccanismo è
biunivoco, mette cioè in gioco una dinamica di sottomissione e di dominio che caratterizza il
carattere sadomasochista (la sofferenza che viene inflitta non è il fine ultimo ma un mezzo, sia il
sadico che il masochista rispondono al bisogno di legarsi a qualcuno). Pertanto lo sviluppo dei
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regimi totalitari del fascismo e del nazismo per esempio, non ha spiegazione solo a carattere
economico e sociale ma anche psicologico poiché ha a che fare con questa tendenza dell’uomo
moderno a fuggire dalla libertà che diventa dolorosa e a rinunciare alla responsabilità e
all’autonomia delle scelte, rendendolo disponibile a sottomettersi a un regime politico autoritario. A
questo proposito Fromm opera una distinzione molto chiara tra autorità e autoritarismo, indicati con
i termini di autorità razionale e autorità inibitoria. L'autorità non è una qualità ma si riferisce a un
rapporto interpersonale, in cui una persona considera un'altra superiore a se stessa.
Nel caso dell'autorità razionale, assistiamo a un processo in cui un rapporto si basa su una
differenza gerarchica: la parte inferiore riconosce all'altra una superiorità effettiva che non opera
però nei suoi confronti in termini di sfruttamento. E' un rapporto in cui la parte superiore offre
all'altra una serie di strumenti che le consentono di avvicinarsi al suo livello e in questo senso si
tratta di un rapporto di scambio reciproco su una base affettiva positiva. Si parla invece di autorità
inibitoria quando il rapporto di sudditanza viene mantenuto e consolidato da chi ha potere.
Infine, attraverso il conformismo l'individuo fugge dal proprio isolamento annullando se stesso,
consegnandosi totalmente a quello che la società si aspetta dal singolo. Il senso di identità di molti
individui si radica secondo Fromm nel conformarsi ai luoghi comuni accettati dalla società: i singoli
definiscono se stessi sulla base di ciò che gli altri pensano di loro e lasciano che sia la loro funzione
sociale a modellarne la coscienza. Per quanti riconoscano come legittimo una tale sistema di
giudizio e valorazione di se stessi, la paura dell’isolamento comporta necessariamente la paura di
perdere la propria identità poiché in tale situazione essa è percepita esclusivamente in funzione
degli altri.
Anche il conformismo dilagante nella società moderna, l'assunzione acritica e automatica dei
modelli di comportamento proposti dalla società comportano l'annullamento della personalità
dell'individuo. In sostanza, si tratta di un meccanismo psicologico di difesa messo in atto per
fuggire dalla paura e dalla solitudine, per fuggire dalla libertà. L'uomo cessa di essere un atomo
isolato attraverso la libertà positiva con la realizzazione spontanea e completa della sua personalità
e dei rapporti d'amore che lo legano agli altri uomini e al lavoro come creatività. Solo la libertà
positiva garantisce la possibilità di un’autentica democrazia. L'analisi della società contemporanea
porta all'individuazione del suo carattere fondamentale e cioè dell’alienazione come effetto del
capitalismo sulla personalità umana. L'alienazione caratterizza i rapporti dell'uomo con il lavoro,
con gli altri uomini, con le cose, con se stesso.
Psicoanalisi della società contemporanea (1955) è scritto da Fromm come continuazione di
Fuga dalla libertà in cui analizzava la tendenza dell'uomo moderno a rifiutare la libertà e a trovare
rifugio nella sottomissione ai movimenti totalitari. Viene esaminata la situazione dell'uomo
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moderno in una società la cui principale preoccupazione è la produzione economica più che
l'aumento della produttività creativa dell'uomo: una società dove l'uomo ha perduto il predominio.
L'obiettivo dell'autore è partire da una definizione di quella che egli chiama patologia della
normalità (della società occidentale contemporanea), per tentare alternative che eliminino
l'alienazione dell'uomo. Critica l'industrialismo, sia nella forma libero-concorrenziale che in quella
burocratico-autoritaria, degli stati ad economia pianificata. La società industriale contemporanea si
limita a soddisfare i bisogni consumistici, anch'essi comunque basati su aspirazioni artificialmente
provocate, un atto di fantasia alienato dal nostro concreto e reale Io. L'uomo moderno è estraniato
dal mondo che egli stesso ha creato, alienato dagli altri uomini, dalle cose che usa e consuma, dal
suo governo, da se stesso. Egli è ora una "personalità fittizia". Se si lascerà che le tendenze attuali si
sviluppino senza controllo, ne risulterà una società malata, costituita da uomini alienati.
Che la natura umana e la società possano avere esigenze tra loro inconciliabili e di conseguenza
un’intera società possa essere malata, è una tesi che fu presentata molto chiaramente da Freud,
particolarmente in Il disagio della civiltà (1930). Egli parte dalla premessa di una natura comune a
tutta la razza umana al di sopra di tutte le culture e di tutte le epoche, e di certi bisogni ed
aspirazioni definibili, inerenti a questa natura. Freud è convinto che cultura e civiltà si sviluppino in
un sempre crescente contrasto con i bisogni dell’uomo, e così giunge al concetto di “nevrosi
sociale”.
In particolare Freud afferma che la civiltà è un male inevitabile: è un male, perchè reprime e
devia gli impulsi libidici e, proprio per questo motivo, l'intera società può essere considerata malata,
anche se di una malattia generica: seppur non vi è sofferenza, regna ciononostante il disagio per il
fatto che le pulsioni vengono repressivamente soffocate ma si continua lo stesso a sentire il bisogno
della civiltà. Quest'idea di una società a disagio per un eccesso di apollineo rievoca fortemente il
pensiero di Nietzsche, anche se per lui questo disagio è eliminabile nel momento in cui si giunge al
nichilismo attivo; per Freud, invece, non ci si può in nessun caso liberare dal SuperIo e ne nasce una
prospettiva di accettazione di un male necessario. Nonostante queste considerazioni, Freud non è
così pessimista come possa sembrare, in quanto, sebbene rifiuti la possibilità ammessa da Nietzsche
di schizzare via dalla società, non rifiuta quella secondo cui è possibile migliorare la società ed è per
questo che scorge nel movimento socialista non un modo per realizzare il paradiso in terra, ma per
ridurre il disagio che opprime la nostra società; ancora una volta, Freud, nella convinzione che la
società possa guarire un poco alla volta attraverso l'assunzione di medicine adeguate, rivela di
essere forse più medico che filosofo1.
1 Il tema principale è l’antagonismo tra le esigenze pulsionali dell’individuo e le restrizioni imposte dall’evoluzione
che eleva la specie umana ad un grado di civiltà. Lo scopo di ogni individuo è il perseguimento della felicità. Il
principio di piacere, "Eros", è proprio di ogni uomo e inevitabilmente urta col principio di realtà, proprio di ogni civiltà,
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Il rapporto frommiano tra l'uomo e la società differisce da quello di Freud per il quale l'uomo è
fondamentalmente antisociale e deve essere addomesticato dalla società. Freud non ha espresso
nella sua psicoanalisi la vera natura umana, ma solo quella di una società capitalistica, egoista e
maschilista riducendo i rapporti tra uomo e mondo solo in termini di soddisfacimento libidico.
L'inconscio sociale
“Molti psicologi e psichiatri rifiutano l’idea
che la società nel suo insieme potrebbe essere malata.
Assumono che il problema della salute mentale in una società
è solo quello degli individui ‘inadeguati’
e non quello di una possibile inadeguatezza della cultura stessa”
(Erich Fromm, 1981)
Fromm parla di un inconscio sociale inteso come il taglio che la società, con i suoi schemi
ideologici, etici, culturali, opera sull'inconscio umanistico universale, tipico e caratterizzante la
psiche della specie umana.
Tale inconscio è comune a tutti gli individui umani, in modo diverso ma potenzialmente eguale:
esso racchiude le potenzialità buone come quelle negative espresse dall'umanità dal tempo della sua
comparsa sul pianeta Terra fino all'odierna società capitalista. D'altro lato questo identico inconscio
universale è tale perché del tutto comune è la condizione dell'esistenza dell'uomo in quanto tale (e
per questo Fromm parla di simboli universali presenti nell'inconscio sia umanistico sia individuale e
nei suoi prodotti, soprattutto i sogni). Questo rende il genere umano un'unità e spiega la
facendo diventare il principio di piacere completamente irrealizzabile, poiché la società impone delle limitazioni, delle
leggi, delle regole. Il principio di realtà è la necessità di reprimere gli istinti distruttivi attraverso norme, divieti,
permessi, metodi educativi. Il Super-Io è espressione di questi divieti. Il principio di realtà mira ad inibire e a sublimare
i moti pulsionali, la meta della pulsione è scambiata con un’altra, che sia accettata dal mondo esterno e che non sia
censurata. Il conflitto tra il principio di realtà e quello di piacere può sfociare nelle nevrosi.
Il termine civiltà, secondo Freud, ha un’accezione positiva, lo studioso dice che: «è la somma delle realizzazioni e
degli ordinamenti che differenziano la nostra vita da quella dei nostri progenitori animali e che servono a due scopi: a
proteggere l’umanità contro la natura e a regolare le relazioni degli uomini tra di loro». Il principio di realtà, come già
detto, è proprio di ogni civiltà e risponde alla necessità dell’autoconservazione individuale, mentre il principio di
piacere è proprio di ogni individuo e ha come fondamento "l’amore" per la conservazione della specie. Nella società
esiste un Super-Io, come in ogni singolo individuo e contiene tutte le limitazioni, le censure, le leggi che regolano la
vita in società. Serve per frenare la pulsione di morte, "Thanatos".
Esiste una tensione tra Super-Io ed Io: il primo pone i limiti, che impediscono al Super-Io di soddisfare i propri
desideri, la tensione diviene senso di colpa, che è l’espressione della contrapposizione tra Eros e Thanatos ed è alla base
della civiltà e si manifesta nella società come malessere, angoscia e disagio.
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comprensibilità delle diverse culture, anche le più lontane, della loro arte, dei loro miti, dei loro
drammi (Fromm, 1962, pp. 138-152).
Fromm afferma:
La personalità sociale che fa agire e pensare le persone nel modo più opportuno dal punto di vista di un corretto
funzionamento della società è solo uno dei nessi fra struttura sociale e idee. L'altro nesso sta nel fatto che ogni società
determina quali pensieri e sentimenti possono giungere a livello di coscienza e quali debbono restare inconsci. Come
esiste una personalità sociale esiste anche un «inconscio sociale». Per inconscio sociale intendo quelle sfere di
repressione comuni alla maggior parte dei componenti di una data società; questi elementi, solitamente repressi, sono
quei contenuti dei quali una società non può consentire la consapevolezza ai suoi componenti se essa stessa, con le
conrtaddizioni che le sono specifiche, deve funzionare bene. L'inconscio individuale, del quale tratta Freud, si riferisce a
quei contenuti che l'individuo reprime a causa di circostanze individuali riguardanti la sua situazione personale. Freud
tratta in una certa misura l'inconscio sociale quando parla della repressione degli impulsi incestuosi come dato
caratteristico di ogni civiltà, ma nei suoi scritti clinici egli tratta principalmente dell'inconscio individuale. Gli
psicoanalisti hanno prestato ben poca attenzione al problema dell'inconscio sociale (Ivi, pp. 104-105).
Fromm distingue il carattere sociale (comune a più individui in una certa cultura) dal carattere
individuale, che comporta differenze fra individui nella stessa cultura: la condizione
socioeconomica che caratterizza una società è per Fromm la base formativa primaria che per poter
agire ha bisogno di agenzie di socializzazione, come la famiglia che diventa lo strumento con cui la
società incide i propri desideri e i propri orientamenti sulla psiche dell'individuo (Fromm, 1947, p.
53).
L'assetto dell'individuo, quindi, è determinato dalla condizione socioeconomica, così come il suo
inconscio è determinato socialmente e quando il singolo punta a realizzare se stesso, attraverso i
suoi bisogni psicologici e le sue spinte energetiche, di fatto non fa altro che realizzare i desideri e le
aspirazioni della società in cui è inserito. Diventa, quindi, centrale osservare non più il singolo
individuo, la singola psiche isolata, ma le forme di interazione, i modelli socialmente rilevanti che
una società produce. Le condizioni socioeconomiche producono un carattere sociale che va a
organizzare, determinare, incidere sulle biografie dei singoli, quindi è la condizione economica che
mette al mondo la psiche degli individui (Calvano, 2012).
Per Fromm (Fromm & Funk) l’uomo è caratterizzato dalla facoltà della coscienza di sé e del
mondo che lo circonda. L'esistenza è una scissione dell'uomo, una frattura e un paradosso che dura
fino alla morte e che egli deve compensare, per quanto possibile, sviluppando gli autentici poteri e
le vere facoltà umane che sono nello stesso tempo valori: la ragione, l'amore, la libertà, l'identità di
sé. Nell'identità di sé, quando l'uomo afferma cioè l'essere del proprio Io unico ed irripetibile,
compare, secondo Fromm, la zona grigia dell'inconscio inteso come scarto, differenza fra ciò che
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l'uomo pensa di essere (che è appunto conscio in quanto dato dalla coscienza) e ciò che è realmente
(che invece è inconscio, dissociato dalla coscienza).
L'inconscio individuale allora è la differenza fra queste due dimensioni compresenti sempre
nell'uomo e reversibilmente collegate seppure in un rapporto di dis-senso (Fromm & Funk, 1990,
pp. 85-86).
Fromm propone un'ipotesi di società "mentalmente sana" in cui l'uomo sia il centro dell'interesse
delle attività economiche e produttive, evidenziando così l'alternativa tra il sistema capitalistico e la
dittatura totalitaria. Il progresso, osserva Erich Fromm, richiede mutamenti simultanei nelle sfere
economica, politico-sociale e culturale. I comportamenti collettivi, nelle società occidentali, in
campo economico, nel tempo libero, ecc., fanno ritenere che vi sia una patologia della normalità.
L'umanesimo normativo intende individuare criteri di giudizio universali in base ai quali valutare
il grado di salute di una società; esiste una deficienza socialmente strutturata nelle società
occidentali, in cui i mass media svolgono la funzione di narcotico.
La capacità di adattamento psichico dell'uomo è molto ampia, ma se le condizioni ne
impediscono lo sviluppo, l'uomo reagirà in molte forme (apatia, odio, rivoluzione). La distruttività
porta alla sofferenza, la creatività porta alla felicità. La società deve adattarsi ai bisogni dell'uomo e
non viceversa.
Una visione moderna
“La crescente crisi socioeconomica e umana ha posto in evidenza
la necessità di comprendere innanzitutto gli aspetti inconsci
della motivazione umana e il modo in cui essa interagisce con
le forze socioeconomiche e politiche, se si vogliono comprendere
fenomeni quali guerra, aggressività, alienazione,
apatia e coazione al consumo”
(Fromm & Funk, 1990)
Il capitalismo del XX secolo ha portato ad un netto miglioramento delle condizioni dei
lavoratori, ma contestualmente alla quantificazione ed astrattizzazione sia del lavoro che dei
consumi, ad un crescente livello di anonimato e al processo di progressiva alienazione nella
produzione e nei consumi; tutto ciò determina comportamenti "consumistici" nelle compere, nel
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tempo libero, nell'educazione, nei rapporti con gli altri... tutto diventa acquistabile e fruibile da tutti,
e tutti hanno la necessità di rinnovare frettolosamente i propri acquisti per dimostrare il proprio
status, diffondendo l'illusione di vivere finalmente nella società del benessere che tanti attendevano
e profetizzavano, che invece si rivela una società dell'Avere e non dell'Essere.
L'uomo alienato diventa estraneo a se stesso, non si riconosce come centro del suo mondo e
come protagonista delle sue scelte, ma i suoi atti diventano i suoi padroni e a questi si sottomette.
Nella società dominata dal denaro e dal consumo, l'uomo concepisce se stesso come una cosa in
vendita.
Nella società capitalista il consumo diventa fine a se stesso, fa nascere nuovi bisogni e costringe
all'acquisto di nuove cose, si perde di vista l'uso delle cose e l'uomo è schiavo del possesso. Si può
uscire dall'alienazione solo costituendo un tipo di società organizzata secondo il "socialismo
comunitario" con la partecipazione di tutti i lavoratori alla gestione del mondo del lavoro.
In questo tipo di società, in cui il sentimento egoistico viene esaltato quale impulso istintivo e
naturale dell'uomo, si sviluppa la definitiva frattura tra l'esistenza pubblica, rappresentata dallo
Stato (che viene visto come l'autorità cui è demandato il compito di rappresentare l’illusoria
coesione sociale), e quella privata, determinata dall'agire egoistico: in questo modo la proiezione di
tutti i sentimenti sociali nello Stato comporta un generale atteggiamento idolatrico da parte delle
masse, le quali vi scorgono la personificazione dei propri sentimenti che l'uomo adora come potenze
alienate da se stesso. Il metodo produttivo (industriale, alienato, di massa) necessita l'adattamento
del lavoratore alla macchina, un disciplinato comportamento collettivo, dei gusti il più possibile
comuni, l'obbedienza all'autorità anonima senza l'uso della forza. Il lavoro, che con il
protestantesimo era divenuto un'ossessione ed un dovere, nel XX secolo muta in routine, impiego
alienante, tanto spiacevole che pure è preferibile rispetto alla circostante noia del superconsumo, e
diviene per questo il rifugio dell'uomo svuotato della propria volontà.
Da un punto di vista propriamente politico, in questo tipo di democrazia anche l'espressione delle
preferenze nei sistemi elettorali si presenta alienata: in effetti ciascun individuo, non avendo volontà
propria in generale, lo dimostrerà in particolare nei momenti in cui viene chiamato ad esprimere una
preferenza. Secondo Fromm senza la responsabilità immediata ognuno perde l'interesse negli affari
politici (Fromm & Funk, 1990, p. 77).
Nella società alienata del capitalismo non sono, però, i bisogni e le potenzialità umane ad essere
realizzati, ma i bisogni socialmente indotti dal mercato.
A questo punto s’innesta il dinamismo fondamentale presente ed innato nell'uomo e nella sua
essenza per il quale l'uomo ha bisogno di esprimere le sue potenzialità specificamente umane (che
sono valori innati, naturali e quindi immanenti dentro di lui, perciò oggettivi ed universali) in
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relazione alla possibilità esistenziale e alle occasioni che il Mondo esterno gli offre e gli mette a
disposizione. L'uomo cioè deve poter realizzare se stesso trovando conferma positiva di sé nel
mondo: i suoi poteri, le sue qualità autenticamente umane (l'amore, il pensiero, i sentimenti, la
libertà, l'identità di sé). Se ciò non accade, per motivi interni inconsci o perché il mondo, la società
gli bloccano la manifestazione e l’attuazione concreta di tali possibilità esistenziali, ecco l'insorgere
della nevrosi, del disagio psichico, mentale, esistenziale il cui sintomo più frequente è l'ansia,
oppure la varietà estrema delle psicosi dove la fantasia delirante irreale compensa l'insufficienza
della realtà, nonché la depressione (come sentimento e volontà di non essere più o come senso
d’impotenza totale del soggetto umano di fronte al mondo e ai problemi dell'esistenza che appunto
lo schiacciano, lo de-primono, lo portano giù verso il non-essere più, cioè verso l'autodistruzione).
La nevrosi (e al limite la patologia mentale nelle varie forme ed intensità in cui compare e si
manifesta) è insomma il blocco, la paralisi dell'espressione delle facoltà tipicamente e positivamente
umane possedute da ogni essere umano e la deformazione della propria vera identità, dell' "io sono
ciò" (nonché della carenza di libertà, amore, di pensiero adeguato cioè di verità, di sviluppo della
propria vera identità psicologica ed esistenziale, di relazione positiva con il mondo, quindi in
generale dell'insufficiente grado e presenza di questi valori presenti nella psiche e nella vita
dell'individuo): l'ansia2 è il segnale indicatore del grado di stallo, di blocco, d’impedimento allo
sviluppo e all'espressione di sé nel mondo, nel dispiegamento della natura umana e dei suoi valori
intrinseci esistenziali nella vita, della saldezza, integrità ed efficacia della propria identità personale
esistenziale (Fromm, 1976, pp. 168-169).
Ogni accrescimento di umanità, di facoltà umane intrinseche, innate, naturali, produce piacere,
gioia e dà felicità: ogni perdita di umanità, di essenza umana nei suoi valori intrinseci e naturali in
essa contenuti, produce disagio e sofferenza, al massimo grado la malattia mentale. Il disagio
psichico ed esistenziale è dunque anche, per Fromm, una carenza o uno sviluppo insufficiente di
valori umani esistenziali, appartenenti all'essenza dell'uomo, e dunque non solo un prodotto di
complessi psicologici effetto di traumi subiti o di situazioni psicopatologiche vissute: la riprova è
che lo sviluppo di tali valori umanistici riduce la sofferenza ed il disagio, la cosiddetta "patologia",
favorendo il ritorno della salute mentale.
2 L'ansia è una spia del grado di distanza e di separazione dalla relazione positiva con il mondo e anche del grado di
negazione delle possibilità esistenziali umane innate e naturali, la risposta psicosomatica dell'individuo a quelle
condizioni e a quegli ostacoli che mettono in pericolo il nucleo dell' “Io sono io”, la sua forza propulsiva ed espansiva
ad essere le qualità potenziali interiori della nostra natura ed essenza umana, impedendone la realizzazione di sé nel
mondo: l'ansia è insomma, come Fromm afferma in un piccolo ma fondamentale saggio inedito in Italia (Das Gefhul
des Ohnmacht, pubblicato su Imago nel 1937), un indicatore di im-potenza, di non poter essere ciò che si è nella propria
identità personale e nella specifica natura umana che richiede, esige di essere realizzata effettivamente, superando i
blocchi mentali e psicologici e i conflitti etici valoriali che la ostruiscono. Al contrario, il compimento di tale
dinamismo di espressione di sé e di conferma positiva di sé nel mondo, implica la salute mentale e produce la felicità
accompagnata dall'esperienza del piacere e quindi dal sentimento della gioia.
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Insomma, senza i valori umani essenziali, sé reali e validi in sé e per sé, l'uomo degenera, soffre
e cade preda della malattia mentale: perciò tali valori umani positivi hanno un forte impatto e
significato psicologico, divenendo essi stessi vettori di forze psichiche e comportamentali.
La soluzione che l'autore propone quale medicina per la società nel suo complesso, e di
conseguenza per gli individui, è ciò che egli chiama "socialismo umanistico comunitario", ove si
lavora e dove ognuno partecipa attivamente e continuamente alla presa di decisioni, si tenta di
realizzare l'unico orientamento realmente e significativamente sociale, cioè quello della solidarietà
con l'intera umanità. Ma le Comunità di Lavoro certamente non bastano: è necessaria una
trasformazione, oltre che di natura industriale, anche di tipo politico, con l'istituzione della
democrazia diretta pure e soprattutto in ambito civile; ed una trasformazione di carattere culturale: è
opportuna una modifica dei sistemi di educazione, eliminando la separazione tra conoscenza pratica
e sapere teorico, tra manipolazione dell'esistente e speculazione scientifica.
In Psicanalisi e religione (1950), Fromm discute il bisogno dell'uomo di una struttura di
orientamento con cui egli può superare la sua alienazione e stabilire relazioni con gli altri. Questo
bisogno può essere soddisfatto da un’ideologia, da una religione, o persino da una nevrosi mentale.
Fromm confronta questo tipo di psicoanalisi che chiama cura dell'anima con le religioni che
accentuano il potere e la forza dell'individuo: “la cura dell’anima è quella di mettere un uomo in
contatto col suo subcosciente aiutandolo così ad essere libero di stabilire relazioni d'amore [...] Le
culture e le religioni sono tentativi di dare risposte al problema esistenziale dell'uomo, che è il solo
animale cosciente di esser creato e di essere creatore cosciente di sé come entità separata" (Fromm
& Funk, 1990, p. 41).
Sottomissione o dominio (masochismo o sadismo) sono spesso le soluzioni trovate
dall'individuo, sebbene portino alla dipendenza da chi o cosa è sottomesso o domina, e portano
perciò alla sconfitta.
Già nel 1927, Freud aveva pubblicato L'avvenire di un'illusione, in cui affrontava la problematica
della religione. Egli scorgeva nella religione un insieme di rappresentazioni sorte dal bisogno di
rendere sopportabile l'infelicità e la miseria umana. Essa svolgeva quindi una mansione positiva per
alcuni individui, soprattutto l'aveva svolta in epoche passate, ma comportava costi assai elevati, in
quanto finiva per essere dannosa per la mente. E così Freud poteva dire che "la religione é un
narcotico con cui l'uomo controlla la sua angoscia, ma ottunde la sua mente […] Se l'uomo
distoglierà dall'aldilà le sue speranze e concentrerà sulla vita terrena tutte le forze rese così
disponibili, riuscirà probabilmente a rendere la vita sopportabile per tutti e la civiltà non più
oppressiva per alcuni" (Freud, 1927, p. 372).
L'orientamento produttivo per Fromm si esprime nell'amore (sfera sentimentale), nel lavoro
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produttivo, nell'arte e nell'artigianato (sfera dell'azione), nella comprensione del mondo attraverso la
ragione (sfera del pensiero).
In una celebre intervista fatta a Fromm pochi giorni prima di morire gli venne chiesto: "Che cosa
significa essere?" ed egli risponde "Esser vivo, interessato, vedere le cose, vedere l'uomo, ascoltare
l'uomo, immedesimarsi nel prossimo, sentire se stessi, fare della vita qualcosa di bello e non noioso
[...] Credo che la cosa più importante sia il coraggio di essere se stessi, il coraggio di dire che per
l'uomo non c'è più nulla di importante che l'uomo stesso e che lo scopo più grande della sua azione
è la sua stessa sopravvivenza non solo biologica ma spirituale perché ciò non può essere diviso. Se
l'uomo non ha più speranza, allora non ha più possibilità di vivere [...] si tratta di credere e di
sperare. Fintanto che c'è vita credo e spero che le potenzialità presenti nell'uomo si
manifesteranno, ma ciò dipende in larga misura dal credere, non in modo religioso in senso stretto,
dipende da quanto ognuno sente in sé questa speranza, da come la vive, da come la comunica agli
altri, da come può viverla con gli altri" (Fromm & Ferrari, 2000).
Consumo, dunque sono
"Il pericolo del passato era che gli uomini fossero schiavi.
Il pericolo del futuro è che diventino robot"
(Erich Fromm, 1955)
Come abbiamo detto l’uomo moderno vive in una società la cui principale preoccupazione è la
produzione economica, una società dominata dal denaro e dal consumo dove l’uomo ha perduto il
predominio.
L'individuo moderno è estraniato dal mondo che egli stesso ha creato, alienato dagli altri uomini,
dalle cose che usa e consuma, dal suo governo, da se stesso. "Tutto è diventato business, ogni cosa
deve funzionare ed essere utilizzabile. Non esiste un sentimento di identità, esiste un vuoto
interiore. Non si hanno convinzioni, né scopi autentici. Il carattere mercantile è l'essere umano
completamente alienato, privo di qualunque altro interesse che non sia quello di manipolare e
funzionare. È proprio questo il tipo di umano conforme ai bisogni sociali. Si può dire che la
maggior parte degli uomini diventano come la società desidera che essi siano per avere successo.
La società fabbrica tipi umani così come fabbrica tipi di scarpe o di vestiti o di automobili: merci
di cui esiste una domanda. E già da bambino l'uomo impara quale sia il tipo più richiesto" (Fromm
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& Funk, 1993, p. 25).
La società punta a far si che l'essere umano sia un consumatore, pretende che il singolo viva in
una sorta di città anonime, è una società che lavora sempre più per avere un assetto socioeconomico
dove l'essere umano è tagliato dai legami con gli altri, una folla di solitari. La soluzione che la
maggioranza delle persone trova nella società moderna è che l'individuo cessa di essere se stesso,
adotta in tutto e per tutto il tipo di personalità che gli viene offerto dai modelli culturali e perciò
diventa esattamente come tutti gli altri, come questi pretendono che egli sia. Il divario tra «me» e il
mondo scompare, e con esso la paura cosciente della solitudine e dell'impotenza. Questo
meccanismo può essere paragonato alla colorazione protettiva che assumono certi animali.
Somigliano talmente al loro ambiente che li si può appena distinguere.
La persona che rinuncia al suo io individuale "diventa un automa, identico a milioni di altri
automi che la circondano, non deve più sentirsi sola e ansiosa. Ma il prezzo che paga è alto; è la
perdita del suo io" (Fromm, 1941, p. 160).
È importante, quindi, rendersi conto di quanto la nostra civiltà favorisca questa tendenza al
conformismo:
Nel corso della storia moderna, l'autorità della Chiesa è stata sostituita da quella dello stato, quella dello stato
dall'autorità della coscienza, e nel nostro tempo quest'ultima è stata sostituita dall'autorità anonima del senso comune e
dell'opinione pubblica quali strumenti di conformismo [...] Siamo diventati automi che vivono nell'illusione di essere
individui autonomi [...] Dal conformarsi alle aspettative degli altri, dal non essere diversi, questi dubbi sulla propria
identità vengono messi a tacere; e così si conquista una certa sicurezza. Ma il prezzo che si paga è alto. Rinunciare alla
spontaneità e all'individualità significa soffocare la vita (Ivi, pp. 218-220).
Secondo il sociologo Zygmunt Bauman oggi viviamo al di sopra dei nostri mezzi in quanto
l'economia va riconsiderata in relazione all'aumento della libertà del consumo, della libertà di scelta
tra le tante cose che abbiamo a disposizione. Cosa significa vivere una vita dignitosa, una vita
prospera, cosa significa essere felici? Sono tutte domande che esercitano una forte pressione sulla
nostra capacità di sostenere il nostro modo di vivere.
I mercati economici attuali sono specializzati nel riorientare i bisogni umani per spingere le
persone ad andare a comprare merci: i veri bisogni sono quelli di prendersi cura dei nostri cari, ma
ci sentiamo in colpa perché non dedichiamo sufficiente tempo ad ascoltarli. Adesso, anche se siamo
fisicamente vicini alle persone, ognuno è collegato costantemente agli altri via etere con i cellulari, i
computer e il mercato del lavoro aiuta la persona ad alleviare i sensi di colpa nei confronti del
prossimo. Lo shopping diventa un atto morale: non ho potuto stare con te, ho dovuto lavorare molto
per guadagnare più soldi e adesso ti ripago facendoti un regalo e più il regalo è costoso più ti voglio
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bene.
Volenti o nolenti si perdono le nostre abilità sociali primitive, ci si dimentica che cosa vuol dire
amare senza lo shopping. Se ci si vuole prendere cura degli altri, abbiamo bisogno delle risorse che
ci consentono di esprimere il nostro affetto, il nostro amore, la cura e questo passa per i negozi.
In altre parole consumiamo ogni giorno senza pensare, senza accorgerci che il consumo sta
consumando noi e la sostanza del nostro desiderio: "ognuno di noi ogni giorno consuma: a volte lo
facciamo con allegria - quando organizziamo una festa, celebriamo un evento importanteo ci
gratifichiamo per essere riusciti a fare qualcosa di particolarmente ragguardevole - ma il più delle
volte "di fatto", potremmo dire di routine, senza pianificarlo granché o starci a pensare su"
(Bauman, 2007, p. 33).
L’economia di mercato prospera perché il consumismo è entrato nei nostri desideri: gli oggetti
non servono più soltanto a soddisfare un bisogno, gli oggetti sono uno status symbol, promettono
una felicità riservata ai pochi che si piazzeranno primi nella corsa verso l’ultimo i-phone. Ma la
corsa non finirà mai. L’oggetto che prima faceva tendenza presto diventerà un marchio di disonore,
di inferiorità, un oggetto fuori moda destinato al bidone dell’immondizia. Il consumatore non
smetterà mai di desiderare di essere qualcun altro. I mercati alimentano l’insoddisfazione nei
confronti dei prodotti usati dai consumatori per soddisfare i propri bisogni, e coltivano un perenne
scontento verso l’identità acquisita:
La società dei consumatori cresce rigogliosa finché riesce a rendere perpetua la non soddisfazione dei suoi membri,
e dunque la loro infelicità, per usare il suo stesso termine. Il metodo esplicito per conseguire tale effetto consiste nel
denigrare e svalutare i prodotti di consumo poco dopo averli portati alla ribalta nell'universo dei desideri dei
consumatori. Ma un altro modo per fare la stessa cosa, ancor più efficace, rimane in penombra, e solo di rado qualche
giornalista investigativo particolarmente sagace vi getta luce: il metodo consiste nel soddisfare ogni
bisogno/desiderio/carenza in modo tale che essi non possano che dar luogo a nuovi bisogni/desideri/carenze. Quello che
inizia come sforzo per soddisfare un bisogno deve diventare alla fine una coazione o un'assuefazione. Ed è ciò che
avviene, finché l'impulso a cercare nelle vetrine dei negozi, e solo lì, le soluzioni ai problemi e il sollievo ai dolori e alle
ansie rimane un aspetto del comportamento non solo consentito, ma vivamente incoraggiato, finendo per condensarsi in
un'abitudine o in una strategia che appaiono prive di alternativa (Ivi, pp. 59-60).
Ma davvero la felicità è nell’imperativo compra-e-getta? Possiamo immaginare un’alternativa a
questo modo dissennato di consumare e inquinare? Il grande equivoco è che la promessa di felicità
fatta dal consumismo può continuare a sedurre proprio perché allude a un godimento impossibile, a
un paradiso evocato di acquisto in acquisto, ma mai realizzabile. Il cliente non sarà mai
completamente soddisfatto.
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La società dei consumi riesce a rendere permanente la non-soddisfazione svalutando i prodotti di
consumo poco dopo averli lanciati e quindi innescando una coazione alla dipendenza, in modo tale
che la soddisfazione dei desideri e bisogni non può fare altro che dare vita a nuovi desideri e bisogni
da soddisfare (Bauman, 2005, pp. 84-85). Come afferma lo psicoterapeuta Andy Fisher "abbiamo
bisogno che le cose si consumino, si brucino, si logorino, si sostituiscano e si scartino a ritmo
crescente" (Fisher, 2003, p. 167).
Fromm (1989) la chiama Grande Impostura: prodotti costruiti in modo tale da diventare subito
obsoleti, merci o articoli eccessivamente costosi che in realtà sono inutili, il cui valore è suggerito
dalla rèclame, dal nome e dalle dimensioni della ditta produttrice. Questo fenomeno è l'ostacolo
forse maggiore contro cui ci si scontra nell'apprendimento dell'arte di vivere.
Anche il ruolo del consumatore negli ultimi decenni ha subito un drastico mutamento. Il cliente
che si recava nel negozio di un commerciante indipendente era sicuro di ricevere un'attenzione
personale: il suo acquisto era importante per il proprietario del negozio; veniva ricevuto come
qualcuno che contava; l'atto stesso del comprare gli dava un sentimento di importanza e di dignità.
Il rapporto tra il cliente di oggi e il grande magazzino è molto diverso. Egli è colpito dalla
grandezza dell'edificio, dal numero dei dipendenti, dalla profusione delle merci esposte, e tutto
questo, per contrasto, lo fa sentire piccolo e privo d'importanza. Come individuo non ha alcuna
importanza per il grande magazzino, non c'è nessuno che si compiaccia della sua venuta, nessuno
che si preoccupi particolarmente dei suoi desideri. L'atto di comprare è diventato simile a quello di
recarsi all'ufficio postale per acquistare francobolli.
Questa situazione è stata ancor più accentuata dai metodi della pubblicità moderna. I discorsi che
il commerciante di un tempo faceva per vendere le sue merci erano sostanzialmente razionali: "egli
conosceva la sua mercanzia, conosceva i bisogni dei clienti e sulla base di questa conoscenza
cercava di vendere [...] Una parte immensa della pubblicità moderna è diversa. Non fa appello alla
ragione, ma all'emozione; come qualsiasi altro tipo di suggestione ipnotica, cerca di colpire i suoi
oggetti emotivamente e poi di renderli sottomessi intellettualmente. Questo tipo di pubblicità
colpisce il cliente con tutti i mezzi" (Fromm, 1941, pp. 111-112).
L'uomo moderno ha molte cose e usa innumerevoli oggetti ma egli è molto poco. I suoi
sentimenti e pensieri si sono atrofizzati come muscoli che non siano tenuti in allenamento. Teme
qualunque mutamento sociale perché ogni disturbo dell'equilibrio esistente rappresenta per lui il
caos o la morte, forse non in senso fisico, ma in quanto fine della sua identità (Fromm & Funk,
1989, pp. 123-135).
Il mercato dei consumi, quindi, è il sogno di re Mida che si avvera in un'epoca moderna:
qualsiasi cosa il mercato tocchi si trasforma in una merce di consumo.
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Nel mercato sono gli interessi a porre in relazione gli individui, i quali interagiscono non in
quanto soggetti con le loro specificità ma in quanto titolari di interessi, in quanto rappresentanti
delle cose che possiedono, delle funzioni che svolgono e tendono a diventare sempre più simili gli
uni agli altri: essi non sanno più cosa è bello, cosa è sacro, cosa è buono, cosa è vero, capiscono
solo che cosa è utile e questo trasforma il loro modo di pensare. L'era della globalizzazione rende
più difficile la costruzione dei processi dell’identità personale: la situazione di anonimato equivale
ad un Io (o Sé) assottigliato, negato, massificato: l’accessibilità all’opulenza, all’acquisizione e
all’uso personale sempre più ampio di beni e di mezzi, si traduce spesso, a livello psichico, in
sentimenti di onnipotenza, di mancanza di limiti e di confini (Bodei, 2002). Non solo. Gli individui
(Galimberti, 2009), in quanto titolari di interessi, sono stranieri a loro stessi, imparano che
l'immagine di sé è più importante della loro personalità e dal momento che verranno giudicati da chi
incontrano in base a ciò che possiedono e all'immagine che rinviano e non in base al carattere o alle
loro capacità, tenderanno a fare della loro vita una rappresentazione e soprattutto a percepirsi con
gli occhi degli altri, fino a fare del loro Sé uno dei tanti beni di consumo da immettere sul mercato.
Società dei consumatori, in altri termini, è il tipo di società che promuove, incoraggia o impone
la scelta di uno stile di vita e di una strategia di vita improntati al consumismo e disapprova
qualsiasi opzione culturale alternativa; una società in cui l'adattamento ai precetti della cultura dei
consumi e la loro rigida osservanza è l'unica scelta approvata senza discussione: è una condizione di
appartenenza.
L'uomo moderno è l'uomo di superficie di Andreoli che "non ha una dimensione interiore, è il
rivestimento del vuoto, come quei palloncini da luna park che si gonfiano fino ad assumere forme
diverse, vuoi un pagliaccio, vuoi un cane, vuoi un fiore, vuoi un razzo, pur sempre immagini d’aria
destinate a svuotarsi nel nulla. Un sacco vuoto, una sottile pellicola […] si è svuotato di tutto, è
una mera silhouette. Non ha più l’anima, non la sente, non la percepisce […] L’ossessione della
bellezza, che informa totalmente la vita dell’uomo di superficie, lo spoglia della visione di un
futuro, e di un futuro possibile" (Andreoli, 2012, pp. 97-102).
Priva di un mondo costante, durevole nella sua solidità, l'identità diventa incerta e problematica
perché l'individuo non abita più in un mondo stabile: il mondo che conosce l'uomo attuale è un
mondo che si crea e si ricrea continuamente, caratterizzato dalla categoria dell'avere, del possesso.
Io sono le cose che possiedo, se non possiedo nulla la mia esistenza viene negata. In tale condizione
l'uomo possiede le cose ma è vera anche la situazione inversa e cioè le cose possiedono l'uomo.
L'identità personale, l'equilibrio mentale, si fonda sull’avere le cose.
Come uscire da questa forma mentis in cui l’uomo non si riconosce come centro del suo mondo e
come protagonista delle sue scelte, ma i suoi possedimenti diventano i suoi padroni e a questi si
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sottomette? Ancora una volta il pensiero di Erich Fromm si rivela attuale e illuminante: egli infatti
ritiene necessario attuare una nuova società, fondata sull’Essere che sia libera dalla categoria
dell’Avere, che garantisca, a livello politico e nell’ambito del lavoro, la partecipazione democratica
di tutti gli uomini. Per fare questo è necessaria prima di tutto una trasformazione di carattere
radicale del sistema economico che non sia più fondato sul consumismo patologico, ma che si basi
su di un consumo sano.
La tendenza e la deriva della società occidentale, infatti, sarebbe quella di aver sostituito l'Essere
con l'Avere, anche nella banale esperienza della vita quotidiana per cui l'individuo trae la
consapevolezza del suo essere Io, la sua identità, da ciò che ha e possiede (oggetti, macchine,
denaro, ruolo sociale, amicizie, persone, il suo stesso Io, la sua stessa identità personale): l'individuo
ha il suo Io come un qualsiasi altro oggetto, eliminando l'esperienza di "io sono ciò", esperienza
autentica che appartiene all'Essere. "I consumatori moderni possono etichettare se stessi con questa
formula: io sono = ciò che ho e ciò che consumo" (Fromm, 1977, p. 47).
Mentre coscientemente l'individuo cerca la sempre più realizzazione di Sé attraverso la modalità
esistenziale dell'Avere, inconsciamente decrementa il valore dell'Essere e le sue qualità umane,
divenendo dipendente da oggetti esterni a sé e quindi alienando il suo vero Sé, il nucleo centrale
della sua identità ed essenza umana. La categoria dell'Essere è l'altro modo di concepire l'esistenza
dell'uomo, ha come presupposto la libertà e l'autonomia che finalizza gli sforzi alla crescita e
all'arricchimento della propria interiorità. La sua caratteristica fondamentale consiste nell'essere
attivo che significa dare espressione alle proprie facoltà, rinnovarsi, crescere, amare. L'uomo che si
riconosce nel modello esistenziale dell'Essere non è più alienato, è protagonista della propria vita,
rinuncia al proprio egocentrismo e stabilisce rapporti di pace e di solidarietà con gli altri. Secondo
Fromm non si tratta di creare un uomo nuovo diverso dal vecchio, quanto nel cambiamento di
direzione: "rinunciare a tutte le forme di Avere per Essere senza residui; sentimento di identità sulla
fede in ciò che si è; solidarietà con il mondo circostante anziché sul proprio desiderio di avere,
possedere, controllare il mondo; amore e rispetto per la vita in tutte le sue manifestazioni, con la
consapevolezza che non le cose, il potere e tutto ciò che è morto, bensì la vita e tutto quanto
pertiene alla sua crescita hanno carattere sacro" (Fromm, 1977, pp. 221-222). Ogni passo nella
nuova direzione sarà seguito da un altro passo e tutti insieme questi passi comporteranno una
trasformazione decisiva.
Alla domanda se avesse raggiunto la modalità esistenziale dell’essere, egli afferma: "Certamente
no. E’ il mio scopo ma soltanto nel senso che voglio indicare una direzione. In quale punto del
cammino cesserà di vivere non è poi così importante per me, purchè avessi la certezza di muovermi
nella giusta direzione".
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Al centro la relazione
“Siamo una pretesa di civiltà in stato di delirio avanzato, siamo in decomposizione economicofinanziaria, politico-istituzionale, sociale, ambientale, ecologica, etica, umana.
Dove andiamo? Di questo passo da nessuna parte”
(Bartolini, 2010)
Secondo l’economista Stefano Bartolini (Bartolini, 2010) la dimensione relazionale può restituire
la salute psichica individuale e sociale, il ben-essere. Senza le relazioni siamo reificati: l’altro
diventa oggetto strumentale, l’avere ci ha tolto la vita relazionale, dunque la vita. Certo conta molto
la cultura, come la pensiamo, come ci pensiamo, cosa pensiamo sia possibile socialmente e
individualmente, ma la cultura è determinata dal sistema economico, dunque è su questo che
bisogna intervenire.
La società Occidentale per la prima volta nella storia umana ha sconfitto la povertà di massa. La
prosperità non è stata, non è diventata e non è sinonimo di felicità. La promessa del capitalismo,
emancipare l’individuo fino alla conquista del tempo, non è stata mai realizzata. Il tempo non è
stato liberato, anzi. Più reddito, più benessere materiale, non equivalgono a più felicità. Ci sono
nuove povertà, oltre quella economica. Siamo più poveri di tempo, spazio, relazioni, qualità di vita.
Frederic Beigbeder afferma: “Sono un pubblicitario. Farvi sbavare è la mia missione. Nel mio
mestiere nessuno desidera la vostra felicità perché la gente felice non consuma”.
Il sistema si nutre della nostra infelicità. Dilagano malattie mentali, comportamenti mai visti
prima, c’è “una carestia di benessere nel bel mezzo dell’abbondanza economica”. Vi è un aumento
della solitudine, delle difficoltà di comunicazione, della paura, del senso di isolamento, della
diffidenza, dell’instabilità delle famiglie, delle fratture generazionali, una diminuzione della
solidarietà e dell’onestà, della partecipazione sociale e civica, un peggioramento del clima sociale.
Insomma il declino delle relazioni. Le vite restano intrappolate in un circolo vizioso: per
raggiungere un certo standard di consumi indicato dalla pubblicità, dai media e anche dalla scuola, è
necessario lavorare di più così da poter sostenere l’aumento di spesa; ciò produce avidità e povertà
di relazioni, a cui si reagisce tuffandosi ancor di più nel lavoro che sottrae ancora più tempo e
benessere e induce a voler consumare come sorta di tranquillante. Il denaro sembra la soluzione,
reale o illusoria.
Consumo dunque sono. Ma sono cosa?
La crescita economica è causa e conseguenza del degrado relazionale, si nutre del degrado
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umano, ambientale, della solitudine e della paura. I beni che erano scontati per le generazioni
precedenti diventano scarsi per noi, e per quelli dopo di noi potrebbero essere disponibili solo a
pagamento.
Le istituzioni formative, famiglia e scuola, comprimono sempre più il senso della possibilità. La
famiglia insegna ad adattarsi a un sistema dato: l’ambiente economico e sociale, come fosse
l’immutabile e l’eterno. La scuola promuove immobilità e segregazione fisica, subordinazione a un
potere che esclude gli studenti da ogni decisione rilevante, insegna rapporti competitivi e ammette
un solo tipo d’intelligenza, quella cognitiva.
Fin da subito l’essere umano calato in questo mondo impara che la sua vita è scandita da un
percorso forzato e si avvia a diventare un bravo consumatore. I media insegnano che il senso della
possibilità è confinato all’acquisto, al possesso, al profitto. La sconfinata libertà individuale di
quest’epoca si riduce dunque a ben poco, una volta che l’uomo perde il senso della possibilità. La
libertà di scelta è tra una marca di detersivo e l’altra, un discount e l’altro.
Bartolini propone alcune "terapie":
cambiare le città e l’organizzazione spaziale, ridurre il traffico, ridurre la pubblicità e tassarla,
cambiare la scuola, cambiare la democrazia, cambiare il lavoro, cambiare la sanità. Sono proposte
concrete, argomentate, che tengono conto delle obiezioni possibili. “La forza della riflessione è
invisibile, come il germoglio da cui cresce un grande albero, ma è da quella che ha origine un
cambiamento visibile nella vita”, sosteneva Tolstoj. Abbiamo in testa il mercato, il mercato ci ha
fatto prigionieri, è vero, ma il pensiero agisce e può cambiare la mentalità occidentale,
l’immaginario collettivo colonizzato dall’idea che progresso economico significhi poter comprare
più cose, cioè dall’idea della crescita, la crescita economica come miglioramento della condizione
umana. Bartolini propone la decrescita, drastica dieta dimagrante dei paesi ricchi, la riduzione del
Pil, che intanto vuoi o non vuoi già è in calo, non una riduzione del nostro standard di vita, ma un
cambiamento dei nostri modelli di vita, meno consumi privati, incremento dei beni comuni gratuiti,
relazioni, ambiente, vita. Un cambiamento degli stili di vita richiede di ridurre il bisogno di denaro,
politiche sociali e un’organizzazione sociale diversa. Politiche che converrà prendere in seria
considerazione perché la felicità influisce su salute e longevità. Pessimismo, stress, sentimenti di
ostilità e di aggressione verso gli altri, percezione di non essere padroni della propria vita, sono
fattori di rischio molto alti. Una società di infelici quale siamo ha un costo molto alto in termini di
spese sanitarie. La medicalizzazione del disagio è uno degli aspetti di una società che tende a
credere che i problemi siano risolvibili comprando la cosa giusta. Il circolo vizioso genera sprechi
immensi.
Il cuore del problema è che lo sviluppo economico si è accompagnato a un progressivo
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impoverimento delle nostre relazioni affettive e sociali. Questo tipo di sviluppo non solo non
produce benessere ma crea anche enormi rischi per la stabilità economica, come la crisi attuale
dimostra. Essa infatti è il prodotto di un’organizzazione sociale che genera la desertificazione delle
relazioni umane. Ecco dunque perché il nostro sistema economico e molti aspetti della nostra
esperienza sia individuale che collettiva (la famiglia, il lavoro, i media, la vita urbana, la scuola, la
sanità) hanno bisogno di un profondo cambiamento culturale e organizzativo. Governi e
amministrazioni locali, partiti e movimenti politici, imprenditori, manager, genitori, docenti, medici
e noi tutti abbiamo la possibilità e la necessità di riprogettare il nostro mondo: coniugare prosperità
economica e felicità è necessario e possibile. Cambiare la scuola, le città, lo spazio urbano, ridurre il
traffico e le pubblicità, sono alcune delle proposte concrete che compongono un vero e proprio
manifesto per la felicità (Bartolini, 2010).
“Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose. La crisi è
la più grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi. La creatività
nasce dall'angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. E' nella crisi che sorge l'inventiva, le
scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera sé stesso senza essere 'superato'. Chi
attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà, violenta il suo stesso talento e dà più valore ai
problemi che alle soluzioni. La vera crisi, è la crisi dell'incompetenza. L' inconveniente delle
persone e delle nazioni è la pigrizia nel cercare soluzioni e vie di uscita. Senza crisi non ci sono
sfide, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia. Senza crisi non c'è merito. E' nella crisi
che emerge il meglio di ognuno, perché senza crisi tutti i venti sono solo lievi brezze. Parlare di
crisi significa incrementarla, e tacere nella crisi è esaltare il conformismo. Invece, lavoriamo duro.
Finiamola una volta per tutte con l'unica crisi pericolosa, che è la tragedia di non voler lottare per
superarla."
(Albert Einstein - Come io vedo il mondo)
La relazione terapeutica
Agli inizi del 1900 la società inizia a rivoluzionarsi, è preda di un disagio diffuso e con l’avvento
della psicanalisi le cose cambiano, poiché essa diviene una terapia per far riaffiorare l’inconscio, i
disagi interiori vengono alla luce, si scopre che la società ha un influsso sulla psiche umana. Molti
scrittori, pittori, musicisti iniziano ad esprimere i loro disagi nella società. Parlando di scrittori, due
esempi salienti sono Pirandello e Svevo.
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Negli scrittori del Novecento si ha una crisi del ruolo intellettuale, che si sente frustrato nella sua
ansia di conoscenza e travolto dalla violenza, questi scrittori vivono la realtà che li circonda, con
inettitudine e un senso profondo di angoscia.
Da tutto quanto precedentemente detto consegue una nuova visione della psicoanalisi nella teoria
e nella pratica terapeutica, nonché nella figura e nella funzione dello psicoanalista: l'analista deve
avere una funzione critica, ma mai distruttiva, di disillusione delle idee che il paziente sviato dai
desideri e dalle fantasie narcisistiche ha costruito su di sé e sul mondo, in questo avendo una
funzione maieutica di guida nella nascita di una più realistica identità di sé, paragonabile a una
guida alpina che indica la meta del viaggio ma poi lascia che il paziente compia lui stesso il
cammino concreto del tragitto verso l'obiettivo, configurato il suo "progetto esistenziale, il suo
percorso di vita".
Facendo ciò, l'analista sprona ed incita il paziente ad essere e diventare padrone della propria
vita, a essere artefice della propria esistenza tornando a sviluppare le capacità propriamente umane
e che egli possiede naturalmente come essere umano aprendo nuove possibilità esistenziali
alternative al presente vissuto come negativo e carico di sofferenze, offrendo la "rivoluzione" della
speranza come gestazione di ciò che ancora non è, ma sarà probabilmente nel futuro, se il paziente
s’impegnerà e lo vorrà, realizzando così se stesso con le proprie mani in relazione attiva e
produttiva con il mondo, raggiungendo così i propri obiettivi di vita.
Dare speranza, fiducia e fornire senso dello scopo: lo psicoanalista deve mantenere sempre
quest'atteggiamento positivo nelle possibilità di evoluzione e sviluppo insite naturalmente fin dalla
nascita nella natura umana, pur non rinunciando a un sano realismo come percezione dei limiti che
la realtà, la vita ci impone (vincendo l'onnipotenza narcisistica infantile).
Tutto ciò, per inserire di nuovo l'individuo nel flusso della via, nel processo di vivere da cui il
paziente (assorbito dal sintomo nevrotico) si è distaccato, isolandosi (da qui l'aumento del senso di
solitudine e d’impotenza), recuperando l'impulso ad affermare se stesso, la propria assertività di
fronte al problema che lo blocca.
Nella relazione terapeutica, l'analista ed il paziente aumentano la loro vitalità il loro "essere per
la vita", il loro amore genuino di se stessi in quanto uomini superando l'odio di sé inconscio dovuto
alla dilatazione ipertrofica e alle pretese irreali dell'Io narcisistico (il falso Io, in parte prodotto
d’identificazioni esterne al vero Io originario imposte dalle figure sociali autoritarie) senza il quale,
dice Fromm, non c'è guarigione e ben-essere, recuperando il gusto di essere uomini nel mondo e
quindi affermando l'amore per la vita nei suoi valori umani centrali e profondi che la rendono degna
di essere vissuta: amore, libertà, verità giustizia, identità esistenziale dell'Io, relazione produttiva
con il mondo, felicità.
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In questo mondo, inoltre essi superano la comune alienazione tipica dell'uomo moderno (ridotto
a cosa, a merce, a rotella dell'ingranaggio sociale cioè ridotto ad oggetto) ed imparano ad affrontare
le situazioni critiche e dolorose della vita con quello che Fromm chiama il coraggio di essere, il
coraggio di esistere nel paradosso sorprendente dell'esistenza, mettendo anche in gioco se stessi ed
assumendosene la responsabilità, scolpendo il proprio volto che è espressione esterna dell'anima
intesa come profonda interiorità di sé, dell' "Io sono ciò" e centro profondo dell'essere uomo in
esistenza e ottenendo il premio conseguente: una vita buona, ben vissuta, la realizzazione
individuale della propria universale umanità.
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