PARMALAT: DALLA FRODE A LUNGA CONSERVAZIONE AL FALLIMENTO DELL’ETICA E DELLA MORALE
DI
GIUSEPPE IONATA
Abstract
Il crac Parmalat è la storia di una gigantesca frode finanziaria,
la più grande bancarotta fraudolenta della recente storia
europea, che trascende i limiti e gli errori insiti nella cattiva
governance d’impresa, ed assume le sembianze di un fallimento
globale: artefici e complici in questo malaffare erano dirigenti,
professionisti, revisori, istituzioni finanziarie, prelati e politici.
Tutti mungevano il latte dallo stesso bovino femmina:
l’impresa di Collecchio. E’ stata dunque una sconfitta del
mercato, prima ancora che industriale; ha messo in mostra i lati
oscuri della finanza, ma anche i limiti della regolamentazione;
ed infine, ma non per questo meno rilevante, ha rappresentato
un fallimento della responsabilità etica e sociale oltre che
dell'integrità morale.
1.
All’origine del latte col buco
Per risalire alle origini del latte col buco è necessario fare un salto nel passato,
in quel 1962, quando il giovane Calisto Tanzi a soli 22 anni prendeva in
mano la piccola azienda del nonno, la Dietalat Srl, per trasformarla in
una multinazionale da 139 stabilimenti e 36.356 dipendenti nel mondo. Il
primo decennio fu caratterizzato da una graduale e prudente espansione,
sfruttando la rete di vendita già esistente per commercializzare conserve
e salumi, le due specialità tipiche di famiglia, e vendere latte. I risultati
ottenuti furono incoraggianti come dimostrano il fatturato, che passò da
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200 milioni a 6 miliardi di lire a fine anni sessanta, ed i tassi di crescita,
nell’ordine del 30%; la società cambiò ragione sociale in Parmalat e si
trasformò in Spa. Fin da subito il rampante imprenditore costruì intorno a
sé una rete di contatti di alto livello: politicamente democristiano (di cui fu
rappresentante in consiglio comunale a Collecchio), attraverso l'amicizia
con il Presidente del Consiglio Goria e il Ministro dell'Agricoltura Marcora,
riuscì a far nominare al vertice della Cassa di risparmio di Parma il suo
commercialista Silingardi, ma anche a sistemare il bilancio grazie agli
aiuti pubblici previsti per il settore. La vera svolta però avvenne nel 1973,
quando il Parlamento liberalizzò il mercato del latte, consentendo a Tanzi
di poter vendere oltre al latte Uht, anche il latte fresco: sfruttando l’ascesa
dei supermercati, riuscì a raggiungere capillarmente tutta la penisola.
Per far crescere il fatturato era necessario convincere gli abitudinari
cittadini italiani che il latte di Collecchio fosse più sano e nutriente
di quello delle centrali del latte, e per far questo si intraprese la strada
delle sponsorizzazioni sportive: bisognava costruire attorno al marchio
Parmalat un’immagine giovanile, sportiva e vincente, ma ciò richiedeva
anche una buona dose di fortuna. Furono pertanto sponsorizzati atleti di
sci, di formula uno, la pallavolo ed il baseball: tutti gli atleti e le squadre
ottennero importanti successi e brindarono in Italia e nel mondo con
un buon bicchiere di latte Parmalat, garantendo all'impresa emiliana la
notorietà ricercata. Il patron Tanzi aveva ben compreso le potenzialità di
questo strumento di marketing: oltre la pubblicità per i marchi, era infatti
un ottimo veicolo per assicurarsi consenso sociale e coperture politiche.
Si decise quindi di preparare lo sbarco miliardario nel mondo del calcio,
ma tutti quegli impegni finanziari iniziavano a costar caro, dati i modesti
margini di guadagno su un prodotto a basso valore aggiunto come il latte,
e difatti dopo il boom degli anni precedenti, iniziarono a porsi le basi dei
futuri squilibri finanziari. Il fatturato dichiarato a metà degli anni settanta
era di 260 miliardi, ma la redditività era scarsa; la governance d'impresa,
con amministratore unico Calisto Tanzi, risultava inadeguata a supportare
l'impianto produttivo che aveva ormai varcato i confini nazionali; eppure
l'azionista di controllo concepiva piani di crescita sempre più ambiziosi
senza però essere disposto ad investire i capitali propri per finanziare la
crescita. Si provò pertanto, con risultati modesti e inferiori alle aspettative,
la strada della diversificazione del prodotto, lanciando sul mercato passate
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di pomodoro, yogurt, budini, dessert, succhi di frutta, vino, merendine e
frollini. Gli utili però non erano più sufficienti per alimentare la crescita,
viste anche le vendite in calo del latte; era pertanto necessario iniziare ad
indebitarsi: nel 1985 l’utile operativo era quasi interamente destinato al
pagamento degli interessi sui prestiti.
Già vent'anni prima del crac, la Parmalat sopravviveva solo grazie
al sostegno garantito dalle banche, che all'epoca dipendevano quasi per
intero dai partiti, ovvero maggiormente dalla Democrazia Cristiana.
2. Il fallimento industriale e l’intreccio politico
Accanto alle questioni industriali, c’erano da coltivare i rapporti e gli
interessi con il sistema che supportava la Parmalat: Tanzi era un grande
amico del nuovo e potente segretario della DC, Ciriaco De Mita. Non c'è
da meravigliarsi se nell’ 82 gli venne conferita un'onorificenza destinata
alle personalità che contribuiscono a rendere grande il nostro paese,
nonostante fosse un imprenditore conosciuto, ma non certo famoso.
E ci si stupisce ancor meno se si considera il finanziamento
all’Avellino Calcio e l’insediamento del secondo stabilimento produttivo del
mezzogiorno a Nusco, paese natale di De Mita da 5000 abitanti, ma che si
trova a 40 km di percorsi disagevoli dall’autostrada, contrariamente a tutte
le efficienti decisioni strategiche per un’impresa. Non poté pertanto tirarsi
indietro anche dal finanziare, con risorse della Parmalat, prima i quotidiani
episcopali Famiglia Cristiana ed Avvenire e successivamente l’avventura
editoriale del suo partito con il quotidiano economico Il Globo, la rivista
motoristica Rombo, Radio Italia e Odeon TV, quest’ultima realizzazione
del suo grande desiderio di disporre di un veicolo con il quale difendere e
dar voce al suo apparato industriale. Il passivo di questi investimenti, in
particolare quello televisivo, si accumulava alla critica situazione dei conti
industriali, rendendo il dissesto finanziario ormai prossimo. La corrente
politica stava cambiando e Tanzi si allineò, allargando la rete delle sue
amicizie anche ad esponenti dell’altra corrente interna alla DC che si
avvicinava a Craxi. La situazione finanziaria era però critica e gli amici
politici, con i banchieri ai loro ordini, non potevano far mancare il loro
sostegno in quel momento: sovvertirono le regole del mercato, evitando
il fallimento della Parmalat, e concedendo a Tanzi un’altra occasione. Il
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primo bilancio certificato della Parmalat fu del 1987 e quello seguente
evidenziava 300 miliardi di debiti, un giro d'affari di 848 miliardi, un
modesto utile di 5 miliardi e ben 54 miliardi necessari per pagare gli
interessi sul passivo; considerando che la società certificatrice all'epoca era
composta dagli stessi professionisti che furono arrestati nel 2003, i dubbi
circa la allora veridicità dei dati oggi sorgono spontanei. Nonostante ciò
la multinazionale Kraft si fece avanti con un'offerta di 730 miliardi per
rilevare l'intera società del latte. Il fondatore della Parmalat rifiutò l'offerta,
grazie all'intervento di un pool di istituzioni finanziarie e al sostegno dei
suoi amici politici (che ormai erano su entrambi gli schieramenti politici).
Un esempio di cattiva governance, questo si dimostrò Parmalat;
un'incapacità manageriale e un fallimento dei piani industriali che
affondano le radici sin dalla fine degli anni Ottanta. Ma l’azienda non
poteva fallire.
3. I lati oscuri della finanza
Le banche finanziatrici rilasciarono un prestito triennale da 120 miliardi,
con pegno sulla maggioranza del capitale in caso di mancato rimborso.
E qui iniziarono i fantasiosi progetti finanziari che si tramuteranno in
un fallimento del mercato e della regolamentazione. Ma procediamo con
ordine: Tanzi grazie a Giuseppe Gennari, amici comuni del direttore
generale di Mps, e alla sua Finanziaria Centro Nord, riuscì a rispettare i
suoi impegni con le banche creditrici ed a quotare in Borsa la Parmalat.
Inizialmente il piano politico prevedeva la fusione tra Parmalat e le attività
alimentari della Federconsorzi, cancellando come per magia i debiti e
mettendo insieme due società entrambe sull'orlo della bancarotta; il piano
però non era convincente ed al posto della Federconsorzi entrò in scena
la Fcn, il cui 51% fu acquistato dalla Coloniale, poi holding della famiglia
Tanzi. Tra il 1989 e il 1990 la Fnc acquistò prima il 20% e poi il 35,4% della
Parmalat Spa, cambiandone il nome in Parmalat Finanziaria. La Coloniale,
che pagò di fatto l'operazione in azioni, controllava Parmalat Finanziaria,
che a sua volta possedeva la maggioranza di Parmalat Spa. Calisto Tanzi
riuscì in questo modo a quotare la sua impresa e porre le basi per la sua
grande truffa: innanzitutto fu evitato il collocamento pubblico e dunque la
redazione di un prospetto informativo per i risparmiatori che permettesse
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di conoscere la reale consistenza del gruppo; fu pertanto quotata una
società, Parmalat Finanziaria, che aveva come unica attività la quota di
controllo della Parmalat Spa, cuore industriale del gruppo: praticamente
una scatola vuota. Il secondo passo del progetto era raccogliere i capitali
necessari a ripagare il debito: la holding finanziaria riuscì a raccogliere circa
600 miliardi, di cui 283 da Tanzi, che però ne tornò in possesso vendendo
il suo 35,4% di azioni Parmalat Spa a Parmalat Finanziaria; nient'altro che
una classica partita di giro, che portò al motore industriale del gruppo
appena 300 miliardi di capitale, interamente dei soci di minoranza. Da
questo momento si innescò un perverso vortice debitorio dal quale Tanzi
e la Parmalat ne uscirono con la bancarotta fraudolenta, il carcere e la
truffa ai danni di milioni di risparmiatori ed azionisti.
Cosa accadde nel decennio successivo è immaginabile: ma prima
di soffermarci sull’aspetto industriale, occorre fare il punto sul resto degli
affari fallimentari di Tanzi, che ovviamente ricaddero sui conti Parmalat.
Agli inizi degli anni Novanta, il Cavaliere di Collecchio si trovò ad avere
qualche problema con l'ex padrone della Fcn, tra un procedimento penale
per false comunicazioni sociali e un affare imbarazzante, che si concluse
con l'acquisto di obbligazioni Parmalat da parte della Coloniale, holding
di famiglia, e il salvataggio del Credito Commerciale di Milano, grande
sostenitore di Parmalat, da parte della Cassa di risparmio di Parma,
presieduta dal Silingardi. C’era poi da risolvere la fallimentare operazione
televisiva di Odeon TV, dalla quale si uscì con 4 miliardi di risarcimenti
pagati alla Sasea, che aveva acquistato il network, e 180 miliardi di debiti
complessivi, pagati da Parmalat per conto di Sata, finanziaria di famiglia,
i cui crediti furono trasferiti alla società Curcastle e da questa alla Zilpa,
entrambe società off-shore delle Antille olandesi, che fungevano da
discariche dove occultare le perdite miliardarie di Parmalat. E così fu
dato il via anche alle girandole dei crediti tra le holding del gruppo ed al
falso in bilancio. Le ambizioni espansive non si placarono, e come negli
anni Ottanta, Calisto ebbe la felice idea di collegare l’espansione del suo
business allo sport, in particolare al calcio: acquistò il Parma FC, per
portarlo a competere con le grandi squadre italiane ed europee, ma si
insediò anche in Sud America, con il Palmeiras brasiliano, il Boca Juniors
argentino e il Penarol uruguaiano. Il calcio, come volano per latte&co
emiliani, dal punto di vista finanziario portò ancora più al collasso le
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disastrate finanze Parmalat (solo per il Parma ci vollero 250 miliardi per
evitare il fallimento); ma anche in questo caso, con operazioni di ingegneria
finanziaria, create dal ragionier Tonna e perfezionate dall’avvocato Zini,
si gonfiarono i bilanci e si elusero le perdite. Ed infine l’altro salasso di
bilancio fu quello nel settore dei tour operator e del tempo libero con
Parmatour: uno strumento con il quale, da un lato accontentò sua figlia
Francesca, che non ricopriva alcun ruolo manageriale, ma dall’altro tornava
utile dato che questo business garantiva flussi importanti di liquidità con
investimenti modesti; inoltre i centri vacanzieri si trovavano molto vicino
ai paradisi off-shore, di cui ormai non si poteva fare a meno per riciclare
i fallimentari risultati dell’incapacità industriale. Anche in questo caso le
banche intervennero per salvare il fallimentare investimento e quando le
risorse non bastavano, si sottraevano fondi al bancomat Parmalat (400
milioni di euro attraverso il fondo Epicurum), per poi occultare le perdite,
attraverso la consueta pratica delle falsificazioni di bilancio in capo alle
società-discarica nei paradisi fiscali. Un vero e proprio labirinto criminale
con base off-shore.
Tornando all’attività cardine del gruppo, come si è detto la crescita
non si arrestava (arrivò anche in Canada), sostenuta da un indebitamento
esponenziale cresciuto fino a 13 miliardi; d'altronde perché immettere
capitali propri, quando c'è una fila di istituti internazionali che, con
operazioni di finanza strutturata e capofila nelle emissioni obbligazionarie,
possono finanziare l’espansione planetaria? L’impero truffaldino
continuava a crescere a dismisura ma ad un indebitamento così elevato
(con annesse tutte le altre zavorre), non si poteva far fronte con i ritorni
modesti del mercato del latte; bisognava far ricorso a tutti gli stratagemmi
possibili, dai più semplici ai più sofisticati: si utilizzarono stesse fatture
per ottenere due finanziamenti; si iscrivevano nell'attivo delle società
industriali crediti (inesigibili) che venivano girati a società off-shore del
gruppo (la Bonlat, nelle Cayman, divenne la nuova pattumiera), i cui
debiti aumentavano e venivano compensati inventando poste attive; e
ancora venivano occultati debiti, attraverso l’apertura di depositi bancari
da parte di società finanziarie estere del gruppo per garantire un prestito
di uguale misura che lo stesso istituto elargiva ad un'altra società del
gruppo: in pratica il deposito era vincolato, ma tale vincolo non veniva
segnalato in bilancio. Sarà solo a partire dal 2002 che le preoccupazioni
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sulla situazione dell'azienda cominciarono a diffondersi: non convinceva la
situazione finanziaria della Parmalat perché, a fronte di un indebitamento
elevato, aveva una liquidità ingente; ed è cosi che iniziò il declino, tra le
rinegoziazioni di bond e l'andamento in picchiata del titolo in Borsa per
le temute difficoltà nel far fronte agli impieghi e allo smobilizzo degli
investimenti a breve. L'epilogo non poté che essere scontato: Bank of
America smentì l'esistenza di un deposito da 4,9 miliardi che una società
off-shore del gruppo dichiara di avere con un falso documento. Di qui al
collasso il passo fu breve: la truffa a lunga conservazione di Parmalat, che
produsse 14,3 miliardi di debiti al 2003 contro i 6,4 dichiarati nell’ultima
relazione, emerse inesorabile ma tardiva, dato che il sistema bancario
internazionale (dopo aver ottenuto, secondo le stime del Commissario
Bondi, interessi per il 140% Deutsche Bank, il 124% Unicredit, e il 123%
Capitalia, per citarne alcune) riuscì a ripararsene scaricando la maggior
parte del dissesto sugli azionisti di minoranza, che persero tutto, e sui
creditori privilegiati, costretti ad una ristrutturazione con scambio debiti
vs azioni ed un drastico abbattimento del valore di recupero.
Tanti purtroppo i lati oscuri della finanza, che ha una buona dose
di responsabilità in questa vicenda: attraverso le costruzioni strutturate
e tutti quei finanziamenti, assolutamente impropri, ha contribuito
indirettamente a far restare in vita un gruppo industriale fallimentare;
d’altronde la cultura dominante era quella di incamerare laute commissioni,
il 40% delle risorse totali prodotte da Parmalat, tenendo in piedi l’azienda,
che per anni continuò a vendere latte per ripagare il sistema. In ogni caso
il 18 aprile 2011 il Tribunale di Milano ha assolto Morgan Stanley, Bank of
America, Citigroup e Deutsche Bank dal reato di aggiotaggio, negando il
risarcimento a 30.000 piccoli obbligazionisti.
4. Il mercato imperfetto ed i limiti della regolamentazione
Responsabili di tutto ciò, in primo luogo, furono senza dubbio i dirigenti,
presunti colpevoli o reo confessi. E qui nasce la prima contraddizione:
come è possibile che coloro i quali siano stati indiziati di gravi reati come
il falso in bilancio, le false comunicazioni sociali, le distrazioni di denaro,
la contraffazione della documentazione, etc… siano stati arrestati, mentre
l’impresa ha goduto di una legislazione ad hoc che le ha permesso di salvarsi
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dal fallimento a cui sarebbe stata inesorabilmente destinata se non fosse
stata sottratta alle leggi di mercato? In un sistema politico-economico
equo e non colluso questo non sarebbe successo (ed il caso Enron, per
quanto differente, lo dimostra), e non è azzardato affermare che il mercato
in Europa sia ancora fortemente imperfetto; d’altronde basta ricordare la
fitta ragnatela politico-finanziaria illustrata prima per capire che Parmalat
deve la sua ascesa a precise protezioni politiche. E che dire dei ruoli svolti
dal consiglio di amministrazione, dal collegio sindacale e dai revisori?
Prima della riforma del diritto societario di quegli anni, le leggi erano
evidentemente inadeguate se fu possibile che gli organi interni, ma anche
il revisore, avessero verso Tanzi un indiscusso ed assoluto rapporto di
sudditanza, che impediva loro l'imparzialità e la libertà di svolgerne le
funzioni. Ma il problema ha interessato anche i controlli esterni alla
società: la Consob, in un immobilismo unico, non è riuscita a difendere
gli azionisti di minoranza dalle nefandezze e dagli abusi compiuti. Non è
esente da colpe anche la Banca d'Italia che doveva occuparsi della tutela del
risparmio e monitorare il comportamento delle istituzioni finanziarie, che
in questa vicenda hanno dimostrato di saper ben navigare le imperfezioni
del mercato: d’altronde potendo raccogliere risparmio presso il pubblico,
finanziare le imprese, curarne l'emissione dei titoli, ed infine proporli per la
sottoscrizione anche se ad alto rischio, è ancora un'imperfezione sistemica.
A completare il novero delle imperfezioni si ricorda il ruolo delle agenzie
di rating, che influenzano costantemente il mercato e le banche con le
loro valutazioni, ma anche i paradisi fiscali, veri e propri Eldorado per le
truffe. E dato che la storia si ripete, è recentissimo l'intervento per evitare
l'Opa di Lactalis sulla stessa Parmalat: a dimostrazione che la strada per
eliminare le imperfezioni del mercato è ancora lunga.
5. Il fallimento della responsabilità etica e sociale e dell'integrità morale
Fin qui nulla di nuovo, verrebbe da dire: l'industria di Collecchio è sembrata
essere un'attività criminosa insinuata nelle numerose falle di un mercato
imperfetto, e per questo scientificamente perseguita. Purtroppo però la
vicenda dev'essere interpretata, oltre che come fallimento del mercato
e della politica, anche come fallimento dell’etica, se si preferisce porsi
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su un piano analitico collettivo, e dunque come fallimento delle morali
personali, se ci si focalizza sul singolo individuo. La storia ci insegna
che il libero mercato, diffusosi con il capitalismo, nella sua forma più
pura deve necessariamente essere permeato dal tema della responsabilità
sociale, inevitabilmente connesso a temi di buona governance d’impresa.
Il mercato per diffondersi ha bisogno di un’etica che non soltanto ne
sostenga le transazioni finanziarie e commerciali, ma anche che orienti il
comportamento degli attori sociali: necessita pertanto, a livello personale,
di fondarsi su orientamenti morali.
Riavvolgendo il nastro dell’esposizione e analizzando l’industria
Parmalat si può affermare che sia mancata totalmente una buona
governance, a cui si sono legate responsabilità sociale ed integrità morale;
la buona governance non appartiene all’azienda in quanto tale, ma attiene
all’impresa come associazione di persone e agenti morali, capaci di
conseguire risultati soddisfacenti che ottimizzino il risultato nel lungo
periodo, garantendo un'affidabilità finanziaria che con trasparenza possa
essere comunicata al mercato e permetta di salvaguardare gli interessi non
soltanto degli shareholders, ma anche degli stakeholders, ossia di tutti coloro
che hanno interesse al comportamento dell'impresa. Non si può infatti
essere socialmente responsabili solo rispettando la dimensione esterna,
ormai certificata e regolamentata da norme, se prima non lo si è verso i
dipendenti, principali stakeholders d'azienda. L'impresa di Collecchio è stata
un'organizzazione non permeata da principi etici perché non esisteva una
moralità diffusa nella sua classe dirigente: di fronte alle finalità dell'azienda,
tutte le persone coinvolte hanno sacrificato la propria moralità, compiendo
innumerevoli atti immorali. E li hanno compiuti fino a quando la truffa
non fu svelata per cause esterne (finì il denaro con cui pagare i bond ed era
impossibile continuare ad inventare poste attive), non perché qualcuno di
essi sentì il dovere di rivelare le malversazioni in cui era coinvolto.
Riflessioni conclusive
Quali conclusioni si possono trarre?
La Parmalat è stata un'impresa che ha compiuto acrobazie finanziarie
e falsificazioni contabili sulle quali hanno indagato le magistrature di
mezzo mondo, essendo stata una delle più sfacciate frodi della storia. E'
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stato un fallimento globale perché ha messo in mostra i limiti del mercato
e degli operatori; quelli dei regolatori prima ancora che delle regole; ha
svelato i misfatti della finanza ma anche le imperfezioni della legalità
attraverso l'amoralità dei suoi interpreti. Una colossale truffa dalla quale
ripartire, consapevoli che se non si comprende cosa sia la morale, non si
potrà mai capire cos'è la corporate ethics: la cultura del controllo e l'integrità
personale, a fronte di qualsivoglia organizzazione, devono costituire i
perni che animano l'attività d'impresa. Certo, se poi però tra le persone
fisiche giudicate con rito ordinario viene condannato solamente Calisto
Tanzi.
Bibliografia
M ALAGUTTI V., Buconero Spa. Dentro il crac Parmalat, Editori Laterza, 2004
FRANZINI G., Il crac Parmalat, Editori Riuniti, 2004
SAPELLI G., Giochi proibiti. Enron e Parmalat capitalismi a confronto, Bruno
Mondadori, 2004
ONADO M., I nodi al pettine. La crisi finanziaria e le regole non scritte, Editori
Laterza, 2009
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