MODULO 3B - in rete per una scuola inclusiva

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MODULO 3B
Approcci didattici interculturali: area espressiva
Barbara D’Annunzio, Fabio Caon, Francesca Della Puppa
Università Ca’ Foscari, Venezia
Indice
Par. 3.1: approccio interculturale ai linguaggi dell’area espressiva
3.1.1 Intercultura e discipline scolastiche
3.1.2 L’apporto delle discipline espressive all’educazione interculturale
Par. 3.2: Educazione al suono e alla musica
3.2.1 La musica come bisogno universale dell’uomo
3.2.2 Musica e immaginario collettivo
3.2.3 L’approccio interculturale alla disciplina
Par. 3.3: Educazione all’immagine e all’arte figurativa
3.3.1 L’arte figurativa come bisogno universale dell’uomo
3.3.2 Arte figurativa e immaginario collettivo
3.3.3 L’approccio interculturale alla disciplina
Par. 3.4: Corpo e culture: i linguaggi e la relazione col corpo
3.4.1 L’espressione corporea come bisogno universale dell’uomo
3.4.2 Corpo e immaginario collettivo
3.4.3 La gestione del corpo “fisico”
3.4.4 L’approccio interculturale all’educazione fisica
3.4.5 Corpo e affettività
Par. 3.5 Bibliografia e sitografia
N.B. : il modulo è stato concepito unitariamente dai tre autori. Nella stesura Barbara D’Annunzio ha
curato il paragrafo 3.4 e i sottoparagrafi 3.4.1, 3.4.2, 3.4.3, 3.4.5(con relativi sottoparagrafi) e il
sottoparagrafo 3.3.2, Fabio Caon ha curato tutto il paragrafo 3.2 (con relativi sottoparagrafi) e il
paragrafo 3.1, Francesca Della Puppa ha curato il paragrafo 3.3 e i sottoparagrafi 3.3.1, 3.3.3, tutto
il paragrafo 3.5 (con relativi sottoparagrafi), i sottoparagrafi 3.1.1, 3.1.2 e la guida al modulo.
Per quanto concerne i link, Barbara D’Annunzio ha fornito gli esempi riguardanti il mondo
orientale e Francesca Della Puppa quelli riguardanti il mondo arabo e i link (a, b, c, d) del paragrafo
3.2.1; Fabio Caon ha curato il link al “gioco e intercultura” mentre Riccardo Triolo, al quale va il
nostro ringraziamento, ha curato il link “cinema e intercultura”.
3.0 Guida al modulo
Nella prima parte del modulo (3.1, 3.1.1, 3.1.2), si presenta l’ottica secondo la quale vengono
sviluppati gli argomenti e si pongono le basi generali, utili ad orientare il lettore per stabilire la
relazione fra educazione interculturale e linguaggi dell’area espressiva.
Nella scheda 3.1.1, si menziona la trasversalità dell’educazione interculturale e si invita a superare
l’etnocentrismo in riferimento alle discipline oggetto del modulo; sono presenti, poi, riferimenti
espliciti alla normativa e ai Piani della Riforma sia per la scuola Primaria sia per la scuola
Secondaria.
Nella scheda 3.1.2 si chiariscono alcuni aspetti dell’educazione interculturale inseriti nel contesto
delle discipline a cui fanno riferimento i linguaggi dell’area espressiva.
Con la scheda 3.2, centrando il discorso sul rapporto fra la musica e l’intercultura, si propone una
visione critica nei confronti dell’approccio evoluzionistico alla disciplina.
Nella scheda 3.2.1 si propone una riflessione sulla doppia caratteristica dell’espressione musicale:
da un lato bisogno collettivo e universale di espressione e, dall’altro, prodotto culturale
differenziato e particolare.
Nella scheda 3.2.2 si identifica il punto d’incontro tra approccio interculturale e normativa
ministeriale, evidenziando la funzione della musica nella società odierna e i rischi che comporta una
fruizione acritica di tale linguaggio.
Nella scheda 3.2.3 si forniscono alcuni spunti operativi per articolare percorsi didattici interculturali
e si mettono in evidenza alcuni problemi di comunicazione interculturale che possono sorgere nelle
classi.
La scheda 3.3 presenta una prospettiva interculturale applicata all’educazione all’immagine e
all’arte, in 3.3.1 tale visione viene declinata nel rapporto fra arte e universale.
Nella scheda 3.3.2 si mettono in evidenza quegli aspetti della disciplina che testimoniano alcune
possibili risposte alle esigenze di rappresentazione di una specifica cultura e società.
Nella scheda 3.3.3 attraverso una scelta fra gli obiettivi dei Piani della Riforma, si propone una
traduzione operativa mantenendo uno sguardo trasversale agli ordini di scuola evidenziando anche
alcuni rischi nella trattazione delle attività e degli argomenti.
La scheda 3.4 introduce il tema del linguaggio corporeo e delle sue possibili manifestazioni, in 3.4.1
si propone una riflessione sul valore transculturale dell'espressione corporea e sull'universalità
dell'esistenza di alcune modalità espressive legate al corpo umano.
Nella scheda 3.4.2 ci si sofferma sui legami esistenti tra concetto di corpo, gestione del linguaggio
corporeo, cura e percezione del corpo, e immaginario collettivo. In 3.4.3 si affrontano più nello
specifico comportamenti e abitudini legate al corpo "fisico". Nella scheda 3.4.4 si offrono una serie
di spunti per un approccio interculturale all'educazione fisica.
In 3.4.5 si propone una riflessione riguardo l'esistenza di differenze culturali nell'espressione
dell'affettività attraverso il corpo.
3.1 Approccio interculturale ai linguaggi dell’area espressiva
Per approccio interculturale è da intendersi una lettura della realtà che si fondi sui seguenti principi
•
•
•
•
•
il superamento del pensiero dicotomico, ovvero di una categorizzazione semplicistica della
realtà per coppie di opposti: ad esempio, io/altro, nero/bianco, relativo/assoluto;
il relativismo culturale, secondo il quale ogni evento va letto nel suo contesto socio-culturale
di riferimento;
la transitività cognitiva, ossia il sapersi spostare mentalmente al di fuori dei propri confini
culturali per assumere altri punti di vista;
il riconoscimento del dinamismo culturale e la conseguente necessità di decostruire gli
stereotipi, manifestazione della fossilizzazione del pensiero;
la traduzione dell’incontro con l’altro in una vera relazione di interscambio.
Assumiamo, pertanto, a partire da questi primi passi del modulo, un atteggiamento improntato
all’assoluto rispetto dei punti di vista delle diverse culture e al rifiuto di qualsiasi presa di posizione
che implichi giudizi di valore non relativizzati. Fatta nostra quest’ottica specifica, noi prenderemo
in considerazione i linguaggi dell’area espressiva secondo più punti di vista interrogandoci sul ruolo
che essi possono ricoprire all’interno dell’educazione interculturale; sul valore che i Piani della
Riforma hanno loro riservato; sulle connessioni intercorrenti fra questi linguaggi (musica, arte,
educazione corporea) e linguaggi “altri”; sulla necessità di concepire la pedagogia interculturale
non come un generico orientamento teorico, ma come una prassi concreta.Ci sarà di guida il
principio che l’interconnessione fra le varie culture non deve condurre a nessuna assimilazione
abusiva. Infatti, se è vero che l’uomo parla con una sola voce è altrettanto vero che questa voce si
declina in modi diversi e che questa “diversità”, questa specificità rappresenta il patrimonio
inalienabile di ciascun popolo. Un patrimonio da intendersi non come un mezzo per rivendicare
inammissibili supremazie, ma come un bene da spartire.
3.1.1 Intercultura e discipline scolastiche
In quale rapporto stanno l’educazione interculturale e le discipline scolastiche? Per delineare tale
rapporto, proponiamo una metafora che può essere esemplificativa: l’educazione interculturale è
come un terreno che, attraverso i suoi elementi costitutivi (approccio, contenuti, metodi) fornisce
nutrimento alle varie piante che vi crescono (le discipline scolastiche); ogni pianta è diversa
dall’altra, ha precise caratteristiche, eppure condivide la stessa terra.
L’educazione interculturale dev’essere concepita, dunque, come uno sfondo integratore, come una
proposta metodologica (più che contenutistica) trasversale rispetto alle singole discipline e ai diversi
percorsi didattici.
In particolare, ci preme sottolineare che l’obiettivo degli insegnanti che abbracciano un approccio
interculturale non dev’essere quello di cambiare o adattare i contenuti dei programmi delle varie
discipline, ma di puntare l’attenzione sul “come” i contenuti disciplinari debbano essere presentati e
gestiti nelle classi.
Data tale premessa di fondo, affrontiamo qui di seguito alcuni orientamenti concettuali che possono
permettere la corretta interpretazione dell’educazione interculturale in relazione alle discipline
scolastiche e al piano dell’offerta formativa della scuola, anche in riferimento alla normativa e ai
nuovi Piani della Riforma, isolando gli aspetti che investono le discipline a cui afferisce il modulo;
pertanto prenderemo in considerazione
a- La dimensione trasversale dell’educazione interculturale
b- Il superamento dell’etnocentrismo come un aspetto caratterizzante il COME trattare i
contenuti
c- L’inquadramento normativo in relazione all’intercultura
d- I Piani della Riforma (Legge 53/2003) per la parte pertinente alle discipline interessate
e- Il ruolo del laboratorio letto attraverso un’ottica innovativa come metodologia per
implementare l’educazione interculturale nella prassi scolastica quotidiana
3.1.2 L’apporto delle discipline espressive all’educazione interculturale
“La cultura è sempre soggettiva, dinamica, permeabile, inseparabile dalla persona che la esprime.
Nella sua poliedricità essa rappresenta una rete di significati, che i gruppi umani attribuiscono alla
realtà e ai fenomeni nel corso del tempo e che trasmettono ai discendenti. In questo senso la ricerca
dell’unità attraverso la diversità si nutre di un dialogo interculturale che considera le culture
disponibili ad entrare in contatto, scambiarsi significati e soprattutto modificarsi reciprocamente. La
prospettiva interculturale è ineliminabile per la pedagogia, essa permette di cogliere quanto sia
storicizzabile e mutevole ciò che si rischia di ritenere universale ed assoluto, quanto sia possibile la
ricerca dell’unità nella diversità. In sintesi, il pensiero moderno non considera l’uomo secondo
un’ottica naturalistica, né dissolto nello storicismo, ma come un essere culturale, e in quanto tale
aperto al dialogo con l’altro. L’universale va ricercato abbracciando il particolare; l’intercultura
cerca una terza via tra l’universalismo oppressivo, che schiaccia ed assimila, e il relativismo
radicale, che separa senza permettere il dialogo” (Milena Santerini, L’etica del genere umano, in
CEM MONDIALITA’ aprile 2003, pag.21).
Ci piace partire da queste parole per valutare l’apporto che le discipline espressive possono dare
all’educazione interculturale, ferma restando la consapevolezza che tutte stanno in un rapporto di
interdipendenza reciproca e che dovrebbero essere interrelate nel progetto interculturale di una
scuola.
Gli aspetti da prendere i considerazione per il nostro percorso sono
abcde-
Gli obiettivi di fondo: intelligenza relazionale e transitività cognitiva
La metodologia del decentramento
Il rapporto con il sapere
La contestualizzazione
Gli universalia
3.2: Educazione al suono e alla musica
In questo paragrafo, affronteremo innanzitutto la tradizionale relazione esistente fra evoluzionismo
e programmazione didattica per quanto riguarda la storia della musica.
Pur prendendo atto che c’è stato un susseguirsi di generi e che ogni periodo musicale deve essere
necessariamente inserito nel contesto storico-sociale di riferimento, riteniamo che, secondo
un’ottica interculturale, sarebbe opportuno presentare la “progressione” non in termini astrattamente
evoluzionistici - come se lo sviluppo di tutte le culture dovesse passare necessariamente per
determinate tappe in successione- ma come risposta a bisogni contingenti che si modificano nel
tempo su sollecitazione dell’ambiente, della società, delle pulsioni umane, in un processo dinamico
di continua trasformazione.
Inoltre, nello sviluppo del modulo, ci riferiremo alla musica soprattutto come canale privilegiato di
contatto culturale ed umano: “senza la socialità non ha più senso l’essenza della musica quale
sublimazione dell’essere teso ad ascoltare e ad ascoltarsi” . (G. Biassoni e P. Zocchio,
Musicalgiocanotando, EMI, Bologna, 1999, pag. 17)
3.2.1 La musica come bisogno universale dell’uomo
L’espressione musicale, se da un lato presenta costanti universali legate ad esigenze emotive e
cognitive specifiche dell’uomo (come, ad esempio, la manifestazione di sentimenti personali o
collettivi oppure la sublimazione di un credo politico o di una fede religiosa), dall’altro è anche
codificazione ed espressione originale e diversificata di un sentire comune radicato in un luogo, in
un tempo, in una tradizione e in una cultura peculiari.
John Blacking, nel suo famoso libro Com’è musicale l’uomo? (J. Blacking, How musical is man?,
University of Washington Press, Washington, 1973, (trad. it.) Com’è musicale l’uomo?, Unicopli
Ricordi, Milano 1986), parla giustamente di una “struttura profonda” della musica che essendo
connessa ad aspetti affettivi e a processi cognitivi insiti nell’uomo da luogo a forme universalmente
riconoscibili, e di una “struttura di superficie” che si realizza in esiti musicali diversificati.
Nella prospettiva interculturale, sarà interessante far acquisire consapevolezza agli studenti di
questa duplice caratteristica perché essi si rendano conto che le singole espressioni musicaliJH,
rispondenti come abbiamo già detto a esigenze specifiche, hanno come matrice valori ritmici,
timbrici, armonici che sono patrimonio comune di tutte le culture.
Proponiamo, a titolo esemplificativo, alcuni spunti tematici per articolare la riflessione e un
percorso didattico:
a.
b.
c.
d.
musica e linguaggio universale
musica e concezione del tempo
musica e narrazione
elementi transculturali
3.2.2 Musica e immaginario collettivo
Nelle indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati (scuola secondaria di primo grado), si
invita ad approfondire i “principali usi e funzioni della musica nella realtà contemporanea, con
particolare riguardo ai mass-media” (primo biennio) e “le funzioni sociali della musica nella nostra
e nelle altre civiltà” (classe terza).
Il punto d’incontro tra le indicazioni ministeriali e un approccio interculturale sta, a nostro avviso,
proprio in quest’invito ad un’analisi critica dei messaggi veicolati dalla musica (in particolare
pensiamo ai generi di musica leggera particolarmente diffusi tra i giovani) e alle funzioni (svago,
divertimento, riflessione, impegno civile, educazione, identificazione in un gruppo…) che essa
ricopre nella nostra e in altre società. Un invito, quindi, ad analizzare e a mettere in relazione la
nostra cultura con le altre per coglierne somiglianze, legami, contaminazioni tra i generi e
specificità.
Occorre fornire agli studenti dei paradigmi concettuali (l’originalità, l’imitazione, il potere
evocativo del ritmo e della melodia, la funzione della musica popolare e di quella “colta” …) e delle
conoscenze storico-economiche e sociali che li mettano in grado di “leggere” autonomamente e
criticamente i messaggi veicolati dalla musica di consumo, di cogliere quanto il potere economico
investa (e speculi) sulla musica per vendere prodotti, diffondere ideali e promuovere personaggi,
contribuendo a formare un immaginario collettivo nei giovani (in occidente, ad esempio, il mito del
ribelle, del cantante trasgressivo, “scomodo”, contro le regole) per averne, spesso, un ritorno
principalmente economico.
Proprio perché la musica leggera ha un fortissimo impatto emotivo e un grande potere di
suggestione nei giovani, è fondamentale condurre una riflessione critica insieme agli studenti sui
valori (e sui rischi) del linguaggio musicale nelle società odierne.
3.2.3 L’approccio interculturale alla disciplina
Tra gli obiettivi esposti nelle indicazioni nazionali per i piani di studio individualizzati nella Scuola
Secondaria di primo grado (primo biennio) troviamo un esplicito richiamo alla ricerca di “analogie,
differenze e peculiarità stilistiche di epoche e generi musicali diversi, con riferimento anche
all’area extraeuropea”; tale richiamo è, a nostro avviso, di fondamentale importanza perché si possa
avvicinare in una prospettiva interculturale la musica. La ricerca di analogie, differenze e peculiarità
offre lo spunto per dimostrare agli studenti attraverso esemplificazioni concrete l’aspetto universale
e particolare dell’espressione musicale sia in un percorso diacronico che in uno sincronico.
Ovviamente, tale approccio può porre dei problemi di comprensione interculturale legati alla
disciplina (il rapporto, ad esempio, tra musica e religione) oppure alla valutazione che di tale
approccio viene data da parte di alcuni studenti o di alcune famiglie.
D’altro canto, il fatto che questa disciplina non sia strettamente collegata al codice verbale, può
offrire agli studenti non italofoni l’occasione di esprimersi al di là di competenze linguistiche che
ancora non possiedono o possiedono in modo sommario; il che può favorire, ad esempio, la
socializzazione con i compagni.
3.3 Educazione all’immagine e all’arte figurativa
“Uno dei topoi più diffusi dell’arte occidentale, inespugnabilmente eurocentrica ed etnocentrica, è
stato per lungo tempo quello che ha comportato l’interpretazione dei linguaggi artistici diversi da
quelli conosciuti e accettati (occidentali, dunque) come espressione di naiveté culturale, di uno
spontaneismo semplice ed ingenuo frutto di una visione infantile del mondo.” (D. Demetrio (a cura
di), Nel tempo della pluralità, La Nuova Italia, Firenze, 1997, pp. 137-138)
Nel proporre a scuola dei percorsi di educazione all’immagine o di approccio all’arte, non possiamo
non fare i conti con quanto sopraccitato. Ci dovremmo chiedere se il modo in cui ci avviciniamo
all’arte dei paesi africani o sudamericani, oppure alle opere cinesi o giapponesi, sia quello filtrato
dalla percezione di un certo esotismo che porta a considerare l’arte degli altri come “strana” ma
interessante solo perché venuta da lontano.
Quando si chiede agli insegnanti di esprimere delle percezioni immediate nei confronti di paesi e
culture ancora per molti aspetti sconosciuti, le parole più ricorrenti nelle loro risposte sono: fascino
e mistero. Lungi dal voler giudicare un’espressione spontanea di sentimenti e sensazioni, ci preme,
in un’ottica interculturale, rilevare il rischio di ritenere un’opera affascinante per il solo fatto che è
“esotica”, di attribuirle valore “artistico” senza esercitare un consapevole ed informato esercizio
critico.
Nella scuola, a nostro avviso, occorre affrontare lo studio delle opere provenienti da altre culture,
primariamente, fornendo agli studenti le chiavi interpretative per metterli nelle condizioni di
“leggere” l’arte delle altre culture e, secondariamente, lasciandoli liberi di giudicare, di esprimere
giudizi estetici, di manifestare emozioni che ricevono dalla visione consapevole dell’opera.
Come proposta didattica preliminare, sarebbe interessante poter scoprire quanti stereotipi possono
essere legati all’arte, sia tra gli insegnanti che fra gli studenti.
3.3.1 L’arte figurativa come bisogno universale dell’uomo
Il piacere estetico è un bisogno dell’uomo e nessun uomo rimane indifferente all’arte, intesa qui
nella sua accezione più ampia (che comprende, quindi, le produzioni di oggetti artigianali, qualsiasi
forma di linguaggio visivo, dalla fotografia al cinema, dal graffito alle sculture di sabbia), come
risposta alla tensione verso il piacere estetico. In questo rispondere comune ad una necessità umana
identifichiamo la relazione fra arte e universale.
All’interno di questa relazione, il concetto di originalità identifica la diversità tra le culture; ci
chiediamo, però: quale cultura può rivendicare il primato di assoluta originalità? L’arte, più di ogni
altro linguaggio, è il risultato di una contaminazione reciproca, pertanto non si può parlare di
originalità, piuttosto si parla di un rapporto di complementarietà tra culture.
Nel rapporto dialettico fra universale e particolare si può dire che “ogni uomo, gruppo, attore
dell’immaginario, è superiore alla propria cultura; è capace cioè di esplorazioni e rimescolamenti, e
così facendo denuncia la relatività e la transitorietà di quegli habitat di significato che sono le
culture locali, sia a livello di piccole comunità di aborigeni, sia a livello di più ampie collettività
cosmopolite” (G. Bevilacqua, Didattica interculturale dell’arte, EMI, Bologna, 2001, pp. 28-29)
Inoltre, ci sono temi che si ritrovano tra culture anche molto distanti geograficamente tra loro, come
se vi fossero degli elementi insiti nella natura umana che necessitano di prendere forma attraverso
espressioni artistiche: pare che bambini appartenenti a culture diverse rappresentino attraverso il
disegno delle cosiddette figure primarie universali.
Allora è necessario partire da queste consapevolezze per ricercare la comunanza, l’incontro fra
culture nei percorsi di educazione all’immagine e all’arte; non per arrivare a definire un uomo
“generico” che si appiattisce in una sorta di universale senza originalità, ma un uomo che, nel
bisogno comune, si riconosce in quanto simile all’altro e supera barriere, separazioni,
categorizzazioni, vince sospetti e si esprime in piena libertà potendo coniugare elementi di culture
diverse con la propria soggettività, attraverso una produzione originale e unica, espressione non
solo di cultura ma anche di una storia personale, di un mondo interiore e di un punto di vista sulla
realtà.
3.3.2 Arte figurativa e immaginario collettivo
Come l’espressione musicale, anche la creazione artistica, da un lato, risponde ad un bisogno
universale dell’essere umano (legato alla necessità creativa e comunicativa) e dall’altro, si
caratterizza come manifestazione particolare di culture, politiche, teorie e trasformazioni sociali. Se
da un lato dunque, l'arte figurativa risponde ad un'esigenza estetica che è comune al genere umano,
dall'altra risponde ad esigenze più particolari legate all'ambiente sociale, a scelte politiche o si fa
portatrice di correnti di pensiero.
Quali sono i procedimenti artistici che rimandano all’immaginario collettivo di una società o
cultura?
Al fine di analizzare e problematizzare tali procedimenti, è necessario indagare su:
Il rapporto uomo-natura
Il rapporto arte-religione
Il legame arte-tecnica
3.3.3 L’approccio interculturale alla disciplina
Diamo per acquisito il concetto di superamento dell’approccio evoluzionistico alla disciplina già
affrontato per l’educazione al suono e alla musica e partiamo proprio dalle indicazioni ministeriali
per vedere trasversalmente su quali temi e aspetti dell’immagine e dell’arte si può innestare un
percorso interculturale per i diversi ordini di scuola. Tali indicazioni vengono raggruppate, qui di
seguito, per macro-argomenti. Infine, cercheremo anche di vedere qualche rischio in cui si può
incorrere nel programmare le attività di educazione artistica.
a.
b.
c.
d.
e.
f.
g.
Usare creativamente il colore
Rappresentare figure umane
Tecniche grafiche e pittoriche
Elementi di base della comunicazione iconica
Individuare le molteplici funzioni dell’immagine
Individuare e classificare simboli e metafore
Rischi
3.4: Corpo e culture: i linguaggi e la relazione col corpo
Ci proponiamo in questa sede, di indagare in parte, ma soprattutto di offrire spunti rispetto alcuni
elementi riguardo la concezione, la percezione, la cura e la considerazione del corpo all'interno
delle diverse culture. Ci occuperemo di evidenziare quei procedimenti dell'espressione corporea
che riguardano sia la dimensione sociale ed interpersonale sia quella individuale.
"Le differenze dei codici di comportamento sono le cause di molti conflitti interculturali. Dal
momento che nella comunicazione attiva il contenuto trasmesso dal discorso rappresenta solo una
parte molto limitata di ciò che normalmente si comunica in modo complessivo, l'apprendimento
linguistico puro e semplice si può considerare solo una parte degli strumenti cognitivi e delle
competenze relazionali di cui gli esseri umani devono entrare in possesso per interagire con i loro
simili ad ogni latitudine..." (Hall)
Partiamo dunque da questa consapevolezza per proporre una riflessione centrata sulla dimensione
corporeo.-gestuale e su quelle dimensioni comportamentali che riguardano l'uso del corpo e che
possono contribuire, in qualche misura, a comprendere alcune regole sociali che influiscono
direttamente sul più ampio concetto di "educazione fisica":
La cinesica: cioè l'insieme delle norme che regolano l'uso comunicativo del corpo, della postura e
dei movimenti;
La prossemica: che si riferisce all'uso comunicativo delle distanze interpersonali
La vestemica: ovvero l'uso degli abiti come possibilità comunicativa
L'oggettemica: cioè l'utilizzo di oggetti al fine di comunicare uno status, una scelta, un'ideologia,
un'appartenenza;
(per maggiori approfondimenti, cfr. P.E. Balboni, Parole comuni, culture diverse. Guida alla
comunicazione interculturale, Marsilio, Venezia 1999, cap. 3)
3.4.1 L’espressione corporea come bisogno universale dell’uomo
L'espressione corporea è innegabilmente uno dei bisogni universali dell'uomo che ha la necessità di
comunicare e di interagire con l'ambiente esterno.
L'uomo comunica non solo attraverso le parole, ma anche attraverso i gesti, il pianto, il riso, la
prossemica, la vestemica e l'oggettemica.
L'espressione corporea non si limita a rispondere a necessità di tipo organico e fisiologico ma
risponde anche a necessità estetiche ed artistiche. Ogni società ha infatti elaborato forme
d'espressione teatrale, sportiva, di danza o di mimica. Bisogni umani fondamentali come l'istinto di
conservazione o di riproduzione che in sociologia vengono definite "strutture naturali originarie",
non si traducono, tuttavia, in comportamenti univoci e riconoscibili in ogni società.
3.4.2 Corpo e immaginario collettivo
Se vogliamo guardare alla percezione del corpo, all'uso del corpo e ai comportamenti corporei in
prospettiva interculturale dobbiamo necessariamente partire dalla consapevolezza che il nostro
corpo è depositario di memoria sia individuale che collettiva
Se da un lato le strutture biologiche che costituiscono il corpo umano, accomunano uomini e donne
di culture diverse, dall'altra l'organismo umano va concepito come una unità all'interno della quale
le dimensioni fisica e psichica sono inscindibili: basterà pensare a come le somatizzazioni possono
modificare la struttura fisiologica del corpo.
Così come la circolazione sanguigna, il sistema nervoso, lo stato degli organi interni o della cute
dipendono strettamente dagli stati emotivi, allo stesso modo la sensibilità corporea, il carattere, le
forme gestuali e le modalità espressive del corpo subiscono la diretta e profonda influenza delle
forme socio-culturali. Le attività umane legate ai bisogni fisiologici dell'organismo (sessualità,
alimentazione) sono sempre regolate da norme sociali. Queste attività, infatti, non sono mai
esclusivamente determinate dal bisogno fisico, l'uomo le utilizza anche per esprimere significati
simbolici (si pensi alle malattie della bulimia e dell'anoressia che sono intimamente legate alla sfera
sessuale ed affettiva e che nella maggior parte dei casi sono una modalità di espressione del bisogno
d'amore o di riconoscimento). Si pensi a come il rifiuto del cibo non coincida necessariamente
all'inappetenza ma costituisca, al contrario, un procedimento comune a molte culture per rispondere
a credi e motivazioni religiose, ascetiche ( ad esempio i santi dell'estremo oriente sono uomini che
hanno scelto di automummificarsi in vita attraverso una complessa pratica ascetica che tra le altre
cose, prevede l'astensione dal cibo) o affettive.
Le forme culturali regolano costantemente anche la gestione del corpo fisico
Il corpo è il "luogo" attraverso il quale si manifestano segni sociali e culturali: pensiamo ai
fenomeni del piercing, della circoncisione o dei tatuaggi.
Ed è sempre il corpo, il "luogo" sul quale vengono esercitati potere e controllo sociali, che si
traducono in norme implicite e non, che regolano la sessualità, il rapporto tra i sessi, o la condizione
di omosessualità.
Per allenare la nostra capacità di decentramento rispetto alle tecniche e alle espressioni corporee,
dobbiamo arrivare a riconoscere quei comportamenti corporei che sono forme di ritualità interne
alla nostra cultura, dobbiamo saper leggere le connotazioni culturali che caratterizzano performance
corporee artistiche, sportive o di costume e che costantemente rimandano ad un immaginario
collettivo legato al corpo e alle sue possibilità espressive.
3.4.3 La gestione del corpo "fisico"
Nell'ultimo secolo, abbiamo assistito ad una progressivo mutamento degli elementi che permettono
ad un individuo di identificarsi ad un gruppo d'appartenenza; infatti, se un tempo gli aspetti su cui si
fondava principalmente l'identificazione collettiva erano la razza e la classe sociale, ora gli elementi
su cui si basa l'identità culturale di un gruppo sembrano essere l'etnogenesi, la nazione o il territorio
di provenienza, la lingua e la religione.
Sulla base di questa considerazione, appare necessario capire, in un approccio interculturale alle
scienze motorie e sportive, quanto l'identità etnica sia legata anche alla percezione fisico-estetica di
se stessi, dei propri caratteri somatici e quindi del proprio corpo. E' stato dimostrato come le stesse
caratteristiche fisiche e somatiche si modificano nel tempo per effetto di selezioni che avvengono
sotto l'influsso di regole estetiche o eugenetiche attraverso regimi alimentari, tecniche di educazione
del corpo e scelte matrimoniali. Per tutti questi motivi, anche il concetto di razza non si può mai
riferire unicamente a fattori di tipo biologico , ma è allo stesso tempo il prodotto di un processo, la
cui complessità può essere valutata esclusivamente in una prospettiva di tipo storico-culturale.
Da questo ne deriva che l'insegnante dovrebbe evitare di presentare equivalenze tra stato di forma
fisica e particolari manifestazioni corporee (stato di benessere= incarnato roseo) che sono il frutto di
un particolare immaginario collettivo; egli deve essere invece consapevole delle possibili differenze
culturali nelle pratiche alimentari, nella gestione del rapporto alimentazione/benessere fisico,
igiene/salute poiché ci sono dei valori propri ad un dato immaginario collettivo che non
necessariamente sono condivisi da studenti appartenenti ad altre culture.
3.4.4 L’approccio interculturale all’educazione fisica
Avere coscienza del proprio corpo è una via per entrare in tutto il proprio essere, condurre il corpo a
sentirsi, a riconoscersi in relazione allo spazio, a riattivarsi nel suo dinamismo interiore per scoprire
i limiti e le costrizioni a cui è sottoposto quotidianamente, per scoprire le potenzialità non solo
fisiche ma anche espressive. Il modo migliore per prendere questa coscienza è vivere il corpo senza
costringerlo a imitare altri, senza addestrarlo solo per lo “spettacolo”. Allenarci ad amare anche
questa componente del nostro essere per non vivere in una dicotomia costante (anima/corpo) ma in
un’ unità armonica. Se alla base delle nostre programmazioni poniamo questo pensiero, possiamo
riassumere in breve quanto percorso attraverso l’educazione interculturale.
Per orientarci meglio vediamo di utilizzare ancora una volta gli obiettivi dei Piani della Riforma,
sempre in ottica trasversale. Partecipare al gioco collettivo rispettando indicazioni e regole; giochi
tradizionali; giochi di imitazione, di immaginazione, giochi popolari, giochi anche in forma di gara;
inventare nuove forme di attività ludico-sportiva: in queste proposte risulta chiaro come il gioco, in
tutte le sue sfaccettature, diventi uno strumento anche per entrare in contatto con altre culture. Il
gioco è un elemento transculturale e come tale assolve la funzione di mettere in dialogo le diversità
in un campo comune. Per approfondire il tema della relazione fra gioco e intercultura rinviamo a un
approfondimento.
Utilizzare il corpo e il movimento per rappresentare situazioni comunicative reali e fantastiche;
comprendere il linguaggio dei gesti; modalità espressive che utilizzano il linguaggio corporeo;
utilizzare il linguaggio gestuale e motorio per comunicare individualmente e collettivamente stati
d’animo, idee, situazioni; tecniche di espressione corporea; usare consapevolmente il linguaggio del
corpo utilizzando vari codici espressivi, combinando la componente comunicativa e quella estetica;
rappresentare idee, stati d’animo e storie mediante gestualità e posture, individualmente, a coppie,
in gruppo; fantasia motoria; l’espressione corporea e la comunicazione efficace. Leggiamo in questa
serie di obiettivi l’apporto che il teatro e tutte le attività legate all’uso del corpo come mezzo
espressivo possono dare per realizzarli. Il teatro e l’espressività corporea sono anch’essi elementi
transculturali che però spesso si connotano anche molto diversamente da cultura a cultura. Possiamo
lavorare sulle contaminazioni, possiamo cercare di utilizzare varie forme di espressione corporea e
valorizzare le differenze.
Cooperare all’interno di un gruppo; interagire positivamente con gli altri valorizzando le diversità;
relazionarsi positivamente con il gruppo rispettando le diverse capacità, le esperienze pregresse, le
caratteristiche personali; uso di tecniche relazionali che valorizzano le diversità di capacità, di
sviluppo e di prestazione: ci sembra che questi punti si commentino da soli. Quello che ci fa
riflettere è che obiettivi che puntano allo sviluppo dell’intelligenza relazionale e delle abilità sociali
siano espressi in modo così manifesto proprio nel settore dedicato al corpo e allo sport. Non
vorremmo che ciò compromettesse il lavoro, che dovrebbe assumere caratteri di trasversalità, di
costruzione positiva del gruppo classe, di un clima favorevole all’apprendimento e all’accoglienza
dell’altro a livello interdisciplinare. Tutte le discipline dovrebbero essere coinvolte in questo
processo, perché avere rapporti positivi con gli altri è un atteggiamento, un comportamento che
trova attuazione in tutta la giornata scolastica, per poi continuare nella vita di tutti i giorni.
Utilizzare le abilità apprese in situazioni ambientali diverse in contesti problematici, non solo in
ambito sportivo ma anche in esperienze di vita quotidiana; risolvere in forma originale e creativa un
determinato problema motorio e sportivo ma anche variare, ristrutturare e riprodurre nuove forme di
movimento.
Rappresentare graficamente il corpo umano fermo e in movimento: con questo obiettivo ci
ricolleghiamo a quanto affrontato in 3.3.3b
Muoversi con ritmo: ci ricolleghiamo con quanto esposto in 3.2.1b, inoltre riteniamo che tale
obiettivo possa far emergere il ruolo del movimento e della danza come elemento transculturale.
Anche per la danza sono interessanti l’analisi e il confronto fra modalità diverse di viverla e
interpretarla a seconda delle culture
3.4.5 Corpo e affettività
Il rapporto con il nostro corpo e con i suoi bisogni è, come abbiamo già sottolineato, legato
intimamente a forme culturali che condizionano l'essere umano fin dalla nascita. Anche
l'espressione dell'affettività risponde a regole inscrivibili in un contesto sociale ampio e allo stesso
tempo nel contesto sociale più ristretto della famiglia o del gruppo.
E' noto come in generale le culture latine utilizzino in maniera più diretta il corpo per esprimere la
propria affettività o le proprie emozioni.
Nel mondo orientale al contrario manifestazioni corporee a noi familiari (la “pacca” sulla spalla di
un coetaneo o la carezza sulla testa di un bambino) vengono lette come offensive ed invadenti.
E' interessante notare come in oriente i bambini vengano educati a regolare le proprie emozioni e
manifestazioni corporee fin da piccolissimi (in Cina dai 3 anni il bambino impara a non esprimere il
proprio attaccamento alla madre attraverso la vicinanza fisica).
Alla tradizione occidentale è estranea l'educazione dello sguardo e della direzione degli occhi che
invece accomuna buona parte dei paesi orientali.
L'alunno orientale (per approfondimenti consulta la sezione moduli del sito
www.unive.it/progettoalias) che abbassa lo sguardo di fronte all'insegnante o che sfugge al suo
sguardo insistente non cerca di esprimere rifiuto, o imbarazzo ma è stato semplicemente educato a
mostrare in questo modo il suo rispetto nei confronti del docente. Inoltre sull'espressione
dell'affettività pesa anche , in alcuni casi, la norma di stato: sempre nel caso della Cina sarà
interessante sottolineare come in questa nazione sia ancora oggi proibito per legge baciarsi e
lasciarsi andare ad effusioni per strada, anche tra coniugi.
3.5 Guida bibliografica e sitografica
I testi e i siti segnalati sono solo una scelta rispetto alla vasta letteratura esistente sull’educazione
interculturale. La scelta operata è stata quella di evidenziare testi e siti significativi per l’area di
pertinenza del modulo e testi e siti particolarmente interessanti per la realtà scolastica.
E. Barba, N. Bavarese, L'arte segreta dell'attore, Lecce, Argo, 1996.
G. Bevilacqua, Didattica interculturale dell’arte, EMI, Bologna, 2001.
G. Biassoni, P. Zocchio, Musicalgiocanotando, EMI, Bologna, 1999.
R. Crispim da Costa, Il mio corpo traduce molte lingue, Santarcangelo di R. Fara Editore, S:D..
E. Damiano (a cura di), Homo migrans, FrancoAngeli, Milano, 1998.
M. Disoteo, Didattica interculturale della musica, EMI, Bologna, 1998.
M. Giolfo, Suoni del deserto, Ananke, Torino, 1998.
P.E. Balboni, Parole comuni, culture diverse. Guida alla comunicazione interculturale, Venezia,
Saggi Marsilio, 1999.
U. Galimberti, Il Corpo, Feltrinelli, Milano, 2002.
http://www.bdp.it/intercultura/scaffale/materiali_on.php
sito che contiene molti materiali on-line per la didattica in relazione all’intercultura.
www.interground.it
sito all’interno del quale fra i vari percorsi interculturali c’è un percorso sulla musica
http://www.istruzione.it/news/label/canzone_01.shtml: progetto sulla canzone popolare in Italia e in
Francia. Può essere un modello a cui fare riferimento per sviluppare altri gemellaggi.
http://www.irre.toscana.it/9810/inter/irs_ei14.htm: in questo sito si trovano molte indicazioni su siti
che contengono materiali sull’arte, musei on-line e progetti sviluppati con impianto interculturale
http://iprase.g-floriani.it: in questo sito è possibile consultare i materiali relativi ad un interessante
progetto interculturale sul tema del corpo che è stato realizzato presso alcune scuola della provincia
di Trento.
http://www.irre.toscana.it/9810/inter/irs_ei16.htm
In questo sito segnalano quei siti e quegli indirizzi che potrebbero risultare utili agli insegnanti per
impostare attività didattiche sul tema del rapporto tra musica e intercultura. I siti sono stati
individuati e scelti sulla base di una serie di criteri: informazioni, articoli o saggi che affrontano
direttamente o indirettamente il tema dell'educazione musicale in chiave interculturale o
multiculturale, archivi di esempi musicali, con particolare attenzione agli archivi di musiche in
formato MIDI, siti specificamente dedicati alla musica etnica e alle tradizioni musicali dei vari
paesi, siti dedicati alla storia della musica, con particolare attenzione alla musica medievale e agli
sviluppi della musica moderna e contemporanea.
Uno dei maggiori problemi degli insegnanti nel considerare l’educazione interculturale, era di non
sapere se ritenerla un’ulteriore disciplina da aggiungere al curricolo scolastico o se facesse parte di
qualche altra materia (studi sociali, ad esempio). Ancora oggi, in alcune scuole, parlare di
intercultura e progettare qualche percorso interculturale corrisponde a coinvolgere soltanto gli
insegnanti di storia, geografia o studi sociali, oppure ad organizzare una festa o un evento in cui
presentare popoli e culture diverse. Non intendiamo, così, contestare il valore di questi momenti di
approfondimento e di lavoro che vengono svolti a scuola con risultati veramente lodevoli;
vorremmo solo chiarire bene i termini della questione. L’educazione interculturale ha sicuramente
bisogno anche di momenti in cui con i colleghi, con la classe, con i genitori, si approfondisca la
conoscenza delle culture degli altri paesi, ma questa è solo una delle facce del problema. Ciò che
ancora stenta a passare come concetto di base è che l’educazione interculturale è una dimensione
trasversale che investe l’intero settore educativo e che può essere considerata come l’asse
culturale di fondo a cui tutte le discipline (comprese musica, arte e educazione corporea) possono
fare riferimento, si tratta di una dimensione dell’insegnamento che accompagna tutto il percorso
formativo ed orientativo attraverso tutte le discipline; dunque non un elemento in più da tenere
presente nelle programmazioni, ma uno sfondo che soggiace alle scelte contenutistiche e didattiche
compiute dalla scuola. È da chiarire, soprattutto, che fare educazione interculturale non è ridurre le
altre culture ad oggetto di studio, ma è un progetto più ampio e complesso che va conosciuto in tutta
la sua interezza perché possa realmente trovare applicazione seria nella scuola.
Torna al paragrafo 3.1.1
L’etnocentrismo è la tendenza a giudicare le altre culture e a interpretarle in base ai criteri della
propria e a proiettare su di esse il nostro concetto di evoluzione, di progresso, di sviluppo;
tendenza, questa, che può essere più o meno consapevole.
A scuola, spesso, le discipline vengono affrontate proprio a partire da una visione etnocentrica e
questo accade anche nella presentazione delle arti figurative e della musica, proposte secondo uno
sviluppo storico evoluzionistico rischioso dal punto di vista interculturale perché si presta
facilmente a considerare la musica e l’arte altrui come “inferiori”.
L’etnocentrismo comporta una prospettiva secondo cui tutte le società vengono poste lungo una
scala evolutiva in cui le società occidentali, cosiddette civilizzate e/o sviluppate, modernizzate,
occupano la posizione più alta, mentre le società “primitive”, cosiddette tradizionali e
sottosviluppate, occupano la posizione più in basso e non sono ancora passate tramite le necessarie
trasformazioni che, attraverso uguali processi evolutivi, le innalzino al rango di società progredite,
soprattutto in termini di crescita economica. Questo stesso modo di concepire la relazione con le
altre culture ha prodotto quello che viene identificato con dualismo concettuale, ovvero, la
contrapposizione di concetti che si considerano uno alternativo all’altro (autoctono/straniero,
io/altro, uguale/diverso, bianco/nero, e così via.). L’educazione interculturale vuole superare il
dualismo concettuale per condurre ad un’ ulteriore visione, per creare una terza sfera di significato,
mettendo i concetti apparentemente contrapposti in una relazione dialogica.
L’approccio etnocentrico, invece, si fonda sulla contrapposizione tra società moderne e società
tradizionali, in base a ciò di cui queste ultime difettano rispetto al modello delle prime, ovvero
delle società occidentali, senza porsi la domanda se sia possibile applicare lo stesso modello a tutte
le società o se non sia una forzatura che non tiene conto delle tante variabili in campo (relazione con
l’ambiente, aspetti culturali, storia, …), e soprattutto senza cercare di creare una relazione dialogica
fra le stesse.
Torna al paragrafo 3.1.1
La Circolare Ministeriale del 26 luglio 1990 n. 205 al punto VI riporta quanto segue: “E’ qui da
sottolineare che l’educazione interculturale, pur attivando un processo di acculturazione, valorizza
le diverse culture d’appartenenza. Compito assai impegnativo, perché la pur necessaria
acculturazione non può essere ancorata a pregiudizi etnocentrici. I modelli della “cultura
occidentale”, ad esempio, non possono essere ritenuti come valori paradigmatici e perciò non
devono essere proposti agli alunni come fattori di conformizzazione”.
Di seguito la Circolare sviscera ulteriormente il significato di tale premessa: “Ogni intervento che si
colloca su questo piano tende così, anche in assenza di alunni stranieri e nella trattazione delle
varie discipline (anche in questo caso non vengono specificate, quindi si intende tutte, n.d.c.), a
prevenire il formarsi di stereotipi e pregiudizi nei confronti di persone e culture e a superare ogni
forma di visione etnocentrica”.
La Circolare Ministeriale del 2 marzo 1994 n. 73 dice: “E’ da sottolineare che l’educazione
interculturale non si esaurisce nei problemi posti dalla presenza di alunni stranieri a scuola, ma si
estende alla complessità del confronto tra culture, nella dimensione europea e mondiale
dell’insegnamento”. E ancora: “L’educazione interculturale si esplica nell’attività quotidiana dei
docenti”.
Confronto fra culture e attività quotidiana dei docenti. Solo nel mettere accanto questi due
frammenti abbiamo una lettura chiara di che cosa significhi far entrare l’intercultura in classe:
operare ogni giorno in tutte le discipline (non si specificano infatti docenti di quali discipline)
perché avvenga un confronto fra culture…ma come fare? Al punto 5 della Circolare ci sono chiare
indicazioni sul come fare per le varie discipline. L’educazione artistica e l’educazione musicale
vengono equiparate all’insegnamento dell’italiano che “consente […] un approccio alle altre
culture, europee e extraeuropee, e una riflessione sui loro rapporti”. Si cita poi, al punto 6,
l’elaborazione di progetti interdisciplinari che investano le espressioni letterarie, artistiche e
musicali, gli elementi storici e geografici e gli aspetti della tecnica e del lavoro. Si legge:
“Collegamenti utili anche in funzione interculturale possono essere sviluppati tra gli insegnamenti
relativi ai linguaggi non verbali che, nella terminologia dei programmi per la scuola elementare
assumono la denominazione di educazione all’immagine, educazione al suono e alla musica ed
educazione motoria. E’ anche da valorizzare l’ulteriore riferimento dell’educazione motoria alle
attività ludiche”.
Ecco che allora dalla semplice lettura di alcuni frammenti di documenti normativi, ormai anche
piuttosto datati, abbiamo segnata in modo chiaro e inequivocabile la strada su come lavorare a
scuola perché l’educazione interculturale sia l’asse culturale di fondo. Perché allora ancora oggi in
molte scuole del nostro territorio nazionale queste indicazioni normative vengono mal interpretate o
addirittura restano sconosciute?
Torna al paragrafo 3.1.1
La Legge 53/2003, che fornisce le indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati sia nella
scuola Primaria sia nella scuola Secondaria, in parte si esprime in continuità con alcuni principi
dell’educazione interculturale già presenti nella normativa precedente, in parte fornisce interessanti
elementi per inquadrare le discipline espressive all’interno di un contesto che supera la realtà
nazionale e si pone in una sorta di dialogo con le altre culture.
Qui di seguito riportiamo le indicazioni più generali riservando quelle inserite all’interno di ogni
disciplina ai paragrafi attinenti
La corporeità viene presentata come un valore “[…] nella persona non esistono separazioni e il
corpo non è il vestito di ogni individuo, ma piuttosto il suo modo globale di essere al mondo e di
agire nella società. Per questo l’avvaloramento dell’espressione corporea è allo stesso tempo
condizione e risultato dell’avvaloramento di tutte le altre dimensioni della persona”. Inoltre, la
Legge parla molto chiaramente in merito alle conoscenze previe degli allievi, vincolandole in
qualche modo al successo scolastico, e questo implica da parte degli insegnanti dedicare un giusto
tempo e modalità ben progettate per verificare tali preconoscenze anche nelle discipline espressive.
Riportiamo: “…il ricco patrimonio di precomprensioni, di conoscenze e di abilità tacite e sommerse
già posseduto da ciascuno influisce moltissimo sui nuovi apprendimenti formali e
comportamentali”.
Nella parte dedicata agli obiettivi specifici di apprendimento per l’educazione alla Convivenza
Civile, alla voce “educazione alla cittadinanza” viene chiaramente definito l’obiettivo di realizzare
attività di gruppo, tra cui sono previsti sia giochi sportivi, sia esecuzioni musicali, per favorire la
conoscenza e l’incontro con culture ed esperienze diverse.
Per quanto riguarda l’istruzione secondaria di primo grado, i Piani riportano quanto segue:
“qualifica l’istruzione secondaria di 1°grado il principio che vuole ogni disciplina aperta
all’interdisciplinarietà più completa a cui segue il salto transdisciplinare ovvero il confronto con una
visione personale unitaria di sé, degli altri, della cultura, del mondo”.
In un altro passo si trova l’indicazione ad “avere attenzione alla persona, valorizzare senza mai
omologare o peggio deprimere, rispettare gli stili individuali di apprendimento”.
Inoltre, c’è un riferimento esplicito ai laboratori facoltativi di rete come opportunità per assicurare
la coltivazione e l’autenticazione dei talenti artistici e musicali.
Nella parte dedicata agli obiettivi specifici di apprendimento per l’educazione alla convivenza
civile, alla voce “educazione alla cittadinanza” viene posto fra gli obiettivi il dialogo tra culture e
sensibilità diverse, e alla voce “educazione alimentare” si fa cenno alle abitudini alimentari in paesi
e epoche diverse.
Torna al paragrafo 3.1.1
Elio Damiano (1998) riporta quali sono state le strade percorse inizialmente dalla scuola in merito
all’intercultura secondo un criterio cosiddetto “prudenziale”; le presenta in questo modo:
¾ soluzione estemporanea: scelta di attività concentrate in un determinato periodo dell’anno
(feste, percorsi, mostre,…)
¾ soluzione specifica: introduzione di una materia ad hoc in base alle necessità, ad esempio di
lingua e cultura d’origine per salvaguardare la conoscenza della lingua madre degli allievi
stranieri
¾ soluzione delle materie ospitanti: alcune discipline (storia, geografia, diritto…) riscoprono
alcuni argomenti alla luce di una visione interculturale.
Tali soluzioni vengono individuate come compromesso fra un’esigenza nascente che non poteva
essere negata e l’istituzione lenta nei cambiamenti e non ancora pronta a una revisione generale dei
suoi orientamenti. Egli dichiara che la soluzione più dirompente e meno percorsa era sicuramente
una quarta chiamata
¾ soluzione diffusa: secondo la quale la scuola avrebbe dovuto riorientare alla base le finalità
educative in ordine ai valori interculturali.
Se, da una parte, la normativa emanata dal Ministero aveva già dato indicazioni ben definite sugli
orientamenti di fondo e ha continuato a farlo con costanza, dall’altra, la concretizzazione fattiva
nella prassi quotidiana era molto lontana dall’essere realizzata. Ancora oggi sono molte le scuole
che si stanno interrogando su come dare voce all’intercultura al loro interno. Come ristrutturare,
allora, l’istituzione per adeguarla alle finalità dell’educazione interculturale?
Quanto viene espresso a chiare lettere in molti testi è l’esigenza di un ripensamento complessivo
delle pratiche scolastiche: modalità organizzative, programmazioni disciplinari, metodi
comunicativi, stili d’insegnamento, relazioni scolaro/scolaro, scolaro/insegnante.
Uno degli obiettivi di fondo dell’educazione interculturale è lo sviluppo dell’intelligenza
relazionale. Sviluppare la relazione significa permettere che fra più soggetti avvenga una
comunicazione efficace. Da questo punto di vista possiamo percorrere la strada della facilitazione
all’avvio della comunicazione fra pari, ovvero della socializzazione, attraverso attività espressive: il
teatro e l’uso del corpo per la comunicazione (mimo, danza,…), le arti visive, la musica. Queste
discipline infatti hanno delle forti potenzialità comunicative superando il linguaggio verbale e
sfruttando, invece, proprio il linguaggio non verbale. Attraverso alcune semplici attività di scoperta
e utilizzo dell’abilità espressiva del corpo o della simbologia pittorica o musicale possiamo lavorare
sulle strategie che sottostanno alla comunicazione, sui meccanismi che ne permettono la piena
realizzazione.
Che cosa significa in termini didattici? Significa decidere fin dalla programmazione di inizio anno
quanto tempo dedicare alla promozione delle discipline espressive, non relegarle ad un riempitivo o
vincolarle esclusivamente a eventi della scuola (le varie feste che si svolgono durante l’anno) ma
ancorarle invece a obiettivi di educazione allo sviluppo delle abilità di relazione e quindi inserirle
nella programmazione quotidiana. Ma significa anche privilegiare attività che sviluppino la capacità
di raccontare, prediligere il metodo autobiografico, creare la consapevolezza comunicativa, lavorare
tecnicamente per capire come si struttura una comunicazione. Queste sono scelte che devono
coinvolgere anche l’educazione linguistica in un lavoro interdisciplinare.
Torna al paragrafo 3.1.2
La comunicazione viene solitamente intesa solo sul piano verbale, ma se così fosse potrebbero
esserci problemi nel gestire una classe multiculturale: imparare ad esprimersi secondo codici
diversi, linguaggi diversi non solo allena alla transitività cognitiva, ma diventa un utile supporto
all’efficacia della comunicazione in situazione di deficit verbale.
Per transitività cognitiva si intende l’abilità nella rimozione della fossilizzazione del pensiero.
Entrare in contatto con un’altra cultura molto spesso provoca in noi uno straniamento cognitivo,
possiamo non riconoscere nell’altro i suoi modi, le sue strategie di pensiero, di ragionamento, di
apprendimento. Per superare il possibile problema dell’impraticabilità dello scambio comunicativo
è necessario educare a saper fare spazio ad un pensiero divergente dal nostro, assumere un
atteggiamento epistemico: la cultura altra mi interessa per modificare lo spettro d’indagine,
assumendo un punto di vista diverso sulla realtà, esterno al mio sistema cognitivo. Secondo Duccio
Demetrio quanto più evitiamo che le corrispondenze e le differenze cognitive si fossilizzino
chiudendosi in se stesse (autisticamente ripetendosi), tanto più prepareremo il terreno (le menti) al
metodo e ai valori dell’interculturalità e cioè alla permeabilità nei confronti dei punti di vista, alla
sintonizzazione con il pensiero formatosi in altri contesti e all’interazione strategica, vale a dire, un
consociarsi per individuare forme superiori di comprensione del mondo.
In questo caso tutti i linguaggi delle educazioni (motoria, musicale, all’immagine) concorrono a
diventare una chiave d’accesso e soprattutto devono essere considerati di pari importanza nello
scacchiere dell’orario settimanale.
Torna al paragrafo 3.1.2
Educare al decentramento è un altro obiettivo dell’educazione interculturale: saper uscire
dall’egocentrismo per fare spazio all’altro è il risultato di un percorso talvolta lungo e faticoso.
Abituare la mente a svolgere esercizi di decentramento può essere fatto attraverso attività di varia
natura, il meccanismo è sempre quello di assumere un punto di vista diverso sulla realtà, esterno al
sistema cognitivo consueto.
L’abitudine al decentramento non è il risultato solo di attività linguistiche, come facilmente
verrebbe in mente; c’è molta letteratura in merito a proposte didattiche a partire dall’altro anche in
altre discipline: la storia vista dai conquistati, le crociate viste dai “mori” oppure la geografia a
seconda delle carte eurocentriche, sinocentriche, di Peters, e così via; in matematica si può applicare
la didattica dei punti di vista facendo costante attenzione ad accettare tutte le soluzioni possibili ai
problemi, senza formulare giudizi di valore (“questa è la soluzione migliore!”), ma confrontando i
vari percorsi e valutando insieme i motivi che hanno generato le differenze.
E come possono concorrere le discipline espressive? Sicuramente attraverso il teatro che costringe
ad assumere un punto di vista altro rispetto al sé, attraverso lo studio delle prospettive nelle opere
figurative, attraverso la visione di film e il loro smontaggio come testo cinematografico (i punti di
vista dalla cinepresa, al regista, ai protagonisti, ecc), attraverso l’utilizzo di alcuni giochi in cui lo
sguardo è affidato al compagno, oppure in cui si esplora nuovamente lo spazio da punti di vista
diversi; infine, anche la musica aiuta perché espressione di diversi punti di vista a partire dai generi,
ma anche dall’interpretazione personale di uno stesso brano musicale poi confrontata con quella dei
compagni. Passare attraverso i sensi aiuta un decentramento che si radica maggiormente nel vissuto
e lascia una traccia nella memoria molto profonda a cui potersi richiamare in altre situazioni.
Complementare a questo processo è la relativizzazione: imparare a considerare le questioni non in
modo assoluto ma in relazione ad altri fatti o ad altre situazioni, evitare di utilizzare il dogmatismo
come sistema di riferimento di descrizione della realtà.
Torna al paragrafo 3.1.2
La pedagogia interculturale ha fra i suoi obiettivi la transitività cognitiva, perché si possa effettuare
un vero percorso educativo verso tale obiettivo è necessario indagare su quale sia il punto di
partenza. Spesso, il problema degli studenti è di non avere chiara consapevolezza dei propri
processi cognitivi e del proprio rapporto con il sapere.
Non solo, talvolta si rischia di presentare il cosiddetto Occidente come la culla del pensiero che
regola le conoscenze: si imparano “saperi” selezionati all’origine da commissioni di esperti in base
alla propria cultura di riferimento, necessari all’inserimento nella società in cui si vive, utili alla
comprensione della realtà alla quale si appartiene. Ma se la cultura, la società, la realtà a cui si
appartiene non è considerata interdipendente alle altre, si rischia di trasmettere dei saperi statici, e
soprattutto egemonici rispetto alle altre culture. Gardner ci ha introdotti al concetto di intelligenze
multiple, portandoci a riflettere sul ruolo che ogni intelligenza ha nel proprio rapporto con la
conoscenza: in un mondo complesso come quello odierno, sviluppare un rapporto con il sapere che
si basa sull’utilizzo di più intelligenze, potrebbe favorire l’educazione alla transitività cognitiva.
Ci sono culture in cui viene dato un maggiore rilievo alle forme di conoscenza spaziale e corporea,
altre in cui viene privilegiata la conoscenza linguistica e logico-matematica, altre ancora dove la
conoscenza musicale ha una rilevanza particolare. Come pretendere che in una classe multiculturale
il rapporto con il sapere venga proposto, guidato, stimolato in modo univoco, secondo schemi basati
sulla trasmissione frontale? Come si può favorire la conoscenza e la consapevolezza dei propri stili
di apprendimento e dei processi cognitivi negli studenti se l’unico canale privilegiato nella scuola è
la “carta” e la “penna”? Dal punto di vista dell’insegnante il rapporto con il sapere lo si può
interpretare come una ricerca intenzionale basata sulla riscoperta dei saperi attraverso approcci
metodologici diversi, ma anche una selezione dei contenuti per la programmazione a partire
dall’altro e dall’offerta di una pari opportunità di fruizione di discipline espressive e
dall’intersecarsi di esperienze: fare matematica anche in palestra, studiare il ritmo sia in palestra, sia
attraverso l’uso del colore, sia in musica, proporre la letteratura attraverso la canzone, affrontare un
periodo storico anche attraverso la messa in scena teatrale o la visione di un film, avvicinarsi a
concetti astratti passando per l’esperienza come solo alcuni giochi di simulazione sono in grado di
far fare (dimensione ludica).
Torna al paragrafo 3.1.2
Insegnare in una classe in cui il gruppo di allievi è più o meno originario dello stesso quartiere o
paese fa sì che i riferimenti culturali a determinate narrazioni o esemplificazioni siano comuni e
condivise. Un insegnante abituato a questa tipologia di classe può presentare delle attività didattiche
anche molto stimolanti, trascurando di verificare se i riferimenti culturali necessari alla
comprensione dell’attività siano realmente condivisi da tutti gli allievi. Se in quel gruppo classe
improvvisamente arrivasse un allievo cinese o indiano anche già ben avviato alla conoscenza
dell’italiano L2, l’allievo potrebbe avere problemi di comprensione delle attività non tanto per
deficit linguistici, quanto per problemi di carattere interculturale. Ad esempio il posto occupato
dalle discipline espressive non è uguale in tutti i sistemi scolastici del mondo e l’uso che ne viene
fatto o lo scopo che hanno non sono gli stessi, persino il metodo utilizzato per l’insegnamento a
volte non è lo stesso. Ecco dunque la necessità, in fase di progettazione delle attività didattiche, di
porsi le domande: “sono espliciti i riferimenti culturali? quanto è caratterizzata culturalmente questo
tipo di attività?”; sulla base delle risposte che ci si dà, allora, riproporsi intenzionalmente di
contestualizzare l’attività stessa senza dare per scontati gli sfondi culturali di riferimento.
Torna al paragrafo 3.1.2
Gli universalia sono tutti quegli elementi che possono essere ricondotti ai bisogni comuni
dell’uomo, temi universali che permettono l’interazione tra gli uomini e che in ogni cultura hanno
trovato una specifica caratterizzazione. Ad esempio, l’uomo ha sempre cercato di trovare o di
costruirsi un riparo e questa è certamente da considerarsi una necessità universale a ogni
popolazione, ciò che diventa proprio della cultura di ogni civiltà, invece, è la risposta a tale
necessità che si caratterizza in base all’ambiente di vita, alle conoscenze e alle scoperte,
all’organizzazione sociale di quella stessa popolazione (grotte, palafitte, tende, igloo, grattacieli).
Far partire un’attività dal bisogno dell’uomo di comunicare delle emozioni o delle necessità
attraverso un linguaggio è facilmente proponibile anche a sezioni di scuola dell’infanzia e diventa,
per le tante possibilità di espansione di lavoro espressivo, coinvolgente e realizzabile in laboratori
(maschere, linguaggi inventati, cartelli, mimo, ecc.).
Un’altra attività particolarmente interessante da proporre, più adatta al secondo ciclo della scuola
elementare e alle medie, è la mappa degli universalia: individuare insieme ai propri allievi quali
possono essere questi elementi universali che superano i confini delle culture e poi ricercare quali
sono le risposte culturali che le varie popolazioni hanno dato a tali bisogni con particolare
attenzione ai linguaggi espressivi non verbali che spesso partecipano al meticciamento reciproco o
al sincretismo .
All’interno di questo panorama, assumono un particolare rilievo i diritti dell’uomo e dei bambini.
Svolgere un approfondito lavoro su questo tema è dare un significativo contributo all’educazione
interculturale. Suggeriamo una lettura che ponga come diritto tra i diritti quello che ciascun
individuo ha di svilupparsi a partire da ciò che è, sulla base dei suoi bisogni e attraverso i suoi
progetti.
Torna al paragrafo 3.1.2
Riportiamo qui di seguito, come suggerimento, alcuni articoli della Convenzione Internazionale
sui Diritti del Fanciullo che possono essere messi in relazione con le discipline espressive:
Art. 13
1 - Il fanciullo ha diritto alla libertà di espressione. Questo diritto comprende la libertà di ricercare,
di ricevere e di divulgare informazioni ed idee di ogni specie, indipendentemente dalle frontiere,
sotto forma orale, scritta, stampata o artistica, o con ogni altro mezzo a scelta del fanciullo.
2 - L'esercizio di questo diritto può essere regolamentato unicamente dalle limitazioni stabilite dalla
legge e che sono necessarie:
a) al rispetto dei diritti o della reputazione di altrui; oppure
b) alla salvaguardia della sicurezza nazionale, dell'ordine pubblico, della salute o della moralità
pubbliche.
Art. 29
1 - Gli Stati parti convengono che l'educazione dei fanciullo deve avere come finalità:
a) di favorire lo sviluppo della personalità del fanciullo nonché lo sviluppo delle sue facoltà e delle
sue attitudini mentali e fisiche in tutta la loro potenzialità; di inculcare al fanciullo il rispetto dei
diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e dei principi consacrati nella Carta delle Nazioni
Unite;
b) di inculcare al fanciullo il rispetto dei suoi genitori, della sua identità, della sua lingua e dei suoi
valori culturali, nonché il rispetto dei valori nazionali dei paese nel quale vive, del paese di cui può
essere originario e delle civiltà diverse dalla sua;
c) preparare il fanciullo ad assumere le responsabilità della vita in una società libera, in uno spirito
di comprensione, di pace, di tolleranza, di uguaglianza tra i sessi e di amicizia tra tutti i popoli e
gruppi etnici, nazionali e religiosi, con le persone di origine autoctona;
d) di inculcare al fanciullo il rispetto dell'ambiente naturale.
Art.31
1 - Gli Stati parti riconoscono al fanciullo il diritto al riposo ed al tempo libero, di dedicarsi al gioco
e ad attività ricreative proprie della sua età e di partecipare liberamente alla vita culturale ed
artistica.
2 - Gli Stati parti rispettano e favoriscono il diritto dei fanciullo di partecipare pienamente alla vita
culturale ed artistica ed incoraggiano l'organizzazione, in condizioni di uguaglianza, di mezzi
appropriati di divertimento e di attività ricreative, artistiche e culturali.
Nel documento sulle indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati nella scuola Primaria
(consultati nel sito www.istruzione.it), a pagina 2, si legge: “non è possibile giungere ad una
conoscenza formale che rifletta astrattamente sui caratteri logici di se stessa senza passare da una
conoscenza che scaturisca da una continua negoziazione operativa con l’esperienza”; nella parte
dedicata alla scuola Secondaria di 1° grado, a pagina 3, si legge che essa: “si preoccupa di
adoperare il sapere (le conoscenze) e il fare (abilità) che è tenuta ad insegnare come occasioni per
sviluppare armonicamente la personalità degli allievi in tutte le direzioni”.
Ci sembra che, in questo contesto, ci si possa riferire all’utilizzo di laboratori, come già
esplicitamente emerso anche in altri punti del documento, in cui addirittura si citano i laboratori di
cucina.
L’etimologia ortodossa della parola laboratorio fa risalire il termine al latino labor, con tutto ciò che
implica dal punto di vista del “fare”. Tradizionalmente, nella scuola, il laboratorio è un’aula
predisposta e allestita in modo da poter realizzare diverse esperienze legate ad alcune discipline
(scienze, educazione alla musica, educazione all’immagine, educazione alimentare).
Cogliamo l’occasione, in questa sede, per tornare sul concetto di laboratorio in ottica interculturale
e per offrire un ulteriore punto di vista sull’argomento. Quanto verrà presentato è il risultato di un
nostro personale esercizio di transitività cognitiva che speriamo apporti un contributo formativo
sull’argomento.
Ci permettiamo di coniare una nuova etimologia del termine, un po’ per gioco, ma che ci introduce
in un altro contesto significativo. Pensiamo a laboratorio come all’unione di una parola araba laab
(gioco) e della parola italiana “oratorio”, intesa nel suo legame con l’oralità. Secondo tale
etimologia, “laab-oratorio” è ogni qualvolta si gioca per parlare, si gioca con le parole, si traducono
le attività in forma di gioco per realizzare scambi comunicativi, si applicano alle discipline
metodologie ludiche per la presentazione o per la scoperta di alcuni contenuti. Chi gioca e usa il
gioco, anche come strategia per generare apprendimento, sa che è necessario organizzarlo con cura,
avere tutti i materiali necessari, preparare lo spazio, decidere i tempi, stabilire delle regole, seguire
delle fasi ben definite (per approfondimenti sul gioco vai nella sezione moduli del sito
www.unive/progettoalias.it). Non è un’attività spontanea, ma progettata nei particolari, dove spesso
alcuni ricoprono ruoli precisi, altri hanno compiti diversi, ma ognuno gioca la sua parte. Ecco che
allora il laboratorio, inteso in questo modo, non è più legato solo ad uno spazio individuato e
organizzato come tale, ma può essere inteso come un contesto simbolico di trattamento delle
informazioni e delle elaborazioni dei contenuti; fare laaboratorio è considerare l’aula una palestra
dove esperire discipline diverse, attraverso l’uso di “attrezzi”; dove tentare, sbagliare, riprovare,
allenarsi, per trovare il proprio personale assetto, il proprio stile di apprendimento. Non solo: è
creare, tradurre in azione, in esperienza, in realia, quanto propedeutico all’acquisizione di concetti
astratti. Questo significa trasformare l’educazione interculturale in pedagogia interculturale, offrire,
cioè, delle opportunità perché ogni diversità si esprima, trovi una sua realizzazione, e perché gli
allievi stranieri in difficoltà per la non conoscenza della lingua italiana, non siano messi di fronte ad
una scuola che considera la lettura e la scrittura come uniche abilità di base da cui ricavare
valutazioni dirette sulle capacità degli allievi.
Torna al paragrafo 3.1.1
“La musica non è un linguaggio universale (…). È certamente vero che la musica ha in sé una
grande capacità di provocare emozioni e di favorire momenti di aggregazione, ma ciò è ben altra
cosa dall’essere un linguaggio universale.
Infatti, ogni società o cultura elabora un proprio linguaggio musicale con sue specifiche scale, ritmi,
regole per la composizione o l’improvvisazione che corrispondono alle diverse concezioni del
tempo e dello spazio, dei passaggi della vita e della morte, delle ideologie e delle credenze religiose
dominanti al suo interno.” (M. Disoteo, Didattica interculturale della musica, EMI, Bologna, 1998,
pag. 7)
Nemmeno la notazione musicale è universale; la musica, infatti, ha trovato in culture differenti,
diversi modi per essere eseguita (nota).
Citiamo questa frase perché, innanzitutto, vorremmo mettere in evidenza il rischio
• da un lato, di considerare (superficialmente) la musica un linguaggio universale in virtù di
una world music oggi tanto “di moda” tra gli studenti, senza tenere in considerazione i
contesti socio-culturali in cui i singoli generi si sono sviluppati (ad esempio, non è pensabile
che il linguaggio musicale di generi quali il rap o la canzone d’autore italiana possa essere
definito universale, ma piuttosto come l’espressione particolare di una determinata
“microcultura”)
• dall’altro, di considerare la musica solo nella sua specificità culturale, negandole così il
valore aggregativo, di pacifica e virtuosa esperienza di contaminazione interculturale, la sua
capacità di fondere diversi generi di origine differente e di rielaborali in modo creativo ed
originale (pensiamo, ad esempio, al Rock ‘n’ roll).
La musica, dunque, è manifestazione universale e particolare, è espressione di una diversità e di una
specificità socio-culturale che va tenuta in debita considerazione se si sceglie un approccio
interculturale.
Il nostro studio ha, come tema centrale, proprio quest’indagine del rapporto fra uguaglianza
(necessità di esprimersi attraverso la musica) e diversità (differenze nelle singole espressioni); un
rapporto che, in prospettiva interculturale, dev’essere per forza dialettico, di curiosità, interesse e di
scambio reciproco.
Torna al paragrafo 3.2.1
La concezione del tempo varia profondamente nelle diverse società: per quella occidentale, ad
esempio, il tempo potrebbe esser rappresentato come una linea sulla quale gli istanti si susseguono
senza possibilità di ritornare; per quella orientale, invece, esso potrebbe essere rappresentato come
una circonferenza poiché viene individuata un’origine (che corrisponde al nostro concetto di inizio)
ma che coincide anche con la fine, in un andamento che potremmo definire “ciclico”. Questa
concezione del tempo è fortemente condizionata dalla religione buddista assai diffusa in tutto il
mondo orientale. Com’è noto, i buddisti credono nella reincarnazione di tutti gli esseri viventi,
fanno esercizi spirituali, si ritirano e pregano con lo scopo di raggiungere il “nirvana” che nei Sutra
viene letteralmente definito “la cessazione di ogni differenziazione illusoria”. Questo significa che
tutte le rappresentazioni umane del mondo, tutte le categorie (e quindi anche il tempo e lo spazio)
sono differenziazioni illusorie di un’unica realtà.
Tornando allo specifico del nostro discorso, se la musica può essere considerata come
“rappresentazione simbolica del tempo” (M. Disoteo, Didattica interculturale della musica, EMI,
Bologna, 1998, pag. 13), è facilmente comprensibile come essa possa caratterizzarsi proprio in base
al tipo di relazione instaurata, in ogni cultura, fra l’uomo e il tempo.
Portiamo, come esempio, l’analisi che il sociologo Sheperd ha condotto sul sistema tonale europeo.
Egli sostiene che tale sistema sia l’espressione musicale del tempo e della natura tipici della società
industriale e delle concezioni positivistiche in essa prevalenti. A sostegno di questa tesi,
proponiamo anche la testimonianza di Manuela Giolfo che, in relazione alla musica araba, scrive:
“l’ambiente naturale esercita un’influenza variabile, più o meno rilevante, sulle diverse culture e
quindi sulla musica di ciascun popolo. A questo ambiente naturale vanno aggiunte le attività umane
che si svolgono in un certo periodo e in un determinato luogo, e che sono comunque in rapporto con
l’ambiente. […] Vivere in un certo ambiente naturale condiziona la percezione dello spazio e del
tempo delle persone […] un ambiente come il deserto non suggerisce concetti di stabilità, di
costruzione, di edificazione, di architettura, né di permanenza, ma piuttosto di transitorietà […]
nella vasta distesa orizzontale di sabbia nulla si erge. […] L’arabo del deserto escogita per
esprimersi e per sopperire alla monotonia e alla mancanza di stimoli dell’ambiente una musica
altrettanto orizzontale che, come i granelli di sabbia, si muove e si trasforma senza uno sviluppo,
senza una costruzione, un impianto. E’una musica nomade, che scorre e si sposta, ma non va da
nessuna parte”. (M. Giolfo, Suoni del deserto, Ananke, Torino, 1998, pp. 25-26)
Ancora una volta, il rapporto dialettico fra uguaglianza (necessità di rapportarsi con il tempo) e
diversità (relazioni fra uomo e tempo) caratterizza l’idea di universale nei confronti della musica.
Torna al paragrafo 3.2.1
I Piani Nazionali pongono, fra altri, i seguenti obiettivi:
• utilizzare brani musicali di differenti repertori propri dei vissuti dei bambini, canti
appartenenti al repertorio popolare e colto di vario genere e provenienza;
• cogliere i più immediati valori espressivi delle musiche ascoltate traducendoli con la parola,
l’azione motoria, il disegno;
• progettare e realizzare messaggi musicali.
A nostro parere, si riconosce alla musica un potere comunicativo che può avere obiettivi diversi: la
narrazione di un vissuto, di emozioni, di idee, l’interpretazione di fenomeni attraverso la narrazione
didascalica o una transcodificazione.
Il filo conduttore di questi scopi è quello di far partecipi gli altri di una narrazione intesa in senso
più ampio, non legata cioè solo al codice verbale. In questa necessità riconosciamo un bisogno
universale dell’uomo: non esistono culture mute, culture che abbiano taciuto il loro esistere; ogni
cultura ha trovato la maniera di narrarsi e di narrare per scopi diversi e con strumenti o
caratteristiche differenti.
Ci sono culture che hanno sviluppato maggiormente la lingua scritta, altre che ancora oggi
privilegiano l’oralità, ma in tutte le culture è possibile ascoltare della musica: dal canto di gola degli
inuit al suono del dijeridoo degli aborigeni australiani.
Parafrasando Duccio Demetrio, il narrare ha un valore importantissimo, di carattere quasi
ontologico: ogni uomo è narratore e narrato. Quando qualcuno si accorge della nostra presenza e ci
fa entrare nel campo della sua narrazione ci tiene in vita. La musica permette alla narrazione di
trovare un linguaggio diverso per comunicare; lo sviluppo di tale linguaggio consente ad un numero
maggiore di persone di “tenere in vita” e al contempo di essere “tenute in vita”. Ogni persona,
essendo anche espressione di una determinata cultura, contribuisce a narrarla pure attraverso la
musica.
Attraverso la pedagogia narrativa si può far emergere quel potere di coinvolgimento soggettivo,
emotivo, affettivo, legato a momenti di vita, proprio della musica.
In questa potenzialità possiamo ritrovare il carattere universale della musica: universale non perché
parla una stessa lingua o perché usa uno stesso codice ma perché ha, fra le sue funzioni universali,
quella di legarsi ai ricordi del vissuto umano.
Torna al paragrafo 3.2.1
Quando parliamo di elementi transculturali, ci riferiamo a quegli elementi che, invece di
sottolineare le differenze fra le culture, ne fanno emergere le somiglianze. Puntare costantemente
l’attenzione sul diverso, sulla differenza può portare ad un desiderio di allontanamento, di rifiuto,
mentre concentrare lo sguardo sugli elementi comuni può aiutare a trovare “zone” di
meticciamento, di scambio reciproco.
Se, come afferma Schopenhauer, l’uomo è alla continua ricerca dell’equilibrio fra l’angoscia
persecutiva, che rappresenta la paura dell’altro vissuto come oggetto cattivo e l’angoscia
depressiva, che rappresenta la paura di perdere l’altro inteso come oggetto buono, il ritrovamento
di elementi transculturali può concorrere alla costruzione di questo equilibrio psichico, costituendo
uno sfondo significativo in cui non sentirsi né minacciati per l’eccessiva diversità, né soffocati
dall’eccessiva somiglianza.
Vediamo ora alcune caratteristiche transculturali appartenenti a diversi generi musicali o
composizioni. Se, per esempio, analizziamo la struttura di alcune produzioni sonore, notiamo che
sono costruite attorno alla modalità domanda/risposta. Pensiamo alla musica barocca, così come ai
duelli canori degli eschimesi, oppure ai brani di musica jazz dove la domanda/risposta corrisponde
al dialogo solo/tutti degli strumenti coinvolti nella jam session. Questa modalità di strutturazione di
brani musicali ricorre in culture diverse e in generi diversi ma dimostra che l’idea di tradurre un
dialogo in musica è una caratteristica che supera le connotazioni culturali. Il contrasto, inteso come
opposizione di elementi che -per volume, timbro o registro- si distinguono nettamente, può essere
una particolare forma di dialogo.
Altra caratteristica è la ripetizione che ha generato il canto a strofe, ma anche il rondò o il minuetto.
Essa è reperibile in molti canti, sia colti che popolari, declinata in generi diversi e presente anche
nelle filastrocche dei bambini. Un’altra ancora è la trasformazione o variazione di un tema di base
che genera varianti; pensiamo al Bolero di Ravel, così come alla musica araba classica o al samba.
Oltre ad una analisi di modelli di strutturazione dei brani musicali, possiamo cercare caratteristiche
transculturali anche indagando le funzioni della musica.
A che cosa serve la musica nelle diverse culture?
Nei Piani Nazionali si invita a coglierne le funzioni in brani di musica per danza, gioco, lavoro,
cerimonie, pubblicità (…) e ad approfondirne le funzioni sociali nella nostra e nelle altre civiltà,
fino a esaminare le componenti antropologiche della musica: contesti, pratiche sociali.
Sulla base dei succitati obiettivi, si possono proporre agli studenti dei percorsi didattici finalizzati
primariamente alla scoperta di tali funzioni e, in un secondo momento, alla loro comparazione con
la finalità di capire se, nonostante la musica assuma forme diverse (prendiamo ad esempio la marcia
funebre when the saints go marcin’ in in relazione al nostro concetto di musica funebre), essa non
possa essere concepita come un “linguaggio” universale proprio perché può espletare le stesse
funzioni in luoghi e epoche diverse.
Pensiamo a funzioni quali quella narrativa-descrittiva, informativa o didascalica (gli aborigeni
utilizzano la musica per insegnare ad ogni membro della comunità ciò che deve sapere della sua
cultura). Altre funzioni possono essere quella aggregativa, quella identificativa, di appartenenza (i
vari inni nazionali, ad esempio), espressiva di stati d’animo e emozioni, di sostegno a imprese
particolari o ad azioni (marce, canti propiziatori, ecc.), di sostegno al gioco.
In conclusione, quindi, comprendere che brani musicali sono portatori di senso all’interno di una
cultura e, al contempo, si intrecciano (per strutturazione e per funzione) a brani appartenenti ad
altre culture, composti in altri luoghi e tempi del villaggio globale, diventa essenziale per poter
tracciare un percorso di educazione interculturale significativo attraverso l’educazione al suono e
alla musica.
Torna al paragrafo 3.2.1
La musica araba non usa la notazione musicale su pentagramma. Noi occidentali siamo abituati a
considerare la musica anche in un rapporto visivo con un codice scritto; potremmo dire, invece, che
la musica araba sfrutta il canale senso-motorio pensando alla nota come ad una pressione delle dita
sul manico del liuto.
Inoltre, come per la prima forma di letteratura araba (la poesia) legata alla tradizione orale che
basava la trasmissione sulla capacità mnemonica dei poeti, anche la musica araba si basa sulla
trasmissione orale e, nonostante esista un sistema di codifica scritto della musica, i segni scritti
hanno solo la funzione di guidare la memoria del musicista che, tra l’altro, non è tenuto a seguire
fedelmente quanto annotato.
G. Bevilacqua, nel suo libro Didattica interculturale dell’arte (EMI, Bologna, 2001, pp.15-16), ha
cercato di tracciare una lista di pregiudizi più diffusi in relazione all’arte
Torna al paragrafo 3.3
Usare creativamente il colore, utilizzare il colore per differenziare e riconoscere gli oggetti, la
scala cromatica, le simbologie cromatiche è un filo conduttore dalla scuola primaria all’ultima
classe della secondaria di 1° grado: come presentare i colori secondo un approccio interculturale? Il
percorso potrebbe essere ermeneutico: primariamente cercare di far emergere lo stereotipo rispetto
al colore e al significato che ha per ogni allievo, poi confrontare con gli altri il proprio punto di vista
e riflettere insieme per vedere se ci sono colori connotati culturalmente che utilizziamo in un certo
modo o per rappresentare determinati sentimenti influenzati dalla nostra cultura in maniera del tutto
inconsapevole. Alla fine, in seguito ad un confronto più ampio con le altre culture, vedere come lo
stesso processo influenzi anche gli altri e rendersi coscienti del fatto che non è possibile rendere
assoluto il proprio punto di vista.
Torna al paragrafo 3.3.3
Rappresentare figure umane con uno schema corporeo strutturato è un altro obiettivo che rischia
di incontrare delle difficoltà se non si conoscono le concezioni della relazione con il corpo e della
raffigurazione del corpo umano in altre culture. E’ necessario, pertanto essere informati, per quanto
possibile, su questi aspetti e preparare il terreno perché possa avvenire un reale incontro fra culture,
anche attraverso l’apporto di mediatori culturali. Infatti, spesso gli insegnanti pongono la domanda
se sia, per esempio, permesso ai bambini islamici di disegnare il corpo umano in relazione al divieto
dell’islam dell’antropomorfismo. A questo riguardo rinviamo il lettore ad un approfondimento.
Torna al paragrafo 3.3.3
Tecniche grafiche e pittoriche, raffigurazione dello spazio, ritmo e aritmia, gli elementi della
differenziazione del linguaggio visivo segno, linea, colore, spazio, tecniche artistiche; rintracciamo
in questi nuclei tematici una possibile “pista” universale: la conoscenza del “come” attraverso le
culture per scoprire contaminazioni, mescolanze e particolarismi; lo studio delle tecniche come
aspetti che si distanziano dai giudizi estetici e ci fanno sapere qualcosa di più dell’artista o di una
comunità e attraverso lo studio dei materiali scopriamo anche in che relazione stanno con il loro
ambiente di vita.
Torna al paragrafo 3.3.3
Elementi di base della comunicazione iconica per cogliere la natura e il senso di un testo visivo;
identificare in un testo visivo, costituito anche da immagini in movimento, gli elementi del relativo
linguaggio: linee, colore, distribuzione delle forme, ritmi, configurazioni spaziali, sequenze,
metafore, campi, piani; leggere e interpretare i contenuti di messaggi visivi rapportandoli ai contesti
in cui sono stati prodotti, tutto questo ci conduce all’utilizzo del testo cinematografico, al rapporto
fra cinema e intercultura, alla possibilità dell’utilizzo della telecamera o della macchina fotografica
per applicare il cosiddetto metodo bio-documentario.
Torna al paragrafo 3.3.3
Sono molti i motivi per i quali il cinema (e in senso più ampio, l’audiovisivo) si rivela insostituibile
nelle pratiche educative interculturali. Se valorizzato come ambiente in cui si generano percorsi di
conoscenza, considerandone quindi il funzionamento in quanto dispositivo, anziché adoperarlo
come semplice strumento da piegare alla didattica, il cinema stesso, visto in prospettiva
interculturale, acquista nuova luce.
Il cinema infatti è dispositivo di formazione, concorre cioè alla formazione delle idee attivando un
processo di negoziazione in senso circolare, i cui poli sono:
- il soggetto della visione (chi guarda)
- il contesto e la situazione in cui il soggetto si trova
- il testo (il film, la sequenza, il prodotto audiovisivo).
Nell’ambito di questo processo, lo spettatore opportunamente stimolato è soggetto attivo. Il
significato di ciò che vede è frutto di uno scambio tra quanto era stato per lui fino a quel momento
“visibile”, cioè riconoscibile, e quanto di nuovo ha saputo apprendere. Nelle pratiche educative
interculturali, il cinema diventa fondamentale in quanto occasione di conoscenza condivisa.
La natura intertestuale del cinema, induce al confronto tra testo filmico, realtà e cultura di
provenienza dello spettatore, alla ricerca di un terreno d’intesa. A livello comunitario e sociale,
questo scambio avviene nella costruzione dell’immaginario. La ricerca di un terreno d’intesa sulla
base dela negoziazione dei significati è il fondamento delle pratiche interculturali.
Per sua costituzione inoltre, il cinema induce il soggetto della visione al decentramento, altra
dinamica propria dell’approccio interculturale. Il cinema costringe lo spettatore ad assumere diversi
punti di vista, educandolo alla relativizzazione. L’educatore non farà altro che portare ad un livello
di coscienza e consapevolezza i processi di identificazione e proiezione che lo spettatore vive a
livello inconscio durante la visione di un film. Per queste e altre ragioni, cinema e audiovisivo
rivelano la loro essenza interculturale in quanto dispositivi di movimento e transito del pensiero e
delle idee.
Individuare le molteplici funzioni che l’immagine svolge da un punto di vista sia informativo sia
emotivo; funzioni e carattere dell’immagine espressiva, emozionale, enfatica, estetica; gli stereotipi
e la generatività iconica, le funzioni dell’arte nel tempo e il valore estetico del patrimonio culturale,
sono obiettivi che ci portano, come per la musica, a vedere nella funzione un elemento
transculturale. Può essere molto utile reperire informazioni da varie fonti (testi, testimonianze
dirette degli allievi stranieri o delle loro famiglie, mediatori culturali, siti) sulle funzioni legate
all’arte nelle varie culture proprio per indagare sugli eventuali intrecci.
Torna al paragrafo 3.3.3
Individuare e classificare simboli e metafore può diventare un terreno di utile confronto su che
cosa sia la simbologia e su cosa si costruiscono le metafore nelle culture diverse, facendo emergere
quella che è la simbologia della propria cultura che, molto spesso, è utilizzata inconsapevolmente: si
usa, tra l’altro, un prodotto senza conoscere attraverso quale processo si sia formato. I bambini
italiani alla scuola dell’infanzia spesso colorano le case con il tetto rosso e il muro giallo anche se
nessuno mai ha detto loro di fare così: è uno stereotipo che veste il simbolo “casa” nella nostra
cultura ma loro non ne sono consapevoli.
Torna al paragrafo 3.3.3
Un rischio nel quale si può incorrere è un non corretto utilizzo della didattica della comparazione.
Comparare è un percorso molto interessante, stimola lo spirito critico, ma nel campo dell’arte si
deve porre molta attenzione a che cosa si sceglie di comparare. Il consiglio che ci sentiamo di dare è
quello di evitare la comparazione fra opere singole, di singoli autori, piuttosto di rivolgersi a
orizzonti più ampi, a temi, a interi generi, in quanto l’opera in sé è talmente legata al contesto in cui
è nata e al percorso artistico dell’autore che l’utilizzarla isolatamente ci sembra un’operazione di
sospensione della stessa fuori dallo spazio e dal tempo e quindi poco corretta e efficace. La
decontestualizzazione non è in sintonia con l’educazione interculturale. Quando si vuole utilizzare
la didattica comparativa, ci si deve chiedere: qual è lo scopo per il quale la voglio utilizzare? E solo
dopo essersi dati la risposta, si possono fare scelte mirate e coerenti, senza cadere nel rischio di
banalizzare l’attività.
Un altro rischio è rappresentato dall’affidarsi ai libri di testo senza avere un solido percorso
autoformativo sull’educazione interculturale che ci permetta di essere critici nei confronti del testo
stesso che, anche in piena buonafede, può indurre a confermare gli stereotipi pur nell’intento di
decostruirli o superarli.
Un esempio: in un testo per la scuola elementare leggiamo: “L’arte delle popolazioni più lontane,
tuttavia, è poco conosciuta: spesso le diamo scarso valore e solo perché rappresenta una cultura
diversa dalla nostra. Gli oggetti artistici di altre regioni del mondo non riescono a suggerirci quale
sia il contesto in cui sono nati e che significato abbiano per chi li ha fabbricati. Non per questo si
deve considerare l’arte come qualcosa di prezioso e distaccato dalla vita quotidiana: l’oggetto creato
deve essere bello ma anche utile. Può essere un copricapo multicolore, un tappeto ornato, un manico
di un cucchiaio intagliato, oppure una sacca indiana intessuta… Anche le cose semplici possono,
così, diventare oggetti d’arte” (da “Noi nel mondo” 5, gruppo scuolabase, Theorema libri, pag.
115). Il testo è corredato da fotografie di un piatto giapponese, una testa di non si sa quale
provenienza e materiale e un oggetto in legno raffigurante una persona accovacciata di cui non si
capisce la funzione (una pipa? Uno strumento a fiato?). Per quanto il testo cerchi di proporre in un
linguaggio semplice alcuni concetti che ritroviamo nell’approccio interculturale all’arte
(inserimento dell’oggetto nel suo contesto, idea dell’arte in senso esteso), a nostro avviso non si
capisce perché venga dato per scontato che all’arte di paesi lontani diamo scarso valore in virtù
della diversità (è davvero così?), senza chiedersi quale sia la percezione che i bambini hanno nei
confronti di opere d’arte di altri paesi, forse non sanno nemmeno che cosa significhi attribuire loro
un valore. Non capiamo nemmeno perché venga affermato che l’oggetto creato debba essere bello
ma anche utile: secondo noi, può essere bello, ma non è detto che lo sia, il gusto estetico è molto
soggettivo e non sappiamo in base a quali parametri si possa stabilire un idea di “bello universale”,
e può essere utile ma non necessariamente, che sia un dovere, un imperativo non ci sembra
proponibile. Inoltre volendo ribadire la necessità di non praticare la dicotomia arte colta/arte minore
(artigianale), a nostro avviso non si fa che confermare lo stereotipo e offrire ai bambini un esempio
che probabilmente non è fra i loro pregiudizi: perché voler elencare dei prodotti tipici di alcune
culture dando per scontato che siano oggetti appartenenti ad un arte non “colta”? non è meglio
lasciare che siano i bambini a esprimersi liberamente al riguardo senza dover partire
necessariamente da quelli che sono stereotipi del mondo adulto nei confronti dell’arte? E’ come
quando l’adulto che parla al bambino dice: “io non sono razzista, io non ce l’ho mica con i terroni”,
non gli mette forse in testa un termine con una connotazione ben precisa che smentisce di fatto
l’affermazione che l’ha preceduta?
Torna al paragrafo 3.3.3
La rappresentazione iconica umana per l’Islam è in qualche modo un tentativo di sostituirsi al
potere creativo che è di Allah. L’uomo che crea un’opera è comunque guardato con sospetto, perché
si appropria di un potere divino che lo pone su un piano diverso rispetto alla subalternità nei
confronti di Allah. Secondo questa visione sono sempre stati guardati con sospetto tutti gli artisti,
poeti, letterati, musicisti. A sostegno di tale posizione più rigorosa, portiamo questa testimonianza
di un professore musulmano collaboratore del Ministero dell’Istruzione in Marocco: “da un punto di
vista religioso non si devono disegnare figure umane perché solo Dio lo può fare. Le bambole
dovrebbero essere vietate, possono essere accettate solo se sono imperfette. Ho visto una volta un
faqih (maestro religioso) che ha tolto un occhio al pupazzo del nipote e mi ha detto che se è perfetto
vuol dire che è un essere umano”. Vediamo, in questo modo, quali possono essere le estreme
conseguenze dell’interpretazione del divieto religioso di rappresentare la figura umana. Ma, per non
fermarci all’aspetto dottrinale e per vedere come si regolano a scuola, la testimonianza si conclude
in questo modo: “a scuola si studia l'educazione artistica in cui il bambino dovrebbe disegnare
oggetti, case, forme geometriche, e così via. Sfogliando i libri della materia non ho trovato attività
che riguardassero le forme umane. Comunque non è vietato disegnare figure umane. Ciò che alcuni
faqih sostengono è che ciò che è vietato è creare un pupazzo che fa ombra (cosi dicono) ma
disegnare non è vietato.”
Proprio perché la realtà arabo-islamica è complessa e varia riportiamo anche un altro punto di vista,
le considerazioni raccolte in ambiente siriano da Federica Marchetti, laureata in arabo e insegnante
di italiano in Siria: “Il sistema educativo è diverso a seconda del Paese di cui si parla; in Siria, per
esempio, la scuola dell’obbligo (fino ai 12 anni) prevede l’insegnamento, di tipo laico, di tutte le
materie scolastiche, l’obbligo di una lingua straniera a scelta tra il francese e l’inglese, l’obbligo di
frequenza anche alle attività ricreative ed espressive, anche se nella scuola il primato del sapere
scientifico e letterario, del parlar bene e dello scrivere ornato è ancora solido e, nonostante tutto, fa
l’occhiolino alla scuola del passato. In tenera età, contrariamente a quanto la visione occidentale
falsamente pregiudicherebbe, ed esattamente a quanto avviene nelle scuole occidentali , è più che
normale, è naturale che i bambini giochino, conversino e trascorrano il loro tempo con le bambine.
Non esiste alcun divieto in grado di impedire questa commistione. Su esempio delle scuole
occidentali, anche la maggior parte delle scuole dell’obbligo nei Paesi arabi ha concepito il proprio
aggiornamento come conoscenza di nuovi linguaggi, assumendoli all’interno delle proprie finalità e
dei procedimenti che sono loro tipici.
Proprio nelle attività che lasciano spazio all’espressione del corpo, alle attitudini personali,
all’immaginazione e al talento, come le attività artistiche, sportive e ricreative, si riscontra come il
gioco, l’arte, la musica e lo sport consentono ai bambini e alle bambine di conoscersi e di
socievolizzare. Affermare che l’universo meraviglioso delle arti sia da bandire o rilegare a unità
artistiche ridotte e vincolate alla dimensione religiosa costituisce un atto di gravissima portata;
equivale a considerare la linea del cosiddetto “risveglio islamico” (nahda, n.d.c.) l’interprete unico
di una cultura eterogenea e amplissima. Purtroppo è l’erba infestante dell’interpretazione
fondamentalista che gode di maggior propaganda e risonanza in Occidente e che strumentalizza e
corrompe la religione islamica e la cultura araba più in generale.
In campo artistico, a scuola l’alunno ha la possibilità di sperimentare le diverse tecniche artistiche
attraverso metodi didattici moderni (grazie a un costante aggiornamento degli insegnanti).
L’approccio artistico con il corpo avviene attraverso tecniche ludiche e spettacoli teatrali. Il tanto
conclamato divieto religioso di rappresentazione antropomorfica, dovuto a motivazioni precise di
origine puramente storiche, non trova, per l’ennesima volta, conferma: i bambini arabi disegnano in
continuazione personaggi reali e di loro fantasia, anzi vengono incoraggiati a farlo”.
Si tratta di riuscire a capire se le famiglie degli allievi musulmani che abbiamo a scuola siano su
posizioni vicine a quelle dei faqih o siano più “laiche” e, grazie al contributo di un mediatore
culturale cercare attraverso il dialogo di chiarire scopi e attività della scuola italiana nel rispetto di
quelle che possono essere delle prescrizioni religiose di altre culture ma che non possono
prescindere dal raggiungere lo sviluppo globale del bambino anche nel campo delle espressività
artistica. Nei casi più difficili di incontro su questo terreno si possono progettare attività che
escludano la produzione di statue, bambole o oggetti che rappresentino la figura umana e lasciare
che lo schema corporeo sia affidato solo al disegno.
Torna al paragrafo 3.3.2
Tra gli aspetti particolari, ad esempio, della cultura araba è il cosiddetto arabesco, sia visivo che
“sonoro”, che si basa sul principio della ripetizione simmetrica senza fine. Nell’arte ciò che colpisce
il nostro occhio è questo sviluppo modulare di figure geometriche o naturali (foglie, forme stilizzate
di elementi della natura) che riempiono lo spazio in risposta ad un visibile horror vacui. Lo
sviluppo continuo, l’assenza di interruzioni, la ridondanza, sono elementi alla base della cultura
araba che si ritrovano in tutte le espressioni artistiche e di pensiero, anche nella scrittura e nel modo
di formulare il discorso si ritrovano ad esempio nello scarso utilizzo della punteggiatura, nel non
spezzare la parola per andare a capo, nell’utilizzo di più parole nella stessa frase provenienti dalla
stessa radice. La decorazione delle pareti delle moschee, dei tappeti, delle stoffe, dei mobili in
legno, dei piatti, è caratterizzata da questo gioco di simmetrie e modularità in cui il ritmo assume un
valore dominante.
“La visione che l’altro ha del suo mondo è diversa dalla nostra, ma non tanto diversa da essere per
noi incomprensibile e da non permetterci di capire, attraverso essa, come noi stessi strutturiamo il
nostro mondo in base alla nostra cultura”. (nota). Apriamo con queste parole la descrizione di
quello che viene definito il metodo bio-documentario. Si tratta di mettere in mano una cinepresa,
telecamera o macchina fotografica, a un soggetto e di stimolarlo a ricercare il significato che vede
nel proprio mondo. Fra le ricerche condotte con questo metodo c’è chi ha provato a vedere come si
sarebbero comportati gruppi di ragazzi socialmente e etnicamente diversi avendo a disposizione
questi mezzi e come si sarebbero organizzati per realizzare un film. L’attenzione era anche rivolta a
che cosa avrebbero cercato di esprimere su se stessi e che cosa avrebbero rivelato in modo
inconsapevole rispetto alla loro cultura. Il risultato della ricerca dava un dato interessante: pesa
maggiormente la differenza sociale rispetto a quella etnica.
Come utilizzare il metodo bio-documentario a scuola?
In tre fasi:
1- Utilizzare film etnografici per stimolare la riflessione degli studenti sull’alterità.
2- far esprimere visualmente idee e sentimenti, anche semplicemente attraverso una macchina
fotografica.
3- Analizzare e confrontare le produzioni realizzate.
4- L’analisi dell’autorappresentazione visuale dell’altro e della sua rappresentazione del suo
mondo ci mette in grado di comprendere il processo attraverso il quale noi costruiamo le
rappresentazioni di noi stessi e del nostro mondo, inoltre fa emergere quella cultura
inconsapevole che ci veste e che una volta resa consapevole ci apre gli occhi nell’incontro
con l’altro come davanti uno specchio.
Citazione tratta dal testo di Paolo Chiozzi, Comunicazione visuale e educazione interculturale, in
G. Tassinari, G. Beccatelli Gurrieri e M. Giusti, Scuola e società multiculturale, elementi di analisi
multidisciplinare, La Nuova Italia, Firenze, 1992, pp. 131-139 e che si riferisce ad uno studio di
S.Worth e J. Adair, Through Navajo eyes. An exploration in film communication and anthropology,
Bloomington, Indiana University Press, 1972, pag. 253.
Nella cultura araba, ad esempio, le decorazioni utilizzate all’interno degli hammam (bagni pubblici)
sono pensate in funzione terapeutica, ovvero, viene loro riconosciuto un effetto psicologico di
benessere e di stimolo alla relazionalità (si sa che i bagni sono per gli arabi luogo privilegiato di
socialità e relazione tra sessi separati).
Il teatro nel mondo arabo ha avuto un ruolo nel medioevo esclusivamente in forma di teatro
d’ombre, di chiara origine cinese; questo modo di divertirsi venne sviluppato in particolar modo dal
medico egiziano Ibn Daniyàl che, attraverso le sue opere, ha elaborato una innovativa forma
letteraria, ha proposto degli spaccati realistici e ha dato la scena a personaggi dell’immaginario
popolare. Il legame con la realtà popolare, però, ha impedito che tale forma di espressione artistica
avesse uno sviluppo rilevante e si è dovuto attendere la fine dell’Ottocento, sotto l’influsso
dell’Occidente, perché la drammaturgia araba moderna potesse produrre opere di valore.
Dall’Egitto e dalla Siria ha preso le mosse il teatro moderno sia con opere tradotte da quelle
europee, sia con opere originali di argomento prevalentemente storico. Ma il teatro non ha avuto
vita facile sia per motivi politici sia per motivi religiosi (come per la musica). In Egitto nel 1931
venne soppresso l’ “Istituto d’arte teatrale”. Ciononostante, questa forma d’arte ha continuato a
produrre opere e a esprimere talenti, ne ricordiamo uno per tutti, Tawfiq al-Hakim. Quello che ha
cercato di compiere il teatro è stato lo sforzo di avvicinare alla popolazione non colta una forma
d’arte, cercando di superare la dicotomia fra lingua Fusha e lingua Darija, rischiando di rimanere in
secondo piano rispetto alla letteratura o alla poesia. Taoufik Jebali, autore teatrale contemporaneo
tunisino, ad esempio, scrive in dialetto tunisino, nella speranza che il suo paese prenda coscienza
del valore della propria lingua locale, a suo parere sottostimata e poco sfruttata, sebbene esprima
meglio la mentalità dell'uomo comune. Egli sostiene che la lingua Fusha ha, ormai, un uso legato
esclusivamente all'autorità e al potere, è un bell’oggetto da ammirare ma non permette modifiche,
mentre il dialetto tunisino è una miniera di materiale prezioso da scoprire e manipolare, campo
ideale per la sperimentazione. La preferenza del dialetto è determinata anche dalla scelta dei
personaggi: impiegati, poliziotti, gente semplice del quartiere, addirittura talvolta semi-analfabeta
che realisticamente non può esprimersi in Fusha.
In che rapporto sono la scuola e il teatro ai giorni nostri? In alcuni paesi arabi che vantano una
tradizione in campo teatrale (Siria, Egitto, Tunisia) l’approccio artistico con il corpo avviene
attraverso tecniche ludiche e spettacoli teatrali che si avvalgono per lo più di risorse interne
(insegnanti volenterosi e amanti del teatro). Lo scopo è favorire i processi di socializzazione,
acquistare familiarità con nuovi personaggi e storie coinvolgenti, movimenti e dialoghi
appassionanti, spesso facenti parte della cultura del Paese. Inoltre la conoscenza del teatro viene
condotta anche attraverso l’uso dei costumi, delle maschere, dei trucchi.
Nelle esperienze riportate da alcuni insegnanti di allievi arabofoni, soprattutto pre-adolescenti,
abbiamo avuto testimonianza di coinvolgimento attivo e partecipato alle attività di teatro della
scuola, che sembravano trovare in tali allievi una via d’accesso privilegiata sia per l’espressività, sia
per la socializzazione, e uno strumento per lo sviluppo linguistico in italiano L2 molto efficace.
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In alcuni paesi arabi la danza, concepita quasi esclusivamente come danza orientale o danza del
ventre, è riservata alle bambine e non è insegnata a scuola, ma viene praticata negli istituti privati e
in genere è riservata ad ambienti interamente femminili. Oggi, nel Medio Oriente e in Nord Africa,
la danza del ventre non è sentita, almeno dalle donne, come una singola esperienza limitata
all’agitazione fisica della carne, separata dalla spiritualità, come spesso viene ritratta in Occidente.
In paesi come il Marocco e l’Egitto, per secoli, madri e zie hanno insegnato alle bambine i gesti
elementari della danza orientale, come un esercizio di potenziamento dell’autocoscienza. Lo fanno
ancora, e la danza è tramandata dalle donne di generazione in generazione, come celebrazione del
corpo e rituale di rafforzamento del sé. In un mondo arabo afflitto da un’aggressiva globalizzazione
che a malapena riesce a controllare, tutto sembra cambiare a una velocità vertiginosa: tutto, eccetto
l’ostinato bisogno da parte delle donne, senza limiti di età ed estrazione sociale, della loro dose di
rigenerante danza orientale, che spesso assume la forma di trance.
Torna al paragrafo 3.4.4
Una scuola che si attrezza per attuare trasversalmente gli obiettivi dell’educazione interculturale
agisce in più direzioni all’interno di un progetto sistemico:
¾ piano organizzativo: la scuola individua ruoli e funzioni di tutti i suoi attori (Dirigente,
segreteria, insegnanti, commissioni, personale ausiliario, assistente sanitaria…); organizza
nei particolari il percorso di inserimento di ogni allievo straniero; elabora dei sussidi
informativi plurilingue che illustrino l’organizzazione scolastica, gli obiettivi di fondo, il
Piano dell’Offerta Formativa; acquisisce testi specialistici per ampliare lo “scaffale
interculturale” della biblioteca; agisce in termini di autonomia sull’organizzazione oraria in
favore di percorsi didattici di insegnamento dell’italiano L2; rafforza i collegamenti con gli
enti pubblici e il volontariato locali, riprogetta l’utilizzo degli spazi della scuola;
¾ piano metodologico: organizza formazione per gli insegnanti perché venga acquisita
consapevolezza sul tema e, tramite gli organi preposti, compie delle scelte di fondo
sull’orientamento metodologico da seguire; ad esempio: abbandono della lezione frontale
come unico sistema di gestione della classe, abbandono dell’omogeneizzazione delle
esercitazioni sugli apprendimenti, valorizzazione dei linguaggi non verbali, utilizzo delle
classi aperte, dei laboratori e di lavori per piccoli gruppi, non più come scelte di singoli
insegnanti ma collegiali;
¾ piano didattico: attuazione di percorsi individualizzati, adattamento e riduzione dei contenuti
nella programmazione disciplinare, elaborazione di materiali di supporto per gli insegnanti e
di utilizzo per gli studenti, istituzione di un laboratorio di italiano L2, istituzione di gruppi di
lavoro per la semplificazione dei testi e per l’individuazione di strategie efficaci di
facilitazione all’apprendimento disciplinare.
Con questa espressione intendiamo l'insieme di immagini e di rappresentazioni della realtà che
risultano essere comuni e condivisi all'interno di una comunità.
Le rappresentazioni collettive della realtà costituiscono la sovrastruttura culturale in cui si inserisce
e si declina la percezione soggettiva della cultura.
In un approccio interculturale alle discipline espressive, è fondamentale partire dalla
consapevolezza che, da una parte esiste un immaginario comune all'umanità (poiché tutte le società
si riconoscono in un immaginario collettivo e, quindi, condividono la necessità di rappresentare la
realtà e di rappresentarsi), dall'altra, c'è una varietà di immaginari collettivi fortemente legati alle
specificità storico-culturali, alle singole evoluzioni delle società in cui, nel tempo, esso si è formato.
Torna al paragrafo 3.3.2
La tradizione dell'arte europea si fonda sul concetto antropocentrico del mondo, per il quale l'uomo
si oppone alla natura e la natura esiste al di fuori dell'individuo. Al contrario, nelle tradizioni
artistiche dell'Asia -ad esempio- e, in particolare, in quelle derivate dal Buddismo, non c'è
distinzione fra uomo e natura: l'uomo è parte integrante della realtà naturale e la natura non è
considerata un fatto oggettivo, esterno. Uomo e natura sono parte di un tutto. Se l'Occidente si
sforza di vedere il mondo distinguendolo dal soggetto, l'Oriente al contrario coglie il mondo
dall'interno; la logica conseguenza di tale concezione è che non esiste una realtà oggettiva ma solo
quella soggettiva dell'artista. È per questo che nell'arte Orientale non è possibile parlare di realismo
strictu sensu.
Ma non si deve pensare che la mancanza di opposizione tra uomo e natura generi casualità.
L'osmosi dell'uomo con la natura non avviene mai in maniera casuale, ma segue un piano estetico,
formale, che condiziona l'incontro.
L'arte orientale nelle sue molteplici soluzioni propone una forma che è dell'artista che la produce e
che sebbene imiti la realtà, in tutta la sua varietà, non esiste in natura. La forma cioè trionfa
sull'imitazione della natura attenendosi ad essa.
Questo processo estetizzante della realtà interessa l’intera espressione artistica orientale, la pittura,
la grafica, la scultura ma anche il teatro mirano alla rievocazione di una realtà in cui predomina il
filtro dell'artista. L'artista applica alla natura la sua forma e riproduce un'immagine filtrata nella
quale solo qualche minimo particolare rinvia alla realtà, mentre l'intero disegno conserva un tratto
impressionistico.
L'artista allude, suggerisce, non si limita a rappresentare la realtà per quella che essa è.
La mentalità occidentale che tende a preferire per alcune rappresentazioni il realismo in senso
stretto non riesce chiaramente a cogliere il valore estetico di immagini o spettacoli che sembrano
così lontani da ogni riferimento al reale.
Torna al paragrafo 3.3.2
Il concetto di tecnica in occidente si lega strettamente alla sperimentazione. L'arte occidentale
prosegue sempre alla ricerca di nuove tecniche, di nuove possibilità, di nuovi materiali.
L'arte orientale al contrario sceglie la specializzazione che si ottiene attraverso l'esperienza ripetuta
e costante di tecniche già note e sperimentate.
A questo concetto di arte come "esperienza" è legato il valore che l'oriente assegna all'emulazione e
alla ripetizione. Non è un caso se molti paesi orientali sono oggi i maggiori produttori di copie e di
falsi di oggetti e prodotti di ogni genere. La copia non ha un valore negativo, anzi in alcuni casi e
soprattutto nell'arte figurativa si ritiene che la copia possa superare il valore dell'originale.
Il copiare è dunque un'arte, una competenza che va acquisita attraverso la ripetizione sclerotizzata,
in alcuni casi, di medesimi soggetti e con le medesime tecniche.
Una delle caratteristiche che più allontana l'arte orientale da quella occidentale è proprio il valore
assegnato all'emulazione e alla copia.
L'arte orientale così come la filosofia, sembrano procedere in senso ciclico. L'arte figurativa ad
esempio, a parte la rottura operata da alcuni artisti contemporanei giapponesi e di Taiwan si
concentra sulla ripetizione di motivi e tecniche già consolidate dalla tradizione.
Il pittore cinese esegue molte volte lo stesso soggetto, con gli stessi colori con la stessa tecnica, il
suo fine è arrivare attraverso l'esperienza della ripetizione all'eccellenza. Questa modalità di
ripetizione viene ricondotta da molti studiosi alla stessa natura della scrittura cinese e giapponese (la
prima non alfabetica la seconda con un sistema misto alfabetico-ideografico) che richiedono non
solo un grosso sforzo di memorizzazione ma anche un costante esercizio di educazione alla
scrittura.
Torna al paragrafo 3.3.2
La tradizione culturale occidentale, assegna il predominio al lògos, alla ragione e "con il suo mito
dell'affermazione dell'individuo, del singolo, sull'ambiente, sull'emozione, sul sentimento, tende a
creare delle separazioni all'interno di ciò che è fenomeno unitario. Nella lotta per la conquista
dell'individualità, l'uomo corre costantemente il rischio di scindere la propria anima dal corpo che,
come tutto il mondo fenomenico "materiale", acquista valore subordinato e finisce il più delle volte
per essere considerato un ostacolo, un impiccio di cui non si può fare a meno". In Asia il problema
della scissione tra spirito e corpo non si è mai posto in termini drammatici come è invece avvenuto
nel mondo occidentale, e la cultura stessa permette all'uomo la costante reintegrazione nella sua
unità. In Occidente, come osservava Carl Gustav Jung, si è invece dovuto ricorrere alla psicanalisi
per ricostruire questa Unità.
Per questa ragione, in Oriente l'educazione fisica è concepita come educazione globale del corpo e
dell'intelletto. Tra gli obiettivi del programma scolastico di molte scuole orientali (Cina, Giappone,
Sri Lanka) è prevista l'educazione morale. L'educazione fisica nella scuola cinese, ad esempio,
prevede la pratica delle arti marziali e quindi l'allenamento di corpo e spirito e del cuore-mente
(corpo e spirito sono considerati inscindibili, così come il cuore non può staccarsi dalla mente)
come disciplina opzionale; ma prevede come obbligatorie attività di squadra di tipo competitivo
(basket e ping-pong) che dovrebbero contribuire all'educazione morale dei ragazzi, ed infine
prevede un monte ore dedicato al lavoro manuale, perché si ritiene che il corpo-mente debba essere
educato al lavoro fisico, alla costanza, alla fatica e alla dedizione che esso richiede.
Torna al paragrafo 3.4.3
L'equilibrio umano dipende dalle stesse regole e leggi che governano l'universo, il tempo, le
stagioni. La relazione tra Cielo, Uomo, Terra è molto stretta, egli possiede due tipi di anime, una
Yang e una Yin. Queste anime cercano di lasciare il corpo per ritornare alla propria origine: le Yang
quindi vanno verso il Cielo e le Yin verso la Terra. A questa concezione del corpo umano come
"Piccolo Cosmo", all'interazione dei Cinque Elementi e alle leggi dello Yin e dello Yang si ispirano
il Feng Shui, la medicina tradizionale cinese, la cucina cinese, le discipline marziali, la
macrobiotica, la medicina energetica, il Qi Gong, l'agopuntura, il Kung fu giapponese. Tutte queste
discipline e applicazioni quotidiane della filosofia Yin e Yang hanno, come finalità, quella di
incanalare e potenziare il Qi (l’energia vitale) positivo per il raggiungimento del benessere
psicofisico.
Una delle caratteristiche peculiari della nostra società è il dominio dell'immagine nei confronti di
altri media e l'ossessione per l'efficienza del corpo (cura della forma fisica, valorizzazione del corpo
attraverso la ricerca estetica). Dalle immagini degli spot e dei programmi televisivi o delle
pubblicità di riviste si evince che la dimensione epicurea e la materialità del fisico prevalgono su
altre dimensioni e cancellano quasi totalmente le tradizioni platonico-cristiane e cinica. I corpi
perfetti, statuari delle immagini televisive, l'abbigliamento che sottolinea la necessità di modificare,
educare e perfezionare il proprio corpo, altre scelte estetiche legate al corpo (tinture, tatuaggi,
piercing) nascondono messaggi e valenza simboliche che vanno oltre la pura manifestazione
estetica? La pratica del piercing e del tatuaggio risponde da un lato all'esigenza dei giovani di
differenziarsi dai padri, dall'altra all'esigenza di ritrovare nell'appartenenza ad una comunità di
natura settaria il diritto alla creatività che è elemento fondamentale ed indispensabile nella
formazione dell'identità. Il linguaggio dei giovani, e soprattutto il linguaggio del loro corpo, è
sempre più un linguaggio rituale utilizzato non solo per autorappresentarsi ma anche per
sottolineare il proprio diritto di creatività estetica ed etica (BOX etica) in una società ipercontrollata
e monitorata in ogni sua manifestazione. Il piercing e il tatuaggio sono in realtà pratiche
antichissime che risalgono alla preistoria e che sono rinate negli ultimi decenni come esigenze
spontanee che poi però inevitabilmente sono state inglobate nella spietata logica di mercato e della
moda. Le alterazioni volontarie del corpo attraverso la pratica del piercing, i tatuaggi (ma anche
l'anoressia) potrebbero essere lette come possibili strumenti di controllo di una delle poche cose
ancora "controllabili": il corpo. Ad esempio, la manifestazione evidente di pulsioni (siano esse
desideri od ossessioni) attraverso la pratica del tatuaggio, non simboleggia semplicemente
l’aspirazione ad autorappresentarsi ma può indicare la volontà profonda di modificare il proprio
rapporto con il mondo, di trasformarlo liberando una parte nascosta o repressa di sé.
Nella nostra cultura, ad esempio, alcuni tipi di piercing non solo sono socialmente accettati, ma
addirittura, sono ritenuti piacevoli (pensiamo al piercing sul lobo dell'orecchio per le donne), per
altri si riconosce un valore estetico opinabile soprattutto perché non rintracciabile nella nostra
tradizione e vissuto come una manifestazione d'esotismo (pensiamo al piercing al naso per le
donne), per altri ancora un senso di incomprensione/rifiuto poiché vengono percepiti come una
negazione di valori estetici condivisi o come pratiche autolesionistiche e riconducibili a
manifestazioni primitive ed estranee al concetto di civiltà.
In una società sempre più omologata dal potere dei media, l'esperienza del dolore che è connaturata
alla scarificazione, da un lato rappresenta un'esperienza in cui il soggetto si confronta
individualmente, intimamente e senza alcuna mediazione con il dolore, dall'altra essa costituisce
una sorta di iniziazione, l'ingresso in un particolare gruppo, la prova tangibile di un dominio sul
proprio corpo in una società in cui il soggetto è sempre più impotente nei confronti dei
condizionamenti economici e socio-culturali.
È interessante notare come in alcuni gruppi di studenti dai tratti somatici fortemente omogenei
(cinesi, filippini, cingalesi...), la necessità di modificare il proprio corpo allo scopo di mimetizzarsi,
di essere riconosciuti e di "appartenere" ad un nuovo gruppo significativo passa sia attraverso
pratiche estetiche (scelta di capi d'abbigliamento, tintura, taglio, acconciatura dei capelli) sia
attraverso pratiche iniziatiche (piercing e tatuaggi) che costituiscono un'esperienza grazie alla quale
essi possono superare le differenze somatiche e culturali per stabilire nuovi legami identificativi
Torna al paragrafo 3.4.2
Quest'antica forma artistica è un sistema di disposizione della casa e dell'ambiente che si basa
sull'idea che persone, oggetti, ambiente, animali, piante siano pervase dal Qi, l'energia primordiale
della speculazione taoista cinese. Ogni cosa possiede una propria energia, la casa in cui viviamo, i
colori che scegliamo, il cibo che consumiamo influiscono in maniera positiva o negativa sul nostro
Qi. L'arte del Feng Shui consiste nel ricercare le strategie per far scorrere il Qi positivo che ci
permette di vivere in armonia e in equilibrio con la natura. Quest'arte assegna molta importanza
all'ambiente in cui viviamo, che dev'essere organizzato dosando i cinque elementi fondamentali
della natura: Acqua , Legno, Terra, Metallo, Fuoco
Mentre in Occidente l’idea di benessere fisico è legata ad un idea di benessere fisiologico, in
Oriente -al contrario- non ci si concentra sulla fisiologia ma sul rapporto armonico tra mente e
corpo e sulla possibilità che l’energia vitale ha di fluire all’interno e all’esterno del corpo in maniera
equilibrata. In Oriente, questa concezione di benessere è legata strettamente ai concetti di corpomente e cuore-mente.
Non esiste, infatti, tra le popolazioni orientali una ricerca della dualità corpo-anima tipica
dell’Occidente; di conseguenza, il benessere è sempre una condizione riferita all’insieme corpoanima-mente.
Non è un caso che, in Occidente, “il cadavere, la cui dissezione ha segnato l’atto di nascita della
medicina moderna,” sia oggetto primo e “ principio ultimo di verità” (U. Galimberti, Il corpo,
Feltrinelli, Milano, 2002, p.98) dello studio di medici specialisti, mentre -in Oriente- gli studi
medici sono attenti al corpo in vita.
"Come dimenticare che la nostra cultura ha fondato la scienza della vita sulla dissezione dei
cadaveri, mentre la medicina tradizionale cinese parte dall'esame del corpo vivo e dei flussi
energetici che lo animo?" (Jean Marie Pradier) da questa distinzione di fondo deriva con buona
probabilità la maggiore consapevolezza che il mondo orientale mostra di possedere riguardo i
legami benessere- dietetica e benessere- stile di vita.
Torna al paragrafo 3.4.3
I cinesi si sono sempre interessati al rapporto esistente tra dietetica e salute; l'alimentazione, infatti,
è una parte fondamentale della medicina tradizionale e a molti cibi vengono riconosciute proprietà
medicamentose.
La medicina nutrizionale assegna particolare attenzione anche alle modalità e alla quantità con cui
vengono utilizzati e consumati i cibi.
In Cina non c'è alcun legame tra cibo e momento della giornata in cui viene consumato ma viene
stabilito, per ogni pasto, uno stretto legame tra cibi e proprietà ad esse riconosciute; anche la cucina
cinese, infatti, si ispira alla Scuola dello Yin e dello Yang e per questo cerca in ogni pasto di
equilibrare i due principi, i cinque sapori (dolce, amaro, aspro, piccante, salato) le cinque
consistenze (croccante, soffice, liquido, asciutto, gelatinoso) e le tre temperature (caldo, freddo e
bollente).
Allievi provenienti dall'oriente ad esempio (in particolare da Cina e Giappone) potrebbero trovarsi
in difficoltà di fronte ad attività che richiedono uno sforzo di creatività ed autonomia. Con buona
probabilità l'alunno cinese che ha già ricevuto una scolarizzazione nel proprio paese d'origine, è
abituato ad eseguire disegni e rappresentazioni grafiche seguendo rigide e codificate consegne
dell'insegnante che è abituato ad indicare forme, colori e tecniche da utilizzare per svolgere il
compito. La richiesta di eseguire un disegno libero può disorientare l'alunno che non è avvezzo a
questa modalità di conduzione dell'attività. Nel caso in cui si debba disegnare un volto, ad esempio,
nella scuola cinese, gli alunni vengono abituati ad utilizzare forme e categorie fisse e codificate che
messe assieme in un ordine preciso possono aiutarli a rappresentare un volto umano. E' importante
sottolineare a tal proposito, come sia diverso in oriente il valore che viene dato alla ripetizione e alla
copia.
Gli atleti, i danzatori, gli attori, i mimi si servono di forme, comportamenti, maniere, procedimenti,
distorsioni che tutte assieme noi chiamiamo tecnica.
L'esistenza di una tecnica accomuna tutte le tradizioni espressive che esistono al mondo. Gli
antropologi hanno messo in evidenza come le tecniche esistenti al mondo e sviluppate dalle varie
discipline possano ricondursi a due possibili procedimenti: uno di "inculturazione" l'altro di
"acculturazione". Prendiamo ad esempio le tecniche teatrali: l'attore può utilizzare ciò che per lui è
spontaneo, naturale cioè tutto quello che ha assorbito dalla nascita all'interno della cultura e
dell'ambiente sociale in cui è vissuto.
L'inculturazione coincide dunque, con un processo passivo nel corso del quale, l'attore-persona
interiorizza comportamenti senso-motori propri di una cultura.
Il bambino cresce in senso organico, adattando con un processo di inculturazione il proprio corpo e
il proprio comportamento senso motorio ai modi e alle norme di vita della sua cultura. Nel teatro o
nel balletto ad esempio l'attore o il danzatore se scelgono la tecnica come variazione
dell'inculturazione modellano il proprio comportamento naturale, quotidiano, fino a trasformarlo in
un comportamento scenico che è extraquotidiano.
Il concetto di tecnica come variazione del comportamento naturale è un concetto transculturale che
accomuna il Living Theatre di Calcutta, all'Opera di Pechino o al teatro contadino di Oxotlan nel
Messico.
Al contrario la scelta può invece orientarsi in tutte le culture verso un'altra soluzione per cui la
tecnica diviene utilizzo di comportamenti specifici lontani da quelli che si utilizzano nel quotidiano.
I danzatori, gli atleti, gli attori cioè, attraverso un percorso forzato di acculturazione, conquistano un
comportamento scenico che non è naturale.
La "tecnica di acculturazione" rende artificiale il comportamento e la presenza dell'attore o del
danzatore ma non solo, perché soprattutto crea una diversa qualità di energia.
"Sia la strada dell'inculturazione che quella dell'acculturazione attivano il livello pre-espressivo:
presenza pronta a rappresentare. per questo è poco utile sottolineare le differenze espressive tra
teatri classici orientali con i loro attori acculturati e il teatro occidentale con i suoi attori
inculturati, dato che le analogie si situano a livello pre-espressivo" (Eugenio Barba in La terza
sponda del fiume)
Torna al paragrafo 3.4.2
Nel teatro orientale gli elementi scenici, così come siamo abituati a concepirli in occidente, non
esistono. Lo spazio riservato all’attore è spesso completamente vuoto e illuminato a giorno. Il
paesaggio, l’ambiente, gli oggetti vengono lasciati all’intuizione dello spettatore. Proprio grazie alla
mancanza di una scenografia realistica, è possibile con pochi accessori scenici presentare agli occhi
degli spettatori una straordinaria varietà di luoghi e di situazioni.
Questo è possibile grazie all’omissione della scena, dei luoghi ma soprattutto grazie all’abilità
dell’artista capace di farli rivivere per mezzo delle reazioni del proprio corpo. Ancora una volta
appare evidente l’importanza della presenza fisica dell’attore. In questa percezione dell’attore come
“scenografia in movimento”, giocano un ruolo fondamentale il costume e il principio
dell’omissione che trasformano l’artista in una scenografia in miniatura.
"Provare a se stessi 1'autenticità dell'esperienza personale, di una sensazione assolutamente
privata diventa una soglia sempre più difficile da oltrepassare. Persino qualcosa di così
fondamentale come il sesso è oggi inestricabilmente intrecciato a un flusso di immagini aliene,
impiantate nei nostri cervelli dai media e dalla pubblicità. Ma una cosa rimane certa: il dolore
come esperienza personale, unica, resta carica di un valore scioccante e tangibile." (Vale e Juno)
Il concetto di tempo è fortemente connotato culturalmente ed è strettamente legato a ritmi e cicli del
corpo (veglia/sonno, respirazione, ciclo mestruale, turni di parola, tempi di attesa ecc.)
A questo sostrato "biologico" si sovrappongono le convenzioni relative alla misurazione del tempo
(unità di misura, periodizzazioni, sistemi ciclici, sistemi di calcolo ecc. )
Anche la percezione della durata temporale è diversa da una cultura all'altra (si pensi ad esempio
alla tolleranza nei confronti del ritardo) così come sono diversi i concetti legati alla durata:
giovinezza, anzianità, vecchiaia.
Torna al paragrafo 3.4.3
- Sviluppo Sincronico
Un percorso in cui, ad esempio, si possa porre l’attenzione sul valore della “contaminazione”
interculturale dei generi e dei testi letterari (testi plurilingue) che attualmente caratterizza molta
musica leggera e che genera forme “meticce” originali; agli studenti si forniscono, così, esempi
molto motivanti poiché legati al loro vissuto quotidiano. Tale motivazione facilita senza dubbio una
riflessione sull’arricchimento esperienziale, conoscitivo, emotivo ed affettivo che scaturisce
dall’incontro di “alterità dialoganti” e permette di perseguire pienamente alcuni obiettivi propri
dell’educazione interculturale.
- Sviluppo diacronico
Un percorso legato allo sviluppo storico dell’espressione musicale nelle singole culture ma anche e soprattutto- alla “migrazione” di alcune forme musicali che, mescolandosi con altre, hanno dato
origine a nuovi generi (basti pensare, ad esempio, ai canti degli schiavi neri in America e alla
nascita del Blues) che oggi fanno parte di una tradizione consolidata e che continuano ad avere un
influsso sulle odierne tendenze musicali.
Torna al paragrafo 3.2.3
Il gioco presenta due caratteristiche che possono favorire proposte didattiche interculturali poiché,
allo stesso tempo, è:
• transculturale (tutti i bambini, indipendentemente dalla loro provenienza geografica e
culturale, giocano; il gioco, quindi, è un’esperienza che accomuna, che mette in contatto e
stabilisce una relazione paritetica tra le diverse culture)
• culturale, differenziato a seconda del contesto culturale in cui si svolge.
A tal riguardo, scrive G. Staccioli, “un gioco, (…) è anche specchio/immagine della società nella
quale si sviluppa ed ogni giocatore “gioca” (consapevolmente o meno) anche regole, simboli,
aspirazioni, fantasie che sono proprie della cultura nella quale vive” ("Il gioco e il giocare" G.
Staccioli, Carocci Editore, Roma, 1998, p.151).
L’insegnante può trovare nel gioco un contesto significativo poiché esso scatena in modo
assolutamente naturale l’interazione tra i soggetti, li coinvolge totalmente nello stesso compito e
implica il riconoscimento di alcuni valori transculturali impliciti quali, ad esempio, il rispetto delle
regole. Esso permette di attivare, nel processo d’apprendimento, la sfera cognitiva e quella
emotiva, può fornire reciproche informazioni sull’elaborazione e la simbolizzazione dei sentimenti,
può rivelare capacità ed abilità che, in una comunicazione solo verbale, resterebbero inespresse.
Infine, in una fase di ristrutturazione cognitiva dell’esperienza ludica, l’insegnante può far riflettere
gli studenti sulle caratteristiche dei giochi e sul valore del giocare contribuendo, attraverso una
riflessione profonda perché sorta dall’esperienza e dal confronto diretti, a:
• far mettere in discussione l’approccio etnocentrico alla cultura e le fuorvianti
semplificazioni insite negli stereotipi,
• far prendere atto e a far riconoscere il valore del pluralismo culturale,
• stimolare l’interesse per l’alterità e l’idendità transculturale attraverso un’interazione
piacevole e motivante.
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musica araba e rapporto con l’islam
In alcune occasioni ci è stato chiesto in quale rapporto stia la musica con la religione islamica,
soprattutto a partire da alcuni fatti accaduti a scuola. E’ capitato talvolta che un genitore o un
mediatore culturale (la cui preparazione però non era in qualche modo certificata) abbiano riportato
agli insegnanti la loro preoccupazione in relazione all’insegnamento della musica a scuola,
adducendo come giustificazione che la musica viene dal demonio e l’islam ne vieta l’insegnamento
a scuola.
Apriamo le nostre considerazioni con un detto mistico, "La musica è il cigolio delle porte del
paradiso". Un uomo obietta: "A me non piace il suono delle porte che cigolano", e il mistico: "Io
sento il suono delle porte che si aprono, tu senti quello di quelle che si chiudono", e che ci fanno
cogliere come ancora una volta lo stesso tema non possa essere trattato da un unico punto di vista.
Il rapporto fra musica e religione si connota anch’esso in una pluralità di visioni: vi sono, infatti, in
seno alla tradizione più intransigente dell’islam, coloro che sostengono che la musica è illecita
perché provoca sentimenti e emozioni nei confronti di un’opera umana e non divina. Col suo potere
di distrarre l’uomo dal pensiero di Dio e di attirarlo all’adulazione di autori e interpreti, la musica
allontana il fedele dall’islam. Ne consegue una condanna all’utilizzo della musica e l’unica
ammissione rivolta al canto religioso.
Nel periodo preislamico si pensava che la musica fosse opera dei jiin (demoni) così come la poesia;
erano entrambe ritenute legate a poteri sovrannaturali, magici. Forse, anche per questo, la musica
viene considerata estranea a Dio.
Il Corano, però, non vieta la musica. Alcuni preferiscono una posizione più agnostica
sull’argomento evitando di riferirlo al sacro testo. Il problema allora è sempre legato
all’interpretazione che viene fatta del Corano e dei detti del profeta da parte degli studiosi o teologi
(ulema’) e all’applicazione di norme conseguenti a tale interpretazione: in alcuni paesi arabi, ad
esempio, vi sono periodi sacri in cui è vietato ascoltare musica o eseguire musica in pubblico e in
privato.
In generale, però, la musica è un elemento che fa parte della vita degli arabi, ne è testimonianza la
vasta produzione e diffusione musicale in tutto il mondo arabo, basta recarsi in un qualsiasi locale,
ristorante o caffè per rendersene conto, oppure girare in taxi o in macchina di amici: la musica è
onnipresente.
In conclusione: le posizioni più intransigenti dei musulmani ortodossi vincolano la musica ancora
ad una produzione e esecuzione legata soltanto alle occasioni religiose, se i genitori degli allievi
fanno parte di questa corrente di pensiero sarà probabile che avanzino delle riserve
sull’insegnamento della musica a scuola; altre correnti, invece, ne permettono un uso più
differenziato e diffuso e non considerano la musica illecita, anzi, talvolta la considerano come
mezzo per elevare lo spirito verso Dio.
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musica come mezzo per una maggior integrazione
Nella nostra esperienza, ad esempio, allievi maghrebini, brasiliani, Ghanesi e Nigeriani inseriti nella
scuola secondaria inferiore o di primo grado hanno rivelato, in occasione di feste o di attività
musicali, una grande maestria nel saper suonare strumenti a percussione. Tale spontanea attitudine
al ritmo potrebbe essere utilizzata come risorsa per dare a questi allievi, in percorsi didattici di
musica, un ruolo importante all’interno del gruppo classe, per farli partecipare attivamente e offrire,
nel contempo, a loro un’occasione di sentirsi “riconosciuti” dai compagni italofoni e, a questi
ultimi, un’occasione per conoscere altri modi di esprimere sentimenti ed emozioni, o di entrare in
un contatto diretto con diverse competenze ed abilità.
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allievi arabo-islamici e musica a scuola
Potremmo trovare a scuola, per esempio, delle famiglie di area arabo-islamica che avranno delle
posizioni di rifiuto della musica soprattutto per quanto riguarda il coinvolgimento dei propri figli
nell’uso di uno strumento musicale o nella danza, oppure potremmo trovare famiglie che non
manifestano particolari obiezioni.
Periodicamente, nel lavoro di formazione con insegnanti, abbiamo avuto modo di raccogliere
testimonianze su tali comportamenti: “I due alunni con cui collaboro hanno un buon rapporto con la
musica: R. mi ha raccontato che la mamma ascolta spesso musica araba, la fa sentire più a casa, in
Marocco, suona il flauto con entusiasmo, si esercita molto anche a casa. S. è un ragazzo rispettoso,
riservato, un buon musulmano, come dice lui, ha un ottimo rapporto con la musica, fa parte del
gruppo musicale e vocale della Scuola. Per la messa in scena di una rappresentazione teatrale si è
offerto di imparare a suonare lo xilofono perché nessun compagno lo sapeva suonare ed era
indispensabile per completare l'orchestra.” (comunicazione personale di un insegnante, M. Figini); e
ancora: “negli alunni marocchini ho trovato atteggiamenti molto diversi verso la musica: c'era chi
partecipava volentieri alle danze e chi si rifiutava ma, in generale, non ho mai registrato
atteggiamenti oppositivi al fare musica in sé”.(comunicazione personale di un insegnante, E.
Pellegrini). Preso atto delle diversità di approcci che le famiglie possono avere, quale atteggiamento
assumere come scuola? Dal nostro punto di vista ci sembra importante mantenere una posizione di
trasparenza nella comunicazione alla famiglia e di disponibilità al dialogo, preferibilmente con il
contributo di un mediatore culturale. Anche in considerazione del fatto che non in tutti i paesi
vigono le stesse usanze: in Siria, ad esempio, “la didattica musicale segue moduli rigorosi dalla
prima classe: vengono insegnati inni patriottici, canzoni popolari e tradizionali e di folclore. Si
insegna a suonare uno strumento, il flauto, e si impartisce l’amore per il canto di gruppo. Le lezioni
sono aperte alle iniziative degli alunni e non esistono divieti di alcun genere da parte dello Stato”
(Federica Marchetti, comunicazione personale)
Dobbiamo sempre chiederci qual è lo scopo che ci prefiggiamo con l’attività che proponiamo e che
cosa vogliamo che recepiscano le famiglie: un’imposizione della scuola o un’occasione legata alle
pari opportunità scolastiche e al piano dell’offerta formativa della scuola? Ci sembra di vitale
importanza che siano fatti conoscere i programmi ministeriali alle famiglie e che esse sappiano che
il fare musica a scuola non è una scelta occasionale dell’insegnante, ma una direttiva ufficiale dello
Stato, in modo che non possa insinuarsi il dubbio che l’attività dipenda dalla volontà di un solo
insegnante (il quale potrebbe avere degli scopi personali) ma sia legittimata ufficialmente dai
documenti e venga colta come espressione di volontà di un’intera comunità.
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Alcune pratiche alimentari possono esser legate,ad esempio, alla tradizione religiosa; citiamo qui, a
titolo esemplificativo, il Ramadan.
Il mese più importante per un musulmano è il nono del calendario lunare che si chiama Ramadan.
E’ importante a inizio anno scolastico verificare a quale mese dell’anno solare corrisponde. E’ il
mese del digiuno durante il quale ogni musulmano è tenuto a non consumare né cibo né acqua
dall’alba al tramonto. Dopo il tramonto solitamente la famiglia musulmana si ritrova attorno alla
tavola per consumare un pasto particolarmente energetico per affrontare il digiuno del giorno dopo.
Il digiuno è un precetto molto sentito e seguito dai musulmani e benché i bambini siano esonerati
(almeno fino alla pubertà) dal seguirlo, può capitare di avere in classe, qui in Italia, alunni e studenti
che digiunano anche in tenera età. Alla fine del Ramadan viene fatta una festa importante (“a‘îd alfitr ” o “ a‘îd al-saghîr ”) durante la quale le scuole restano chiuse per uno o più giorni e le
famiglie si ritrovano per scambiarsi dolci tradizionali.
Se l’allievo è musulmano osservante e la famiglia avanza la richiesta di astensione da carne di
maiale e carne non macellata secondo i dettami dell’islam, crediamo sia un suo diritto che la scuola
si adoperi per concordare con il servizio mensa un menù alternativo. Inoltre, nel caso effettui il
digiuno in Ramadan, è bene che tutta la classe venga coinvolta, con delicatezza, dal punto di vista
culturale: in alcune situazioni, infatti, non aver apertamente parlato del digiuno, inserendo la
questione nel suo contesto, ha creato comportamenti di difficile gestione, ad esempio, l’acuirsi delle
diversità al limite dello scontro oppure il mascheramento del digiuno da parte degli allievi
musulmani come uno stato di malessere dovuto a malattia. Altre volte si è giunti addirittura al punto
in cui l’insegnante, non informato, ha interpretato il rifiuto del cibo come un atteggiamento da
anoressia…Mentre, se l’argomento viene affrontato apertamente, gli effetti ottenuti possono essere
anche molto positivi, come ha riportato un’insegnante: “La ragazzina marocchina che ho in terza
media, vive molto bene (almeno per quel che mi riesce capire) l'esperienza del Ramadan. Direi anzi
che ne è orgogliosa e che è stata l'occasione per cominciare a parlare fitto fitto con alcune
compagne, che, curiose, l'hanno sottoposta ad un vero interrogatorio”.
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