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ROMA, 17 DICEMBRE 2015 - ore 9:30-18:30
Istituto Luigi Sturzo, sala Perin del Vaga
Via delle Coppelle, 35
NOTA DI AGGIORNAMENTO
IX° RAPPORTO SULL’ECONOMIA ITALIANA
LE ANALISI 2003-2014
LE RADICI “EUROPEE” DELLA CRISI “EUROPEA”
ovvero
I Trattati sono “teoricamente” sbagliati ed
“empiricamente” un disastro economico, sociale e finanziario
I.- Il Costo del SuperEuro
II.- Maastricht: verso un Trattato
meno stupido, più rigoroso e più intelligente?
LE PREVISIONI 2015-2020
SIAMO FUORI DALLA “RECESSIONE”…
MA FUORI DALLA “CRISI” QUANDO?
ovvero
Le previsioni per l’economia italiana 2015 – 2020,
dopo la Legge di Stabilità
2
LE ANALISI 2003-2014
LE RADICI “EUROPEE” DELLA CRISI “EUROPEA”
MARIO BALDASSARRI
INDICE
Executive Summary - Analisi
I – PERCHE’ I TRATTATI EUROPEI SONO TEORICAMENTE
SBAGLIATI
II - PERCHE’ I TRATTATI EUROPEI SONO EMPIRICAMENTE
UN DISASTRO ECONOMICO, SOCIALE E FINANZIARIO,
cioè le “radici europee” della “crisi europea”
Introduzione
II.1- Il costo del super-euro: 2002-2014
Appendice: I risultati paese per paese ed anno per anno
II.2 - Maastricht: un trattato meno stupido e più intelligente?
II.2.1- Tre Premesse
II.2.2- Il costo della stupidità di Maastricht,
le opportunità offerte da un Maastricht
con interpretazione più intelligente:
maggiore stabilità finanziaria e maggiore crescita
Conclusione: la crisi europea è dovuta ad errori europei
3
EXECUTIVE SUMMARY ANALISI
In questa parte di ANALISI presentiamo un work in progress di un programma di
ricerca più ampio del Centro Studi Economia Reale che dovrebbe essere completato
entro i primi mesi del prossimo anno.
Nella prima sezione si ripercorrono in sintesi i fondamenti teorici degli ultimi
cinquant'anni in tema di crescita economica (sia esogena che endogena) e di impatto
della politica monetaria e delle politiche di bilancio pubblico sui profili di espansione
del sistema economico.
All'interno della teoria della crescita endogena, si farà riferimento ad accumulazione
di capitale umano, istruzione, intelligenza artificiale, cercando di definire quali
potrebbero essere i limiti “astratti e teorici” della crescita economica.
Saranno infine richiamate anche le relazioni tra equità distributiva e crescita del
reddito.
Nella seconda sezione sono presentati i risultati di un'analisi econometrica relativa
alle performance dei paesi dell’Unione Europea che hanno aderito alla zona euro.
Questo studio fa riferimento al periodo 2002-2014 e si propone di misurare l'impatto
della moneta unica e del trattato di Maastricht all'interno di uno schema di
simulazioni “controfattuali”.
Queste stime potrebbero anche essere definite come il costo della "non" Europa,
intesa come un vero e proprio spazio integrato e come soggetto politico, ovvero
anche come il costo degli "errori" delle politiche economiche adottate in sede europea
(sia in termini di politica monetaria della BCE di Jean-Claude Trichet, sia di politiche
di bilancio indotte dal Trattato di Maastricht) in relazione all’attuale quadro
istituzionale dell'Unione europea e della zona euro.
In una fase successiva della nostra ricerca, una simile analisi sarà prodotta anche in
termini di prospettiva per i prossimi cinque anni per cercare di dare evidenza a
sostegno delle riforme strutturali, economiche ed istituzionali, necessarie ed urgenti
in Europa.
4
Va subito indicato che i risultati ottenuti nella prima sezione nella quale abbiamo
misurato il costo del super euro potrebbero essere cumulati con quelli ottenuti in
riferimento ad una diversa interpretazione di Maastricht.
Certamente questi risultati sono e restano semplici “simulazioni econometriche”.
Sta di fatto però che l’Europa avrebbe potuto avere una storia ben diversa.
Senza gli errori di politica economica commessi, invece di subire la peggiore crisi dal
dopoguerra ad oggi, avrebbe potuto vivere un periodo di eccellente prosperità, quasi
una nuova età dell’oro, per altro molto simile a quanto sperimentato nei primi tre
decenni del dopoguerra.
Negli ultimi anni, tutti hanno parlato di Grecia, Portogallo, Spagna, Italia e anche
della piccola isola di Cipro. Ma questi cosiddetti "paesi in crisi" sono solo "dita" che
indicano quale sia la vera crisi, quella cioè che riguarda le prospettive per l'economia
mondiale e per l’Europa.
A livello globale la vera crisi infatti origina da un “vecchio” governo del mondo (G7,
FMI, Banca Mondiale, WTO ) che non è più in grado di affrontare il nuovo mondo.
Sono urgenti e necessarie “nuove” istituzioni internazionali che coinvolgano almeno i
BRICS. Occorre cioè un nuovo G8 e riforme profonde di tutte le Istituzioni
Internazionali che possano ristabilire l'equilibrio nell'economia mondiale.
In questo contesto è altrettanto necessaria ed urgente un'entità federale europea
“politica” in grado di partecipare alla costruzione di un nuovo governo mondiale con
le altre grandi aree del pianeta.
Ecco perché è urgente "ridefinire" l'Unione europea dando alla BCE ed al Trattato di
Maastricht due occhi ciascuno. Infatti, due ciechi con un occhio solo ciascuno non
costituiscono una persona sana:
1.- Lo statuto della BCE deve includere come obiettivi da perseguire sia il controllo
dell'inflazione, sia la crescita economica, o quanto meno l'effetto della quotazione
dell'euro sulla crescita economica, assegnando alla Banca Centrale il ruolo di
prestatore di ultima istanza.
5
2.- Maastricht deve diventare "più rigoroso e meno stupido". E' necessario, quindi,
introdurre nei bilanci pubblici l'obiettivo di “avanzo di parte corrente” (che si chiama
risparmio pubblico) e per ogni 1% di avanzo corrente (autofinanziamento) occorre
permettere almeno il 2% di investimenti pubblici in parte finanziati in deficit.
Si tratta cioè di introdurre una Platinum Rule ancor più rigorosa rispetto alla Golden
Rule definita cinquant'anni fa da Robert Solow, che semplicemente proponeva di
lasciare gli investimenti pubblici fuori dal conto del deficit. La Platinum Rule, infatti,
non sarebbe altro che il semplice inserimento di una solida leva finanziaria nelle
decisioni di politica economica.
Sarebbe come per le famiglie quando decidono di comprare una casa pagando un
anticipo del 30% del costo ed accendendo un mutuo per il restante 70%. Oppure
come quando le aziende usano i loro profitti per finanziare il 30-40% dei loro
investimenti e coprono il restante 70/60% accedendo a prestiti sul mercato.
Una federazione europea è necessaria subito per dare al vecchio continente un
governo ed una sovranità nei seguenti settori: difesa e sicurezza, politica estera,
politica monetaria (in gran parte c’è già con l’euro e la BCE), grandi infrastrutture,
energia, ricerca, innovazione tecnologica e alta formazione di capitale umano.
Su questi temi i singoli paesi hanno da almeno oltre un decennio perso “sovranità”
nazionale. Pertanto, l'unico modo per recuperare “sovranità” è quello di
riappropriarsene attraverso una Federazione politica europea.
È forse utopia immaginare un nuovo G8 oggi, che in ogni caso esiste già sulla base
dei "pesi economici" dei grandi paesi rispetto all'economia mondiale, e gli Stati Uniti
d'Europa. Tuttavia è urgente agire come se entrambi esistessero già.
Senza queste nuove ed urgenti strutture "politiche e istituzionali", l'Europa rischia di
implodere, strozzata da un rigore finanziario senza speranza, e l'economia mondiale
rischia di esplodere in una nuova grande crisi globale.
6
I – PERCHE’ I TRATTATI EUROPEI SONO TEORICAMENTE SBAGLIATI
Da quasi cinquanta anni, i miei interessi scientifici si sono focalizzati su tre aree e
sulle loro interrelazioni: crescita economica, distribuzione del reddito e stabilità
finanziaria.
In particolare, ma non esclusivamente, numerosi contributi sono stati dedicati allo
studio del ruolo e degli effetti del bilancio pubblico sull'economia, soprattutto in
termini di impatto strutturale sulla crescita economica e sulla redistribuzione sociale
del reddito. Inoltre, in diversi studi ho analizzato le interazioni tra distribuzione del
reddito e la stessa crescita economica1.
Sul piano teorico, il punto di partenza è stato la tesi di dottorato al MIT dal titolo
"Spesa pubblica, Inflazione e Crescita"2.
Il tema di fondo di quella analisi teorica, che mi ha permesso di formulare alcuni
importanti teoremi, è che "il livello e la composizione" della spesa pubblica e "il
livello e la composizione" delle entrate fiscali determinano “diversi” percorsi di
crescita dei sistemi economici.
Pertanto, lo studio degli effetti del bilancio pubblico sull'economia non può limitarsi
ad una valutazione dei soli saldi finanziari. Detto in altro modo, il deficit pubblico e
l'accumulo di debito pubblico hanno importanti effetti sull'economia, ma questi non
possono esaurire lo studio di come e quanto la politica di bilancio determini le
condizioni strutturali di crescita economica.
1
La mia tesi di laurea è stata: Mario Baldassarri, Gli Effetti della Spesa Pubblica Nei paesi della CEE, mimeo,
Università di Ancona 1969. Successivamente, come sintesi dei miei contributi scientifici nei primi anni settanta, vedi:
Mario Baldassarri, Saggi di programmazione economica e settoriale , Edizioni TC, Bologna 1973 Mario Baldassarri, io
criteri di Valutazione degli Investimenti, Edizioni TC, Bologna 1974 Mario Baldassarri, Note di teoria della Domanda,
teoria della Produzione e Struttura dei Mercati, Edizioni TC 1976
2 Mario Baldassarri, Spesa pubblica, Inflazione e Crescita, mimeo, MIT 1977; Spesa Pubblica, Inflazione e Crescita, Il
Mulino, Bologna 1979.
Mario Baldassarri, Govenment Expenditure, Inflation and Growth in a fiscal-monetary policy model, EN-MPS, 1976
Mario Baldassarri, Inperfectly anticipated inflation, Expectations on Capital Gain and Government Investment in a twosector growth model, Note Economiche, MPS, Siena, 1979.
Mario Baldassarri, Spesa pubblica, inflazione e crescita in un modello a due paesi del commercio internazionale: chi
subisce l'onere?, Economia Internazionale, Genova 1980
Mario Baldassarri, "Mix" ottimale di spesa pubblica e crescita ottimale in un'economia aperta all'interno di uno schema
a tre-obiettivi/tre-cannoni, Note Economiche, Siena 1984
7
Infatti, dato un certo deficit o debito (ed anche se il deficit e il debito sono pari a
"zero"), il livello e la composizione della spesa pubblica e delle entrate "cambiano" le
prospettive di crescita strutturale e, quindi, di conseguenza, i livelli di occupazione e
la distribuzione del reddito, in termini intra-generazionali, intergenerazionali e
territoriali.
Dato questo contesto teorico, esiste un teorema che "inverte" il precedente teorema di
Haavelmo, noto come il "teorema del bilancio in pareggio". Haavelmo, infatti, aveva
indicato che un aumento di pari importo della spesa pubblica e delle tasse
(un'operazione a deficit zero) si traduce in un pari aumento del reddito reale
dell'economia.
Il mio contributo consiste nell'aver dimostrato che la relazione tra l'intervento
pubblico nell'economia attraverso politiche di bilancio (anche con un bilancio in
pareggio e zero debito) e il potenziale percorso di crescita dell'economia non è
"lineare".
Quando il "livello" della spesa pubblica e delle tasse è modesto rispetto al PIL, un
pari aumento di entrambe può anche aumentare reddito ed occupazione, come
proposto da Haavelmo. Ma questo effetto non è "lineare" all'infinito. Infatti, vi è una
"soglia" oltre la quale un aumento della spesa legato ad un pari aumento delle entrate
si traduce in "una riduzione”, e non in un aumento, del reddito e dell'occupazione.
Pertanto, questo rapporto è "back warding". Questo effetto dipende non soltanto dal
livello della spesa e delle entrate, ma anche dalla loro composizione; rispetto al tipo
di spesa (correnti e investimenti) ed al tipo di entrate (imposte dirette e indirette o
imposte sul reddito e/o sul patrimonio, ecc.).
Un altro dei miei contributi teorici si riferisce al rapporto tra distribuzione del reddito
e condizioni strutturali della crescita economica3. Anche in questo caso, è possibile
dimostrare che il rapporto "non è" lineare.
3
Mario Baldassarri e Gustavo Piga, Distribution, Equity and Economic Efficiency: Trade-off and Synergy, RPE,
1994
8
Da un lato, se un economia è caratterizzata da fortissime disuguaglianze distributive
(pochi ricchi e molti poveri) non può avere prospettive strutturali per una crescita
economica sostenuta. D'altra parte, se un sistema economico è perfettamente
"egualitario" (tutti i cittadini hanno lo stesso reddito) le prospettive di crescita
strutturali sono altrettanto ridotte e modeste.
Queste due "non-linearità" della teoria economica (che sembrano riprodurre in
economia il principio fisico del motore elettrico che funziona quando due campi
magnetici non sono né troppo vicini né troppo lontani tra loro) ha conseguenze
importanti in ogni analisi, teorica ed empirica, volta a valutare gli effetti del bilancio
pubblico e della redistribuzione del reddito sui sistemi economici.
Un successivo campo di ricerca si riferisce al ruolo della accumulazione di capitale
umano (istruzione e formazione), anche in relazione ai modelli di crescita "endogena"
che tentano di spiegare e misurare parti del cosiddetto "residuo di Solow ", cioè
quella parte della crescita economica che non si spiega con l'aumento quantitativo dei
fattori produttivi4.
In questo ambito, ho anche prodotto un analisi teorica del modello "ottimale" per il
finanziamento dell'istruzione5, in particolare in relazione alla formazione nelle fasi
più elevati di istruzione (scuola superiore, laurea e post laurea), in cui è chiaro che
fornire corsi gratuiti per studenti finanziati dal bilancio pubblico rischia di produrre
risultati peggiori e meno efficienti in termini di creazione di opportunità e di sviluppo
di competenze rispetto ad un sistema in cui l'individuo paga le proprie tasse
scolastiche per l'istruzione superiore, a condizione però che vengano introdotti ampi
programmi di sostegno e sussidi diretti agli studenti meritevoli che si trovano in
precarie condizioni economiche (cioè, borse di studio finalizzate a ridurre o azzerare
le tasse universitarie oltre che a fornire finanziamenti per la manutenzione ed i costi
complessivi di sostentamento degli studenti).
4
Mario Baldassarri et altri, Human Capital, Allocation of Time and Endogenous Growth, AEA-AER, New Orleans
1992.
Mario Baldassarri et altri, An Attempt to Model a “Tobin-Modigliani” Approach to Saving, RPE, Roma 1990.
5
Mario Baldassarri, Tassazione, distribuzione ed ottimalità nei programmi di sussidi all’educazione,
Rivista Internazionale di Scienze Sociali, Milano 1976.
9
Quando tutti i costi sono finanziati dal bilancio pubblico, c'è il rischio che i vantaggi
vadano a soggetti appartenenti a famiglie benestanti, con minori capacità e minore
merito e questi soltanto raggiungono elevati livelli di istruzione solo perché la
"selezione sociale perversa" si è verificato molto prima, nelle precedenti fasi di
istruzione. Di fatto quindi, i figli di famiglie più benestanti ricevono la loro istruzione
a carico del bilancio pubblico e quindi a spese del contribuente, mentre gli altri non
arrivano mai ai livelli elevati di istruzione. In tal caso, si rischia di determinare
l'esclusione dei soggetti con eccellenti capacità intellettuali provenienti da famiglie
povere solo perché questi studenti non riescono a raggiungere i livelli più elevati di
istruzione perché esclusi nelle precedenti fasi di quella selezione perversa.
Nella seconda metà degli anni novanta, con un mio brillante studente oggi professore
a Carnagie-Mellon University, studiammo l'impatto causato dagli effetti della
intelligenza artificiale sulla crescita economica6. Come risultato del suo eccellente
lavoro è emerso un aspetto singolare ma di grande interesse.
La crescita della intelligenza artificiale potrebbe accelerare la crescita economica e,
di conseguenza, una crescita più rapida potrebbe a sua volta accelerare la crescita di
intelligenza artificiale in un circolo virtuoso che sarebbe autosufficiente.
La curiosità scientifica ci ha portato a indagare quali siano i limiti della crescita in un
modello teorico di questo tipo. In altri termini, che cosa accade quando la produttività
tende all’infinito? Questo argomento è collegato alle discussioni sulla "singolarità".
La “Singolarità tecnologica” è un momento ipotetico in cui l'intelligenza artificiale
progredirà al punto di essere maggiore di una intelligenza umana? Se questo
accadesse cambierebbe radicalmente la civiltà e, forse, la stessa natura umana.
Poiché la funzione di tale intelligenza potrebbe essere difficile da capire per gli esseri
umani, la singolarità tecnologica è spesso vista come un evento (simile a una
singolarità gravitazionale) oltre il quale il corso futuro della storia umana sembra
imprevedibile o anche insondabile.
6
Alessandro Acquisti, “Intelligenza Artificiale e Crescita Economica: il capitale intelligente ed autoriproducente
da von Neumann alla crescita endogena”, mimeo,Tesi di Laurea, Università La Sapienza, Roma1997
10
Il primo uso del termine "singolarità" in questo contesto è stato del matematico John
von Neumann. Il termine è stato reso popolare dallo scrittore di fantascienza Vernor
Vinge che credeva che l'intelligenza artificiale o l'interfaccia neurale avrebbero
potuto essere le possibili cause di singolarità.
Coloro che sostengono la singolarità di solito propongono che ci sarà una "esplosione
di intelligenza", dove gli esseri super-intelligenti si proiettano in successive
generazioni di menti che sono sempre più potenti e potrebbero non smettere mai di
crescere fino a quando la capacità cognitiva dell'agente supera, di gran lunga, quella
di ogni essere umano. Qui, pur nella finzione cinematografica, un riferimento al noto
film americano Matrix non è del tutto fuori luogo.
Kurzweil prevede che la singolarità possa avvenire entro il 2045, mentre Vinge
prevede che si verificherà prima del 2030. In Singularity Summit 2012, Stuart
Armstrong ha fatto un'analisi basata su vari studi di intelligenza artificiale
generalizzata (AGI) e ha trovato una vasta gamma di date prevedibili, con il 2040
come valore medio. La sua previsione indica che vi è una probabilità di 80% che la
singolarità si verifichi tra il 2017 e il 2112!
Detto più semplicemente in termini di teoria economica, se la produttività accelera e
tende all'infinito, il tempo di produzione tende a zero. Per questo motivo il limite
teorico della crescita economica si presenta con una produzione che viaggia alla
velocità della luce! Questo è il motivo per cui anche il grande Einstein potrebbe
essere utile in speculazioni teoriche sui modelli di crescita economica.
Alcuni decenni dopo aver acquisito quelle radici teoriche, ho cercato di stimare, per
diversi paesi europei tra cui l'Italia, quale potrebbe essere la soglia oltre la quale un
ulteriore aumento della spesa pubblica, anche se compensato da aumenti delle tasse,
potrebbe causare una "riduzione" di crescita potenziale e di occupazione.
Facendo riferimento ai dati storici degli anni Ottanta e Novanta, tale soglia empirica è
risultata, per i paesi analizzati, tra il 40 e il 42% del PIL7.
7
Mario Baldassarri e Francesco Busato, How to Reach Full Employment in Europe, Palgrave-Macmillan, London
2003
Mario Baldassarri e Francesco Busato, Europa Svegliati, Sperling&Kupfer, Milano 2003.
11
Su entrambi i fronti, teorico ed empirico, è evidente che, se gli aumenti della spesa
pubblica non sono coperti da aumenti delle entrate fiscali e quindi si determina
maggiore deficit ed accumulo di debito pubblico senza limite, altri effetti dirompenti
sull'economia reale "sarebbero da aggiungere" a quelli indicati in precedenza.
Questo è ovviamente riconducibile alla questione della "sostenibilità" del debito
pubblico e quindi al rischio di gravi crisi finanziarie incombenti sui mercati nazionali
ed internazionali.
Ancora una volta un teorema di Solow è la pietra angolare di questo specifico tema.
Robert Solow ha infatti chiarito, una cinquantina di anni fa, che se il tasso di interesse
reale "supera" il tasso di crescita dell'economia, il debito pubblico in rapporto al PIL
aumenta all'infinito e diventa pertanto "insostenibile".
Ecco perché non ci si può limitare al solo controllo dei saldi finanziari del bilancio
pubblico.
Questo è esattamente il motivo per cui, se questo obiettivo viene perseguito in modo
miope e sbagliato, degradando e riducendo le prospettive di crescita economica,
l'insolvenza del debito sicuramente continuerà ad essere una minaccia.
In altri termini, il debito pubblico diventa "insostenibile", sia quando i tassi di
interesse sono molto alti, sia quando il tasso di crescita è strutturalmente troppo
basso.
L'esperienza italiana ed europea negli ultimi anni, in gran parte, è una conferma
empirica di queste radici teoriche: i tassi di interesse possono anche essere
storicamente molto bassi o addirittura tendere a zero, ma se la crescita dell'economia
è zero o, ancora peggio, sotto lo zero, il problema del debito pubblico persiste con la
sua prospettiva di insolvenza.
Inoltre, come indicato in precedenza, il teorema dimostra come la "composizione" e il
"livello" della spesa pubblica e delle imposte abbiano un impatto strutturale sul
potenziale di crescita di un sistema economico. Questo implica una conseguenza
decisiva. E' infatti necessario distinguere almeno tra spese correnti e spese
d'investimento e tra imposte dirette e indirette, imposte che gravano sul lavoro e sulla
12
produzione (salari e profitti) rispetto a quelle che riguardano il patrimonio e la rendita
(creata da un posizione dominante sul mercato o da comportamenti illeciti, come
tangenti e sprechi della spesa pubblica ed evasione fiscale). Questi ultimi casi non
alimentano il circolo virtuoso della produzione-reddito-occupazione, ma il circolo
vizioso di (più o meno legittimi) proventi da accumulo di rendita-ricchezza che non
rinforza il ciclo di produzione del reddito, ma porta alla recessione economica e alla
depressione.
Per queste ragioni, sia teoriche che empiriche, una seria analisi delle politiche di
bilancio non può essere separata dai loro effetti strutturali sulla crescita economica.
Ed anche i problemi riguardanti l'equa distribuzione del reddito devono essere
valutati alla luce del loro impatto sulle condizioni di crescita di lungo periodo.
In sintesi, gli obiettivi sacrosanti di rigore finanziario, la crescita economica e l'equità
distributiva devono essere perseguiti congiuntamente e l'uno accanto all'altro. Gli
effetti della loro interazione cioè non possono essere trascurati.
Questa è la politica economica solida che è sostenuta da una altrettanto solida teoria
economica e che si basa su evidenze empiriche trasparenti e documentate.
Questi elementi mi hanno portato nel corso degli anni a fare analisi e lanciare
proposte di politica economica in riferimento al processo di globalizzazione
dell'economia mondiale8, alla costruzione degli Stati Uniti d'Europa9 e alle condizioni
che hanno caratterizzato e caratterizzano l'economia italiana10.
8
Mario Baldassarri e Pasquale Capretta, The World Economy toward Global Disequilibrium, Palgrave-Macmillan,
London 2006; L’Economia Mondiale verso lo Squilibrio Globale, Sperling&Kupfer, Milano 2006
Per altri riferimenti, vedi:
Mario Baldassarri, Luigi Paganetto, Edmund S. Phelps, Equity, Efficiency, and Growth:the future of the welfare state,
Palgrave-Macmillan, London 1996.
Mario Baldassarri, Robert Mundell, John McCallum Eds., Debt, Deficit and Economic Performance,
Palgrave- Macmillan, London 1994.
Mario Baldassarri, Robert Mundell, John McCallum Eds., Global Disequilibrium in the World Economy,
Palgrave-Macmillan, London 1992.
Mario Baldassarri Ed., Verso il grande crack?, SIPI, Roma 1990.
Mario Baldassarri Ed., Keynes and the Economic Policies of the 1980’s, Palgrave-Macmillan, London 1989.
9
Mario Baldassarri e Francesco Busato, How to Reach Full Employment in Europe, Palgrave-Macmillan, London 2003.
Mario Baldassarri e Francesco Busato, Europa Svegliati, Sperling&Kupfer, Milano 2003.
Per altri contribute sull’economia europea, vedi:
Mario Baldassarri, No free lunch, no”one”East European Economy”, RPE, Roma 1991.
Mario Baldassarri Ed., How to reduce unemployment in Europe, Palgrave-Macmillan, London 2003.
Mario Baldassarri Ed., The New Welfare: Unemployment and Social Security in Europe, Palgrave-Macmillan, 2003.
Mario Baldassarri, Robert Mundell Eds, Building the New Europe, Vol. I-II, Palgrave-Macmillan, London 1993.
13
Con riferimento all'economia europea, sulla base di tali teoremi e delle esperienze
empiriche, si può comprendere appieno che le norme del Trattato di Maastricht sono
diventate nel corso degli anni sempre più "stupide".
Per comprendere ancor meglio queste considerazioni possiamo fare riferimento, da
un lato, ad un paese che rispetta il famoso vincolo di un disavanzo al 3% con un
livello di spesa pubblica e tasse che sono rispettivamente il 90% e l’87% del PIL e,
dall'altro lato, un paese che rispetta sempre il vincolo del 3%, ma con un livello di
spesa pubblica e di entrate fiscali rispettivamente del 40% e del 37% del PIL.
E' chiaro che le prospettive di crescita strutturale in queste due economie sono molto
diverse e, quindi, la garanzia di uno pseudo-equilibrio finanziario è estremamente
fragile o inesistente nel medio-lungo. Inoltre, questo è vero anche se i due paesi
avessero deficit e debito pari a "zero".
Da qui la necessità e l’urgenza di passare ad un Maastricht 2, ovvero almeno ad una
nuova interpretazione del trattato "meno stupida e molto più rigorosa".
E’ sufficiente introdurre nei bilanci pubblici la ben nota "leva finanziaria", la regola
cioè che per secoli ha guidato il comportamento virtuoso di famiglie e imprese.
Infatti, quando una famiglia decide di comprare una casa (spese di investimento),
cerca di accumulare prima una parte del costo totale (30-40%) e poi accende un
mutuo per il 70-60% del valore della casa (in questo caso la leva sarebbe 1 a 2). Se
avessero dovuto aspettare di accumulare tutte le risorse per effettuare il pagamento
del 100% della casa in contanti, forse avrebbero avuto bisogno di una intera vita per
farlo e non avrebbero mai abitato/comprato una casa di proprietà.
10
Mario Baldassarri e Gabriella Briotti, Government Budget and the Italian Economy through the 70’s and the 80’s
RPE, Rome 1990
Mario Baldassarri, Franco Modigliani, “The Italian Economy: the chance to build a new miracle”, RPE, Rome 1993
Mario Baldassarri, Franco Modigliani, “The Italian Economy: what next?”, Palgrave-MacMillan, London 1993
Mario Baldassarri, “Italy’s perverse envelopping growth model between Economic Reform and political
consensus: the 1992 crisi and the opportunities of 1993”, RPE, Rome 1993
Mario Baldassarri, “The Italian Economy: heaven or hell?”, Palgrave-MacMillan, London 1994
Mario Baldassarri, Gustavo Piga, “Debito Pubblico, consenso politico ed equilibrio economico-finanziario”,
McGraw-Hill, Milano, 1994
Franco Modigliani, Mario Baldassarri, Fabio Castiglionesi, “Il Miracolo Possibile”, Laterza, Bari 1996
Mario Baldassarri et altri, “Il secondo Miracolo Possibile”, Ed. IlSole24Ore, Milano 1999
Mario Baldassarri, “Welfare State and Pensions in Italy: who benefits?”, RPE, Rome 2000
14
Quando un imprenditore decide di acquistare nuovi macchinari o costruire un nuovo
impianto, cerca, in parte, di finanziare i costi con i profitti precedenti e, per il resto,
chiede un prestito bancario. Se dovesse pagare in contanti i macchinari e gli impianti
probabilmente non farebbe mai l'investimento.
Allo stesso modo, è ovvio che, se la famiglia dovesse chiedere un mutuo al 100% per
la casa e il titolare della società chiedesse prestiti per il 100% del suo investimento,
nessun banchiere saggio sarebbe disponibile per tale finanziamento. Qui, il
riferimento ai casi americani di Fannie Mae e Freddie Mac e le follie finanziarie che
hanno contribuito a innescare la crisi finanziaria negli ultimi anni è chiaro e
totalmente voluto. E’ evidentemente folle sostenere che le famiglie e le imprese
hanno bisogno di finanziare il 100% dei loro investimenti o debbono pagare tutto in
contanti senza accedere al sistema creditizio e all'indebitamento a medio-lungo
termine.
Nel primo caso, l'economia "esplode", come abbiamo visto negli ultimi anni.
Nel secondo caso, l'economia "implode", come stiamo vedendo in Italia e in Europa.
Quindi almeno una reinterpretazione di Maastricht è necessaria: ogni Stato deve
avere un surplus delle partite correnti (e questo è un requisito di rigore maggiore
rispetto a Maastricht 1) e per ogni 1% del PIL di surplus corrente, possono essere
consentiti investimenti, per esempio, per ulteriore 2- 3% del PIL. Un paese in questa
situazione avrebbe un deficit di 3-4% del PIL, ma questa condizione sarebbe di gran
lunga più dinamica e robusta di quella di un paese con un deficit del 3% tutto dovuto
a spese correnti e di un paese con uno "zero" disavanzo associato però a zero
investimenti .
Qui, è utile ricordare il banale "calcolo aritmetico", con il quale è stato fissato il
limite del 3% sul deficit pubblico.
In Europa, in quegli anni, il rapporto "medio europeo" tra debito pubblico e PIL era
pari al 60%. Il tasso di crescita europeo di medio-lungo periodo era stimato al 3%.
L'obiettivo di inflazione era fissato al 2%.
15
In queste condizioni astratte, il PIL nominale sarebbe cresciuto del 5% all'anno (3%
reale + 2% di inflazione). Pertanto, al fine di garantire la stabilità del rapporto
Debito/PIL al 60%, sarebbe stato sufficiente mettere il vincolo di deficit al 3%.
Infatti, il 60% moltiplicato per 5% comporta ...il 3%!
Su tutto questo emerge anche l'evidente assurdità di una totale dicotomia introdotta
in Europa tra la politica di bilancio e la politica monetaria.
Infatti, da un lato, si è detto che la BCE doveva contenere l'inflazione sotto al 2% a
prescindere da qualsiasi andamento della crescita nell’economia reale, e,dall'altro
lato, si è detto che i governi nazionali avrebbero loro dovuto perseguire un tasso di
crescita del 3%, rispettando rigidamente Maastricht, attraverso la adozione di riforme
strutturali.
Alla BCE cioè è stato dato un mandato chiaramente legato alla teoria monetaria
quantitativa. Come tutti sanno, l'equazione di Fisher "afferma" che la quantità di
moneta moltiplicata per la sua velocità di circolazione deve essere uguale al valore
nominale del PIL, che a sua volta è dato dal valore reale del PIL moltiplicato per il
livello dei prezzi. Se il valore reale del PIL è sempre quello di piena occupazione e se
la velocità di circolazione della moneta è data, ne consegue che la quantità di moneta
determina le variazioni del livello dei prezzi, cioè l’inflazione.
In effetti, l'equazione di Fisher è una tautologia perché, se tutti gli scambi di beni e
servizi avvengono contro moneta e si esclude il baratto bene contro bene, alla fine del
gioco, è ovvio che abbiamo "P" per "X" uguale a "M" per "V".
In realtà, l'equazione di Fisher diventa una teoria economica se nella stessa equazione
si introducono due assunzioni: sul lato monetario, che la velocità della moneta è una
costante, cioè non dipende da comportamenti economici (per esempio, dipende se il
pagamento degli stipendi avviene una volta alla settimana o una volta al mese o
altro); sul fronte della produzione, che il livello del PIL reale è anch’esso una
costante, perché è “sempre ed automaticamente” quello di piena occupazione. Il
compito di garantire il livello di piena occupazione del PIL è dato dalla totale
16
flessibilità e dalla concorrenza pura dominanti in tutti i mercati, del lavoro, di tutti i
beni ecc ..
Con queste due assunzioni, è facile capire che, ogni volta che si sposta la quantità di
moneta, si modifica il livello del prezzo, cioè si determina inflazione. Questo è stato
affermato molti decenni fa, ma, per la Germania in particolare, continua a sembrare
vero anche oggi. È per questo che è stato dato alla BCE il compito esclusivo di
controllare l'inflazione sotto il 2%, mentre il compito affidato ai governi è stato
quello di garantire la piena occupazione e una crescita del 3% attraverso riforme
strutturali.
Tuttavia, due individui con un solo occhio funzionante (BCE e Maastricht) non sono
pari ad un individuo sano con due occhi che ha 20/20.
17
II – PERCHE I TRATTATI EUROPEI SONO EMPIRICAMENTE UN
DISASTRO ECONOMICO, SOCIALE E FINANZIARIO,
cioè le “radici europee” della “crisi europea”
Introduzione
Nella prima sezione, abbiamo ricordato i due pilastri della costruzione europea, la
BCE e il Trattato di Maastricht ed abbiamo cercato di spiegare perché sono
"teoricamente sbagliati".
Nonostante quelle note radici teoriche, quei due pilastri sono stati stabiliti e tutto
sembrava chiaro ed intoccabile per molti indiscutibili guru e per troppe istituzioni
autoreferenziali.
Ma le cifre considerate in quel tempo come pietra angolare immodificabile, oggi non
sono più vere e non lo sono neanche nelle prospettive per i prossimi anni.
In ogni caso, quando sono stati stabiliti quei due pilastri europei quanto meno
vivevamo in un altro mondo. Infatti, rispetto a venti anni fa, il mondo è cambiato:
geoeconomia, geopolitica, nuove sfide, nuove opportunità, nuovi rischi, nuove
strozzature, nuovi scontri economici e politici, ecc..
Pertanto anche quei “numeri” sono cambiati: una crescita del 3% e un'inflazione del
2% non sembrano né ragionevoli, né raggiungibili in tempi brevi.
In realtà, quello che abbiamo sperimentato in Europa nel corso degli ultimi dieci anni
e soprattutto quello che dovremo affrontare nei prossimi cinque-dieci anni, può essere
una crescita tra l’1 ed il 2% ed un’inflazione a circa l'1%.
Ed allora, invece di avere un PIL in crescita in termini nominali del 5%, abbiamo un
PIL che forse sarà in crescita tra il 2 ed il 3%.
E’ pertanto nostra profonda convinzione che sia urgente rivedere entrambi i pilastri
della costruzione europea. Non si tratta di distruggere ciò che abbiamo fatto, ma,
semplicemente, regolare i pilastri alla nuova situazione. Se non lo facessimo in tempi
brevi, allora sì che rischieremo di distruggere ciò che abbiamo costruito finora.
Anche in termini di teoria economica, sappiamo tutti che la politica monetaria non
influisce semplicemente sui prezzi e sull'inflazione. Sappiamo tutti quanto i canali
18
monetari interagiscano con l'economia reale. Ecco allora che non possiamo più dare
alla Banca centrale l'unico compito di controllare l'inflazione. Non possiamo più
avere uno statuto della Banca centrale europea con un occhio solo che guarda
all'inflazione, abbiamo bisogno di avere due occhi per la BCE, come le banche
centrali standard di tutto il mondo. Non solo per caso ci si riferisce spesso alla Fed.
La Fed ha un occhio sull’inflazione, ma ha anche l'altro occhio sulla crescita, almeno
per mezzo del tasso di cambio.
L'unico risultato che abbiamo dalla presidenza precedente della BCE (Trichet) è stata
una performance di crescita molto povera e un altissimo rischio di deflazione.
Grandi errori nella politica monetaria sono stati fatti, principalmente alzando i tassi di
interesse in Europa mentre la Fed li riduceva negli Stati Uniti con la conseguenza
immediata del "cosiddetto" benign neglect per quanto riguarda il super-euro.
Fortunatamente per tutti Mario Draghi ha assunto la presidenza della BCE e venendo
da una solida scuola di economia come l’MIT sapeva bene cosa occorresse fare prima
di andare a Francoforte.
Un'altra “fantasia” degli ultimi dieci anni riguarda il tasso di cambio.
Siamo stati abituati infatti a sentire esperti e istituzioni troppo auto-referenti
affermare con saccenza che il tasso di cambio è “fissato tutti i giorni dai mercati
finanziari”. Questa è la cosa più stupida che si sia mai sentita dire negli ultimi
cinquanta anni. È chiaro infatti che il cambio è fissato quotidianamente dai mercati,
ma i mercati si comportano sulla base delle decisioni di politica monetaria.
Un esempio è la Cina: abbiamo permesso che la Cina entrasse nel WTO (e questo è
un fatto importante e storicamente positivo), ma abbiamo anche “gentilmente”
concesso alla Cina di fare il pegging sul dollaro. Il che significa che abbiamo lasciato
alla Cina una decisione politica molto potente in termini di tasso di cambio del
renminbi, mentre la Cina sta diventando la prima economia al mondo.
In realtà non si può comprare un pacchetto sul mercato internazionale, come la
possibilità di entrare nel WTO, e poi dire di no per l'altro componente del pacchetto
che è un tasso di cambio flessibile sui mercati solo perché si sostiene che si deve
19
decidere politicamente sulla propria moneta. Anche di recente abbiamo visto che la
Cina, in un modo molto intelligente, ha svalutato lo yuan dicendo che la sua
decisione è giustificata dal rallentamento della sua economia.
Negli ultimi dieci anni la Cina ha avuto un enorme surplus delle partite correnti.
Abbiamo trasferito in Cina 6/700 miliardi di dollari all'anno. E ora la Cina è diventata
il più grande risparmiatore del mondo e ha il problema di come passare da un
modello di crescita trainata dall’export a un modello di crescita trainata dalla
domanda interna.
Questo non è semplicemente un problema economico, è soprattutto una questione
politica.
Spingendo l'economia cinese in un modello di crescita da domanda interna guidata da
consumi privati si ha una conseguenza sociale e politica inevitabile, vale a dire lo
sviluppo di una importante classe media che, prima o poi, richiederà più libertà e più
democrazia. Questo passaggio deve essere gestito in qualche modo perché lo
sviluppo di una classe media è inevitabile e il rifiuto di governare tale fenomeno
sarebbe molto più rischioso per il futuro della Cina.
In ogni caso, si può almeno prendere in considerazione ciò che il presidente Draghi
ha fatto, cioè una interpretazione intelligente dello statuto della Banca centrale
europea. Ma questo non può essere affidato esclusivamente alla capacità ed alla
intelligenza di una sola persona. E’ un problema istituzionale. Quindi, dobbiamo
pensare al futuro e abbiamo bisogno di modificare lo statuto della BCE.
Dall’altra parte, abbiamo il Trattato di Maastricht.
Non siamo certo i soli a definire "stupido" il Trattato di Maastricht , ma non è questo
il problema principale. Quello che si intende dire è che il mondo è cambiato, le cifre
sono cambiate, quindi abbiamo bisogno di un adeguamento, abbiamo bisogno di un
nuovo Trattato di Maastricht o almeno di una nuova interpretazione del trattato, forse,
un pò più intelligente e un pò meno stupida.
Si è osservato nella prima parte che la teoria della crescita esogena ed endogena, più
di sessanta anni fa, ha spiegato che il rapporto tra finanze pubbliche e crescita
20
economica non dipende esclusivamente dal deficit e dal debito. Tale rapporto dipende
principalmente e molto di più dalla composizione della spesa, almeno distinguendo
tra spesa corrente ed investimenti, magari specificando che cosa deve essere davvero
considerato come investimenti (solo infrastrutture materiali o anche prodotti
immateriali, istruzione, capitale umano e questo è tutto ciò che la teoria della crescita
endogena ha proposto negli ultimi decenni).
Sull'altro lato del bilancio, la composizione delle entrate fiscali è anche importante
perché fa differenza se le tasse sono sulla produzione, sul lavoro oppure sugli
immobili e sulla rendita, se sono imposte del governo centrale o delle
amministrazioni locali e che tipo di servizi i cittadini ottengono per quello che
pagano.
Abbiamo già ricordato come quei parametri furono stabiliti. A quel tempo abbiamo
fatto una foto, un'immagine statica, con l'illusione di ottenere un stabilità finanziaria
garantita per tutti e per sempre.
Oggi, è come se guardassimo una foto scattata quando si era bambini a scuola.
Ovviamente ciascuno può riconoscere se stesso, può anche riconoscere alcuni
compagni di classe (non tutti). Ma se facessimo oggi una foto con le stesse persone,
apparirebbe un quadro molto diverso: capelli bianchi, barbe bianche, alcune rughe sui
volti e così via.
Ecco perché abbiamo bisogno di un film, non semplicemente di una vecchia foto!
In questa seconda parte, si cerca allora di mostrare una sorta di gioco masochistico
che, in termini di teoria economica, potrebbe essere indicato come un gioco a somma
negativa per l'Europa. Purtroppo, questo è quello che abbiamo giocato negli ultimi
dieci-quindici anni, cioè un gioco a somma negativa.
Le perdite in uscita potrebbero essere distribuite in modi molto diversi. Forse la
Germania ha perso molto meno che l’Italia, o la Spagna, o la Francia, ma il totale è
una "perdita per l'Europa". Ovviamente, è anche una perdita per il resto del mondo.
In effetti, se continuiamo ad avere una Cina con un avanzo delle partite correnti di
600/700 miliardi di dollari all'anno e una Germania con uno di 240 miliardi di euro
21
all’anno (molto più elevato in termini relativi rispetto a quello della stessa Cina),
significa che abbiamo due grandi economie che sottraggono domanda dal mercato
mondiale per circa mille miliardi all'anno. Certo, qualcuno potrebbe dire che se si
fossero realizzate le riforme strutturali avremmo oggi una maggiore crescita
potenziale. Potremmo anche essere d'accordo con questo approccio, ma questo non
può permettere a nessuno di fare nel frattempo stupidi e masochistici errori di politica
macroeconomica.
Come già accennato, si presentano qui alcuni primi risultati delle simulazioni
controfattuali, effettuate con il modello Oxford Economics, cercando di stimare
quanto la zona euro abbia perso dal 2002 al 2014 in termini di PIL e di occupazione
in conseguenza della super-valutazione dell'euro e della stupidità del Trattato di
Maastricht, nonché gli effetti che questi errori di politica economica hanno indotto
direttamente anche sugli equilibri finanziari dei bilanci pubblici e sulla
accumulazione di debito pubblico.
Va subito precisato che una simulazione controfattuale non è una stima per la quale
sia possibile mettere la mano sul fuoco per almeno due buone ragioni.
In primo luogo, perché si tratta di un lavoro in corso ed i primi risultati ottenuti hanno
bisogno di ulteriori affinamenti e verifiche.
In secondo luogo, perché in ogni caso si tratta pur sempre di una simulazione
econometrica ed è difficile dare ai risultati il carattere di “verità assoluta”, soprattutto
perché sono solo andamenti teorici ottenuti che vanno a confrontarsi con i dati veri e
storici sperimentati dalle diverse economie.
Quello che abbiamo vissuto in passato sono stati per l’appunto i dati storici. Quindi, è
molto difficile spiegare che avremmo potuto vivere molto meglio di quanto in realtà
abbiamo sperimentato se quegli “errori” di politica economica non fossero stati
compiuti. E’ ancor più difficile dire ai tedeschi che potevano, e/o avrebbero potuto,
vivere molto meglio, non solo per aiutare la Grecia, la Spagna, l'Italia, la Francia o
chiunque altro, ma soprattutto per se stessi! In realtà la Germania sta solo mettendo le
22
proprie risorse sotto il materasso senza avere alcun ritorno, né per sé, né per gli altri
membri dell’Unione.
Certamente i tedeschi possono anche dire che in ogni caso loro vivono bene, forse
molto bene. E questo può anche essere vero. Ma, ad esempio non hanno infrastrutture
adeguate e potrebbero benissimo migliorarle e modernizzarle ancor di più.
Il nodo centrale però è che la Germania, certamente la più forte economia europea,
non esercita il ruolo di leader dell’Unione che dovrebbe invece esercitare con
lungimiranza, non soltanto per dare migliori prospettive a tutta l’area del vecchio
continente, ma per meglio utilizzare il grande potenziale tedesco per lo stesso popolo
tedesco.
II.1 - Il costo del super-euro: 2002-2014
Presentiamo in primo luogo le nostre stime relative al "costo del super-euro".
Quello che abbiamo fatto è molto semplice e il risultato è netto e chiaro.
Fino al 2002, l'euro è stato al di sotto della parità con il dollaro, quindi è saltato in
alto in conseguenza delle decisioni prese dalla Banca centrale europea di Jean-Claude
Trichet, sospinto dai falchi della Bundesbank.
Quello che è stato fatto è semplicemente dire “se, tra il 2002 e il 2014, l'euro fosse
stato guidato più o meno intorno al parità sul dollaro, che cosa sarebbe accaduto nella
zona euro, in termini di tasso di crescita, di PIL reale, di occupazione, di
disoccupazione e di condizioni di finanza pubblica?“.
Come si può vedere nella Tavola e nella Figura II.1.1, nel 2002, l’euro era al di
sotto della parità.
23
Nel gennaio 2002, si è tenuto un Forum economico mondiale a New York, invece che
nella consueta località di Davos, per testimoniare la solidarietà di tutti alla stessa New
York dopo l’attentato alle due torri dell’11 settembre 2001.
In quella occasione, il premio Nobel Robert Mundell ed il sottoscritto presentammo
una nota e insieme tenemmo una conferenza stampa in cui avvertimmo del rischio
24
che l'euro "potesse saltare" verso l’alto. In quel momento l’euro era a 0,90 per dollaro
ed il rischio che indicammo con preoccupazione era che potesse saltare ad 1,1/1,2 e
forse oltre. Questo per noi era un pericolo grave da evitare.
Invitammo poi entrambe le banche centrali (Fed e BCE) a concordare l'un l'altra a
mantenere il cambio dollaro/euro entro margini di relativa stabilità, che in quel
momento avrebbero potuto essere compresi tra 0,90 e 1,1.
Nessuno ascoltò quell’appello e l'euro negli anni successivi è stato supinamente
accettato con un apprezzamento dirompente.
Questo è ciò che abbiamo vissuto. E questo è quello che abbiamo simulato: parità
euro-dollaro in tutto il periodo dal 2003 al 2014.
A questo punto ci si augura che nessuno intenda sollevare la questione che “il tasso di
cambio è determinato ogni giorno dai mercati”. Si è già risposto a questa domanda
sulla base della teoria monetaria. Infatti, con una politica monetaria diversa da quella
erroneamente seguita, avremmo potuto avere l'opportunità di un rapporto dollaro ed
euro intorno alla parità.
Presentiamo qui una sintesi dei risultati ottenuti e valutati come effetti cumulati dal
2003 alla fine del 2014 e riferiti al totale dell’area euro. Questa sintesi è riportata
nella TAV. II.1.2.
Ulteriori dettagli, paese per paese, vengono presentati nella Appendice che segue.
25
Il "costo del super-euro" per la zona euro è stato una perdita dell’11% del PIL,
vale a dire che, alla fine del 2014, il PIL della zona euro sarebbe stato superiore ai
dati storici dell’11%. E quali sono i due principali paesi dell'economia europea che
hanno perso di più? Germania 13% e Italia14%! Questi risultati sono molto chiari.
Germania e Italia sono le due più grandi economie manifatturiere in Europa e gli
effetti prodotti attraverso il tasso di cambio influenzano direttamente la manifattura e
meno il settore dei servizi. Ma anche altre economie hanno subito l’effetto del super
26
euro, come ad esempio la Grecia che ha perso il 6% di PIL. Questo costo appare più
contenuto invece per la Spagna.
In termini di occupazione totale, la zona euro ha perso oltre 17 milioni di posti di
lavoro regalando al resto del mondo, soprattutto Stati Uniti e Cina, una maggiore
occupazione. Pertanto, l'Eurozona ha dato un contributo molto importante per la
creazione di posti di lavoro …all'estero, creando 17 milioni di posti di lavoro al di
fuori dell'Europa a causa di un tasso di cambio dell'euro fortemente sopravalutato.
Al suo interno, la Germania ha perso 3,3 milioni, la Francia un po’ meno 1,7, l’Italia
quasi 2 milioni, la Spagna 1,5 milioni. La Grecia ha perso 350.000 posti di lavoro,
meno in termini assoluti, ma enormemente importante in termini relativi.
Il tasso di disoccupazione nella zona euro, alla fine del 2014, è stato di circa 11,6%.
Con la parità euro/dollaro si sarebbe invece determinato un tasso del 5,8%, che è più
o meno quello registrato negli Stati Uniti alla fine del 2014.
Anche la Germania, che ha il 6,7% di tasso di disoccupazione alla fine del 2014,
sarebbe potuta scendere al 3,6%. La Germania potrebbe ovviamente dire che il 6,7%
di disoccupazione è un buon risultato e potrebbe anche chiedersi perché scendere ad
un tasso ancora più basso. Va però ricordato che durante gli anni '50 e '60 si diceva
che il tasso di disoccupazione "normale" (ora si direbbe il NAIRU) per l'Europa era
di circa il 3%, mentre negli Stati Uniti era a circa 6-7% a causa del diverso mercato
del lavoro, di diverse istituzioni e così via.
La situazione oggi appare completamente rovesciata e l’Europa sembra essere
totalmente acquiescente e comunque quasi indifferente ad accettare un elevatissimo
tasso di disoccupazione.
La Francia avrebbe avuto solo l’1,1% in meno di disoccupazione. Ma la Francia,
rispetto agli altri paesi, sembra essere una sorta di economia resiliente.
L'Italia avrebbe avuto l'8,8% e non il 13% sperimentato a fine 2014.
Spagna e Grecia, ovviamente, sarebbero ancora a tassi di disoccupazione elevati, ma
la prima è al 24,4% e sarebbe stata al 16% e la seconda è al 26,7% ed avrebbe fatto
registrare una disoccupazione al 19%.
27
In aggiunta a questo, la zona euro ha perso occupazione anche in termini di riduzione
del tasso di partecipazione, cioè di soggetti scoraggiati che neanche cercano più
lavoro.
Il tasso di partecipazione sarebbe stato, in media della zona euro, 4 punti percentuali
in più: 4,7 in Germania, 2,8 in Francia, 3,1 in Italia. Effetti minori si mostrano per
Spagna e Grecia.
Andiamo sul lato opposto della medaglia, le finanze pubbliche.
Attraverso quella masochista politica monetaria che ha condotto ad una supervalutazione dell'euro, le condizioni di finanza pubblica sono state ulteriormente
peggiorate, sia in termini di deficit che di debito.
Alla fine del 2014, l’area euro presenta un consistente deficit pubblico di -269
miliardi di euro che, invece, sarebbe stato addirittura un surplus di +165
miliardi: la differenza risulta pari a 435 miliardi.
La Germania, che è più o meno in pareggio, avrebbe avuto un consistente surplus.
Non stiamo dicendo che dobbiamo prendere questo surplus per scontato. In realtà
significa che la Germania avrebbe avuto ampi spazi per ulteriori migliori utilizzi delle
sue risorse.
In termini di percentuale del PIL, la differenza è di 4,1 punti percentuali per l’Euro
area; per la Germania è 4,4%, Francia 2,8%, Italia 3.7% e 4.3% per la Grecia.
Sul fronte del debito pubblico, per l'area dell'euro, avremmo 3000 miliardi di euro
di debito in meno, distribuiti in tutti i paesi: 938 miliardi in meno in Germania, poco
più di 400 in Francia e in Italia, un po’ meno di 150 per Spagna, un po’ meno di 100
per la Grecia.
Tutto ciò significa semplicemente che, in caso di parità euro/dollaro, non
avremmo avuto alcuna crisi europea da debito sovrano, Grecia compresa.
Certo, sappiamo che la Grecia ha manipolato i conti e le statistiche, ma 100 miliardi
di euro in meno di debito pubblico rispetto al valore storico di 320 significa una
riduzione del 30%. Ovviamente la situazione greca sarebbe rimasta critica in ogni
28
caso, ma avrebbe avuto un rapporto Debito/PIL al 140% e non al 170%.
Infine, va notato che non sarebbero emersi rischi di inflazione.
Il tasso di inflazione sarebbe rimasto al di sotto dell'obiettivo del 2% originariamente
assegnato alla BCE, e soprattutto si sarebbe evitato qualsiasi rischio di deflazione.
Nella seguente appendice, si presentano i risultati dettagliati delle simulazioni paese
per paese e anno per anno (vedi Tavole e Figure IIA.1.1-IIA.1.12).
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Appendice: I risultati paese per paese ed anno per anno
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II.2 - Maastricht: un trattato meno stupido e più intelligente?
II.2.1- Tre Premesse
Prima di valutare gli effetti di un Trattato di Maastricht “cieco da un occhio”,
facciamo qui tre premesse.
Le prime due si riferiscono a come è nato e cosa dice Maastricht ed a come potrebbe
essere modificato/reinterpretato.
In precedenza abbiamo ricordato come sia nato il vincolo del 3% di deficit: 2% di
inflazione era il compito della Banca centrale europea; 3% di crescita era il compito
dei governi nazionali che avrebbero dovuto perseguirla attraverso riforme strutturali.
Quei numeri sono clamorosamente falliti su entrambi i fronti. Da qui la necessità ed
urgenza di cambiare strada. Ma come si fa a cambiare il trattato?
Poiché il mondo è cambiato ed i numeri sono cambiati, la necessità di cambiare è
sotto gli occhi di tutti e non dovrebbe essere in discussione. Sarebbe infatti veramente
stupido e masochistico dire che non dobbiamo toccare Maastricht, basato su “vecchi”
numeri e su uno scenario completamente diverso da oggi, mentre il resto del mondo è
cambiato e anche i numeri europei si sono dimostrati radicalmente diversi rispetto a
quegli obiettivi del 2% di inflazione e del 3% di crescita.
La nostra proposta allora è quella di modificare il Trattato di Maastricht, per andare a
almeno ad una reinterpretazione del Trattato molto più rigorosa e un po’ meno
stupida.
Più rigorosa, perché quello che si propone è "deficit zero nella spesa corrente del
bilancio". Infatti, se la parte corrente del bilancio è in deficit significa che lo Stato
“distrugge” risparmio, se invece è in avanzo significa che lo Stato produce risparmio
positivo che si aggiunge a quello dei privati. Ecco perché la nostra proposta indica
che il deficit corrente sia almeno pari a zero, lasciando il deficit totale del 3%
esclusivamente dovuto ad investimenti pubblici.
In questo senso quindi una tale interpretazione di Maastricht sarebbe più rigorosa
perché è necessario essere più rigorosi sulla parte corrente del bilancio nel senso che
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il gettito fiscale deve quantomeno bilanciare il totale delle spese di conto corrente e il
3% di deficit è consentito solo per gli investimenti.
Sarebbe opportuno poi aggiungere una forma di leva finanziaria.
In effetti, è incredibile che in tutto il mondo, nel settore privato, la leva finanziaria è
“regola normale" per le famiglie e per le aziende ed è stata seguita almeno negli
ultimi cinque o sei secoli.
Chi potrebbe imporre ad una famiglia di comprare una casa e pagare il 100% in
contanti? Chi potrebbe dire ad una società di investire e pagare il 100% in contanti?
Normalmente in ogni sistema economico si fa ricorso per l’appunto ad una solida
“leva finanziaria”. Chi compra una casa sa che deve pagare come anticipo circa un
terzo del valore totale e così può ricevere un mutuo per gli altri due terzi, oppure
anticipare il 50% ed avere un mutuo per il restante 50%.
Ecco allora che, al vincolo di azzerare la parte di deficit corrente dei bilanci pubblici,
si potrebbe e si dovrebbe affiancare una sorta di premio che sarebbe costituito dalla
“leva finanziaria” che dovrebbe dire: per ogni 1% di surplus di parte correnti è
consentito un ulteriore 2% di deficit per gli investimenti. In questo caso si tratterebbe
di una leva molto solida perché il 50% dei maggiori investimenti sarebbe
autofinanziato con l’avanzo di parte corrente e solo il restante 50% andrebbe
finanziato sul mercato. Sarebbe come dire ad un acquirente di una casa che è
necessario disporre di un anticipo pari al 50% per avere un mutuo per l'altro 50%.
Questi specifici parametri potranno anche essere discussi, ma il principio da
introdurre è quello di una leva molto virtuosa. Il che significa che se si realizza un
avanzo di parte corrente pari all'1% del PIL, si ha il consenso per fare investimenti
pubblici fino al 5% di PIL. In tal caso il deficit totale sarebbe 4%, superiore al limite
del 3% ma, se questo corrisponde al 5% di investimenti e l’1% è risparmio pubblico,
lo stimolo strutturale positivo per l'economia sarà molto potente e la futura crescita
del PIL sarà sostenuta e consentirà di ridurre lo stesso deficit totale.
Se invece il disavanzo di parte corrente è pari a zero, allora il vincolo del 3% resta ma
deve essere esclusivamente dovuto ad investimenti.
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Vedremo pertanto qui di seguito quale sarebbe potuto essere l’effetto di un
Maastricht di questo tipo nel corso degli ultimi 10-12 anni sulle maggiori economie
europee.
Ma prima di andare ai risultati delle simulazioni controfattuali, è necessario fare una
terza premessa.
Va infatti ricordato, innanzitutto, che questo tipo di stime econometriche misura in
gran parte gli effetti sul lato della domanda attraverso la distinzione tra spese correnti
e spese per investimenti. Questo semplice effetto di ricomposizione della domanda
però non è l’obiettivo primario di un programma di investimenti pubblici. Infatti,
l’obiettivo vero di un programma di investimenti è l'effetto che essi producono sul
lato dell'offerta, vale a dire come agiscono sulla produttività dei fattori, sul PIL
potenziale e quindi sulla crescita potenziale dell’economia.
Per contro i risultati che abbiamo per ora ottenuto si limitano prevalentemente
misurare gli effetti della domanda, cioè agli effetti di breve periodo.
Questo tipo di modelli econometrici infatti non cattura gran parte degli effetti dal lato
dell'offerta e quindi nel lungo periodo.
In secondo luogo, in termini di crescita endogena, si dovrebbe aprire un dibattito su
quale tipo di investimento pubblico debba essere effettivamente incluso nel criterio
proposto. E' evidente che, prima di tutto, le infrastrutture dovrebbero essere parte di
esso, ma in termini di crescita endogena dovremmo anche includere la formazione,
gli investimenti immateriali, le nuove tecnologie, le infrastrutture wireless in tutto il
paese o qualsiasi altra cosa sia considerata come impulso alla produttività totale dei
fattori ed alla crescita potenziale.
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II.2.2- Il costo della stupidità di Maastricht,
le opportunità offerte da un Maastricht con interpretazione più intelligente:
maggiore stabilità finanziaria e maggiore crescita
Come detto, la nostra ricerca è ancora in corso. Pertanto i risultati qui presentati sono
per ora limitati a tre paesi: Germania, Francia e Italia (Vedi tabelle II.2.1-II.2.3).
In termini di PIL in valore reale, alla fine del 2014, esso sarebbe superiore del 5% in
Germania, del 4,4% in Francia e del 4,8% in Italia.
In termini di occupazione, l'effetto è positivo, anche se non così grande come nel
caso del super-euro, ma sarebbe, in ogni caso, superiore, all’ 1,3%, per esempio, in
Italia. Avremmo cioè avuto da circa 200 a 300.000 posti di lavoro in più in ciascuno
dei tre paesi.
La disoccupazione in totale sarebbe stata inferiore, soprattutto in Italia, di quasi 3
punti percentuali e il tasso di disoccupazione sarebbe stato più basso dell'1%.
A questo si sarebbero associate le seguenti condizioni delle finanze pubbliche.
Il disavanzo pubblico sarebbe stato superiore in Germania rispetto ai dati storici che
presentano un pareggio di bilancio nel 2014.
Infatti, se invece di avere investimenti pubblici in diminuzione, la Germania avesse
realizzato investimenti pari al 5% del PIL, ne sarebbe conseguito negli anni un
maggiore disavanzo ed il debito pubblico sarebbe stato più alto di quello
effettivamente realizzato. Alla fine del periodo, pertanto la Germania avrebbe avuto
in valore assoluto un debito di 400 miliardi di euro superiore a quello storico. Ma in
termini di rapporto Debito/PIL avrebbe avuto il 69% invece di avere il 63% del dato
storico. Questa minima differenza, evidentemente, non avrebbe però comportato
alcun effetto sulle condizioni di stabilità finanziarie della Germania.
I risultati sono ancora più interessanti per Francia ed Italia.
La Francia avrebbe avuto meno deficit e meno debito, perché la Francia ha realizzato,
nel periodo storico analizzato, investimenti spesso al di sopra del 3% di PIL.
In Italia avremmo avuto un più alto deficit ed anche il debito sarebbe stato un po’ più
alto, in termini assoluti, ma molto più basso come rapporto Debito/PIL. Alla fine del
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2014, l’Italia avrebbe avuto il 106% invece dell’attuale 132%, cioè il 26% in meno.
Pertanto l’Italia avrebbe avuto un debito di poco superiore in valore assoluto, ma
un PIL molto più alto, sia reale e nominale.
A fronte di questo non sembrano emergere effetti significativi sull'inflazione, sia in
termini di deflatore del PIL che in termini di prezzi al consumo (CPI).
Questi sono solo risultati preliminari e il lavoro più completo deve essere fatto.
Tuttavia la direzione che questa ricerca sta prendendo è molto interessante e molto
stimolante.
Va infine ricordato che i risultati ottenuti in questa sezione in riferimento ad una
diversa interpretazione di Maastricht potrebbero essere cumulati con quelli ottenuti
nella precedente sezione nella quale abbiamo misurato il costo del super euro.
Certamente queste sono e restano semplici “simulazioni econometriche”.
Sta di fatto però che l’Europa avrebbe potuto avere una storia ben diversa.
Senza gli errori di politica economica commessi, invece di subire la peggiore crisi dal
dopoguerra ad oggi, avrebbe potuto vivere un periodo di eccellente prosperità, quasi
una nuova età dell’oro, per altro molto simile a quanto sperimentato nei primi tre
decenni del dopoguerra.
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In conclusione, la “crisi” europea ha origini “endogene europee”,
determinate dagli “errori” europei di politiche macroeconomiche, cioè:
 Il Super-euro
 Un Trattato di Maastricht “stupido” e non “rigoroso”
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LE PREVISIONI 2015-2020
SIAMO FUORI DALLA “RECESSIONE” MA…
FUORI DALLA “CRISI” QUANDO?
ovvero
Le previsioni per l’economia italiana 2015 – 2020,
dopo la Legge di Stabilità
MARIO BALDASSARRI
INDICE
Executive Summary - Previsioni
III – LA PREVISIONE “BASE” PER L’ECONOMIA ITALIANA - 2015-2020:
Gli effetti della Legge di Stabilità 2016,
gli impegni verso l’Unione Europea
ed il ruolo delle clausole di salvaguardia.
IV – LA FINESTRA DI OPPORTUNITA’:
Gli effetti della “ridiscesa sulla terra” dell’Euro,
la discesa del prezzo del petrolio
ed i segni di rallentamento dell’Economia Mondiale
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EXECUTIVE SUMMARY – PREVISIONI
Le previsioni sull’andamento dell’economia italiana da qui al 2020 indicano un tasso
di crescita che a +0,7% nel 2015 ed a +1,2% nel 2016, rimanendo attorno all’1% fino
al 2020. Questo significa che stiamo uscendo dalla “recessione” ma, con i ritmi di
crescita che si profilano, per uscire dalla “crisi” (cioè per tornare ai livelli di reddito
e di occupazione del 2007) occorreranno altri 10 anni in termini di PIL e altri 13 anni
in termini di tasso di disoccupazione.
In questa Nota di Aggiornamento del nostro IX° Rapporto di Previsione abbiamo
prodotto una simulazione BASE che incorpora la Legge di Stabilità 2016. Poiché
però la decisione del Governo è stata quella di azzerare il deficit pubblico al 2018
(anziché al 2017 come concordato in precedenza), abbiamo dovuto presupporre che
le clausole di salvaguardia (cioè i previsti aumenti automatici di imposte, IVA ed
accise) siano semplicemente slittate di un anno a valere sul biennio 2017-2018 ed
abbiamo pertanto incluso il rispetto di dette clausole nella nostra previsione BASE
che indichiamo come Previsione A.
Varie previsioni prodotte da diversi centri studi e diverse istituzioni nazionali ed
internazionali non contemplano il rispetto di dette clausole, non solo per il 2016 ma
anche per gli anni successivi. Per questa ragione abbiamo prodotto una previsione che
non include il rispetto delle clausole di salvaguardia per gli anni futuri ed indichiamo
questa ipotesi come Previsione B che appare più in linea con le indicazioni, anche se
non formali, date dal governo.
Infine, ci siamo riferiti ad una terza ipotesi che rispettasse le clausole di salvaguardia
a partire dal prossimo anno 2016 in assenza di una Legge di Stabilità. Riportiamo
questa come Previsione C.
In termini di tassi di crescita la nostra BASE-Previsione A indica un +0,7% in questo
2015, l’1,2% nel 2016 ma, a seguito della eventuale applicazione delle clausole di
salvaguardia, il ritmo di sviluppo scenderebbe al +0,4% nel 2017 ed allo 0,7% nel
2018 per arrivare a superare appena l’1% nel 2020.
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Qualora invece quelle clausole non venissero rispettate, come incorporato nella
Previsione B, il tasso di crescita dovrebbe mantenersi di poco superiore all’1% fino
al 2020. In tal caso però l’Italia non rispetterebbe alcun impegno in sede europea, né
di azzeramento del deficit, né di riduzione concordata del rapporto Debito Pubblico e
PIL.
Nei nostri risultati la Legge di Stabilità 2016 determina un maggiore tasso di crescita
rispetto al caso in cui fossero scattati i previsti aumenti di IVA ed accise pari allo
0,4%. Infatti, a fronte di una previsione dell’1,2% si sarebbe avuto un tasso di
crescita pari a solo lo 0,8% . Per altro, lo stesso governo nel DEF dello scorso mese
di Settembre ha indicato che il mancato aumento dell’IVA e delle accise avrebbe di
per sé avuto un effetto dello 0,3% in più sulla crescita 2016. Significa in tal caso che
tutto il resto della Legge di Stabilità produce, secondo lo stesso governo, un sostegno
alla crescita pari allo 0,1%. Inoltre, questa stima in realtà non rappresenta una misura
dell’effetto vero della Legge di Stabilità, quanto piuttosto il merito di aver voluto
evitare un aumento di tasse che avrebbe frenato la nascente fragile ripresa.
Questo però non implica che gli italiani pagheranno meno tasse nel 2016 di quanto
non abbiano fatto nel 2015. Più semplicemente ciò vuol dire che gli italiani
pagheranno l’anno prossimo meno tasse “rispetto a quelle che avrebbero dovuto
pagare nel rispetto delle clausole di salvaguardia”.
E’ altrettanto evidente per altro che questo aspetto, pur sempre positivo per i cittadini,
sta a fronte di un aumento di deficit e di debito pubblico. La Legge di Stabilità
aumenta infatti il deficit 2016 dello 0,6% ed a fronte di questo si ottiene un aumento
dello 0,4% di crescita, destinato però ad essere più che controbilanciato dal 2017 in
poi qualora quelle clausole dovessero essere rispettate a partire dallo stesso 2017.
Pertanto, anche ammesso che l’Unione Europea conceda lo slittamento al 2018
dell’azzeramento del deficit pubblico italiano, occorrerà valutare attentamente quale
potrà essere la reazione dei mercati finanziari qualora il rapporto Debito/PIL nel 2016
non dovesse scendere rispetto ai dati del 2015.
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La comunque modesta crescita prevista avrà conseguente dirette sull’andamento della
disoccupazione.
Il tasso di disoccupazione scenderà lentamente ma al 2020 sarà ancora superiore al
10%. Il totale dei disoccupati avrà anch’esso un andamento di lieve progressiva
riduzione ma al 2020 sarà ancora tra i 2,6 ed i 2,8 milioni, ben lontano dall’1,5
milioni di disoccupati del 2007. Il numero degli occupati salirà in termini positivi
ma anch’essi modesti, dagli attuali 22,5 milioni di occupati si dovrebbe arrivare al
2020 tra i 23,1 ed i 23,3 milioni. Anche qui però resteremmo al di sotto dei 23,4
milioni di occupati del 2007. Il tasso di attività si presenta in ulteriore discesa, cioè
si prospetta un aumento degli scoraggiati che smettono di cercare lavoro.
Queste previsioni si basano su uno scenario internazionale ancora relativamente
favorevole. Per contro, queste condizioni “esterne” potrebbero in futuro anche
modificarsi in peggio.
Per questa ragione abbiamo voluto valutare quali prospettive si sarebbero aperte per
l’economia italiana in ciascuna delle tre Previsioni qualora non ci fosse stata la
riduzione del cambio e qualora l’euro fosse rimasto e rimanesse alla quotazione di
1,33 dollari (media del 2014) anche per questo anno e per gli anni futuri.
In sintesi, risulta che:
1.- La fragile ripresa in atto è “totalmente” dovuta alle condizioni “esterne”
all’economia italiana, in particolare alla discesa del cambio dell’euro. Se infatti la
moneta unica avesse mantenuto il rapporto con il dollaro a 1,33, l’economia italiana
avrebbe prolungato la sua lunga fase di recessione con un tasso di crescita 2015 al
-1% e nel 2016 e negli anni successivi la ripresa sarebbe stata ancora più lenta;
2.- Le condizioni di disoccupazione ed occupazione si sarebbero ulteriormente
aggravate ed il recupero dei livelli pre-crisi non sarebbe avvenuto prima del…2030;
3.- Le condizioni di finanza pubblica si sarebbero ulteriormente deteriorate ed
eventuali correzioni drastiche di deficit e di debito avrebbero ulteriormente
peggiorato le condizioni di reddito ed occupazione.
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III – LA PREVISIONE “BASE” PER L’ECONOMIA ITALIANA - 2015-2020:
Gli effetti della Legge di Stabilità 2016, gli impegni verso l’Unione Europea
ed il ruolo delle clausole di salvaguardia.
Nel nostro IX° Rapporto di Previsione, presentato lo scorso 7 Luglio, avevamo
indicato le fragili opportunità di ripresa dell’attività produttiva e le perduranti
precarie prospettive occupazionali conseguenti da una previsione di crescita per i
prossimi cinque anni che si attestava attorno all’1% all’anno.
Quelle previsioni aprivano uno scenario economico, sociale e finanziario
insostenibile nel medio-lungo periodo e per tale ragione avevamo valutato diverse
alternative “forti” di politica economica per “aggiungere” alla crescita almeno un
punto percentuale e portare l’economia italiana ad un tasso di sviluppo almeno sopra
il 2%.
Ovviamente l’appuntamento formale e sostanziale per varare una politica economica
di vero sostegno alla ripresa era e resta la definizione e l’approvazione della Legge di
Stabilità 2016.
Pertanto, in questa Nota di Aggiornamento del nostro IX° Rapporto di Previsione
abbiamo prodotto una simulazione BASE che incorpora la Legge di Stabilità 2016
come finora appare strutturata, anche se tutt’ora in discussione in Parlamento.
Poiché però la decisione del Governo è stata quella di rinviare l’impegno con
l’Europa ed azzerare il deficit pubblico al 2018 (anziché al 2017 come concordato in
precedenza), abbiamo dovuto presupporre che le clausole di salvaguardia (cioè i
previsti aumenti automatici di imposte, IVA ed accise) siano semplicemente slittate
di un anno a valere sul biennio 2017-2018 ed abbiamo pertanto incluso il rispetto di
dette clausole nella nostra previsione BASE che indichiamo come Previsione A.
Dobbiamo qui notare subito che varie previsioni prodotte da diversi centri studi e
diverse istituzioni nazionali ed internazionali non contemplano il rispetto di dette
clausole, non solo per il 2016 ma anche per gli anni successivi. L’evidenza di questo
elemento è verificabile con il fatto che le stesse previsioni non conducono ad azzerare
il deficit pubblico nel 2018 e neanche negli anni futuri e quindi presuppongono il non
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rispetto degli impegni assunti in sede europea oppure successive e pesanti manovre
aggiuntive.
Per questa ragione abbiamo prodotto una previsione che non include il rispetto delle
clausole di salvaguardia per gli anni futuri ed indichiamo questa ipotesi come
Previsione B che appare più in linea con le indicazioni, anche se non formali, date
dal governo.
Infine, ci siamo riferiti ad una terza ipotesi che rispettasse le clausole di salvaguardia
a partire dal prossimo anno 2016, come previsto dagli accordi in sede europea, ed in
tal caso abbiamo proceduto alla simulazione escludendo gli impatti della Legge di
Stabilità 2016. In tal caso si tratta di valutare il mero rispetto del rientro del deficit
pubblico secondo le linee guida della Unione Europea ottenuto facendo scattare le
clausole di salvaguardia in assenza di Leggi di Stabilità da parte del governo italiano.
Riferiamo questa come Previsione C.
In questa sezione proponiamo la nostra analisi dei risultati ottenuti ponendo pertanto
a confronto le tre diverse previsioni prodotte (A,B,C).
Va subito detto che le previsioni sull’andamento dell’economia italiana da qui al
2020 indicano prospettive di crescita che potranno attestarsi ad un +0,7% nel 2015 ed
un +1,2% nel 2016, rimanendo attorno all’1% di tassi di sviluppo per tutto il periodo
considerato.
Questo significa che l’anno in corso ed il prossimo 2016 segnano l’uscita dalla
“recessione” ma, con i ritmi di crescita a medio termine delle previsioni al 2020, per
uscire dalla “crisi” (cioè per tornare ai livelli di reddito e di occupazione del 2007)
occorreranno circa altri 10 anni in termini di PIL e circa altri 13 anni in termini di
tasso di disoccupazione (vedi TAV. III.1 e FIGG. III.1-3).
Nella figura III.3 si evidenzia inoltre che, mentre il tasso di disoccupazione sembra
rientrare attorno al 2027 verso il 6,1% che l’Italia ha registrato nel 2007, in termini di
numero totale di disoccupati ci si troverà ancora nel 2027 ad oltre 2 milioni di unità,
cioè ben sopra l’1,5 milioni di disoccupati del 2007.
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Veniamo ora alle tre Previsioni a confronto.11
In termini di tassi di crescita (vedi TAV.III.2 e FIG.III.4) la nostra Previsione A
indica un +0,7% in questo 2015, l’1,2% nel 2016 ma, a seguito della eventuale
applicazione delle clausole di salvaguardia, il ritmo di sviluppo scenderebbe al +0,4%
nel 2017 ed allo 0,7% nel 2018 per arrivare a superare appena l’1% nel 2020.
Qualora invece quelle clausole non venissero rispettate, come incorporato nella
Previsione B, il tasso di crescita dovrebbe mantenersi di poco superiore all’1% fino
al 2020. Qui va subito notato però che in tal caso l’Italia non rispetterebbe alcun
impegno in sede europea, né di azzeramento del deficit, né di riduzione concordata
del rapporto Debito Pubblico e PIL.
Le due Previsioni A e B, di fatto incorporano entrambi la Legge di Stabilità 2016 e
quindi entrambi producono la stessa previsione di crescita pari all’1,2% nel 2016,
differenziandosi tra loro dal 2017 al 2020 proprio in funzione del rispetto o del non
rispetto delle clausole di salvaguardia.
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NELLA PARTE SINISTRA DELLE TAVOLE (COLONNE A-B-C) SONO RIPORTATI I RISULTATI DELLE TRE PREVISIONI A CONFRONTO.
NELLA PARTE DESTRA (COLONNE D-E-F)SONO RIPORTATE LE STESSE TRE PREVISIONI NELL’IPOTESI DI UN RAPPORTO $/€ FERMO A 1,33.
NELLE FIGURE CHE SEGUONO LE TRE PREVISIONI SONO INDICATE CON LE LINEE CONTINUE, MENTRE LE LINEE TRATTEGGIATE
INDICANO LE STESSE TRE PREVISIONI NELL’IPOTESI DI UN CAMBIO $/€ FERMO A 1,33
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Ecco allora che risulta di qualche interesse porle a confronto con la Previsione C che
non include la Legge di Stabilità 2016 mentre incorpora il rispetto dei vincoli europei
sin dallo stesso anno 2016. Pertanto la differenza dei risultati ottenuti può essere una
misura specifica dell’effetto che la Legge di Stabilità produce sulle condizioni di
crescita del prossimo anno.
Nei nostri risultati la Legge di Stabilità 2016 determina un maggiore tasso di crescita
rispetto al caso in cui fossero scattati i previsti aumenti di IVA ed accise pari allo
0,4%. Infatti, a fronte di una previsione dell’1,2% si sarebbe avuto un tasso di
crescita di un solo 0,8% dopo lo 0,7% del 2015. Per altro, lo stesso governo nel DEF
dello scorso mese di Settembre ha indicato che il mancato aumento dell’IVA e delle
accise avrebbe di per sé avuto un effetto dello 0,3% in più sulla crescita 2016.
Significa in tal caso che tutto il resto della Legge di Stabilità produce, secondo lo
stesso governo, un sostegno alla crescita pari allo 0,1%.
Inoltre, questa stima in realtà non rappresenta una misura dell’effetto vero della
Legge di Stabilità, quanto piuttosto il merito di aver voluto evitare un aumento di
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tasse che avrebbe frenato la nascente fragile ripresa. Questo però non implica che gli
italiani pagheranno meno tasse nel 2016 di quanto non abbiano fatto nel 2015. Infatti,
come vedremo in seguito
in riferimento agli andamenti previsti delle entrate
pubbliche il gettito complessivo in valore assoluto aumenterà nel 2016 rispetto al
2015. Più semplicemente ciò vuol dire che gli italiani pagheranno l’anno prossimo
meno tasse “rispetto a quelle che avrebbero dovuto pagare nel rispetto delle clausole
di salvaguardia”.
E’ altrettanto evidente per altro che questo aspetto, pur sempre positivo per i cittadini,
sta a fronte di un aumento di deficit e di debito pubblico. La Legge di Stabilità
aumenta infatti il deficit 2016 dello 0,6% ed a fronte di questo si ottiene un aumento
dello 0,4% di crescita, destinato però ad essere più che controbilanciato dal 2017 in
poi qualora quelle clausole dovessero essere rispettate a partire dallo stesso 2017.
Pertanto, anche ammesso che l’Unione Europea conceda lo slittamento al 2018
dell’azzeramento del deficit pubblico italiano, occorrerà valutare attentamente quale
potrà essere la reazione dei mercati finanziari qualora il rapporto Debito/PIL nel 2016
non dovesse scendere rispetto ai dati del 2015.
Per contro, come indicano i risultati della Previsione C, qualora avessimo
semplicemente rispettato i vincoli europei sin dal 2016, l’economia italiana avrebbe
sperimentato tassi di crescita ben inferiori all’1% almeno fino al 2020.
L’andamento del PIL in valore reale appare certamente diverso rispetto alle tre
Previsioni prodotte. Sta di fatto però che, a fine periodo, tali differenze si collocano
attorno a non più di 20 miliardi di euro, cioè poco più dell’1% in cinque anni (vedi
TAV.III.3 e FIG.III.5). Nel 2020 il nostro PIL si attesterà tra i 1633 Miliardi di euro
nella ipotesi più favorevole ed i 1612 miliardi in quella più sfavorevole. Tra cinque
anni cioè il livello del Prodotto Interno Lordo italiano sarà ancora ben lontano dai
1688 miliardi ottenuti nel 2007 prima della crisi. Come detto in apertura quindi
occorreranno almeno altri cinque anni, oltre il 2020, per recuperare il PIL pre-crisi.
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La comunque modesta crescita prevista avrà conseguenze dirette sull’andamento
della disoccupazione.
Il tasso di disoccupazione scenderà lentamente ma al 2020 sarà ancora superiore al
10% (vedi TAV.III.4 e FIG.III.6).
Il totale dei disoccupati avrà anch’esso un andamento di lieve progressiva riduzione
ma al 2020 sarà ancora tra i 2,6 ed i 2,8 milioni, ben lontano dall’1,5 milioni di
disoccupati del 2007 (vedi TAV.III.5 e FIG.III.7).
Il numero degli occupati salirà in termini positivi ma anch’essi modesti (vedi
TAV.III.6 e FIG.III.8). Dagli attuali 22,5 milioni di occupati si dovrebbe salire al
2020 tra i 23,1 ed i 23,3 milioni. Anche qui però resteremmo al di sotto dei 23,4
milioni di occupati del 2007.
Questi modesti ma positivi dati sul tasso di disoccupazione e sul totale dei
disoccupati sono per altro “sostenuti” da una lieve ulteriore discesa del tasso di
partecipazione, cioè da un aumento degli scoraggiati che smettono di cercare lavoro
(vedi TAV.III.7 e FIG.III.9).
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Passiamo ora sul fronte della finanza pubblica.
La spesa pubblica è prevista salire dagli attuali 826 miliardi agli 880-920 miliardi del
2020. Per contro il totale delle Entrate passerebbe dai 781 miliardi del 2015 a circa
900 miliardi nel 2020 (vedi TAV.III.8-9 e FIG.III.10-11). Si prospetta quindi
esattamente quanto avvenuto negli ultimi quindici anni: continui aumenti di spesa
pubblica inseguiti da continui aumenti di tasse.
Sulla base di questi dati si può verificare quanto anticipato in precedenza e cioè che
nel 2016 il totale delle entrate sarà “inferiore” di 16 miliardi rispetto a quanto
previsto nel caso di aumento di IVA ed accise ma “superiore” di 18 miliardi rispetto
al totale che si è verificato nel 2015. E di anno in anno il totale delle entrate è previsto
aumentare fino ad oltre 900 miliardi di euro nel 2020.
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Il saldo tra spese ed entrate è, come ben noto, il Deficit Pubblico.
Le previsioni circa i saldi di bilancio sono presentate nelle TAVV.III.10-11 e nelle
FIG.III.12-13.
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Come si vede, la manovra del governo (Previsione B) implica per il 2016 un
maggiore deficit pubblico di circa 12/13 miliardi di euro rispetto alle linee previste
dal piano di rientro europeo (Previsione C). Ma i nostri risultati indicano che il
deficit non verrà azzerato entro il 2018 e continuerà a presentarsi ogni anno ben oltre
il 2020. Qualora si dovesse rispettare l’impegno di azzeramento del deficit, già
slittato dal 2017 al 2018, appare evidente la necessità di una manovra da compiere nel
prossimo biennio pari a circa 30 miliardi di euro.
A fronte di questi andamenti del Deficit Pubblico, il profilo del Debito in valore
assoluto appare crescente in tutti gli anni prossimi (vedi TAV.III.12 e FIG.III.14).
Nella Previsione B che incorpora il non azzeramento del Deficit, il valore assoluto
di Debito passerebbe dagli attuali 2185 miliardi ad oltre 2300 miliardi nel 2020. Nelle
altre due ipotesi finanziariamente più rigorose si attesterebbe comunque poco sotto i
2200 miliardi.
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In termini di rapporto Debito/PIL, una sua riduzione nel 2016 rispetto al 2015 appare
possibile soltanto in relazione alla Previsione C che prevede il rispetto delle clausole
di salvaguardia sin dallo stesso 2016.
Nell’ipotesi insita nella Legge di Stabilità invece tale rapporto appare
sostanzialmente pari a quanto si è determinato nel 2015, seguendo poi un profilo di
lenta riduzione di poco più dell’1,5% all’anno, arrivando al 126% nel 2020
(Previsione B).
Per contro, anche nelle ipotesi più rigorose (A e C) il rapporto Debito/PIL non è
previsto ridursi sotto il 121% (vedi TAV.III.13 e FIG.III.15).
Va ancora una volta ricordato che nel 2007 il Debito in Valore assoluto era pari a
1590 miliardi di euro ed il suo rapporto con il PIL era al 103,5%.
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Per finire, gli andamenti dell’inflazione.
Sia in termini di prezzi al consumo che in termini di deflatore del PIL, l’inflazione
sembra destinata a mantenersi molto bassa da qui al 2020 e ben lontana dal limite del
2% perseguito dalla BCE. Certamente i rischi di deflazione sembrano essersi diluiti
anche se non del tutto scomparsi all’orizzonte dell’economia europea e di quella
Italiana Vedi TAVV.III.14-16 e FIGG.III.16-18).
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IV – LA FINESTRA DI OPPORTUNITA’:
Gli effetti della “ridiscesa sulla terra” dell’Euro,
la discesa del prezzo del petrolio
ed i segni di rallentamento dell’Economia Mondiale
Nella TAV. III.17 sono presentate le variabili “esogene” internazionali che sono state
prese a base di tutte le nostre simulazioni e conseguenti previsioni.
Ciò significa che lo scenario mondiale che abbiamo considerato implica per i
prossimi anni un relativo rallentamento della crescita mondiale nel 2015-2016 ma con
un mantenimento di buoni tassi di sviluppo negli anni successivi, un perdurante
prezzo del petrolio basso ed un profilo del cambio dell’euro che oscillerà un po’ sotto
ed un po’ sopra la quotazione di 1,1 sul dollaro.
Sulla base di questo scenario “esterno” non certamente negativo, i risultati delle
nostre previsioni indicano che usciamo dalla recessione ma non usciamo dalla
crisi prima di almeno altri dieci/tredici anni.
Per contro, questo relativo scenario “esterno” potrebbe in futuro anche modificarsi e
modificarsi in peggio. Ecco perché la finestra di opportunità di questi momenti
andrebbe colta con molta più determinazione e molta più efficacia, sia in sede
europea che per quanto riguarda la politica economica italiana.
Per questa ragione vogliano qui sottolineare quali prospettive si sarebbero aperte per
l’economia italiana in ciascuna delle tre Previsioni presentate qualora non ci fosse
stata la riduzione del cambio e qualora l’euro fosse rimasto e rimanesse alla
quotazione di 1,33 dollari (media del 2014) anche per questo anno e per gli anni
futuri.
Intendiamo con questo esercizio valutare quanta parte della ripresa economica di
questi anni sia attribuibile a fattori “esterni”, in particolare alla discesa dell’euro
ovvero all’effetto Quantitative Easing del presidente Draghi (associata alla discesa
del prezzo del petrolio), e quanta parte possa invece essere attribuita all’efficacia
delle politiche economiche nazionali “interne”.
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I risultati ottenuti sono presentati nella parte destra delle Tavole e con linee
tratteggiate nelle Figure presentate nella sezione precedente.
Al di la dei possibili numerosi spunti e commenti di questi risultati, preferiamo qui
concentrarci su alcune evidenze di sintesi:
1.- La fragile ripresa in atto è “totalmente” dovuta alle condizioni “esterne”
all’economia italiana, in particolare alla discesa del cambio dell’euro. Se infatti la
moneta unica avesse mantenuto il rapporto con il dollaro a 1,33, come risultato nel
2014, l’economia italiana avrebbe prolungato la sua lunga fase di recessione anche al
2015 con un tasso di crescita negativo attorno al -1% e nel 2016 e negli anni
successivi la ripresa sarebbe stata ancora più lenta;
2.- Le condizioni di disoccupazione ed occupazione si sarebbero ulteriormente
aggravate ed il recupero dei livelli pre-crisi non sarebbe avvenuto prima del…2030;
3.- Le condizioni di finanza pubblica si sarebbero ulteriormente deteriorate ed
eventuali correzioni drastiche di deficit e di debito avrebbero ulteriormente
peggiorato le condizioni di reddito ed occupazione, innestando il circolo perverso di
crisi economica che aggrava i saldi pubblici, correzioni di finanza pubblica che
aggravano le condizioni dell’economia reale e quindi di un circolo perverso senza
fine e senza speranza.
Per fortuna di tutti Draghi c’è e speriamo che la BCE (e non solo) ce lo conservi.
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