1 ROMA, 17 DICEMBRE 2015 - ore 9:30-18:30 Istituto Luigi Sturzo, sala Perin del Vaga Via delle Coppelle, 35 NOTA DI AGGIORNAMENTO IX° RAPPORTO SULL’ECONOMIA ITALIANA LE ANALISI 2003-2014 LE RADICI “EUROPEE” DELLA CRISI “EUROPEA” ovvero I Trattati sono “teoricamente” sbagliati ed “empiricamente” un disastro economico, sociale e finanziario I.- Il Costo del SuperEuro II.- Maastricht: verso un Trattato meno stupido, più rigoroso e più intelligente? LE PREVISIONI 2015-2020 SIAMO FUORI DALLA “RECESSIONE”… MA FUORI DALLA “CRISI” QUANDO? ovvero Le previsioni per l’economia italiana 2015 – 2020, dopo la Legge di Stabilità 2 LE ANALISI 2003-2014 LE RADICI “EUROPEE” DELLA CRISI “EUROPEA” MARIO BALDASSARRI INDICE Executive Summary - Analisi I – PERCHE’ I TRATTATI EUROPEI SONO TEORICAMENTE SBAGLIATI II - PERCHE’ I TRATTATI EUROPEI SONO EMPIRICAMENTE UN DISASTRO ECONOMICO, SOCIALE E FINANZIARIO, cioè le “radici europee” della “crisi europea” Introduzione II.1- Il costo del super-euro: 2002-2014 Appendice: I risultati paese per paese ed anno per anno II.2 - Maastricht: un trattato meno stupido e più intelligente? II.2.1- Tre Premesse II.2.2- Il costo della stupidità di Maastricht, le opportunità offerte da un Maastricht con interpretazione più intelligente: maggiore stabilità finanziaria e maggiore crescita Conclusione: la crisi europea è dovuta ad errori europei 3 EXECUTIVE SUMMARY ANALISI In questa parte di ANALISI presentiamo un work in progress di un programma di ricerca più ampio del Centro Studi Economia Reale che dovrebbe essere completato entro i primi mesi del prossimo anno. Nella prima sezione si ripercorrono in sintesi i fondamenti teorici degli ultimi cinquant'anni in tema di crescita economica (sia esogena che endogena) e di impatto della politica monetaria e delle politiche di bilancio pubblico sui profili di espansione del sistema economico. All'interno della teoria della crescita endogena, si farà riferimento ad accumulazione di capitale umano, istruzione, intelligenza artificiale, cercando di definire quali potrebbero essere i limiti “astratti e teorici” della crescita economica. Saranno infine richiamate anche le relazioni tra equità distributiva e crescita del reddito. Nella seconda sezione sono presentati i risultati di un'analisi econometrica relativa alle performance dei paesi dell’Unione Europea che hanno aderito alla zona euro. Questo studio fa riferimento al periodo 2002-2014 e si propone di misurare l'impatto della moneta unica e del trattato di Maastricht all'interno di uno schema di simulazioni “controfattuali”. Queste stime potrebbero anche essere definite come il costo della "non" Europa, intesa come un vero e proprio spazio integrato e come soggetto politico, ovvero anche come il costo degli "errori" delle politiche economiche adottate in sede europea (sia in termini di politica monetaria della BCE di Jean-Claude Trichet, sia di politiche di bilancio indotte dal Trattato di Maastricht) in relazione all’attuale quadro istituzionale dell'Unione europea e della zona euro. In una fase successiva della nostra ricerca, una simile analisi sarà prodotta anche in termini di prospettiva per i prossimi cinque anni per cercare di dare evidenza a sostegno delle riforme strutturali, economiche ed istituzionali, necessarie ed urgenti in Europa. 4 Va subito indicato che i risultati ottenuti nella prima sezione nella quale abbiamo misurato il costo del super euro potrebbero essere cumulati con quelli ottenuti in riferimento ad una diversa interpretazione di Maastricht. Certamente questi risultati sono e restano semplici “simulazioni econometriche”. Sta di fatto però che l’Europa avrebbe potuto avere una storia ben diversa. Senza gli errori di politica economica commessi, invece di subire la peggiore crisi dal dopoguerra ad oggi, avrebbe potuto vivere un periodo di eccellente prosperità, quasi una nuova età dell’oro, per altro molto simile a quanto sperimentato nei primi tre decenni del dopoguerra. Negli ultimi anni, tutti hanno parlato di Grecia, Portogallo, Spagna, Italia e anche della piccola isola di Cipro. Ma questi cosiddetti "paesi in crisi" sono solo "dita" che indicano quale sia la vera crisi, quella cioè che riguarda le prospettive per l'economia mondiale e per l’Europa. A livello globale la vera crisi infatti origina da un “vecchio” governo del mondo (G7, FMI, Banca Mondiale, WTO ) che non è più in grado di affrontare il nuovo mondo. Sono urgenti e necessarie “nuove” istituzioni internazionali che coinvolgano almeno i BRICS. Occorre cioè un nuovo G8 e riforme profonde di tutte le Istituzioni Internazionali che possano ristabilire l'equilibrio nell'economia mondiale. In questo contesto è altrettanto necessaria ed urgente un'entità federale europea “politica” in grado di partecipare alla costruzione di un nuovo governo mondiale con le altre grandi aree del pianeta. Ecco perché è urgente "ridefinire" l'Unione europea dando alla BCE ed al Trattato di Maastricht due occhi ciascuno. Infatti, due ciechi con un occhio solo ciascuno non costituiscono una persona sana: 1.- Lo statuto della BCE deve includere come obiettivi da perseguire sia il controllo dell'inflazione, sia la crescita economica, o quanto meno l'effetto della quotazione dell'euro sulla crescita economica, assegnando alla Banca Centrale il ruolo di prestatore di ultima istanza. 5 2.- Maastricht deve diventare "più rigoroso e meno stupido". E' necessario, quindi, introdurre nei bilanci pubblici l'obiettivo di “avanzo di parte corrente” (che si chiama risparmio pubblico) e per ogni 1% di avanzo corrente (autofinanziamento) occorre permettere almeno il 2% di investimenti pubblici in parte finanziati in deficit. Si tratta cioè di introdurre una Platinum Rule ancor più rigorosa rispetto alla Golden Rule definita cinquant'anni fa da Robert Solow, che semplicemente proponeva di lasciare gli investimenti pubblici fuori dal conto del deficit. La Platinum Rule, infatti, non sarebbe altro che il semplice inserimento di una solida leva finanziaria nelle decisioni di politica economica. Sarebbe come per le famiglie quando decidono di comprare una casa pagando un anticipo del 30% del costo ed accendendo un mutuo per il restante 70%. Oppure come quando le aziende usano i loro profitti per finanziare il 30-40% dei loro investimenti e coprono il restante 70/60% accedendo a prestiti sul mercato. Una federazione europea è necessaria subito per dare al vecchio continente un governo ed una sovranità nei seguenti settori: difesa e sicurezza, politica estera, politica monetaria (in gran parte c’è già con l’euro e la BCE), grandi infrastrutture, energia, ricerca, innovazione tecnologica e alta formazione di capitale umano. Su questi temi i singoli paesi hanno da almeno oltre un decennio perso “sovranità” nazionale. Pertanto, l'unico modo per recuperare “sovranità” è quello di riappropriarsene attraverso una Federazione politica europea. È forse utopia immaginare un nuovo G8 oggi, che in ogni caso esiste già sulla base dei "pesi economici" dei grandi paesi rispetto all'economia mondiale, e gli Stati Uniti d'Europa. Tuttavia è urgente agire come se entrambi esistessero già. Senza queste nuove ed urgenti strutture "politiche e istituzionali", l'Europa rischia di implodere, strozzata da un rigore finanziario senza speranza, e l'economia mondiale rischia di esplodere in una nuova grande crisi globale. 6 I – PERCHE’ I TRATTATI EUROPEI SONO TEORICAMENTE SBAGLIATI Da quasi cinquanta anni, i miei interessi scientifici si sono focalizzati su tre aree e sulle loro interrelazioni: crescita economica, distribuzione del reddito e stabilità finanziaria. In particolare, ma non esclusivamente, numerosi contributi sono stati dedicati allo studio del ruolo e degli effetti del bilancio pubblico sull'economia, soprattutto in termini di impatto strutturale sulla crescita economica e sulla redistribuzione sociale del reddito. Inoltre, in diversi studi ho analizzato le interazioni tra distribuzione del reddito e la stessa crescita economica1. Sul piano teorico, il punto di partenza è stato la tesi di dottorato al MIT dal titolo "Spesa pubblica, Inflazione e Crescita"2. Il tema di fondo di quella analisi teorica, che mi ha permesso di formulare alcuni importanti teoremi, è che "il livello e la composizione" della spesa pubblica e "il livello e la composizione" delle entrate fiscali determinano “diversi” percorsi di crescita dei sistemi economici. Pertanto, lo studio degli effetti del bilancio pubblico sull'economia non può limitarsi ad una valutazione dei soli saldi finanziari. Detto in altro modo, il deficit pubblico e l'accumulo di debito pubblico hanno importanti effetti sull'economia, ma questi non possono esaurire lo studio di come e quanto la politica di bilancio determini le condizioni strutturali di crescita economica. 1 La mia tesi di laurea è stata: Mario Baldassarri, Gli Effetti della Spesa Pubblica Nei paesi della CEE, mimeo, Università di Ancona 1969. Successivamente, come sintesi dei miei contributi scientifici nei primi anni settanta, vedi: Mario Baldassarri, Saggi di programmazione economica e settoriale , Edizioni TC, Bologna 1973 Mario Baldassarri, io criteri di Valutazione degli Investimenti, Edizioni TC, Bologna 1974 Mario Baldassarri, Note di teoria della Domanda, teoria della Produzione e Struttura dei Mercati, Edizioni TC 1976 2 Mario Baldassarri, Spesa pubblica, Inflazione e Crescita, mimeo, MIT 1977; Spesa Pubblica, Inflazione e Crescita, Il Mulino, Bologna 1979. Mario Baldassarri, Govenment Expenditure, Inflation and Growth in a fiscal-monetary policy model, EN-MPS, 1976 Mario Baldassarri, Inperfectly anticipated inflation, Expectations on Capital Gain and Government Investment in a twosector growth model, Note Economiche, MPS, Siena, 1979. Mario Baldassarri, Spesa pubblica, inflazione e crescita in un modello a due paesi del commercio internazionale: chi subisce l'onere?, Economia Internazionale, Genova 1980 Mario Baldassarri, "Mix" ottimale di spesa pubblica e crescita ottimale in un'economia aperta all'interno di uno schema a tre-obiettivi/tre-cannoni, Note Economiche, Siena 1984 7 Infatti, dato un certo deficit o debito (ed anche se il deficit e il debito sono pari a "zero"), il livello e la composizione della spesa pubblica e delle entrate "cambiano" le prospettive di crescita strutturale e, quindi, di conseguenza, i livelli di occupazione e la distribuzione del reddito, in termini intra-generazionali, intergenerazionali e territoriali. Dato questo contesto teorico, esiste un teorema che "inverte" il precedente teorema di Haavelmo, noto come il "teorema del bilancio in pareggio". Haavelmo, infatti, aveva indicato che un aumento di pari importo della spesa pubblica e delle tasse (un'operazione a deficit zero) si traduce in un pari aumento del reddito reale dell'economia. Il mio contributo consiste nell'aver dimostrato che la relazione tra l'intervento pubblico nell'economia attraverso politiche di bilancio (anche con un bilancio in pareggio e zero debito) e il potenziale percorso di crescita dell'economia non è "lineare". Quando il "livello" della spesa pubblica e delle tasse è modesto rispetto al PIL, un pari aumento di entrambe può anche aumentare reddito ed occupazione, come proposto da Haavelmo. Ma questo effetto non è "lineare" all'infinito. Infatti, vi è una "soglia" oltre la quale un aumento della spesa legato ad un pari aumento delle entrate si traduce in "una riduzione”, e non in un aumento, del reddito e dell'occupazione. Pertanto, questo rapporto è "back warding". Questo effetto dipende non soltanto dal livello della spesa e delle entrate, ma anche dalla loro composizione; rispetto al tipo di spesa (correnti e investimenti) ed al tipo di entrate (imposte dirette e indirette o imposte sul reddito e/o sul patrimonio, ecc.). Un altro dei miei contributi teorici si riferisce al rapporto tra distribuzione del reddito e condizioni strutturali della crescita economica3. Anche in questo caso, è possibile dimostrare che il rapporto "non è" lineare. 3 Mario Baldassarri e Gustavo Piga, Distribution, Equity and Economic Efficiency: Trade-off and Synergy, RPE, 1994 8 Da un lato, se un economia è caratterizzata da fortissime disuguaglianze distributive (pochi ricchi e molti poveri) non può avere prospettive strutturali per una crescita economica sostenuta. D'altra parte, se un sistema economico è perfettamente "egualitario" (tutti i cittadini hanno lo stesso reddito) le prospettive di crescita strutturali sono altrettanto ridotte e modeste. Queste due "non-linearità" della teoria economica (che sembrano riprodurre in economia il principio fisico del motore elettrico che funziona quando due campi magnetici non sono né troppo vicini né troppo lontani tra loro) ha conseguenze importanti in ogni analisi, teorica ed empirica, volta a valutare gli effetti del bilancio pubblico e della redistribuzione del reddito sui sistemi economici. Un successivo campo di ricerca si riferisce al ruolo della accumulazione di capitale umano (istruzione e formazione), anche in relazione ai modelli di crescita "endogena" che tentano di spiegare e misurare parti del cosiddetto "residuo di Solow ", cioè quella parte della crescita economica che non si spiega con l'aumento quantitativo dei fattori produttivi4. In questo ambito, ho anche prodotto un analisi teorica del modello "ottimale" per il finanziamento dell'istruzione5, in particolare in relazione alla formazione nelle fasi più elevati di istruzione (scuola superiore, laurea e post laurea), in cui è chiaro che fornire corsi gratuiti per studenti finanziati dal bilancio pubblico rischia di produrre risultati peggiori e meno efficienti in termini di creazione di opportunità e di sviluppo di competenze rispetto ad un sistema in cui l'individuo paga le proprie tasse scolastiche per l'istruzione superiore, a condizione però che vengano introdotti ampi programmi di sostegno e sussidi diretti agli studenti meritevoli che si trovano in precarie condizioni economiche (cioè, borse di studio finalizzate a ridurre o azzerare le tasse universitarie oltre che a fornire finanziamenti per la manutenzione ed i costi complessivi di sostentamento degli studenti). 4 Mario Baldassarri et altri, Human Capital, Allocation of Time and Endogenous Growth, AEA-AER, New Orleans 1992. Mario Baldassarri et altri, An Attempt to Model a “Tobin-Modigliani” Approach to Saving, RPE, Roma 1990. 5 Mario Baldassarri, Tassazione, distribuzione ed ottimalità nei programmi di sussidi all’educazione, Rivista Internazionale di Scienze Sociali, Milano 1976. 9 Quando tutti i costi sono finanziati dal bilancio pubblico, c'è il rischio che i vantaggi vadano a soggetti appartenenti a famiglie benestanti, con minori capacità e minore merito e questi soltanto raggiungono elevati livelli di istruzione solo perché la "selezione sociale perversa" si è verificato molto prima, nelle precedenti fasi di istruzione. Di fatto quindi, i figli di famiglie più benestanti ricevono la loro istruzione a carico del bilancio pubblico e quindi a spese del contribuente, mentre gli altri non arrivano mai ai livelli elevati di istruzione. In tal caso, si rischia di determinare l'esclusione dei soggetti con eccellenti capacità intellettuali provenienti da famiglie povere solo perché questi studenti non riescono a raggiungere i livelli più elevati di istruzione perché esclusi nelle precedenti fasi di quella selezione perversa. Nella seconda metà degli anni novanta, con un mio brillante studente oggi professore a Carnagie-Mellon University, studiammo l'impatto causato dagli effetti della intelligenza artificiale sulla crescita economica6. Come risultato del suo eccellente lavoro è emerso un aspetto singolare ma di grande interesse. La crescita della intelligenza artificiale potrebbe accelerare la crescita economica e, di conseguenza, una crescita più rapida potrebbe a sua volta accelerare la crescita di intelligenza artificiale in un circolo virtuoso che sarebbe autosufficiente. La curiosità scientifica ci ha portato a indagare quali siano i limiti della crescita in un modello teorico di questo tipo. In altri termini, che cosa accade quando la produttività tende all’infinito? Questo argomento è collegato alle discussioni sulla "singolarità". La “Singolarità tecnologica” è un momento ipotetico in cui l'intelligenza artificiale progredirà al punto di essere maggiore di una intelligenza umana? Se questo accadesse cambierebbe radicalmente la civiltà e, forse, la stessa natura umana. Poiché la funzione di tale intelligenza potrebbe essere difficile da capire per gli esseri umani, la singolarità tecnologica è spesso vista come un evento (simile a una singolarità gravitazionale) oltre il quale il corso futuro della storia umana sembra imprevedibile o anche insondabile. 6 Alessandro Acquisti, “Intelligenza Artificiale e Crescita Economica: il capitale intelligente ed autoriproducente da von Neumann alla crescita endogena”, mimeo,Tesi di Laurea, Università La Sapienza, Roma1997 10 Il primo uso del termine "singolarità" in questo contesto è stato del matematico John von Neumann. Il termine è stato reso popolare dallo scrittore di fantascienza Vernor Vinge che credeva che l'intelligenza artificiale o l'interfaccia neurale avrebbero potuto essere le possibili cause di singolarità. Coloro che sostengono la singolarità di solito propongono che ci sarà una "esplosione di intelligenza", dove gli esseri super-intelligenti si proiettano in successive generazioni di menti che sono sempre più potenti e potrebbero non smettere mai di crescere fino a quando la capacità cognitiva dell'agente supera, di gran lunga, quella di ogni essere umano. Qui, pur nella finzione cinematografica, un riferimento al noto film americano Matrix non è del tutto fuori luogo. Kurzweil prevede che la singolarità possa avvenire entro il 2045, mentre Vinge prevede che si verificherà prima del 2030. In Singularity Summit 2012, Stuart Armstrong ha fatto un'analisi basata su vari studi di intelligenza artificiale generalizzata (AGI) e ha trovato una vasta gamma di date prevedibili, con il 2040 come valore medio. La sua previsione indica che vi è una probabilità di 80% che la singolarità si verifichi tra il 2017 e il 2112! Detto più semplicemente in termini di teoria economica, se la produttività accelera e tende all'infinito, il tempo di produzione tende a zero. Per questo motivo il limite teorico della crescita economica si presenta con una produzione che viaggia alla velocità della luce! Questo è il motivo per cui anche il grande Einstein potrebbe essere utile in speculazioni teoriche sui modelli di crescita economica. Alcuni decenni dopo aver acquisito quelle radici teoriche, ho cercato di stimare, per diversi paesi europei tra cui l'Italia, quale potrebbe essere la soglia oltre la quale un ulteriore aumento della spesa pubblica, anche se compensato da aumenti delle tasse, potrebbe causare una "riduzione" di crescita potenziale e di occupazione. Facendo riferimento ai dati storici degli anni Ottanta e Novanta, tale soglia empirica è risultata, per i paesi analizzati, tra il 40 e il 42% del PIL7. 7 Mario Baldassarri e Francesco Busato, How to Reach Full Employment in Europe, Palgrave-Macmillan, London 2003 Mario Baldassarri e Francesco Busato, Europa Svegliati, Sperling&Kupfer, Milano 2003. 11 Su entrambi i fronti, teorico ed empirico, è evidente che, se gli aumenti della spesa pubblica non sono coperti da aumenti delle entrate fiscali e quindi si determina maggiore deficit ed accumulo di debito pubblico senza limite, altri effetti dirompenti sull'economia reale "sarebbero da aggiungere" a quelli indicati in precedenza. Questo è ovviamente riconducibile alla questione della "sostenibilità" del debito pubblico e quindi al rischio di gravi crisi finanziarie incombenti sui mercati nazionali ed internazionali. Ancora una volta un teorema di Solow è la pietra angolare di questo specifico tema. Robert Solow ha infatti chiarito, una cinquantina di anni fa, che se il tasso di interesse reale "supera" il tasso di crescita dell'economia, il debito pubblico in rapporto al PIL aumenta all'infinito e diventa pertanto "insostenibile". Ecco perché non ci si può limitare al solo controllo dei saldi finanziari del bilancio pubblico. Questo è esattamente il motivo per cui, se questo obiettivo viene perseguito in modo miope e sbagliato, degradando e riducendo le prospettive di crescita economica, l'insolvenza del debito sicuramente continuerà ad essere una minaccia. In altri termini, il debito pubblico diventa "insostenibile", sia quando i tassi di interesse sono molto alti, sia quando il tasso di crescita è strutturalmente troppo basso. L'esperienza italiana ed europea negli ultimi anni, in gran parte, è una conferma empirica di queste radici teoriche: i tassi di interesse possono anche essere storicamente molto bassi o addirittura tendere a zero, ma se la crescita dell'economia è zero o, ancora peggio, sotto lo zero, il problema del debito pubblico persiste con la sua prospettiva di insolvenza. Inoltre, come indicato in precedenza, il teorema dimostra come la "composizione" e il "livello" della spesa pubblica e delle imposte abbiano un impatto strutturale sul potenziale di crescita di un sistema economico. Questo implica una conseguenza decisiva. E' infatti necessario distinguere almeno tra spese correnti e spese d'investimento e tra imposte dirette e indirette, imposte che gravano sul lavoro e sulla 12 produzione (salari e profitti) rispetto a quelle che riguardano il patrimonio e la rendita (creata da un posizione dominante sul mercato o da comportamenti illeciti, come tangenti e sprechi della spesa pubblica ed evasione fiscale). Questi ultimi casi non alimentano il circolo virtuoso della produzione-reddito-occupazione, ma il circolo vizioso di (più o meno legittimi) proventi da accumulo di rendita-ricchezza che non rinforza il ciclo di produzione del reddito, ma porta alla recessione economica e alla depressione. Per queste ragioni, sia teoriche che empiriche, una seria analisi delle politiche di bilancio non può essere separata dai loro effetti strutturali sulla crescita economica. Ed anche i problemi riguardanti l'equa distribuzione del reddito devono essere valutati alla luce del loro impatto sulle condizioni di crescita di lungo periodo. In sintesi, gli obiettivi sacrosanti di rigore finanziario, la crescita economica e l'equità distributiva devono essere perseguiti congiuntamente e l'uno accanto all'altro. Gli effetti della loro interazione cioè non possono essere trascurati. Questa è la politica economica solida che è sostenuta da una altrettanto solida teoria economica e che si basa su evidenze empiriche trasparenti e documentate. Questi elementi mi hanno portato nel corso degli anni a fare analisi e lanciare proposte di politica economica in riferimento al processo di globalizzazione dell'economia mondiale8, alla costruzione degli Stati Uniti d'Europa9 e alle condizioni che hanno caratterizzato e caratterizzano l'economia italiana10. 8 Mario Baldassarri e Pasquale Capretta, The World Economy toward Global Disequilibrium, Palgrave-Macmillan, London 2006; L’Economia Mondiale verso lo Squilibrio Globale, Sperling&Kupfer, Milano 2006 Per altri riferimenti, vedi: Mario Baldassarri, Luigi Paganetto, Edmund S. Phelps, Equity, Efficiency, and Growth:the future of the welfare state, Palgrave-Macmillan, London 1996. Mario Baldassarri, Robert Mundell, John McCallum Eds., Debt, Deficit and Economic Performance, Palgrave- Macmillan, London 1994. Mario Baldassarri, Robert Mundell, John McCallum Eds., Global Disequilibrium in the World Economy, Palgrave-Macmillan, London 1992. Mario Baldassarri Ed., Verso il grande crack?, SIPI, Roma 1990. Mario Baldassarri Ed., Keynes and the Economic Policies of the 1980’s, Palgrave-Macmillan, London 1989. 9 Mario Baldassarri e Francesco Busato, How to Reach Full Employment in Europe, Palgrave-Macmillan, London 2003. Mario Baldassarri e Francesco Busato, Europa Svegliati, Sperling&Kupfer, Milano 2003. Per altri contribute sull’economia europea, vedi: Mario Baldassarri, No free lunch, no”one”East European Economy”, RPE, Roma 1991. Mario Baldassarri Ed., How to reduce unemployment in Europe, Palgrave-Macmillan, London 2003. Mario Baldassarri Ed., The New Welfare: Unemployment and Social Security in Europe, Palgrave-Macmillan, 2003. Mario Baldassarri, Robert Mundell Eds, Building the New Europe, Vol. I-II, Palgrave-Macmillan, London 1993. 13 Con riferimento all'economia europea, sulla base di tali teoremi e delle esperienze empiriche, si può comprendere appieno che le norme del Trattato di Maastricht sono diventate nel corso degli anni sempre più "stupide". Per comprendere ancor meglio queste considerazioni possiamo fare riferimento, da un lato, ad un paese che rispetta il famoso vincolo di un disavanzo al 3% con un livello di spesa pubblica e tasse che sono rispettivamente il 90% e l’87% del PIL e, dall'altro lato, un paese che rispetta sempre il vincolo del 3%, ma con un livello di spesa pubblica e di entrate fiscali rispettivamente del 40% e del 37% del PIL. E' chiaro che le prospettive di crescita strutturale in queste due economie sono molto diverse e, quindi, la garanzia di uno pseudo-equilibrio finanziario è estremamente fragile o inesistente nel medio-lungo. Inoltre, questo è vero anche se i due paesi avessero deficit e debito pari a "zero". Da qui la necessità e l’urgenza di passare ad un Maastricht 2, ovvero almeno ad una nuova interpretazione del trattato "meno stupida e molto più rigorosa". E’ sufficiente introdurre nei bilanci pubblici la ben nota "leva finanziaria", la regola cioè che per secoli ha guidato il comportamento virtuoso di famiglie e imprese. Infatti, quando una famiglia decide di comprare una casa (spese di investimento), cerca di accumulare prima una parte del costo totale (30-40%) e poi accende un mutuo per il 70-60% del valore della casa (in questo caso la leva sarebbe 1 a 2). Se avessero dovuto aspettare di accumulare tutte le risorse per effettuare il pagamento del 100% della casa in contanti, forse avrebbero avuto bisogno di una intera vita per farlo e non avrebbero mai abitato/comprato una casa di proprietà. 10 Mario Baldassarri e Gabriella Briotti, Government Budget and the Italian Economy through the 70’s and the 80’s RPE, Rome 1990 Mario Baldassarri, Franco Modigliani, “The Italian Economy: the chance to build a new miracle”, RPE, Rome 1993 Mario Baldassarri, Franco Modigliani, “The Italian Economy: what next?”, Palgrave-MacMillan, London 1993 Mario Baldassarri, “Italy’s perverse envelopping growth model between Economic Reform and political consensus: the 1992 crisi and the opportunities of 1993”, RPE, Rome 1993 Mario Baldassarri, “The Italian Economy: heaven or hell?”, Palgrave-MacMillan, London 1994 Mario Baldassarri, Gustavo Piga, “Debito Pubblico, consenso politico ed equilibrio economico-finanziario”, McGraw-Hill, Milano, 1994 Franco Modigliani, Mario Baldassarri, Fabio Castiglionesi, “Il Miracolo Possibile”, Laterza, Bari 1996 Mario Baldassarri et altri, “Il secondo Miracolo Possibile”, Ed. IlSole24Ore, Milano 1999 Mario Baldassarri, “Welfare State and Pensions in Italy: who benefits?”, RPE, Rome 2000 14 Quando un imprenditore decide di acquistare nuovi macchinari o costruire un nuovo impianto, cerca, in parte, di finanziare i costi con i profitti precedenti e, per il resto, chiede un prestito bancario. Se dovesse pagare in contanti i macchinari e gli impianti probabilmente non farebbe mai l'investimento. Allo stesso modo, è ovvio che, se la famiglia dovesse chiedere un mutuo al 100% per la casa e il titolare della società chiedesse prestiti per il 100% del suo investimento, nessun banchiere saggio sarebbe disponibile per tale finanziamento. Qui, il riferimento ai casi americani di Fannie Mae e Freddie Mac e le follie finanziarie che hanno contribuito a innescare la crisi finanziaria negli ultimi anni è chiaro e totalmente voluto. E’ evidentemente folle sostenere che le famiglie e le imprese hanno bisogno di finanziare il 100% dei loro investimenti o debbono pagare tutto in contanti senza accedere al sistema creditizio e all'indebitamento a medio-lungo termine. Nel primo caso, l'economia "esplode", come abbiamo visto negli ultimi anni. Nel secondo caso, l'economia "implode", come stiamo vedendo in Italia e in Europa. Quindi almeno una reinterpretazione di Maastricht è necessaria: ogni Stato deve avere un surplus delle partite correnti (e questo è un requisito di rigore maggiore rispetto a Maastricht 1) e per ogni 1% del PIL di surplus corrente, possono essere consentiti investimenti, per esempio, per ulteriore 2- 3% del PIL. Un paese in questa situazione avrebbe un deficit di 3-4% del PIL, ma questa condizione sarebbe di gran lunga più dinamica e robusta di quella di un paese con un deficit del 3% tutto dovuto a spese correnti e di un paese con uno "zero" disavanzo associato però a zero investimenti . Qui, è utile ricordare il banale "calcolo aritmetico", con il quale è stato fissato il limite del 3% sul deficit pubblico. In Europa, in quegli anni, il rapporto "medio europeo" tra debito pubblico e PIL era pari al 60%. Il tasso di crescita europeo di medio-lungo periodo era stimato al 3%. L'obiettivo di inflazione era fissato al 2%. 15 In queste condizioni astratte, il PIL nominale sarebbe cresciuto del 5% all'anno (3% reale + 2% di inflazione). Pertanto, al fine di garantire la stabilità del rapporto Debito/PIL al 60%, sarebbe stato sufficiente mettere il vincolo di deficit al 3%. Infatti, il 60% moltiplicato per 5% comporta ...il 3%! Su tutto questo emerge anche l'evidente assurdità di una totale dicotomia introdotta in Europa tra la politica di bilancio e la politica monetaria. Infatti, da un lato, si è detto che la BCE doveva contenere l'inflazione sotto al 2% a prescindere da qualsiasi andamento della crescita nell’economia reale, e,dall'altro lato, si è detto che i governi nazionali avrebbero loro dovuto perseguire un tasso di crescita del 3%, rispettando rigidamente Maastricht, attraverso la adozione di riforme strutturali. Alla BCE cioè è stato dato un mandato chiaramente legato alla teoria monetaria quantitativa. Come tutti sanno, l'equazione di Fisher "afferma" che la quantità di moneta moltiplicata per la sua velocità di circolazione deve essere uguale al valore nominale del PIL, che a sua volta è dato dal valore reale del PIL moltiplicato per il livello dei prezzi. Se il valore reale del PIL è sempre quello di piena occupazione e se la velocità di circolazione della moneta è data, ne consegue che la quantità di moneta determina le variazioni del livello dei prezzi, cioè l’inflazione. In effetti, l'equazione di Fisher è una tautologia perché, se tutti gli scambi di beni e servizi avvengono contro moneta e si esclude il baratto bene contro bene, alla fine del gioco, è ovvio che abbiamo "P" per "X" uguale a "M" per "V". In realtà, l'equazione di Fisher diventa una teoria economica se nella stessa equazione si introducono due assunzioni: sul lato monetario, che la velocità della moneta è una costante, cioè non dipende da comportamenti economici (per esempio, dipende se il pagamento degli stipendi avviene una volta alla settimana o una volta al mese o altro); sul fronte della produzione, che il livello del PIL reale è anch’esso una costante, perché è “sempre ed automaticamente” quello di piena occupazione. Il compito di garantire il livello di piena occupazione del PIL è dato dalla totale 16 flessibilità e dalla concorrenza pura dominanti in tutti i mercati, del lavoro, di tutti i beni ecc .. Con queste due assunzioni, è facile capire che, ogni volta che si sposta la quantità di moneta, si modifica il livello del prezzo, cioè si determina inflazione. Questo è stato affermato molti decenni fa, ma, per la Germania in particolare, continua a sembrare vero anche oggi. È per questo che è stato dato alla BCE il compito esclusivo di controllare l'inflazione sotto il 2%, mentre il compito affidato ai governi è stato quello di garantire la piena occupazione e una crescita del 3% attraverso riforme strutturali. Tuttavia, due individui con un solo occhio funzionante (BCE e Maastricht) non sono pari ad un individuo sano con due occhi che ha 20/20. 17 II – PERCHE I TRATTATI EUROPEI SONO EMPIRICAMENTE UN DISASTRO ECONOMICO, SOCIALE E FINANZIARIO, cioè le “radici europee” della “crisi europea” Introduzione Nella prima sezione, abbiamo ricordato i due pilastri della costruzione europea, la BCE e il Trattato di Maastricht ed abbiamo cercato di spiegare perché sono "teoricamente sbagliati". Nonostante quelle note radici teoriche, quei due pilastri sono stati stabiliti e tutto sembrava chiaro ed intoccabile per molti indiscutibili guru e per troppe istituzioni autoreferenziali. Ma le cifre considerate in quel tempo come pietra angolare immodificabile, oggi non sono più vere e non lo sono neanche nelle prospettive per i prossimi anni. In ogni caso, quando sono stati stabiliti quei due pilastri europei quanto meno vivevamo in un altro mondo. Infatti, rispetto a venti anni fa, il mondo è cambiato: geoeconomia, geopolitica, nuove sfide, nuove opportunità, nuovi rischi, nuove strozzature, nuovi scontri economici e politici, ecc.. Pertanto anche quei “numeri” sono cambiati: una crescita del 3% e un'inflazione del 2% non sembrano né ragionevoli, né raggiungibili in tempi brevi. In realtà, quello che abbiamo sperimentato in Europa nel corso degli ultimi dieci anni e soprattutto quello che dovremo affrontare nei prossimi cinque-dieci anni, può essere una crescita tra l’1 ed il 2% ed un’inflazione a circa l'1%. Ed allora, invece di avere un PIL in crescita in termini nominali del 5%, abbiamo un PIL che forse sarà in crescita tra il 2 ed il 3%. E’ pertanto nostra profonda convinzione che sia urgente rivedere entrambi i pilastri della costruzione europea. Non si tratta di distruggere ciò che abbiamo fatto, ma, semplicemente, regolare i pilastri alla nuova situazione. Se non lo facessimo in tempi brevi, allora sì che rischieremo di distruggere ciò che abbiamo costruito finora. Anche in termini di teoria economica, sappiamo tutti che la politica monetaria non influisce semplicemente sui prezzi e sull'inflazione. Sappiamo tutti quanto i canali 18 monetari interagiscano con l'economia reale. Ecco allora che non possiamo più dare alla Banca centrale l'unico compito di controllare l'inflazione. Non possiamo più avere uno statuto della Banca centrale europea con un occhio solo che guarda all'inflazione, abbiamo bisogno di avere due occhi per la BCE, come le banche centrali standard di tutto il mondo. Non solo per caso ci si riferisce spesso alla Fed. La Fed ha un occhio sull’inflazione, ma ha anche l'altro occhio sulla crescita, almeno per mezzo del tasso di cambio. L'unico risultato che abbiamo dalla presidenza precedente della BCE (Trichet) è stata una performance di crescita molto povera e un altissimo rischio di deflazione. Grandi errori nella politica monetaria sono stati fatti, principalmente alzando i tassi di interesse in Europa mentre la Fed li riduceva negli Stati Uniti con la conseguenza immediata del "cosiddetto" benign neglect per quanto riguarda il super-euro. Fortunatamente per tutti Mario Draghi ha assunto la presidenza della BCE e venendo da una solida scuola di economia come l’MIT sapeva bene cosa occorresse fare prima di andare a Francoforte. Un'altra “fantasia” degli ultimi dieci anni riguarda il tasso di cambio. Siamo stati abituati infatti a sentire esperti e istituzioni troppo auto-referenti affermare con saccenza che il tasso di cambio è “fissato tutti i giorni dai mercati finanziari”. Questa è la cosa più stupida che si sia mai sentita dire negli ultimi cinquanta anni. È chiaro infatti che il cambio è fissato quotidianamente dai mercati, ma i mercati si comportano sulla base delle decisioni di politica monetaria. Un esempio è la Cina: abbiamo permesso che la Cina entrasse nel WTO (e questo è un fatto importante e storicamente positivo), ma abbiamo anche “gentilmente” concesso alla Cina di fare il pegging sul dollaro. Il che significa che abbiamo lasciato alla Cina una decisione politica molto potente in termini di tasso di cambio del renminbi, mentre la Cina sta diventando la prima economia al mondo. In realtà non si può comprare un pacchetto sul mercato internazionale, come la possibilità di entrare nel WTO, e poi dire di no per l'altro componente del pacchetto che è un tasso di cambio flessibile sui mercati solo perché si sostiene che si deve 19 decidere politicamente sulla propria moneta. Anche di recente abbiamo visto che la Cina, in un modo molto intelligente, ha svalutato lo yuan dicendo che la sua decisione è giustificata dal rallentamento della sua economia. Negli ultimi dieci anni la Cina ha avuto un enorme surplus delle partite correnti. Abbiamo trasferito in Cina 6/700 miliardi di dollari all'anno. E ora la Cina è diventata il più grande risparmiatore del mondo e ha il problema di come passare da un modello di crescita trainata dall’export a un modello di crescita trainata dalla domanda interna. Questo non è semplicemente un problema economico, è soprattutto una questione politica. Spingendo l'economia cinese in un modello di crescita da domanda interna guidata da consumi privati si ha una conseguenza sociale e politica inevitabile, vale a dire lo sviluppo di una importante classe media che, prima o poi, richiederà più libertà e più democrazia. Questo passaggio deve essere gestito in qualche modo perché lo sviluppo di una classe media è inevitabile e il rifiuto di governare tale fenomeno sarebbe molto più rischioso per il futuro della Cina. In ogni caso, si può almeno prendere in considerazione ciò che il presidente Draghi ha fatto, cioè una interpretazione intelligente dello statuto della Banca centrale europea. Ma questo non può essere affidato esclusivamente alla capacità ed alla intelligenza di una sola persona. E’ un problema istituzionale. Quindi, dobbiamo pensare al futuro e abbiamo bisogno di modificare lo statuto della BCE. Dall’altra parte, abbiamo il Trattato di Maastricht. Non siamo certo i soli a definire "stupido" il Trattato di Maastricht , ma non è questo il problema principale. Quello che si intende dire è che il mondo è cambiato, le cifre sono cambiate, quindi abbiamo bisogno di un adeguamento, abbiamo bisogno di un nuovo Trattato di Maastricht o almeno di una nuova interpretazione del trattato, forse, un pò più intelligente e un pò meno stupida. Si è osservato nella prima parte che la teoria della crescita esogena ed endogena, più di sessanta anni fa, ha spiegato che il rapporto tra finanze pubbliche e crescita 20 economica non dipende esclusivamente dal deficit e dal debito. Tale rapporto dipende principalmente e molto di più dalla composizione della spesa, almeno distinguendo tra spesa corrente ed investimenti, magari specificando che cosa deve essere davvero considerato come investimenti (solo infrastrutture materiali o anche prodotti immateriali, istruzione, capitale umano e questo è tutto ciò che la teoria della crescita endogena ha proposto negli ultimi decenni). Sull'altro lato del bilancio, la composizione delle entrate fiscali è anche importante perché fa differenza se le tasse sono sulla produzione, sul lavoro oppure sugli immobili e sulla rendita, se sono imposte del governo centrale o delle amministrazioni locali e che tipo di servizi i cittadini ottengono per quello che pagano. Abbiamo già ricordato come quei parametri furono stabiliti. A quel tempo abbiamo fatto una foto, un'immagine statica, con l'illusione di ottenere un stabilità finanziaria garantita per tutti e per sempre. Oggi, è come se guardassimo una foto scattata quando si era bambini a scuola. Ovviamente ciascuno può riconoscere se stesso, può anche riconoscere alcuni compagni di classe (non tutti). Ma se facessimo oggi una foto con le stesse persone, apparirebbe un quadro molto diverso: capelli bianchi, barbe bianche, alcune rughe sui volti e così via. Ecco perché abbiamo bisogno di un film, non semplicemente di una vecchia foto! In questa seconda parte, si cerca allora di mostrare una sorta di gioco masochistico che, in termini di teoria economica, potrebbe essere indicato come un gioco a somma negativa per l'Europa. Purtroppo, questo è quello che abbiamo giocato negli ultimi dieci-quindici anni, cioè un gioco a somma negativa. Le perdite in uscita potrebbero essere distribuite in modi molto diversi. Forse la Germania ha perso molto meno che l’Italia, o la Spagna, o la Francia, ma il totale è una "perdita per l'Europa". Ovviamente, è anche una perdita per il resto del mondo. In effetti, se continuiamo ad avere una Cina con un avanzo delle partite correnti di 600/700 miliardi di dollari all'anno e una Germania con uno di 240 miliardi di euro 21 all’anno (molto più elevato in termini relativi rispetto a quello della stessa Cina), significa che abbiamo due grandi economie che sottraggono domanda dal mercato mondiale per circa mille miliardi all'anno. Certo, qualcuno potrebbe dire che se si fossero realizzate le riforme strutturali avremmo oggi una maggiore crescita potenziale. Potremmo anche essere d'accordo con questo approccio, ma questo non può permettere a nessuno di fare nel frattempo stupidi e masochistici errori di politica macroeconomica. Come già accennato, si presentano qui alcuni primi risultati delle simulazioni controfattuali, effettuate con il modello Oxford Economics, cercando di stimare quanto la zona euro abbia perso dal 2002 al 2014 in termini di PIL e di occupazione in conseguenza della super-valutazione dell'euro e della stupidità del Trattato di Maastricht, nonché gli effetti che questi errori di politica economica hanno indotto direttamente anche sugli equilibri finanziari dei bilanci pubblici e sulla accumulazione di debito pubblico. Va subito precisato che una simulazione controfattuale non è una stima per la quale sia possibile mettere la mano sul fuoco per almeno due buone ragioni. In primo luogo, perché si tratta di un lavoro in corso ed i primi risultati ottenuti hanno bisogno di ulteriori affinamenti e verifiche. In secondo luogo, perché in ogni caso si tratta pur sempre di una simulazione econometrica ed è difficile dare ai risultati il carattere di “verità assoluta”, soprattutto perché sono solo andamenti teorici ottenuti che vanno a confrontarsi con i dati veri e storici sperimentati dalle diverse economie. Quello che abbiamo vissuto in passato sono stati per l’appunto i dati storici. Quindi, è molto difficile spiegare che avremmo potuto vivere molto meglio di quanto in realtà abbiamo sperimentato se quegli “errori” di politica economica non fossero stati compiuti. E’ ancor più difficile dire ai tedeschi che potevano, e/o avrebbero potuto, vivere molto meglio, non solo per aiutare la Grecia, la Spagna, l'Italia, la Francia o chiunque altro, ma soprattutto per se stessi! In realtà la Germania sta solo mettendo le 22 proprie risorse sotto il materasso senza avere alcun ritorno, né per sé, né per gli altri membri dell’Unione. Certamente i tedeschi possono anche dire che in ogni caso loro vivono bene, forse molto bene. E questo può anche essere vero. Ma, ad esempio non hanno infrastrutture adeguate e potrebbero benissimo migliorarle e modernizzarle ancor di più. Il nodo centrale però è che la Germania, certamente la più forte economia europea, non esercita il ruolo di leader dell’Unione che dovrebbe invece esercitare con lungimiranza, non soltanto per dare migliori prospettive a tutta l’area del vecchio continente, ma per meglio utilizzare il grande potenziale tedesco per lo stesso popolo tedesco. II.1 - Il costo del super-euro: 2002-2014 Presentiamo in primo luogo le nostre stime relative al "costo del super-euro". Quello che abbiamo fatto è molto semplice e il risultato è netto e chiaro. Fino al 2002, l'euro è stato al di sotto della parità con il dollaro, quindi è saltato in alto in conseguenza delle decisioni prese dalla Banca centrale europea di Jean-Claude Trichet, sospinto dai falchi della Bundesbank. Quello che è stato fatto è semplicemente dire “se, tra il 2002 e il 2014, l'euro fosse stato guidato più o meno intorno al parità sul dollaro, che cosa sarebbe accaduto nella zona euro, in termini di tasso di crescita, di PIL reale, di occupazione, di disoccupazione e di condizioni di finanza pubblica?“. Come si può vedere nella Tavola e nella Figura II.1.1, nel 2002, l’euro era al di sotto della parità. 23 Nel gennaio 2002, si è tenuto un Forum economico mondiale a New York, invece che nella consueta località di Davos, per testimoniare la solidarietà di tutti alla stessa New York dopo l’attentato alle due torri dell’11 settembre 2001. In quella occasione, il premio Nobel Robert Mundell ed il sottoscritto presentammo una nota e insieme tenemmo una conferenza stampa in cui avvertimmo del rischio 24 che l'euro "potesse saltare" verso l’alto. In quel momento l’euro era a 0,90 per dollaro ed il rischio che indicammo con preoccupazione era che potesse saltare ad 1,1/1,2 e forse oltre. Questo per noi era un pericolo grave da evitare. Invitammo poi entrambe le banche centrali (Fed e BCE) a concordare l'un l'altra a mantenere il cambio dollaro/euro entro margini di relativa stabilità, che in quel momento avrebbero potuto essere compresi tra 0,90 e 1,1. Nessuno ascoltò quell’appello e l'euro negli anni successivi è stato supinamente accettato con un apprezzamento dirompente. Questo è ciò che abbiamo vissuto. E questo è quello che abbiamo simulato: parità euro-dollaro in tutto il periodo dal 2003 al 2014. A questo punto ci si augura che nessuno intenda sollevare la questione che “il tasso di cambio è determinato ogni giorno dai mercati”. Si è già risposto a questa domanda sulla base della teoria monetaria. Infatti, con una politica monetaria diversa da quella erroneamente seguita, avremmo potuto avere l'opportunità di un rapporto dollaro ed euro intorno alla parità. Presentiamo qui una sintesi dei risultati ottenuti e valutati come effetti cumulati dal 2003 alla fine del 2014 e riferiti al totale dell’area euro. Questa sintesi è riportata nella TAV. II.1.2. Ulteriori dettagli, paese per paese, vengono presentati nella Appendice che segue. 25 Il "costo del super-euro" per la zona euro è stato una perdita dell’11% del PIL, vale a dire che, alla fine del 2014, il PIL della zona euro sarebbe stato superiore ai dati storici dell’11%. E quali sono i due principali paesi dell'economia europea che hanno perso di più? Germania 13% e Italia14%! Questi risultati sono molto chiari. Germania e Italia sono le due più grandi economie manifatturiere in Europa e gli effetti prodotti attraverso il tasso di cambio influenzano direttamente la manifattura e meno il settore dei servizi. Ma anche altre economie hanno subito l’effetto del super 26 euro, come ad esempio la Grecia che ha perso il 6% di PIL. Questo costo appare più contenuto invece per la Spagna. In termini di occupazione totale, la zona euro ha perso oltre 17 milioni di posti di lavoro regalando al resto del mondo, soprattutto Stati Uniti e Cina, una maggiore occupazione. Pertanto, l'Eurozona ha dato un contributo molto importante per la creazione di posti di lavoro …all'estero, creando 17 milioni di posti di lavoro al di fuori dell'Europa a causa di un tasso di cambio dell'euro fortemente sopravalutato. Al suo interno, la Germania ha perso 3,3 milioni, la Francia un po’ meno 1,7, l’Italia quasi 2 milioni, la Spagna 1,5 milioni. La Grecia ha perso 350.000 posti di lavoro, meno in termini assoluti, ma enormemente importante in termini relativi. Il tasso di disoccupazione nella zona euro, alla fine del 2014, è stato di circa 11,6%. Con la parità euro/dollaro si sarebbe invece determinato un tasso del 5,8%, che è più o meno quello registrato negli Stati Uniti alla fine del 2014. Anche la Germania, che ha il 6,7% di tasso di disoccupazione alla fine del 2014, sarebbe potuta scendere al 3,6%. La Germania potrebbe ovviamente dire che il 6,7% di disoccupazione è un buon risultato e potrebbe anche chiedersi perché scendere ad un tasso ancora più basso. Va però ricordato che durante gli anni '50 e '60 si diceva che il tasso di disoccupazione "normale" (ora si direbbe il NAIRU) per l'Europa era di circa il 3%, mentre negli Stati Uniti era a circa 6-7% a causa del diverso mercato del lavoro, di diverse istituzioni e così via. La situazione oggi appare completamente rovesciata e l’Europa sembra essere totalmente acquiescente e comunque quasi indifferente ad accettare un elevatissimo tasso di disoccupazione. La Francia avrebbe avuto solo l’1,1% in meno di disoccupazione. Ma la Francia, rispetto agli altri paesi, sembra essere una sorta di economia resiliente. L'Italia avrebbe avuto l'8,8% e non il 13% sperimentato a fine 2014. Spagna e Grecia, ovviamente, sarebbero ancora a tassi di disoccupazione elevati, ma la prima è al 24,4% e sarebbe stata al 16% e la seconda è al 26,7% ed avrebbe fatto registrare una disoccupazione al 19%. 27 In aggiunta a questo, la zona euro ha perso occupazione anche in termini di riduzione del tasso di partecipazione, cioè di soggetti scoraggiati che neanche cercano più lavoro. Il tasso di partecipazione sarebbe stato, in media della zona euro, 4 punti percentuali in più: 4,7 in Germania, 2,8 in Francia, 3,1 in Italia. Effetti minori si mostrano per Spagna e Grecia. Andiamo sul lato opposto della medaglia, le finanze pubbliche. Attraverso quella masochista politica monetaria che ha condotto ad una supervalutazione dell'euro, le condizioni di finanza pubblica sono state ulteriormente peggiorate, sia in termini di deficit che di debito. Alla fine del 2014, l’area euro presenta un consistente deficit pubblico di -269 miliardi di euro che, invece, sarebbe stato addirittura un surplus di +165 miliardi: la differenza risulta pari a 435 miliardi. La Germania, che è più o meno in pareggio, avrebbe avuto un consistente surplus. Non stiamo dicendo che dobbiamo prendere questo surplus per scontato. In realtà significa che la Germania avrebbe avuto ampi spazi per ulteriori migliori utilizzi delle sue risorse. In termini di percentuale del PIL, la differenza è di 4,1 punti percentuali per l’Euro area; per la Germania è 4,4%, Francia 2,8%, Italia 3.7% e 4.3% per la Grecia. Sul fronte del debito pubblico, per l'area dell'euro, avremmo 3000 miliardi di euro di debito in meno, distribuiti in tutti i paesi: 938 miliardi in meno in Germania, poco più di 400 in Francia e in Italia, un po’ meno di 150 per Spagna, un po’ meno di 100 per la Grecia. Tutto ciò significa semplicemente che, in caso di parità euro/dollaro, non avremmo avuto alcuna crisi europea da debito sovrano, Grecia compresa. Certo, sappiamo che la Grecia ha manipolato i conti e le statistiche, ma 100 miliardi di euro in meno di debito pubblico rispetto al valore storico di 320 significa una riduzione del 30%. Ovviamente la situazione greca sarebbe rimasta critica in ogni 28 caso, ma avrebbe avuto un rapporto Debito/PIL al 140% e non al 170%. Infine, va notato che non sarebbero emersi rischi di inflazione. Il tasso di inflazione sarebbe rimasto al di sotto dell'obiettivo del 2% originariamente assegnato alla BCE, e soprattutto si sarebbe evitato qualsiasi rischio di deflazione. Nella seguente appendice, si presentano i risultati dettagliati delle simulazioni paese per paese e anno per anno (vedi Tavole e Figure IIA.1.1-IIA.1.12). 29 Appendice: I risultati paese per paese ed anno per anno 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 II.2 - Maastricht: un trattato meno stupido e più intelligente? II.2.1- Tre Premesse Prima di valutare gli effetti di un Trattato di Maastricht “cieco da un occhio”, facciamo qui tre premesse. Le prime due si riferiscono a come è nato e cosa dice Maastricht ed a come potrebbe essere modificato/reinterpretato. In precedenza abbiamo ricordato come sia nato il vincolo del 3% di deficit: 2% di inflazione era il compito della Banca centrale europea; 3% di crescita era il compito dei governi nazionali che avrebbero dovuto perseguirla attraverso riforme strutturali. Quei numeri sono clamorosamente falliti su entrambi i fronti. Da qui la necessità ed urgenza di cambiare strada. Ma come si fa a cambiare il trattato? Poiché il mondo è cambiato ed i numeri sono cambiati, la necessità di cambiare è sotto gli occhi di tutti e non dovrebbe essere in discussione. Sarebbe infatti veramente stupido e masochistico dire che non dobbiamo toccare Maastricht, basato su “vecchi” numeri e su uno scenario completamente diverso da oggi, mentre il resto del mondo è cambiato e anche i numeri europei si sono dimostrati radicalmente diversi rispetto a quegli obiettivi del 2% di inflazione e del 3% di crescita. La nostra proposta allora è quella di modificare il Trattato di Maastricht, per andare a almeno ad una reinterpretazione del Trattato molto più rigorosa e un po’ meno stupida. Più rigorosa, perché quello che si propone è "deficit zero nella spesa corrente del bilancio". Infatti, se la parte corrente del bilancio è in deficit significa che lo Stato “distrugge” risparmio, se invece è in avanzo significa che lo Stato produce risparmio positivo che si aggiunge a quello dei privati. Ecco perché la nostra proposta indica che il deficit corrente sia almeno pari a zero, lasciando il deficit totale del 3% esclusivamente dovuto ad investimenti pubblici. In questo senso quindi una tale interpretazione di Maastricht sarebbe più rigorosa perché è necessario essere più rigorosi sulla parte corrente del bilancio nel senso che 42 il gettito fiscale deve quantomeno bilanciare il totale delle spese di conto corrente e il 3% di deficit è consentito solo per gli investimenti. Sarebbe opportuno poi aggiungere una forma di leva finanziaria. In effetti, è incredibile che in tutto il mondo, nel settore privato, la leva finanziaria è “regola normale" per le famiglie e per le aziende ed è stata seguita almeno negli ultimi cinque o sei secoli. Chi potrebbe imporre ad una famiglia di comprare una casa e pagare il 100% in contanti? Chi potrebbe dire ad una società di investire e pagare il 100% in contanti? Normalmente in ogni sistema economico si fa ricorso per l’appunto ad una solida “leva finanziaria”. Chi compra una casa sa che deve pagare come anticipo circa un terzo del valore totale e così può ricevere un mutuo per gli altri due terzi, oppure anticipare il 50% ed avere un mutuo per il restante 50%. Ecco allora che, al vincolo di azzerare la parte di deficit corrente dei bilanci pubblici, si potrebbe e si dovrebbe affiancare una sorta di premio che sarebbe costituito dalla “leva finanziaria” che dovrebbe dire: per ogni 1% di surplus di parte correnti è consentito un ulteriore 2% di deficit per gli investimenti. In questo caso si tratterebbe di una leva molto solida perché il 50% dei maggiori investimenti sarebbe autofinanziato con l’avanzo di parte corrente e solo il restante 50% andrebbe finanziato sul mercato. Sarebbe come dire ad un acquirente di una casa che è necessario disporre di un anticipo pari al 50% per avere un mutuo per l'altro 50%. Questi specifici parametri potranno anche essere discussi, ma il principio da introdurre è quello di una leva molto virtuosa. Il che significa che se si realizza un avanzo di parte corrente pari all'1% del PIL, si ha il consenso per fare investimenti pubblici fino al 5% di PIL. In tal caso il deficit totale sarebbe 4%, superiore al limite del 3% ma, se questo corrisponde al 5% di investimenti e l’1% è risparmio pubblico, lo stimolo strutturale positivo per l'economia sarà molto potente e la futura crescita del PIL sarà sostenuta e consentirà di ridurre lo stesso deficit totale. Se invece il disavanzo di parte corrente è pari a zero, allora il vincolo del 3% resta ma deve essere esclusivamente dovuto ad investimenti. 43 Vedremo pertanto qui di seguito quale sarebbe potuto essere l’effetto di un Maastricht di questo tipo nel corso degli ultimi 10-12 anni sulle maggiori economie europee. Ma prima di andare ai risultati delle simulazioni controfattuali, è necessario fare una terza premessa. Va infatti ricordato, innanzitutto, che questo tipo di stime econometriche misura in gran parte gli effetti sul lato della domanda attraverso la distinzione tra spese correnti e spese per investimenti. Questo semplice effetto di ricomposizione della domanda però non è l’obiettivo primario di un programma di investimenti pubblici. Infatti, l’obiettivo vero di un programma di investimenti è l'effetto che essi producono sul lato dell'offerta, vale a dire come agiscono sulla produttività dei fattori, sul PIL potenziale e quindi sulla crescita potenziale dell’economia. Per contro i risultati che abbiamo per ora ottenuto si limitano prevalentemente misurare gli effetti della domanda, cioè agli effetti di breve periodo. Questo tipo di modelli econometrici infatti non cattura gran parte degli effetti dal lato dell'offerta e quindi nel lungo periodo. In secondo luogo, in termini di crescita endogena, si dovrebbe aprire un dibattito su quale tipo di investimento pubblico debba essere effettivamente incluso nel criterio proposto. E' evidente che, prima di tutto, le infrastrutture dovrebbero essere parte di esso, ma in termini di crescita endogena dovremmo anche includere la formazione, gli investimenti immateriali, le nuove tecnologie, le infrastrutture wireless in tutto il paese o qualsiasi altra cosa sia considerata come impulso alla produttività totale dei fattori ed alla crescita potenziale. 44 II.2.2- Il costo della stupidità di Maastricht, le opportunità offerte da un Maastricht con interpretazione più intelligente: maggiore stabilità finanziaria e maggiore crescita Come detto, la nostra ricerca è ancora in corso. Pertanto i risultati qui presentati sono per ora limitati a tre paesi: Germania, Francia e Italia (Vedi tabelle II.2.1-II.2.3). In termini di PIL in valore reale, alla fine del 2014, esso sarebbe superiore del 5% in Germania, del 4,4% in Francia e del 4,8% in Italia. In termini di occupazione, l'effetto è positivo, anche se non così grande come nel caso del super-euro, ma sarebbe, in ogni caso, superiore, all’ 1,3%, per esempio, in Italia. Avremmo cioè avuto da circa 200 a 300.000 posti di lavoro in più in ciascuno dei tre paesi. La disoccupazione in totale sarebbe stata inferiore, soprattutto in Italia, di quasi 3 punti percentuali e il tasso di disoccupazione sarebbe stato più basso dell'1%. A questo si sarebbero associate le seguenti condizioni delle finanze pubbliche. Il disavanzo pubblico sarebbe stato superiore in Germania rispetto ai dati storici che presentano un pareggio di bilancio nel 2014. Infatti, se invece di avere investimenti pubblici in diminuzione, la Germania avesse realizzato investimenti pari al 5% del PIL, ne sarebbe conseguito negli anni un maggiore disavanzo ed il debito pubblico sarebbe stato più alto di quello effettivamente realizzato. Alla fine del periodo, pertanto la Germania avrebbe avuto in valore assoluto un debito di 400 miliardi di euro superiore a quello storico. Ma in termini di rapporto Debito/PIL avrebbe avuto il 69% invece di avere il 63% del dato storico. Questa minima differenza, evidentemente, non avrebbe però comportato alcun effetto sulle condizioni di stabilità finanziarie della Germania. I risultati sono ancora più interessanti per Francia ed Italia. La Francia avrebbe avuto meno deficit e meno debito, perché la Francia ha realizzato, nel periodo storico analizzato, investimenti spesso al di sopra del 3% di PIL. In Italia avremmo avuto un più alto deficit ed anche il debito sarebbe stato un po’ più alto, in termini assoluti, ma molto più basso come rapporto Debito/PIL. Alla fine del 45 2014, l’Italia avrebbe avuto il 106% invece dell’attuale 132%, cioè il 26% in meno. Pertanto l’Italia avrebbe avuto un debito di poco superiore in valore assoluto, ma un PIL molto più alto, sia reale e nominale. A fronte di questo non sembrano emergere effetti significativi sull'inflazione, sia in termini di deflatore del PIL che in termini di prezzi al consumo (CPI). Questi sono solo risultati preliminari e il lavoro più completo deve essere fatto. Tuttavia la direzione che questa ricerca sta prendendo è molto interessante e molto stimolante. Va infine ricordato che i risultati ottenuti in questa sezione in riferimento ad una diversa interpretazione di Maastricht potrebbero essere cumulati con quelli ottenuti nella precedente sezione nella quale abbiamo misurato il costo del super euro. Certamente queste sono e restano semplici “simulazioni econometriche”. Sta di fatto però che l’Europa avrebbe potuto avere una storia ben diversa. Senza gli errori di politica economica commessi, invece di subire la peggiore crisi dal dopoguerra ad oggi, avrebbe potuto vivere un periodo di eccellente prosperità, quasi una nuova età dell’oro, per altro molto simile a quanto sperimentato nei primi tre decenni del dopoguerra. 46 47 48 In conclusione, la “crisi” europea ha origini “endogene europee”, determinate dagli “errori” europei di politiche macroeconomiche, cioè: Il Super-euro Un Trattato di Maastricht “stupido” e non “rigoroso” 49 LE PREVISIONI 2015-2020 SIAMO FUORI DALLA “RECESSIONE” MA… FUORI DALLA “CRISI” QUANDO? ovvero Le previsioni per l’economia italiana 2015 – 2020, dopo la Legge di Stabilità MARIO BALDASSARRI INDICE Executive Summary - Previsioni III – LA PREVISIONE “BASE” PER L’ECONOMIA ITALIANA - 2015-2020: Gli effetti della Legge di Stabilità 2016, gli impegni verso l’Unione Europea ed il ruolo delle clausole di salvaguardia. IV – LA FINESTRA DI OPPORTUNITA’: Gli effetti della “ridiscesa sulla terra” dell’Euro, la discesa del prezzo del petrolio ed i segni di rallentamento dell’Economia Mondiale 50 EXECUTIVE SUMMARY – PREVISIONI Le previsioni sull’andamento dell’economia italiana da qui al 2020 indicano un tasso di crescita che a +0,7% nel 2015 ed a +1,2% nel 2016, rimanendo attorno all’1% fino al 2020. Questo significa che stiamo uscendo dalla “recessione” ma, con i ritmi di crescita che si profilano, per uscire dalla “crisi” (cioè per tornare ai livelli di reddito e di occupazione del 2007) occorreranno altri 10 anni in termini di PIL e altri 13 anni in termini di tasso di disoccupazione. In questa Nota di Aggiornamento del nostro IX° Rapporto di Previsione abbiamo prodotto una simulazione BASE che incorpora la Legge di Stabilità 2016. Poiché però la decisione del Governo è stata quella di azzerare il deficit pubblico al 2018 (anziché al 2017 come concordato in precedenza), abbiamo dovuto presupporre che le clausole di salvaguardia (cioè i previsti aumenti automatici di imposte, IVA ed accise) siano semplicemente slittate di un anno a valere sul biennio 2017-2018 ed abbiamo pertanto incluso il rispetto di dette clausole nella nostra previsione BASE che indichiamo come Previsione A. Varie previsioni prodotte da diversi centri studi e diverse istituzioni nazionali ed internazionali non contemplano il rispetto di dette clausole, non solo per il 2016 ma anche per gli anni successivi. Per questa ragione abbiamo prodotto una previsione che non include il rispetto delle clausole di salvaguardia per gli anni futuri ed indichiamo questa ipotesi come Previsione B che appare più in linea con le indicazioni, anche se non formali, date dal governo. Infine, ci siamo riferiti ad una terza ipotesi che rispettasse le clausole di salvaguardia a partire dal prossimo anno 2016 in assenza di una Legge di Stabilità. Riportiamo questa come Previsione C. In termini di tassi di crescita la nostra BASE-Previsione A indica un +0,7% in questo 2015, l’1,2% nel 2016 ma, a seguito della eventuale applicazione delle clausole di salvaguardia, il ritmo di sviluppo scenderebbe al +0,4% nel 2017 ed allo 0,7% nel 2018 per arrivare a superare appena l’1% nel 2020. 51 Qualora invece quelle clausole non venissero rispettate, come incorporato nella Previsione B, il tasso di crescita dovrebbe mantenersi di poco superiore all’1% fino al 2020. In tal caso però l’Italia non rispetterebbe alcun impegno in sede europea, né di azzeramento del deficit, né di riduzione concordata del rapporto Debito Pubblico e PIL. Nei nostri risultati la Legge di Stabilità 2016 determina un maggiore tasso di crescita rispetto al caso in cui fossero scattati i previsti aumenti di IVA ed accise pari allo 0,4%. Infatti, a fronte di una previsione dell’1,2% si sarebbe avuto un tasso di crescita pari a solo lo 0,8% . Per altro, lo stesso governo nel DEF dello scorso mese di Settembre ha indicato che il mancato aumento dell’IVA e delle accise avrebbe di per sé avuto un effetto dello 0,3% in più sulla crescita 2016. Significa in tal caso che tutto il resto della Legge di Stabilità produce, secondo lo stesso governo, un sostegno alla crescita pari allo 0,1%. Inoltre, questa stima in realtà non rappresenta una misura dell’effetto vero della Legge di Stabilità, quanto piuttosto il merito di aver voluto evitare un aumento di tasse che avrebbe frenato la nascente fragile ripresa. Questo però non implica che gli italiani pagheranno meno tasse nel 2016 di quanto non abbiano fatto nel 2015. Più semplicemente ciò vuol dire che gli italiani pagheranno l’anno prossimo meno tasse “rispetto a quelle che avrebbero dovuto pagare nel rispetto delle clausole di salvaguardia”. E’ altrettanto evidente per altro che questo aspetto, pur sempre positivo per i cittadini, sta a fronte di un aumento di deficit e di debito pubblico. La Legge di Stabilità aumenta infatti il deficit 2016 dello 0,6% ed a fronte di questo si ottiene un aumento dello 0,4% di crescita, destinato però ad essere più che controbilanciato dal 2017 in poi qualora quelle clausole dovessero essere rispettate a partire dallo stesso 2017. Pertanto, anche ammesso che l’Unione Europea conceda lo slittamento al 2018 dell’azzeramento del deficit pubblico italiano, occorrerà valutare attentamente quale potrà essere la reazione dei mercati finanziari qualora il rapporto Debito/PIL nel 2016 non dovesse scendere rispetto ai dati del 2015. 52 La comunque modesta crescita prevista avrà conseguente dirette sull’andamento della disoccupazione. Il tasso di disoccupazione scenderà lentamente ma al 2020 sarà ancora superiore al 10%. Il totale dei disoccupati avrà anch’esso un andamento di lieve progressiva riduzione ma al 2020 sarà ancora tra i 2,6 ed i 2,8 milioni, ben lontano dall’1,5 milioni di disoccupati del 2007. Il numero degli occupati salirà in termini positivi ma anch’essi modesti, dagli attuali 22,5 milioni di occupati si dovrebbe arrivare al 2020 tra i 23,1 ed i 23,3 milioni. Anche qui però resteremmo al di sotto dei 23,4 milioni di occupati del 2007. Il tasso di attività si presenta in ulteriore discesa, cioè si prospetta un aumento degli scoraggiati che smettono di cercare lavoro. Queste previsioni si basano su uno scenario internazionale ancora relativamente favorevole. Per contro, queste condizioni “esterne” potrebbero in futuro anche modificarsi in peggio. Per questa ragione abbiamo voluto valutare quali prospettive si sarebbero aperte per l’economia italiana in ciascuna delle tre Previsioni qualora non ci fosse stata la riduzione del cambio e qualora l’euro fosse rimasto e rimanesse alla quotazione di 1,33 dollari (media del 2014) anche per questo anno e per gli anni futuri. In sintesi, risulta che: 1.- La fragile ripresa in atto è “totalmente” dovuta alle condizioni “esterne” all’economia italiana, in particolare alla discesa del cambio dell’euro. Se infatti la moneta unica avesse mantenuto il rapporto con il dollaro a 1,33, l’economia italiana avrebbe prolungato la sua lunga fase di recessione con un tasso di crescita 2015 al -1% e nel 2016 e negli anni successivi la ripresa sarebbe stata ancora più lenta; 2.- Le condizioni di disoccupazione ed occupazione si sarebbero ulteriormente aggravate ed il recupero dei livelli pre-crisi non sarebbe avvenuto prima del…2030; 3.- Le condizioni di finanza pubblica si sarebbero ulteriormente deteriorate ed eventuali correzioni drastiche di deficit e di debito avrebbero ulteriormente peggiorato le condizioni di reddito ed occupazione. 53 III – LA PREVISIONE “BASE” PER L’ECONOMIA ITALIANA - 2015-2020: Gli effetti della Legge di Stabilità 2016, gli impegni verso l’Unione Europea ed il ruolo delle clausole di salvaguardia. Nel nostro IX° Rapporto di Previsione, presentato lo scorso 7 Luglio, avevamo indicato le fragili opportunità di ripresa dell’attività produttiva e le perduranti precarie prospettive occupazionali conseguenti da una previsione di crescita per i prossimi cinque anni che si attestava attorno all’1% all’anno. Quelle previsioni aprivano uno scenario economico, sociale e finanziario insostenibile nel medio-lungo periodo e per tale ragione avevamo valutato diverse alternative “forti” di politica economica per “aggiungere” alla crescita almeno un punto percentuale e portare l’economia italiana ad un tasso di sviluppo almeno sopra il 2%. Ovviamente l’appuntamento formale e sostanziale per varare una politica economica di vero sostegno alla ripresa era e resta la definizione e l’approvazione della Legge di Stabilità 2016. Pertanto, in questa Nota di Aggiornamento del nostro IX° Rapporto di Previsione abbiamo prodotto una simulazione BASE che incorpora la Legge di Stabilità 2016 come finora appare strutturata, anche se tutt’ora in discussione in Parlamento. Poiché però la decisione del Governo è stata quella di rinviare l’impegno con l’Europa ed azzerare il deficit pubblico al 2018 (anziché al 2017 come concordato in precedenza), abbiamo dovuto presupporre che le clausole di salvaguardia (cioè i previsti aumenti automatici di imposte, IVA ed accise) siano semplicemente slittate di un anno a valere sul biennio 2017-2018 ed abbiamo pertanto incluso il rispetto di dette clausole nella nostra previsione BASE che indichiamo come Previsione A. Dobbiamo qui notare subito che varie previsioni prodotte da diversi centri studi e diverse istituzioni nazionali ed internazionali non contemplano il rispetto di dette clausole, non solo per il 2016 ma anche per gli anni successivi. L’evidenza di questo elemento è verificabile con il fatto che le stesse previsioni non conducono ad azzerare il deficit pubblico nel 2018 e neanche negli anni futuri e quindi presuppongono il non 54 rispetto degli impegni assunti in sede europea oppure successive e pesanti manovre aggiuntive. Per questa ragione abbiamo prodotto una previsione che non include il rispetto delle clausole di salvaguardia per gli anni futuri ed indichiamo questa ipotesi come Previsione B che appare più in linea con le indicazioni, anche se non formali, date dal governo. Infine, ci siamo riferiti ad una terza ipotesi che rispettasse le clausole di salvaguardia a partire dal prossimo anno 2016, come previsto dagli accordi in sede europea, ed in tal caso abbiamo proceduto alla simulazione escludendo gli impatti della Legge di Stabilità 2016. In tal caso si tratta di valutare il mero rispetto del rientro del deficit pubblico secondo le linee guida della Unione Europea ottenuto facendo scattare le clausole di salvaguardia in assenza di Leggi di Stabilità da parte del governo italiano. Riferiamo questa come Previsione C. In questa sezione proponiamo la nostra analisi dei risultati ottenuti ponendo pertanto a confronto le tre diverse previsioni prodotte (A,B,C). Va subito detto che le previsioni sull’andamento dell’economia italiana da qui al 2020 indicano prospettive di crescita che potranno attestarsi ad un +0,7% nel 2015 ed un +1,2% nel 2016, rimanendo attorno all’1% di tassi di sviluppo per tutto il periodo considerato. Questo significa che l’anno in corso ed il prossimo 2016 segnano l’uscita dalla “recessione” ma, con i ritmi di crescita a medio termine delle previsioni al 2020, per uscire dalla “crisi” (cioè per tornare ai livelli di reddito e di occupazione del 2007) occorreranno circa altri 10 anni in termini di PIL e circa altri 13 anni in termini di tasso di disoccupazione (vedi TAV. III.1 e FIGG. III.1-3). Nella figura III.3 si evidenzia inoltre che, mentre il tasso di disoccupazione sembra rientrare attorno al 2027 verso il 6,1% che l’Italia ha registrato nel 2007, in termini di numero totale di disoccupati ci si troverà ancora nel 2027 ad oltre 2 milioni di unità, cioè ben sopra l’1,5 milioni di disoccupati del 2007. 55 56 57 Veniamo ora alle tre Previsioni a confronto.11 In termini di tassi di crescita (vedi TAV.III.2 e FIG.III.4) la nostra Previsione A indica un +0,7% in questo 2015, l’1,2% nel 2016 ma, a seguito della eventuale applicazione delle clausole di salvaguardia, il ritmo di sviluppo scenderebbe al +0,4% nel 2017 ed allo 0,7% nel 2018 per arrivare a superare appena l’1% nel 2020. Qualora invece quelle clausole non venissero rispettate, come incorporato nella Previsione B, il tasso di crescita dovrebbe mantenersi di poco superiore all’1% fino al 2020. Qui va subito notato però che in tal caso l’Italia non rispetterebbe alcun impegno in sede europea, né di azzeramento del deficit, né di riduzione concordata del rapporto Debito Pubblico e PIL. Le due Previsioni A e B, di fatto incorporano entrambi la Legge di Stabilità 2016 e quindi entrambi producono la stessa previsione di crescita pari all’1,2% nel 2016, differenziandosi tra loro dal 2017 al 2020 proprio in funzione del rispetto o del non rispetto delle clausole di salvaguardia. 11 NELLA PARTE SINISTRA DELLE TAVOLE (COLONNE A-B-C) SONO RIPORTATI I RISULTATI DELLE TRE PREVISIONI A CONFRONTO. NELLA PARTE DESTRA (COLONNE D-E-F)SONO RIPORTATE LE STESSE TRE PREVISIONI NELL’IPOTESI DI UN RAPPORTO $/€ FERMO A 1,33. NELLE FIGURE CHE SEGUONO LE TRE PREVISIONI SONO INDICATE CON LE LINEE CONTINUE, MENTRE LE LINEE TRATTEGGIATE INDICANO LE STESSE TRE PREVISIONI NELL’IPOTESI DI UN CAMBIO $/€ FERMO A 1,33 58 Ecco allora che risulta di qualche interesse porle a confronto con la Previsione C che non include la Legge di Stabilità 2016 mentre incorpora il rispetto dei vincoli europei sin dallo stesso anno 2016. Pertanto la differenza dei risultati ottenuti può essere una misura specifica dell’effetto che la Legge di Stabilità produce sulle condizioni di crescita del prossimo anno. Nei nostri risultati la Legge di Stabilità 2016 determina un maggiore tasso di crescita rispetto al caso in cui fossero scattati i previsti aumenti di IVA ed accise pari allo 0,4%. Infatti, a fronte di una previsione dell’1,2% si sarebbe avuto un tasso di crescita di un solo 0,8% dopo lo 0,7% del 2015. Per altro, lo stesso governo nel DEF dello scorso mese di Settembre ha indicato che il mancato aumento dell’IVA e delle accise avrebbe di per sé avuto un effetto dello 0,3% in più sulla crescita 2016. Significa in tal caso che tutto il resto della Legge di Stabilità produce, secondo lo stesso governo, un sostegno alla crescita pari allo 0,1%. Inoltre, questa stima in realtà non rappresenta una misura dell’effetto vero della Legge di Stabilità, quanto piuttosto il merito di aver voluto evitare un aumento di 59 tasse che avrebbe frenato la nascente fragile ripresa. Questo però non implica che gli italiani pagheranno meno tasse nel 2016 di quanto non abbiano fatto nel 2015. Infatti, come vedremo in seguito in riferimento agli andamenti previsti delle entrate pubbliche il gettito complessivo in valore assoluto aumenterà nel 2016 rispetto al 2015. Più semplicemente ciò vuol dire che gli italiani pagheranno l’anno prossimo meno tasse “rispetto a quelle che avrebbero dovuto pagare nel rispetto delle clausole di salvaguardia”. E’ altrettanto evidente per altro che questo aspetto, pur sempre positivo per i cittadini, sta a fronte di un aumento di deficit e di debito pubblico. La Legge di Stabilità aumenta infatti il deficit 2016 dello 0,6% ed a fronte di questo si ottiene un aumento dello 0,4% di crescita, destinato però ad essere più che controbilanciato dal 2017 in poi qualora quelle clausole dovessero essere rispettate a partire dallo stesso 2017. Pertanto, anche ammesso che l’Unione Europea conceda lo slittamento al 2018 dell’azzeramento del deficit pubblico italiano, occorrerà valutare attentamente quale potrà essere la reazione dei mercati finanziari qualora il rapporto Debito/PIL nel 2016 non dovesse scendere rispetto ai dati del 2015. Per contro, come indicano i risultati della Previsione C, qualora avessimo semplicemente rispettato i vincoli europei sin dal 2016, l’economia italiana avrebbe sperimentato tassi di crescita ben inferiori all’1% almeno fino al 2020. L’andamento del PIL in valore reale appare certamente diverso rispetto alle tre Previsioni prodotte. Sta di fatto però che, a fine periodo, tali differenze si collocano attorno a non più di 20 miliardi di euro, cioè poco più dell’1% in cinque anni (vedi TAV.III.3 e FIG.III.5). Nel 2020 il nostro PIL si attesterà tra i 1633 Miliardi di euro nella ipotesi più favorevole ed i 1612 miliardi in quella più sfavorevole. Tra cinque anni cioè il livello del Prodotto Interno Lordo italiano sarà ancora ben lontano dai 1688 miliardi ottenuti nel 2007 prima della crisi. Come detto in apertura quindi occorreranno almeno altri cinque anni, oltre il 2020, per recuperare il PIL pre-crisi. 60 61 La comunque modesta crescita prevista avrà conseguenze dirette sull’andamento della disoccupazione. Il tasso di disoccupazione scenderà lentamente ma al 2020 sarà ancora superiore al 10% (vedi TAV.III.4 e FIG.III.6). Il totale dei disoccupati avrà anch’esso un andamento di lieve progressiva riduzione ma al 2020 sarà ancora tra i 2,6 ed i 2,8 milioni, ben lontano dall’1,5 milioni di disoccupati del 2007 (vedi TAV.III.5 e FIG.III.7). Il numero degli occupati salirà in termini positivi ma anch’essi modesti (vedi TAV.III.6 e FIG.III.8). Dagli attuali 22,5 milioni di occupati si dovrebbe salire al 2020 tra i 23,1 ed i 23,3 milioni. Anche qui però resteremmo al di sotto dei 23,4 milioni di occupati del 2007. Questi modesti ma positivi dati sul tasso di disoccupazione e sul totale dei disoccupati sono per altro “sostenuti” da una lieve ulteriore discesa del tasso di partecipazione, cioè da un aumento degli scoraggiati che smettono di cercare lavoro (vedi TAV.III.7 e FIG.III.9). 62 63 64 65 66 Passiamo ora sul fronte della finanza pubblica. La spesa pubblica è prevista salire dagli attuali 826 miliardi agli 880-920 miliardi del 2020. Per contro il totale delle Entrate passerebbe dai 781 miliardi del 2015 a circa 900 miliardi nel 2020 (vedi TAV.III.8-9 e FIG.III.10-11). Si prospetta quindi esattamente quanto avvenuto negli ultimi quindici anni: continui aumenti di spesa pubblica inseguiti da continui aumenti di tasse. Sulla base di questi dati si può verificare quanto anticipato in precedenza e cioè che nel 2016 il totale delle entrate sarà “inferiore” di 16 miliardi rispetto a quanto previsto nel caso di aumento di IVA ed accise ma “superiore” di 18 miliardi rispetto al totale che si è verificato nel 2015. E di anno in anno il totale delle entrate è previsto aumentare fino ad oltre 900 miliardi di euro nel 2020. 67 68 69 Il saldo tra spese ed entrate è, come ben noto, il Deficit Pubblico. Le previsioni circa i saldi di bilancio sono presentate nelle TAVV.III.10-11 e nelle FIG.III.12-13. 70 71 Come si vede, la manovra del governo (Previsione B) implica per il 2016 un maggiore deficit pubblico di circa 12/13 miliardi di euro rispetto alle linee previste dal piano di rientro europeo (Previsione C). Ma i nostri risultati indicano che il deficit non verrà azzerato entro il 2018 e continuerà a presentarsi ogni anno ben oltre il 2020. Qualora si dovesse rispettare l’impegno di azzeramento del deficit, già slittato dal 2017 al 2018, appare evidente la necessità di una manovra da compiere nel prossimo biennio pari a circa 30 miliardi di euro. A fronte di questi andamenti del Deficit Pubblico, il profilo del Debito in valore assoluto appare crescente in tutti gli anni prossimi (vedi TAV.III.12 e FIG.III.14). Nella Previsione B che incorpora il non azzeramento del Deficit, il valore assoluto di Debito passerebbe dagli attuali 2185 miliardi ad oltre 2300 miliardi nel 2020. Nelle altre due ipotesi finanziariamente più rigorose si attesterebbe comunque poco sotto i 2200 miliardi. 72 In termini di rapporto Debito/PIL, una sua riduzione nel 2016 rispetto al 2015 appare possibile soltanto in relazione alla Previsione C che prevede il rispetto delle clausole di salvaguardia sin dallo stesso 2016. Nell’ipotesi insita nella Legge di Stabilità invece tale rapporto appare sostanzialmente pari a quanto si è determinato nel 2015, seguendo poi un profilo di lenta riduzione di poco più dell’1,5% all’anno, arrivando al 126% nel 2020 (Previsione B). Per contro, anche nelle ipotesi più rigorose (A e C) il rapporto Debito/PIL non è previsto ridursi sotto il 121% (vedi TAV.III.13 e FIG.III.15). Va ancora una volta ricordato che nel 2007 il Debito in Valore assoluto era pari a 1590 miliardi di euro ed il suo rapporto con il PIL era al 103,5%. 73 74 Per finire, gli andamenti dell’inflazione. Sia in termini di prezzi al consumo che in termini di deflatore del PIL, l’inflazione sembra destinata a mantenersi molto bassa da qui al 2020 e ben lontana dal limite del 2% perseguito dalla BCE. Certamente i rischi di deflazione sembrano essersi diluiti anche se non del tutto scomparsi all’orizzonte dell’economia europea e di quella Italiana Vedi TAVV.III.14-16 e FIGG.III.16-18). 75 76 77 IV – LA FINESTRA DI OPPORTUNITA’: Gli effetti della “ridiscesa sulla terra” dell’Euro, la discesa del prezzo del petrolio ed i segni di rallentamento dell’Economia Mondiale Nella TAV. III.17 sono presentate le variabili “esogene” internazionali che sono state prese a base di tutte le nostre simulazioni e conseguenti previsioni. Ciò significa che lo scenario mondiale che abbiamo considerato implica per i prossimi anni un relativo rallentamento della crescita mondiale nel 2015-2016 ma con un mantenimento di buoni tassi di sviluppo negli anni successivi, un perdurante prezzo del petrolio basso ed un profilo del cambio dell’euro che oscillerà un po’ sotto ed un po’ sopra la quotazione di 1,1 sul dollaro. Sulla base di questo scenario “esterno” non certamente negativo, i risultati delle nostre previsioni indicano che usciamo dalla recessione ma non usciamo dalla crisi prima di almeno altri dieci/tredici anni. Per contro, questo relativo scenario “esterno” potrebbe in futuro anche modificarsi e modificarsi in peggio. Ecco perché la finestra di opportunità di questi momenti andrebbe colta con molta più determinazione e molta più efficacia, sia in sede europea che per quanto riguarda la politica economica italiana. Per questa ragione vogliano qui sottolineare quali prospettive si sarebbero aperte per l’economia italiana in ciascuna delle tre Previsioni presentate qualora non ci fosse stata la riduzione del cambio e qualora l’euro fosse rimasto e rimanesse alla quotazione di 1,33 dollari (media del 2014) anche per questo anno e per gli anni futuri. Intendiamo con questo esercizio valutare quanta parte della ripresa economica di questi anni sia attribuibile a fattori “esterni”, in particolare alla discesa dell’euro ovvero all’effetto Quantitative Easing del presidente Draghi (associata alla discesa del prezzo del petrolio), e quanta parte possa invece essere attribuita all’efficacia delle politiche economiche nazionali “interne”. 78 I risultati ottenuti sono presentati nella parte destra delle Tavole e con linee tratteggiate nelle Figure presentate nella sezione precedente. Al di la dei possibili numerosi spunti e commenti di questi risultati, preferiamo qui concentrarci su alcune evidenze di sintesi: 1.- La fragile ripresa in atto è “totalmente” dovuta alle condizioni “esterne” all’economia italiana, in particolare alla discesa del cambio dell’euro. Se infatti la moneta unica avesse mantenuto il rapporto con il dollaro a 1,33, come risultato nel 2014, l’economia italiana avrebbe prolungato la sua lunga fase di recessione anche al 2015 con un tasso di crescita negativo attorno al -1% e nel 2016 e negli anni successivi la ripresa sarebbe stata ancora più lenta; 2.- Le condizioni di disoccupazione ed occupazione si sarebbero ulteriormente aggravate ed il recupero dei livelli pre-crisi non sarebbe avvenuto prima del…2030; 3.- Le condizioni di finanza pubblica si sarebbero ulteriormente deteriorate ed eventuali correzioni drastiche di deficit e di debito avrebbero ulteriormente peggiorato le condizioni di reddito ed occupazione, innestando il circolo perverso di crisi economica che aggrava i saldi pubblici, correzioni di finanza pubblica che aggravano le condizioni dell’economia reale e quindi di un circolo perverso senza fine e senza speranza. Per fortuna di tutti Draghi c’è e speriamo che la BCE (e non solo) ce lo conservi.