Blog, forum e Social network: lutto e strategie di coping negli ambienti partecipati della Rete Di Alessandra Micalizzi – Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM «Siamo costretti al significato. In un mondo privo di senso saremo solo una massa vuota, una nonvita psichica. Dopo che un evento lascia una traccia nella rappresentazione che ci facciamo di noi stessi, comincia la nostra vita mentale, piena di dolori e di piaceri, di temporali desiderati e di calme piatte. Il ritorno alla vita diviene paranoico, poiché siamo a caccia di tutto ciò che lascia un segno» (Cyrulnik, 2009, p. 31) 1. Raccontare di un dolore: aspetti narrativi dell’esperienza del lutto Un’esperienza inenarrabile. È spesso questa l’espressione che viene utilizzata per descrivere la perdita di una persona cara. La lacerazione di una relazione1 importante porta con sé emozioni molto forti che, come ci ricordano gli esperti in questo campo2, generano quasi uno stordimento, una sensazione di incredulità. De Martino (1977), che a lungo si è occupato del cordoglio, ha sintetizzato questa condizione di estraneità rispetto al reale con l’espressione ebetudine stuporosa, « una sinistra inerzia (che) avvolge e soffoca la vita psichica minacciando di annientarla nell'assenza totale» (ivi, p. 78). A sostenere il processo di sopportazione del dolore, il cosiddetto lavoro del lutto (Freud, 1917), intervengono gli altri, il proprio intorno sociale, talvolta secondo forme di partecipazione cristallizzate all’interno di riti, strutturalmente vincolati a standard espressivi, tanto sul piano del linguaggio fattuale che di quello tematico3 (Balbi, 2009). Eppure questa prossimità fisica, affettiva, corale e spesso autentica al di là dell’aspetto rituale non è sufficiente a colmare le distanze tra il dolente e ciò che resta della sua vita. Il senso definitivo della separazione causato da una morte procura silenzio, chiusura verso l’esterno e la sensazione, reale o semplicemente percepita, di profonda estraneità soprattutto rispetto a ciò che era più familiare. 1 Occorre ricordare che la stessa etimologia del termine lutto, tanto in lingua italiana che in quella inglese, racchiude in sé l’idea di lacerazione, strappo definitivo (Di Nola, 2005). 2 Sicuramente già citati in altre parti di questo testo, le fasi del lutto a cui faccio riferimento per convenzione sono quelle proposte da Bowlby (1982), ovvero la fase di torpore e stordimento, la fase dello struggimento e della ricerca della persona cara, la fase della disorganizzazione disperazione e quella della riorganizzazione. 3 L’autore propone una distinzione tra linguaggio fattuale e tematico, attribuendo al primo la capacità di « specificare solo quello che accade mentre avviene. Quindi il linguaggio fattuale è legato all’immediatezza dell’esperienza e non aggiunge nessuna nuova informazione» e al secondo la capacità di separare soggetto narrato da soggetto narrante(p. 249). Balbi infatti sostiene che «con l’uso del linguaggio tematico l’accadere si allontana dalla contingenza dell’esperienza immediata e rende possibile separare in ogni esperienza due tipi di contenuti. Il contenuto affettivo si distacca e differenzia dal contenuto informativo, amplificando in questo modo l’impronta del mondo soggettivo e facilitando lo sviluppo dell’autocoscienza» (ibidem). 1 Sul piano identitario, il lutto marca i confini dell’Io stravolto dalla perdita: si perde qualcuno che era parte della propria vita e contemporaneamente si deve rinunciare a qualcosa di sé che aveva un senso nell’essere parte della vita di qualcun altro. In un certo senso il lutto determina un “transito”, difficilmente accettabile e accettato, da una condizione a un’altra. Il lavoro psichico che consegue a una perdita include anche il processo di accettazione di questa nuova condizione. Come suggerisce Sacco, infatti: «nel costante processo di costruzione dei legami affettivi gli individui costruiscono la propria immagine, l’identità e il senso di continuità personale. Questo può spiegare l’elevata intensità del vissuto di sofferenza quando si perde una persona amata. Oltre che l’assenza fisica del defunto, in effetti, va via una parte dell’immagine di sé che ci si era costruiti in quella relazione e l’immagine che del sopravvissuto si era costruita la persona morta» (ivi, p. 211). Dicevamo dunque uno stravolgimento identitario che non riguarda solo gli aspetti più personali, emozionali dell’Io ma anche la sua dimensione sociale. È da questa rinuncia forzata, da questo estraneamento dal quotidiano che si origina il profondo bisogno di silenzio. Silenzio come pietrificazione rispetto all’inaspettato o al mai desiderato evento; silenzio come chiusura verso l’esterno e come forma di protezione dagli altri, spesso esposti a clamorosi errori relazionali o comunicazionali verso il dolente; silenzio, infine, come desiderio di parola. Può apparire contraddittorio, ma spesso dietro l’assenza di parole, da pronunciare e da ascoltare, si mal cela la necessità di tirare fuori il proprio dolore, di poterlo verbalizzare. Da diversi anni mi occupo di questi temi e durante le interviste è emerso sempre, in vario modo e con diverse metafore, il contrasto tra il nodo alla gola che impedisce al pensiero di divenire “voce” e la necessità di svuotarsi, spesso resa con i toni più estremi della parola, come il lamento, il grido, l’urlo di dolore. La ricerca di uno spazio – fisico o psicologico, esterno o interiore, reale o simbolico – dove potere in qualche modo trovare la giusta dimensione per esprimersi ha a che fare con la ricerca di autenticità. È un aspetto molto importante, anche questo spesso evidente dalle stesse parole di chi lo ha vissuto. Il lutto, come dolore, stravolgimento emotivo e identitario, capovolge le prospettive e interviene sullo sguardo del dolente. Come un disvelamento improvviso si coglie il quotidiano non solo come estraneo ma anche come falso, costruito, retto su una struttura fragile e precaria fatta di contenuti, cose e relazioni effimere. Mi è capitato più volte di sentire utilizzare, da parte dolenti che ho coinvolto in alcuni lavori di ricerca, la metafora della maschera, che tanto ricorda Goffman (1969). L’autore la utilizzava per offrire un modello delle comunicazioni interpersonali in tempo ordinario: ciascuno di noi mette in gioco una parte di sé che ritiene coerente con il contesto, la scena, che si viene a definire in una data 2 circostanza comunicativa4. Con il lutto vengono messe in discussione le regole implicite, culturalmente determinate, che definiscono la comunicazione interpersonale. Cade la maschera. Cade al dolente che desidera ritrovare la propria autenticità: esprimersi, dire, fare senza sentirsi “costretto” in meccanismi da cerimonia che stabiliscono quanto, come e quando esprimere la sofferenza. In fondo si avverte la sensazione che niente, incluso se stessi, potrà più essere come prima e in questo tentativo di ricostruire la propria esistenza a partire da una esperienza estrema di dolore, si compongono i cocci di un volto, il proprio, percepito in qualche modo più autentico, più vero del precedente. Segnata dalle fratture, la nuova immagine porterà per sempre le tracce della separazione, quelle stesse che lo rendono nuovamente unica e diversa dalla precedente. La maschera cade anche “agli altri”, a quelli che partecipano ai formalismi di rito e svaniscono nell’ombra. Un lutto, come un terremoto, fa piazza pulita delle strutture – affettive – più fragili e mette alla prova tutte le relazioni: alla fine resisteranno solo le più salde e sulle macerie, nel giusto tempo, vi sarà lo spazio e la volontà per costruirne di nuove. Possiamo rileggere quanto finora descritto alla luce della prospettiva narrativa, prospettiva che vorrei utilizzare per entrare maggiormente nel merito delle pratiche di socializzazione dell’esperienza della perdita in Rete, vero oggetto di questo breve saggio. A mio avviso, la perdita si intreccia – mi sia perdonata la metafora – con la narrazione soprattutto per tre ragioni. In primo luogo, se applichiamo la metafora narrativa alla vita, considerandola una storia - di vita appunto - il lutto ne rappresenterebbe un punto di svolta, una circostanza che devìa il corso della vita facendo prendere alla propria storia, ineluttabilmente, una nuova direzione. La scomparsa di una persona cara è la storia più brutta che possiamo vivere: «è la storia più brutta perche è quella che rompe irrimediabilmente una continuità, perché rimanda alla nostra finitudine; è brutta perché non la potremmo mai cancellare» (Genovese, 2009, p. 220). Non è possibile tornare indietro. La svolta comporta una scelta verso altre direzioni. Una delle direzioni possibili che il protagonista potrà o dovrà scegliere a seconda delle circostanze e di altri fattori congiunturali. E alle due estremità vi è da un lato il lavoro del lutto – in tutte le sue forme possibili – e dall’altro la disgregazione dell’io, ovvero lo scollamento dalla propria storia e dalla realtà (ivi). La narrazione non è però solo un’efficace metafora, è anche uno strumento importante sia sul piano individuale che collettivo. Raccontare la propria storia, farlo ad alta voce, non limitandosi alla pura ruminazione interiore tipica dei vissuti emotivi intensi (Rimè, 2008), costringe il narratore a produrre un racconto, a mettere in ordine fatti, eventi, vissuti, emozioni e, attraverso la sua 4 Da questa prospettiva il sé diviene, come dice lo stesso autore, un effetto drammaturgico, ovvero l’emergenza di un particolare processo interattivo all’interno della scena (Goffman, 1959). 3 oggettivazione a prenderne le distanze. L’esperienza di disgregazione e rottura del senso di continuità della coscienza di sé costringe il dolente a effettuare un «lavoro di riorganizzazione e ristrutturazione del senso di sé e dell’identità personale, ricombinando i pezzi in un altro ordine dinamico che tenga conto della nuova situazione creatasi dopo la scomparsa della persona cara» (Sacco, 2009, p. 211). La narrazione, dunque, diventa parte del processo elaborativo: un percorso ordinativo, oggettivante e di ricerca di senso (tra gli altri Ferrari, 2011; Demetrio, 2005:2009). La narrazione, infatti, «agisce nella restituzione di senso e di significato, contribuendo alla rilettura, alla riscrittura della propria storia, all’apertura di uno sguardo differente sulla realtà, alla creazione di un senso personale, a facilitare la costruzione dell’identità personale» (Demetrio, 2009). Infine, la narrazione ha un ruolo particolare nel caso in cui occorre affrontare un lutto perché è sempre un racconto partecipato. La narrazione è sempre per qualcuno. E in questo suo avere un destinatario, implicito o esplicito che sia, assolve a due funzioni importanti per le dinamiche elaborative legate alla perdita. Se rivolto a sé stessi, infatti, il racconto consente di riconoscersi, ovvero di «disporsi alla comprensione della propria vita» (Jedlowski, 2000, p. 110). Sottolinea bene Ferrari (2011) che nel caso del lutto, sapersi raccontare a se stessi significa avere la «capacità, cercando la forma buona, di creare una separazione tra l’io e l’esperienza di perdita che permette un inizio di differenziazione interiore tra quello che mi sta accadendo e la possibilità di affrontarlo» (ivi 2011, p. 4). Se rivolto ad altri, diventa un modo per condividere la propria esperienza e farsi riconoscere (Jedlowski, 2000), di avere conferma del proprio essere nel mondo. Lo sguardo dell’altro è, infatti, la condizione per cui vi sia racconto (Jedlowski, 2009). Infine, nel caso di una perdita significativa, il destinatario del racconto può essere la persona cara scomparsa. A lui si rivolgono pensieri, emozioni, vissuti, in un processo altalenante fatto di giustificazioni e accuse. Riprendendo la posizione di Kaplan (1996), ritrovo nell’atto del raccontare al proprio caro l’esplicitazione di quel dialogo interrotto che, solo con il lavoro del lutto, nel tempo può essere ricostruito. Dunque in questo caso specifico, la narrazione non è più strumento ma esito dell’elaborazione. Nelle prossime pagine entrerò nel merito di un particolare contesto narrativo, la Rete, in cui ormai da diversi anni hanno trovato spazio i racconti autobiografici di persone che hanno vissuto una perdita significativa e che nei suoi ambienti, cercano la dimensione ideale entro cui esprimere, condividere ed elaborare il proprio dolore. 4 2. La messa-in-Rete e le pratiche psicosociali di condivisione della perdita Prima di entrare nel merito delle pratiche e degli usi connessi alla Rete nel caso di esperienze di lutto, desidero fare una piccola premessa sulle caratteristiche peculiari di questa forma narrativa, che è inevitabilmente condizionata dalla tecnologia che la ospita. Non vi è lo spazio per lunghe riflessioni a riguardo però credo sia necessario soffermarsi su alcuni aspetti che assumono un significato particolare se riferiti ad auto narrazioni di esperienze di perdita e che in parte danno ulteriore senso alle premesse teoriche fatte nel precedente paragrafo. In primo luogo, la quasi totalità dei contenuti in Rete sono pubblici5. Parafrasando il termine “messa in scena”, che crea un ulteriore richiamo con la metafora goffmaniana, il raccontarsi on-line corrisponde a una messa-in-rete, ovvero a una forma di esposizione allo sguardo degli altri. Vi sono casi in cui i post possono considerarsi privatamente pubblici, ovvero limitati a un certo numero di lettori, e altri in cui sono pubblicamente privati, ovvero privati sul piano del contenuto ma esposti su piattaforme aperte perché siano liberamente accessibili ai pubblici connessi (Kazy, 2008; Lange, 2008). Ed esporsi (Di Fraia, 2007) è un modo per farsi riconoscere. In secondo luogo, il racconto digitale è doppiamente mediato: dalla tecnologia, che occorre utilizzare per potere accedere alla Rete, e dalla scrittura, come specifica forma del linguaggio. Questo ha due implicazioni importanti. La mediazione tecnologica, infatti, si interpone tra l’autore della storia e il suo interlocutore. Nel caso del dolente, il confine di separazione tra sé e tutti gli altri è molto marcato. L’estraniamento dalla realtà e il senso di isolamento sono percezioni comuni tra chi vive una perdita importante. La tecnologia, dunque, demarca questo confine e contemporaneamente favorisce quella che Gamba (2004) definisce protezione dello schermo. La tecnologia tutela l’Io fragile del dolente, permettendogli di essere in un contesto “affollato”, come molti degli ambienti interattivi della Rete, senza per questo abbandonare spazi familiari, protetti e isolati – il luogo da cui ci si connette. Allo stesso tempo, la mediazione tecnologica, consente di dosare la propria presenza in Rete in funzione di quanto si ritiene opportuno in un dato momento. E ciò significa limitare l’esposizione dell’Io in funzione delle proprie esigenze e dei propri desideri. Infine, come molte ricerche nel tempo hanno confermato, la relazione mediata da computer favorisce il self disclosure (Pennebacker, 2003) ovvero l’apertura all’altro, ciò che potremmo definire un racconto autentico. Quel tipo di racconto a cui aspira il dolente. La mediazione linguistica attraverso la scrittura invece passa attraverso la natura meticcia del linguaggio on-line, a metà strada tra lo scritto e il parlato. Pur avendo molta della spontaneità delle 5 Boyd (2007) sintetizza le caratteristiche dei contenuti web 2.0 in maniera sintetica ed efficace attraverso quattro parole sintetiche che sono implicazioni logiche del loro essere pubbliche: ricercabilità (searchability) , scalabilità (scalability), replicabilità (replicability), e persistenza (persistence). 5 conversazioni faccia a faccia, la cosiddetta comunicazione mediata da computer deve necessariamente essere digitata e digitalizzata6. Scrivere di sé significa ordinare, ri-flettere su di sé e averne traccia. Potere utilizzare la scrittura per parlare del proprio vissuto doloroso on-line dunque arricchisce questa esperienza di tutti i risvolti pedagogici e auto-terapeutici attribuiti all’autobiografia. Sebbene il racconto sia spesso frammentato e contratto, di getto e non sempre alla ricerca della forma buona a cui accennavamo, di fatto il racconto on-line innesca gli stessi meccanismi virtuosi della scrittura di sé e parafrasando Genovese (2009) possiamo riconoscere in essa un’altra importante risorsa simbolica e narrativa per «resistere all’assalto di uno sciogliersi nel proprio dolore» (ivi, p. 220). La scrittura ha anche un altro vantaggio: scrivere vuol dire potersi esprimere senza sentire necessariamente il suono delle parole. Tutte le frasi che rimangono strozzate da un nodo in gola possono trovare un’altra forma di espressione. Un altro modo per prendere forma, oggettivarsi e diventare parte del processo elaborativo. Infine, la scrittura è anche traccia, memoria. Anche in questo caso è possibile individuare due diverse sfumature del concetto. Il racconto autobiografico del dolente è a disposizione di altri lettori, ma in primis, come ogni forma di scrittura personale è per se stessi. La pratica del rileggersi consente ulteriormente di riflettere sulla perdita e soprattutto di cogliere, attraverso le evoluzioni della scrittura nel tempo, i passaggi più importanti del processo elaborativo. Sebbene specificamente riferito ai blogger, mi trovo in sintonia con la posizione di Di Fraia (2007) il quale sostiene che «nell’atto dello scriversi traducendosi nel testo e in quello complementare del rileggersi, interpretandosi attraverso di esso, egli in qualche modo si sdoppia, venendosi a trovare sia nel vissuto, sia nel testo in cui quel vissuto è stato oggettivato». Ma se la scrittura in Rete è memoria questo vale anche per le tracce digitali che ha disseminato la persona cara scomparsa7. (Vellar, 2009). I suoi post rimangono on-line e costituiscono, come vedremo fra poco, una risorsa preziosa per il superstite. Fatte queste premesse desidero entrare nel merito delle pratiche d’uso connesse agli ambienti interattivi della Rete. Negli ultimi anni abbiamo assistito a un incremento esponenziale di contesti 6 La comunicazione mediata da computer (CMC) testuale è stata oggetto di interesse sin dal primo diffondersi della Rete. Ong (1987), tra i primi a studiarne le peculiarità, l’aveva definita oralità secondaria. Mininni (2004) ha coniato l’espressione “linguaggio Scrit-lato”. Occorre sottolineare che le evoluzioni infrastrutturali e la semplificazione delle interfacce hanno arricchito le forme linguistiche utilizzate in Rete, sempre più volte a integrare testo, immagini e video. E questi cambiamenti intervengono anche sulle narrazioni di vissuti dolorosi come la perdita di una persona cara. Queste forme espressive del proprio dolore rimangono comunque dei racconti, verso i quali è possibile utilizzare in ogni caso la prospettiva narrativa come chiave interpretativa. 7 È sempre più comune tra adulti e meno adulti aprire pagine personali, aggiornabili molto facilmente, soprattutto all’interno dei cosiddetti Social Network Sites. Questi ambienti sono di facile utilizzo anche per gli utenti meno esperti e permettono di strutturare reti egocentriche – centrate sull’utilizzatore – che, a partire dalla propria pagine, può essere aggiornato sui propri amici, su quelli per lo meno che fanno parte della sua rete (Vellar, 2009). 6 di relazione virtuali e questo ha naturalmente determinato, dopo una fase di appropriazione dello spazio8, l’affermarsi di nuove pratiche di partecipazione, rendendo più complessa anche una riflessione sui temi di nostro interesse (Boccia Artieri, 2009). Semplificando al massimo, ho distinto gli ambienti digitali in tre grandi famiglie: i blog personali, i forum e i social network sites. Non sono ovviamente le uniche tipologie possibili, ma sono quelle che nell’ambito delle mie ricerche sul campo, ricorrono più frequentemente come contesti di pratiche di socializzazione dell’esperienza della perdita. Nella tabella 1 ho riportato sinteticamente gli aspetti salienti di questi ambienti, mantenendo sempre sullo sfondo una prospettiva narrativa. In modo particolare ho sottolineato le caratteristiche del contesto rispetto alla relazione con l’altro; quali caratteristiche possiede la narrazione; lo scopo della scrittura di sè; e infine ho cercato di mettere in relazione la particolare pratica narrativa con una preciso momento del lutto. Come tutti gli schemi sintetici anche la mia proposta rischia di essere limitante e poco esaustiva. Ciò per dire che le caratteristiche sottolineate non sono le uniche possibili in un particolare ambiente, piuttosto sono quelle che emergono con maggiore forza. I personal weblog, più comunemente definiti blog, sono degli spazi narrativi che hanno molte caratteristiche in comune con i diari personali. In genere mono-autoriali, presentano un ordinamento inverso che propone i post dal più recente al più datato. Questi spazi possono essere pubblici o privati – con vincolo di iscrizione o riservati solo ad alcuni lettori scelti dall’autore; con commenti aperti o chiusi; aggiornati quotidianamente o visitati solo sporadicamente etc (Di Fraia, 2007). Quando il blog riguarda un’esperienza di perdita contiene in genere post molto personali, dedicati alla persona cara e centrati spesso sulle emozioni provate, in alcuni casi legate al presente in altri riferite a momenti passati. Essendo un ambiente molto centrato sull’autore è per sua natura personale per cui è complesso fare generalizzazioni sulle caratteristiche della narrazione. È certo che contiene soprattutto racconti di getto, parole dense di emozioni che ricordano molto lo sfogo. Come un diario permette di ricostruire i vissuti legati al lutto e la loro progressione nel tempo. L’andamento della scrittura e della partecipazione sembra seguire un moto iperbolico che va da un’intensificazione estrema nel primo periodo a una lenta riduzione nelle fasi successive, fino a divenire quasi uno spazio della memoria, una piccola tavoletta d’argilla dispersa nella Rete (ivi). La scrittura di sé, soprattutto nelle prime fasi, è simile a un lamento che mette in forma lo struggimento per la persona cara; tuttavia nel tempo, seguendo l’andamento iperbolico appena 8 Occorre ricordare che ogni medium, in quanto artefatto culturale e tecnologico, richiede una fase di appropriazione. Questo concetto appartiene al paradigma Social Shaping of Technology, nel quale si fa riferimento al processo di domestication per riferirsi alle pratiche di assimilazione di una tecnologia (si veda tra gli altri Silverstone 2005). 7 descritto è possibile scorgere le evoluzioni del lavoro del lutto e la ricerca sul campo dimostra che spesso la rilettura, a distanza di tempo, facilita la riorganizzazione del sé, oggettivatosi nel racconto. Tabella 1. Ambienti e arrazioni on-line sul lutto Tipo di Blog Forum ambiente Social $etwork site Caratteristiche Privato/ dell’autore Paritario/comunitario del contesto Struttura reticolare egocentrata Caratteristiche della Narrazione come Narrazione come “medium” per la Narrazione oggettivazione dell’identità condivisione come traccia narrazione Finalità del Sfogo Condivisione/rispecchiamento memoria racconto Fasi del lutto Cum- Struggimento/riorganizzazione disorganizzazione/riorganizzazione Ricerca del defunto Il forum ha invece altre caratteristiche. È in primo luogo un ambiente paritario in cui i membri hanno in genere le stesse possibilità di azione – tranne rare eccezioni. Non può dunque essere definito uno spazio personale, quanto piuttosto un ambiente in cui viene a consolidarsi un forte senso del “noi”. Nel caso specifico del lutto, è qui che il dolente può riflettere sui frammenti di identità che ha perso e ritrovare un nuovo senso di appartenenza, riappropriarsi in qualche modo dell’esperienza che ha appena vissuto, assimilandola alla sua storia, alla sua nuova identità. In questo caso la narrazione diviene più un mezzo di condivisione, vale a dire, la moneta di scambio, per parafrasare Bruner (2002), attraverso cui socializzare la propria esperienza di dolore. Nei forum è più facile sperimentare quel senso di riconoscimento nella storia dell’altro che manca spesso nel proprio contesto quotidiano. È qui che si innescano i meccanismi di mirroring che 8 consentono di abbandonare quella sensazione di estraneità all’ordinario, quel senso di solitudine dettato dalla convinzione di essere i soli a vivere o avere vissuto certe emozioni9. La partecipazione al forum è contraddistinta dallo stesso andamento iperbolico dei blog. Inizialmente molto intensa, la presenza sulla community tende a scemare nel tempo, proprio in coincidenza dell’affermarsi di un desiderio di progettualità che va al di là del pensiero costante della persona perduta. L’accesso ai forum però richiede un presa di consapevolezza superiore rispetto a quanto può avvenire nel caso della scrittura sul blog, più di getto, più intima e personale. Ecco perché, dovendo estremizzare, possiamo dire che la pratica di partecipazione alla community potrebbe coincidere con il momento della disorganizzazione, con la fase del lutto i cui si prova smarrimento e si è consapevolmente alla ricerca di una soluzione per stare meglio. Anche in questo caso, il dolente può ripercorrere la sua storia, rileggendo i post, i commenti lasciati e questo facilita sicuramente il percorso organizzativo che richiede il corretto lavoro del lutto. I social network sites, infine, sono ambienti di ultima generazione che mettono insieme le pratiche di partecipazione dei forum, vivificati dallo scambio e dall’interazione continua con gli altri utenti, e le logiche egocentriche dei blog, personalizzati e personalizzabili, centrati soprattutto sul loro autore (tra gli altri Riva, 2009). Molte sono le associazioni o i gruppi di auto mutuo aiuto che aprono una propria pagina in questi ambienti. Ma in genere l’uso che viene fatto è tipicamente promozionale. A mio avviso invece diventano dei contesti interessanti sul piano della ricerca sul lutto nei casi in cui il dolente (o i dolenti) mantengono in vita lo spazio personale del defunto. Allora in questi casi, la narrazione dell’autore della pagina costituisce una “traccia” di sé mentre i post, spesso personali, autobiografici, intensamente emotivi, lasciati dai relativi, dagli amici del defunto rappresentano una forma di commemorazione collettiva, più di quanto avvenga in altri ambienti digitali. Questa è una delle pratiche sociali emergenti più forti ed evidenti della Rete. Rispetto alle fasi del lutto, la scrittura nello spazio della persona cara avviene negli istanti successivi alla notizia e procede nel tempo, in maniera più sporadica e in genere in concomitanza con eventi significativi per la persona cara o per chi lo commemora. Dietro alla pratica di scrittura di un messaggio – testuale o visuale che sia – vi è la ricerca del defunto o meglio ancora il tentativo di ricostruire un dialogo interrotto (Kaplan, 1996). È frequente che vengano postati degli aggiornamenti, dei post in cui si fa riferimento ad eventi del quotidiano che in qualche modo avrebbero potuto interessare o coinvolgere il defunto. È come se si cercasse in 9 Per queste ragioni, in altri lavori (cfr Micalizzi, 2009) ho problematizzato il parallelismo possibile tra i forum dedicati al lutto e i gruppi di auto mutuo aiuto vis à vis. Per alcuni spunti interessanti sulle opportunità e i limiti della Rete come contesto per i gruppi AMA si rimanda a un contributo di Renzetti (2009). 9 qualche modo di riportare ancora una volta la persona cara nella propria vita, nel proprio presente. E anche questo è un momento importante di elaborazione della perdita. 3. L’e-coping e processi di adattamento psico-antropologici Nelle precedenti pagine ho cercato di mettere in evidenza come l’esperienza della perdita, pur nella sua inenarrabilità, può essere elaborata attraverso un percorso narrativo, percorso che può avvenire in diversi contesti della Rete, grazie alle peculiarità di questo ambiente. Non vi è lo spazio per entrare maggiormente nel merito. Ciò che però mi preme sottolineare è che a mio avviso l’uso degli spazi digitali e le pratiche che da essi scaturiscono sono solo il risultato di un processo adattivo. Processo che interessa le strategie di coping, sul piano psicologico, e i riti collettivi, sul piano socio-antropologico. La storia d’Occidente ci ha insegnato che i molti cambiamenti che hanno caratterizzato la Modernità hanno portato a un lenta espropriazione dell’esperienza della morte, rendendola quasi “inopportuna” per un Uomo che non intende arrendersi di fronte alla caducità e insegue il mito dell’amortalità. Senza più un “posto” nello spazio e nel tempo ordinario, l’esperienza della perdita migra verso altri ambienti di cui l’uomo si è appropriato rapidamente e che offrono una risposta soddisfacente al bisogno di raccontare – a se stessi per elaborare, ad altri per condividere - il proprio dolore. Alcuni studiosi definiscono la Rete un ecosistema di narrazioni ibride (Pata, 2009). In quanto ecosistema, Internet sta lentamente affermando le sue leggi e le sue pratiche di funzionamento. Che riguardano non da ultimo anche l’elaborazione del lutto. Bibliografia Balbi J., La mente narrativa, verso una concezione post-razionalista dell’identità personale, Franco Angeli, Milano, 2009. Boccia Artieri G., Supernetwork: quando le vite sono connesse, in Mazzoli L., a cura di, Network effect, quando la rete diventa pop, Franco Angeli, Milano, 2009, p. 21-41. boyd d., Why youth (heart) social network sites: the role of networked publics in teenage social life, in Mac Arthur foundation series on digital learning, youth, identity and digital media volume, MIT Press. Cambridge, 2007. Bowlby (1980), Attaccamento e perdita vol 3, La perdita della madre, Boringhieri, Torino. Bruner J. (2002), La fabbrica delle storie. Diritto, letteratura, vita. Laterza, Bari. Cyrulnik B., Autobiografia di uno spaventapasseri. Strategie per superare le esperienze traumatiche, Cortina, Milano, 2009. 10 Demetrio D., Momenti e figure della scrittura di sé, in Valastro O., (a cura di), Scritture Relazionali Autopoietiche, Aracne, Roma, 2009, p. 31-39. Demetrio D., Autoanalisi per non pazienti. Inquietudine e scrittura di sé, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2003. 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