Diocesi di Piacenza-Bobbio in collaborazione con l’Università Cattolica 7a Settimana Sociale dei cattolici piacentini “Quale vita in un mondo compatibile” Sede dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza Colasanto Prof. Michele, Pro-Rettore dell’Università Cattolica “Il globo conteso: globalizzazione, biotecnologie, sviluppo compatibile non esclusivamente economico ma integralmente umano” 19 febbraio 2001 [grazie alla registrazione del sig. Vittorio Ciani] Premessa Vi ringrazio di avermi invitato perché mi dà modo di essere un’altra volta presente ai vostri incontri nell’ambito di queste Settimane Sociali, che rappresentano un punto di riferimento importante per la Diocesi. Però devo scusarmi con voi perché non corrisponderò esattamente ad alcune attese legate in particolare alle biotecnologie. Tema sicuramente affascinante, ma il nostro ambiente necessita di un linguaggio tecnico molto preciso altrimenti rischieremmo di portarci fuori da una comprensione più corretta sul nocciolo duro della questione. La questione è la “globalizzazione”, termine che continuamente ci viene riproposto dai mass-media e da una letteratura sterminata, però non so quanto sia veramente compreso nella realtà dei suoi effetti attuali possibili. Al suo interno ci sta il problema del progresso tecnico, la questione di quale tipo di sviluppo se sostenibile o compatibile, e una visione dell’uomo. Ma innanzitutto c’è da capire da dove viene questo processo illuminante, che è di ordine sociale, politico ed economico produttivo: allo stato attuale delle conoscenze quali possono essere gli esiti di questo fenomeno, senza ipotecare la realtà ma nello stesso tempo cercando di interrogarci sulla base di ciò che sappiamo e degli indicatori che possiamo mettere in atto. Perché possono essere esiti anche profondamente diversi. Dietro al termine “globalizzazione” in realtà si collocano tutta una serie di fenomeni che forse noi siamo abituati ad affrontare in termini più settoriali, a cominciare dal tema dell’emigrazione, che non so quanto siamo capaci di collegare a questo fenomeno della globalizzazione. Su questo mi soffermo ed eventualmente anche con il dibattito aperto alle mie competenze. Eventualmente cercheremo di approfondire le questioni di biotecnologia (che già avete trattato nel vostro primo incontro), che riguarda la capacità di costruire o di ricostruire la vita. Questioni che esigono competenze scientifiche, quindi da trattare non in modo superficiale, sia per non indurre a speranze eccessive o a pessimismi o ad accuse pregiudiziali, ma siamo su un terreno che non è conosciuto. Sinceramente non sono le marce degli scienziati che risolveranno la questione. Questo è un effetto, non dei più felici, della globalizzazione. La globalizzazione nei suoi precedenti storici • Globalizzazione che qualcuno inizialmente, ma anche oggi, intende disconoscere come problema storico, ma come fatto di grande discontinuità. Un inglese, usando un termine non particolarmente simpatico da tradurre, disse: “La globalizzazione è una sciocchezza, perché in fondo non è di oggi (è interessante per capire e vedere i prodromi di questo processo che qualcuno fa risalire al 1500), anzi sembrerebbe un ritorno al passato. Secondo questi studiosi la globalizzazione è un qualcosa che l’umanità ha già conosciuto, seppure sotto altre forme, soprattutto con quelle opportunità di mobilità individuale che noi tutti oggi conosciamo. Per fare un piccolo esempio, si ritiene che in Inghilterra nel 1700/800 fosse capace di globalizzare il mondo molto di più di quanto non sia capace il Nord America oggi. La capacità di esportazione del proprio prodotto interno lordo da parte degli inglesi nel fine ’700 era di gran lungo superiore a quello degli americani. Per un economista questo ha un significato molto preciso: un flusso di merci e di prodotti che si diffonde in tutto il mondo e crea un fenomeno di globalizzazione di consumi, di interessi economici, dei mercati e quant’altro. • Per altro verso però il termine globalizzazione oggi sta acquisendo applicazioni squisitamente politiche. Dai giornali di questi giorni rileviamo che qualcuno sostiene che alcuni partiti avranno più speranze di altri nel raccogliere voti, al di là dei due grandi schieramenti, perché si sono impadroniti di alcune questioni che la 1 gente ormai avverte come decisiva nella propria vita: i verdi con la “mucca pazza” in difesa dell’ambiente e della salute; l’estrema sinistra che delle manifestazioni contro la globalizzazione sembra fare un cavallo di battaglia perché la globalizzazione viene vissuta come qualche cosa di minaccioso; altri movimenti politici li potremmo spiegare in questa chiave: come reazione al timore che la globalizzazione porti conseguenze tragicamente negative per la qualità della vita, per la capacità di diritto dei singoli o dei gruppi sociali o dei popoli. La globalizzazione è un intensificarsi delle relazioni Quindi credo sia importante cercare di capire il più possibile che cosa significa la globalizzazione e quali possono essere i suoi intesi. Che cos’è la globalizzazione? La sappiamo definire esattamente oltre la percezione di un’invadenza, un qualcosa che ci sovrasta e travolge la nostra vita e la sospinge come una montagna o un oceano galleggiante? Tra i tanti modi che abbiamo utilizzato per spiegare la globalizzazione uno interessante è focalizzare l’attenzione sull’intensificazione dei rapporti o delle relazioni. La globalizzazione è un’accelerazione e un’intensificazione dei rapporti, soprattutto trans-nazionali ma anche trans-temporali (con l’economia virtuale il tempo conta meno). La globalizzazione è fatta di relazioni che superano il tempo e lo spazio, con una celerità e intensità sconosciute fino ad oggi. Queste relazioni, se si traducono in un sistema di interdipendenza (più avanti spiegheremo più precisamente cosa significhi) si intensificano e diventano più dense e finiscono con il creare delle dipendenze reciproche. Che cosa ci stanno portando in prima battuta (poi ci sono una serie di considerazioni più analitiche che potremmo fare)? Interessante notare che questo intensificarsi delle relazioni sono per alcuni i “flussi comunicativi” (la CNN, che vediamo tutte le mattine tramite TMC ci dice tutto quello che accade nel mondo); c’è anche un’accelerazione di “flussi di beni e servizi”; c’è un’accelerazioni di contatti tra culture che è una sorta di “ibridazione” tra cultura e stili di vita (stili di vita italiani li troviamo a Nuova York e a Shangai; come troviamo i cinesi che aprono i ristoranti da noi e noi mandiamo gli hamburgen nei mercati del Nord). Questa ibridazione provoca un fenomeno (che ci spaventa) di sradicamento. Perché la globalizzazione dà la sensazione che molto poco dipenda (ma non è vero fino in fondo) da ciò che siamo e da dove siamo noi oggi, e moltissimo invece dipenda da quello che sarà e avviene in altri ambienti di altri paesi. Questo intensificarsi dove ci porterà? Qui ci sono due risposte. 1) Una prima risposta ci dice che ci porterà ad un “sistema mondo omologato”, dove conterà ciò che viene costantemente replicato. Saremo tutti dei cloni dal punto di vista della cultura e della società; è l’inizio della fantascienza: una società fatta tutta da eguali che vivono nello stesso modo, sente la stessa musica, mangia le stesse cose… Se ci pensate bene ci sono alcuni elementi del vivere di oggi che è fatto così : gli adolescenti che ascoltano tutti la stessa musica, che vanno tutti al Mac Donald a mangiare le stesse cose. Questo sarebbe un segno di un esito drammaticamente omologante. 2) Altri più ottimisti (ma fino ad un certo punto) ci dicono che non sarà così : questo intensificarsi di rapporti porterà ad una diversificazione di situazioni, di conoscenze, di realtà, di oggetti, di prodotti… In questa diversificazione forse la persona potrà avere più occasione per espandere la propria soggettività. Qualcun altro dice invece (e lo vedremo più avanti): in questa situazione di diversificazione però c’è anche il rischio di una frantumazione dentro cui le persone potrebbero anche perdersi, annegarsi. Per cui rileviamo nella globalizzazione due prospettive divaricanti: - Una visione ci porta ad essere tutti uguali in una società che non osiamo nemmeno immaginare (come è stata anticipata da qualche romanziere nel 1984). - Una diversificazione piena di opportunità, ma talmente frantumata che ci porterà ad una sorta di frantumazione interna ed esterna delle situazioni che vivremo, e porterà a rompere la nostra capacità di essere soggetti. Quindi avremo perso il centro (non un centro politico), la capacità di raccontarsi in un nucleo stabile di valori e quindi non ci sarà più nemmeno società. A questo punto la frantumazione porterà alla disgregazione sociale (il pensiero corre a certi film di fantascienza che producono un futuro senza prospettive). Mi spiego semplicemente per cercare di tradurre ciò che la complessità di alcune riflessioni economiche e sociologiche in realtà lasciano poco trasparire, ma questo sostanzialmente è il senso della questione. Secondo questo tipo di 2 pensiero non avremo più una società, e non riusciamo ad immaginare come possiamo vivere senza società. Avere coscienza della globalizzazione • Chiaramente c’è attenzione alla globalizzazione, se e per quanto ne abbiamo coscienza. Cioè non è sufficiente che questi fenomeni esistano (che ci sia la televisione) perché ci sia la globalizzazione. La globalizzazione c’è e incide sulla società (su cui ci possono essere degli scontri di cultura), su alcuni esiti, se e per quanto c’è coscienza. Per esempio i popoli africani potranno subire la globalizzazione, ma non è detto che si possano inserire nei processi di globalizzazione, quindi se non hanno coscienza di quello che sta avvenendo saranno occidentalizzati. Questo vale per noi tutti: noi dovremo riuscire a capire esattamente che cos’è la globalizzazione e qual è l’insieme di contraddizioni che le regge. • La prima contraddizione fondamentale è tra particolarismo e l’universalismo, che stanno sempre continuamente insieme in un equilibrio instabile, che si traduce in cose molto concrete, per esempio nella capacità di un territorio di essere fonte di appetibilità per chi deve viverci. In una università straniera stanno facendo questo tipo di riflessione, la dove cominciano a vivere come in Italia una crisi demografica di studenti: cosa possiamo fare per rendere più vivibile la città in cui noi siamo collocati, perché più vivibile è questa città e più probabilmente arriveranno degli studenti? Le aziende dicono: dove possiamo collocarci per avere la mano d’opera più qualificata che ci serve? perché là dove c’è più vivibilità e qualità della vita probabilmente la gente verrà più volentieri? In termini più brutali uno può dire: io vado dove ci sono le condizioni economiche sociali per poter installare un’azienda. Questo però ci porta un po’ lontano (alle logiche rumene), ad un aspetto derivato di globalizzazione, che non è forse delle più felici ma che comunque esistono. Però i ragionamenti si fanno su questi casi, fino al punto di chiederci: che rapporto c’è tra vivibilità di un ambiente e capacità di attrarre in una società globale, dove si dà per presupposto che il prossimo si muove con una certa facilità. Si parla di una società neonomade, che riscopre il nomadismo, che si muove con una facilità che fino a qualche anno fa forse ritenevamo insospettata, e che forse in qualche ambiente (anche nostro italiano) continuiamo a ritenere insospettabile (mentre noi siamo qui a divertirsi, da altre parti i maggiori flussi di persone e di cose si muovono e si incrociano). Questa è una prima definizione di globalizzazione che ha una sorta di pregresso storico; qualcuno sostiene che comincia fin dal Rinascimento e quindi dei viaggi che portano alle scoperte del mondo del Nord America (un Magellano viene ritenuto un precursore della globalizzazione). • Gli stati nazionali paradossalmente sono ritenuti un avvio alla globalizzazione, perché stabiliscono le frontiere, ma poi si intensificano i rapporti tra gli stati: l’ambiente degli stati nazionali significa l’intensificarsi dei rapporti tra gli stati e quindi uscire da situazioni molto circoscritte qual’erano quelle precedenti. Per esempio il cosmopolitismo degli anni di fine secolo della Ville Lumiere di Parigi o della nostra Milano piena di gente che veniva da tutta Europa (i Falk imprenditori che portano con loro degli stranieri, sono stati i primi a portare in Italia le macchine). Il tentativo di egemonizzare la terra durante l’esperienza della “guerra fredda”. L’attuale incertezza di una ormai multipolarità (oggi non esistono più i due poli ma tanti poli). Soprattutto esiste un fenomeno, che molto spesso viene messo in evidenza: i centri del potere politico non coincidono con i centri del potere economico e culturale. Si produce cultura là dove non si fa politica e viceversa si fa politica là dove non si produce. Una volta la società industriale tutto si teneva; Milano era la capitale non politica ma certamente la capitale morale, aveva un’influenza politica legata al mondo economico e alla capacità di produrre la cultura. Nella società globale tutto questo non avviene più, ma c’è una sorta di multipolarità dei vari poteri, che danno la sensazione di una società che non può essere ricompressa, abbracciata, che sfugge continuamente. • Ma più che i precedenti storici ci possono interessare le spiegazioni: perché c’è la globalizzazione. Supposto che la globalizzazione sia nata (abbiamo avuto dei precedenti e possono essere più o meno sviluppati anche sotto il profilo storico), perché e da dove nasce la globalizzazione? Noi la globalizzazione l’abbiamo descritta: è un intensificarsi dei flussi, è un sistema interdipendente, può portare ad un esito “a” o“b”. Un grande studioso di questi fenomeni diceva che l’omologazione culturale sarebbe stata una sorte di ossificazione della società e della cultura, che tutto si sarebbe in qualche modo risentito diventando tutto eguale. Ma perché c’è la globalizzazione? Le risposte non sono univoche, ma alcune sono parzialmente convincenti. 3 - C’è chi (come i neomarxisti, termine non più di moda ma sensato), dice: la globalizzazione non è altro che una forma del capitalismo; la globalizzazione c’è perché il capitalismo nel suo nascere (il capitalismo nasce nell’800) e crescere in una situazione in cui non esiste più la contrapposizione dei blocchi, allora assume la forma della società globale con le sue dimensioni. - Qualcun altro dice: la globalizzazione è il frutto di uno scontro tra culture (civilizzazione), il modo con cui alcune culture (che sono diventate egemoni in alcune parti del mondo) tentano di diventare egemoni su tutto il mondo. Secondo questa interpretazione la globalizzazione è destinata o si accompagnerà a un declino dell’Europa, perché l’Europa non avrebbe quei fattori propulsivi (a partire dall’elemento demografico) capaci di far reggere l’urto dei processi economici, culturali e sociali; avremo a che fare con l’invecchiamento, il costo del lavoro, l’incapacità di tener fede alle promesse dello stato sociale. Tutto questo sicuramente potrebbe spostare il baricentro del sistema mondo, che qualcuno ha già individuato essere ormai nemmeno gli Stati Uniti d’America e neppure più l’Europa, ma piuttosto l’Estremo Oriente (la Corea anche se ci sono dei momenti contraddittori, Taiwan e la Cina). Lì ci sarebbe il futuro del mondo, perché la globalizzazione metterebbe in luce che lì ci sono forze propulsive che potrebbero dare egemonia. Questa è un’interpretazione decisamente pessimista della globalizzazione: il tentativo di alcune civilizzazioni di inglobarne delle altre. - Qualcun altro dice: no forse questa è un’interpretazione pessimista. La globalizzazione è per il mondo un modo di stare in equilibrio nella situazione che cambia. Un mondo diventato piccolo non può stare in equilibrio, non può recuperare una sua capacità di dinamiche sociali integratrici, se non attraverso la caduta delle frontiere e tutti i processi che la globalizzazione comporta. La globalizzazione sarebbe un modo con cui il mondo cerca di sostenersi attraverso lo scambio delle dimensioni di tipo economico produttivo, finanziarie, culturali e umane (migrazione); le merci e i servizi circolano in tutto il mondo (per esempio le campagne pubblicitarie s’impostano in America e si realizzano in Italia); la dimensione finanziaria impressiona di più perché è la più facile da monetizzare (il denaro si sposta con una facilità estrema), mentre le persone e le fabbriche lo sono un po’ meno. Uno degli aspetti interessanti di questa scommessa è vedere se le cose si svolgeranno necessariamente in questo modo o se non può sposarsi con la localizzazione. - Un’altra interpretazione dice: la globalizzazione sarà per il futuro imminente dell’umanità la grande occasione che consentirà ai popoli e alle persone di vivere la propria storia; accrescerà talmente le opportunità da dare storia a tutti. Voi sapete che la storia può essere concepita come un insieme di opportunità, che se si fanno intense può darsi che tutti, perfino le popolazioni africane (così drammaticamente frastagliate, ferite e avvilite) potrebbero trovare una qualche occasione di riscatto. In questo processo le stesse persone potrebbero trovare occasione di affermazione di espressione di sé. Chiaramente è una concezione molto ottimistica che si contrappone alle altre pessimiste. Abbiamo visto come queste idee non si conoscono ancora bene ma anche gli esiti non sono assolutamente predefiniti, nel senso che la scienza sociale non riesce a delineare il fenomeno. Questo da una parte può essere sconfortante. Ma dall’altra c’è il conforto perché le cose non andranno necessariamente in una direzione e anche le interpretazioni di tipo pessimistico possono essere recuperate. A quali condizioni chiaramente è da vedere, soprattutto in rapporto alle dimensioni della globalizzazione che è sicuramente di tipo economico, quindi mercati aperti che si aprono alla finanzarizzazione e internazionalizzazione della produzione. La dimensione politica della globalizzazione Ma c’è una dimensione politica della globalizzazione. • Dai giornali leggiamo che c’è un tentativo di affermarsi di organismi o organizzazioni transnazionali e sovranazionali. Alcune sigle: l’ONU, la FAO, l’Organizzazione internazionale del lavoro, l’Organizzazione internazionale dei Commerci… e altre se ne possono citare. Si sta precostituendo un Diritto internazionale molto consolidato, un segnale è il fatto che le istituzioni politiche transnazionali sono cresciute nel numero, nelle attività e nell’intensità dell’azione. • Però con la globalizzazione può accadere che i paesi che si sentono minacciati, e hanno ancora una dimensione nazionale sufficientemente forte, possono reagire alla globalizzazione con atti di potenza. Cioè la globalizzazione porta con sé un rischio bellicum abbastanza elevato, perché chi si sente minacciato da un mondo che ritiene ostile o invasore può reagire o avere la tentazione (se è sufficientemente forte) di 4 affermarsi rispetto ai soggetti deboli con atti di potenza. Le ultime vicende lo confermano: abbiamo vissuto in Europa, se non direttamente, un marcato conflitto. • Oppure si creano nuovi soggetti locali e rinasce il localismo. Una delle spiegazioni più accreditate della rinascita del localismo, e anche dei movimenti politici localistici, si lega ad una reazione (non dico che è solo questo) nei confronti di una globalizzazione vissuta come minaccia. Però non c’è soltanto il localismo politico culturale, ma un altro di tipo economico produttivo. Bisognerebbe tenere presente con molta attenzione questo movimento lento ma incessante del confluire di regioni economicamente vicine, ma che appartengono a nazioni diverse, che sentono di poter contare di più se si mettono insieme. Questo potrebbe essere uno dei “futuri” dell’Europa o del mondo: un ridisegnarsi, non tanto degli stati nazionali, ma delle comunità territoriali. La cosa non è vicinissima, ma non è detto che sia lontanissima. • Da questo punto di vista si presenta una sorta di sfida. Perché tutto questo ripropone continuamente il rapporto tra i movimenti legati all’economia, alla società e alla politica della globalizzazione, in una sorta di giochi in cui la politica sembra essere un soggetto debole rispetto agli altri due. La globalizzazione può avere come effetto di indebolire la politica così come noi la pensiamo e per certi versi anche il nesso con la democrazia e la società. La società industriale con gli stati nazionali aveva “quadrato il cerchio” (termine elaborato da Ralf Dahrendorf), cioè era riuscita a mettere insieme democrazia, benessere e coesione sociale. Questa “quadratura del cerchio” è stata rotta, e sembra molto difficile da inventare di nuovo nella società globale. Perché se uno punta sull’economia, questa va talmente veloce ed è così prepotente da sorpassare la politica. Per altro verso la società, di fronte a questi problemi, sembra quasi o ritirarsi in se stessa o abdicare per accettare una democrazia sicuramente poco o non partecipativa. Sarà democrazia elettorale ma non attiva (forse un recupero della dimensione privatistica, però riguarda la reazione dei soggetti dentro la società globale). • Il paradosso è che la politica in realtà paga i prezzi di tutto questo. Per esempio non so quante possono essere state le responsabilità della politica su fenomeni come la “mucca pazza”. Questo è un caso classico in cui il ragionare secondo schemi economici (forse non esattamente controllati dalla politica) ha sorpassato enormemente la capacità della politica di tener dietro a questi fenomeni, ed ora la politica paga il prezzo di qualche cosa che in realtà però è avvenuto nell’economia, non è avvenuto sul piano normativo. Questo è un problema molto serio, perché rischia di essere un ulteriore fattore di delegittimazione della politica. La gente vive tutto questo come l’incapacità della politica di offrire una alimentazione sana, di effettuare regolarmente dei controlli preventivi… Chiaramente tutto questo è anche vero, però è anche vero che c’è stato un “prima” che risale a vent’anni fa e non all’oggi (non è da oggi se le mucche mangiano “farine animali”, chissà quante ne hanno già mangiate, ma speriamo di no). Però adesso abbiamo scoperto la cosa, e la politica è accusata di tutto questo (non interessa chi sia al Governo). In questa situazione c’è il rischio che la politica paghi un prezzo di tutto questo, soprattutto in termini di delegittimazione e non sarebbe evidentemente una buona cosa. • E qui non c’è una soluzione che provveda, ma sicuramente l’indicazione di un problema, che tra l’altro ha un suo corrispettivo sul piano sociale; perché cosa accade se la globalizzazione danneggia la politica? La globalizzazione, se è sradicamento, è caduta di memoria. L’identità invece fa vedere la memoria. Se io penso che la globalizzazione è sradicamento (che rompe la continuità interiore, che cancella la memoria), non crea più o mina l’appartenenza, cioè il senso del comune destino. In fondo la comunità si regge sulla memoria dei padri, riconosce il patrimonio storico, il sentirsi legati verso un comune futuro (destino). Se voi rompete tutto questo, si rompono gli elementi che finora sono stati alla base del costruirsi dell’identità sociale. Allora anche questo può essere un mezzo per prendere coscienza, anche se si fa fatica. Perché inevitabilmente tutto ciò che non dà una risposta a questa rottura, a questo orientamento – in modo particolare le politiche tradizionali e in parte le politiche ancora nazionali – mina evidentemente il senso e il significato della politica. Questo sul piano delle grandi linee di riferimento culturale e sociale, ma poi ci sono quelle personali. La dimensione delle persone in una società globale Cosa accade delle persone, dei soggetti, in una società globale? Due sono le interpretazioni, una ottimis tica e l’altra pessimistica. 5 • L’interpretazione ottimistica dice: in fondo se la globalizzazione significa arricchimento di opportunità allora le persone saranno più libere, capaci di essere maggiormente se stesse. C’è una lettura di prospettiva storica di tipo ottimistico che dice: pian piano che l’uomo passa da una dimensione rurale a quella nazionale e internazionale (intesa come Organizzazione Unite) aumentano i gradi di libertà, la capacità di essere libero, di esprimere una autonomia. Questo è un altro modo di leggere la globalizzazione, ma che ci sia questo aspetto probabilmente non verrà. • Però ci sono anche altri aspetti molto pessimistici; qualcuno dice: se la globalizzazione è frantumazione, allora che cosa accade? Aumentano ad esempio il numero delle appartenenze; uno si sente portato ad appartenere a più cose contemporaneamente. Oppure sceglie in fondo alla sua vita di appartenere ad “a” o “b” o “c”. Questo significa che l’appartenenza si indebolisce: quando facciamo una scelta non la si fa integralmente, ma in una prospettiva di reversibilità (volendo tornare indietro). Quindi è una concezione relativistica: non ci sono norme morali, ma norme modali. Cioè ciò che uno pensa lo fa come persona, allora diventa morale tutto ciò che una persona ritiene essere morale. Qualcuno con un pensiero un po’ forte, dice: le situazioni di frantumazione, di appartenere o meno, di nazionalizzazione e quant’altro comincia da qui; è un quid morale e culturale, è come “una marmellata”. Chiaramente è un discorso eccessivamente pessimista, che corrisponde all’esperienza che troviamo quando siamo di fronte a certe culture. La cosa drammatica è che gli amici che scrivono e dicono queste cose preferiscono non tenere presente questa frantumazione. Inoltre bisognerebbe capire se i giovani sono ancora così o se invece sono diversi. Ci troviamo di fronte ad un paradosso perché la persona che vive l’esperienza della globalizzazione riesce interpretarla con coscienza fino a quando le opportunità di coscienza sono tali e forti in quanto c’è una capacità di autonomia e di intelligenza, cosa che invece non accade con la “frantumazione”. Quindi c’è una sorta di circolo vizioso dentro cui la persona viene a trovarsi. • Qualcuno ha utilizzato l’immagine, per mostrare questa situazione di vantaggio e di svantaggio in cui si troverebbe la globalizzazione, della metafora del “viaggio”. Nella società industriale si andava in treno, si saliva sulla carrozza di 1a o 2a o 3a classe e uno sapeva dove andava perché il treno aveva le rotaie e le fermate delle stazioni, nel frattempo si poteva riposare, leggere, scrivere, stare insieme, si creava socialità, comunque non c’era la responsabilità della guida del treno. Oggi invece andiamo tutti in macchina, ma aumenta l’indipendenza e l’autonomia e quindi la responsabilità della guida e non abbiamo la possibilità di fare tutte le altre cose che si potevano fare restando in treno. Questo per dire semplicemente la condizione esistenziale: i rischi sono della dispersione di sé, la soggettività diventa qualche cosa che finisce con il disperdersi in micro opportunità che si presentano davanti e che non riusciamo ad afferrare. L’educazione della persona in una società globale • A questo punto la questione è questa: qual è il problema delle persone in una società globale? La riposta è molto semplice, forse banale, ma non si sono trovate altre risposte: bisogna aumentare la capacità di educazione. Così come la società complessa esige più funzione, la società globale esigerebbe più educazione. Qui intendo dell’ambiente che è deputato ad istruire ma anche a educare. Il problema è che educare è complicato, gli stessi educatori si trovano a dover agire in una società complessa, perché l’educazione non è un processo facile, può essere reso confuso da una situazione di calo di tensione morale. Per contro abbiamo un’immagine seppellita del luogo dell’università, quando si diceva che l’università doveva essere luogo di incivilimento. “Incivilire” è un termine che sta per inculturazione che è molto più facile in una società apparentemente stabile che va in treno, mentre è più complicato in una società che va in macchina Un abate alcuni secoli fa diceva agli studiosi: uno può insegnare per dimostrare agli altri che sa qualche cosa e questo sarebbe nient’altro che vanità; uno cerca di studiare per vendere il proprio sapere e questa non è una cosa bella; uno studia per conoscere se stesso, per essere prudente e capire le cose della vita; però ci potrebbe essere uno che ricerca e studia per edificare gli altri e questa è carità. A questo punto il discorso dovrebbe essere trasferito su un altro piano, di trasferire queste espressioni nelle complicate difficoltà dell’educare oggi. Se questa è la globalizzazione mi convinco sempre di più cosa significa fare opera di carità studiando, perché non appartiene a me il risolvere la situazione in difficoltà. Se consideriamo tutti i termini del problema, che abbiamo nei processi di globalizzazione, la questione che affrontiamo diventa tragicamente attuale se vogliamo riportare l’educazione ad un modello di efficienza, di efficacia, di comprensibilità, di capacità di comunicare se stesso, come maestro all’allievo. 6 • In un ambiente com’è il nostro oserei pensare e chiedere cosa può essere legalizzare una società globale – là dove la Chiesa Cattolica ha qualche vantaggio in più rispetto ad altri – perché la Chiesa Cattolica è una realtà globale fin dalle origini. Solo che tutto questo richiederebbe un ripensamento di tutte le incrostazioni o meglio le sedimentazioni che identificano la Chie sa come al capitalismo (così come i capitalisti italiani vengono legati al Vaticano). Se restano italiani o vaticani o europei perderanno la partita, perché vuole dire che non si metteranno in una prospettiva globale. Se ai cittadini sarà chiesto questo punto di vista, dovrebbero perdere quel tanto di monocentrismo che si è costruito nei secoli. Se la dimensione da recuperare è di una globalizzazione, allora potremmo supporre che non essere cattolici ci permetterebbe di entrare in questi processi, aprendo una prospettiva che non sempre riusciamo avere presente, non riusciamo capire quanto la globalizzazione, in un futuro non molto lontano, potrebbe diventare una regola. • Restando agli aspetti culturali, è proprio sulla capacità di riscoprire le ragioni dell’educazione che si dovrebbe poter colmare un rapporto educativo dentro un contesto globale. Prendendo atto delle contraddizioni e che tutto non è ancora delineato, però è anche vero che c’è tutto il mondo e il nostro ambiente di vita, quindi è l’oggi che viene a far parte di questo processo e può essere un elemento che catalizza. Questa è la globalizzazione: anziché essere un elemento che viene trascinato via, possiamo essere un soggetto che invece trascina a sua volta verso di sé, non un essere che sta con una corrente che va, ma è un essere dentro un sistema di relazioni dove di volta in volta, se ne siamo capaci, siamo noi che portiamo “trazione”. Questo è il dato più sconcertante ma anche più interessante della globalizzazione. Il progresso tecnico Dopodiché, dentro queste cose ci sta anche il progresso tecnico; il mondo dell’informatica è una grande opportunità, quindi i mezzi di globalizzazione di massa sono una parte importante della globalizzazione. Dobbiamo prendere consapevolezza di tutto questo, compreso le finanze che la governano. Perché la globalizzazione deve saper vedere; cosa che noi non riusciamo a cogliere ancora del tutto, ma che in qualche altra parte cominciano a percepire. Una di queste regole è questa: nella globalizzazione non esistono solo soggetti passivi, ma la globalizzazione è un gioco fra più soggetti (a volte uno tira l’altro e a volte accade il contrario). La qualità morale può diventare un fattore attraente e formidabile insieme con la qualità tecnologica, economica e sociale. La teologia e la globalizzazione Quindi è vero e mi sta bene quello che ho sentito dire in un ambiente finanziario assicurativo a proposito dell’Istituzione universitaria, riferito al fatto se conviene assicurarsi o produrre economia o cose di questo genere. L’Università Cattolica era diventata interessante agli occhi degli assicuratori inglesi perché esistono degli insegnamenti di “introduzione alla teologia” all’interno della normativa istituzionale. Mai più si pensava che ai tecnici interessasse la teologia. Mi pareva una cosa strana ma parecchio interessante che la preparazione di una classe dirigente e la ricerca di ogni sapere si accompagnasse ad un’attenzione alla dimensione teologica, e non soltanto etica o morale o ad una ricerca di senso. Questo dentro la globalizzazione è paradossalmente da tener presente rispetto alla qualità e al costo del prodotto. * Documento rilevato dalla registrazione, adattato al linguaggio scritto, non rivisto dall’autore. 7