AGONISMO : TRA VITTORIE E SCONFITTE Il desiderio di competere, gareggiare, di misurarsi con gli altri e con se stessi sembra essere una tendenza profonda, un bisogno antico che trova le sue radici nelle pulsioni aggressive e nella lotta per la sopravvivenza dei primi essere umani. Liotti, noto psichiatra e psicoterapeuta, ha individuato questo desiderio come appartenente ad un sistema motivazionale innato nell’uomo. In altre parole il sistema agonistico è presente nell’uomo fin dalla nascita ed ha lo scopo di determinare parte dell’assetto della relazione interpersonale poiché regola lo stabilirsi della gerarchia di rango sociale. Nella preistoria questo sistema è servito all’uomo per la sopravvivenza, in quanto gli ha permesso di mettere in atto strategie sul lungo periodo, tattiche focalizzate sul presente e operazioni utili alla sopravvivenza, tutto ciò per prevedere la situazione e non trovarsi disteso al suolo perché un animale feroce è riuscito a sorprenderlo. In molti ambiti della società moderna (non è esente la scuola) siamo spinti a competere e a primeggiare ed il contesto sportivo è quello che formalmente garantisce all’istinto la possibilità di gareggiare e quindi di esprimere l’insieme delle competenze necessarie, come progettare, affrontare e superare le sfide con se stessi, con gli altri e con l’ambiente circostante. In questo sono necessarie risorse personali di carattere psichico, fisico e tecnico in vista della meta che si deve raggiungere. Più specificamente sono necessari processi mentali quali il ragionamento logico, la capacità di formulare valutazioni, di definire obiettivi e perseguire uno scopo a lungo termine, utilizzando mezzi adeguati e correzioni lungo il percorso. Tutto questo per dire che L’agonismo non è qualcosa di estraneo all’uomo e soprattutto ai ragazzi anzi è una modalità espressiva, un modo di mettersi in relazione tra simili. Per questo è importante insegnare ai nostri figli che, in tutto ciò che facciamo, il confronto con qualcun altro è un modo per capire le proprie risorse e i propri limiti e per riadattarsi alla situazione. L’avversario non è un nemico da combattere ma una persona con cui confrontarsi. Appare evidente che da questi confronti si esce sconfitti o vincitori, a qualsiasi età, con le conseguenti emozioni di base che ne derivano: rabbia e tristezza per la sconfitta, felicità per la vittoria. ( Per emozioni di base si intendono emozioni appartenenti a tutte le culture fin dalla nascita. Queste emozioni fanno parte della natura umana e quindi tutte le persone le hanno potute esperire già in tenera età: parliamo della rabbia, della tristezza, del disgusto, della paura e della felicità.) La tristezza è l’emozione che ci segnala che abbiamo perso qualcosa, che non è più recuperabile, nello specifico del contesto sportivo non abbiamo raggiunto il nostro obiettivo, ad esempio la vittoria (con l’aggravante che la partita non può essere ripetuta). Nel momento in cui questa vittoria assume molta importanza o compromette un obiettivo più elevato, ad esempio una finale, la tristezza assumerà una gradazione maggiore. La rabbia si manifesta quando si valuta che si è verificato ciò che non “si sarebbe dovuto verificare”, quando l’evento è giudicato ingiustificato (cioè non meritato), intenzionale (cioè qualcuno volontariamente ha causato l’evento), prevedibile (cioè, lo si poteva prevenire e lo si “doveva” prevenire) e biasimevole (cioè i responsabili devono essere puniti). Lo scopo della rabbia è poter riaffermare se stessi. Atleta (x)----------------------obiettivo (es. vincere) (Y) Se X ottiene Y=felicità Se X non ottiene Y= tristezza Se X non ottiene Y ingiustamente=rabbia Queste emozioni vanno accettate e riconosciute a qualsiasi età in quanto le emozioni completano la natura umana e ci forniscono informazioni rispetto a ciò che è successo, a ciò che avremmo voluto succedesse e a ciò che possiamo fare per migliorare la situazione e conseguentemente raggiungere il nostro obiettivo. Non bisogna evitare che i giovani perdano o vincano, ma piuttosto che accettino la sconfitta o la vittoria come un fatto naturale della vita, come parte del gioco. (Julio Velasco) E’ evidente che la vittoria, la sconfitta e la classifica hanno un ruolo informativo fondamentale nella vita di uno sportivo ed è stato dimostrato che, se queste aspetti vengono enfatizzati, diventando l’elemento centrale di valutazione della prestazione, possono diventare una minaccia alla motivazione intrinseca e quindi aumentare la possibilità di abbandono dell’atleta o divenire una possibile minaccia psicologica per il giovane atleta. Vediamo nello specifico cosa significa insegnare ad accettare sconfitte e vittorie. La sconfitta, nel suo significato specifico, allontana l’individuo dalla soddisfazione del bisogno dell’atleta di sentirsi capace e competente. Così che un’attività caratterizzata da molteplici fallimenti genera nelle persone percezione di incompetenza ed emozioni secondarie come paura del fallimento, paura del giudizio degli altri o eccessiva rabbia ed invidia verso altri atleti o gruppi squadra. In realtà un messaggio da dare è che: non esistono fallimenti ma solo risultati e se il risultato non è quello sperato (non pensiamo solo alla vittoria ma anche alla valutazione della propria prestazione rispetto a ciò che ci si aspettava) occorre cambiare le azioni che lo hanno provocato. Ad esempio un genitore può sostenere un figlio insegnandoli ad andare sempre ad allenamento oppure un allenatore può dare fiducia alla squadra cercando di risolvere con l’allenamento le difficoltà emerse in partita. Questi 2 esempi danno un messaggio ai nostri figli/atleti che di fronte ad una sconfitta è possibile trovare una soluzione, ovviamente attraverso un’assunzione di responsabilità. Il messaggio è che esiste sempre un rapporto causale tra ciò che si fa nel presente e ciò che otterremo nel futuro. Così come la vittoria, se considerata solo il fine ultimo della prestazione rischia di compromettere la percezione di autoefficacia o autodeterminazione esaltando emozioni secondarie di orgoglio eccessivo, infallibilità ed onnipotenza. La vittoria testimonia il raggiungimento di un determinato livello di competenza e, dal momento che essa non dipende quasi mai esclusivamente da se stessi ma anche dal livello di abilità degli altri partecipanti alla competizione, è necessario contestualizzarla, rispetto alle competenze mostrate in gara. Ricordando, anche, che il risultato positivo è un premio o rinforzo positivo che ha un effetto a breve termine utile a controllare il comportamento nel presente ma che impedisce all’atleta di internalizzare o far proprie le attività premiate e che quindi gli può far perdere interesse nell’attività stessa. Questa è l’immagine dell’atleta vincente ma che fatica a concentrarsi (‘spesso si dice non ne ha voglia’)e quindi a migliorare la propria prestazione. Per questo, indipendentemente dal risultato, che rimane un feedback informativo molto forte, è sempre importante dare un riscontro all’atleta o al gruppo squadra di come si è giocato in funzione degli obiettivi proposti e dell’esecuzione delle componenti tecniche provate. Soprattutto nei giovani questo non può essere dato per scontato. Ovviamente per gli allenatori saranno obiettivi tecnico-tattici mentre per i genitori elaborazione di contenimento, condivisione e accettazione delle emozioni provate o individuazione di strategie comportamentali alternative. Concludendo Noi adulti abbiamo il compito di lasciar sperimentare a questi ragazzi le emozioni che derivano dalla voglia di confrontarsi con se stessi, gli altri e l’ambiente. Ovviamente questo confronto all’interno dell’ambito sportivo ha un contesto privilegiato perché guidato da regole e obiettivi sovraordinati. Queste SFIDE comportano vittorie e sconfitte e, conseguentemente, umane emozioni di felicità e tristezza, rabbia e tranquillità. Il riconoscimento e l’accettazione delle emozioni e della loro origine è utile per ampliare la nostra competenza Agonistica e per migliorare la percezione di autoefficacia dei Nostri Ragazzi.