Da “IL RISCHIO EDUCATIVO Come creazione di personalità e di storia” di Luigi Giussani Dall’Introduzione - Un'educazione critica L’idea fondamentale di una educazione rivolta ai giovani è il fatto che attraverso di essi si ricostruisce una società; perciò il grande problema della società è innanzitutto educare i giovani (il contrario di quello che avviene adesso). Il tema principale, per noi, in tutti i nostri discorsi, è l’educazione: come educarci, in che cosa consiste e come si svolge l’educazione, un’educazione che sia vera, cioè corrispondente all’umano. Educazione, dunque, dell’umano, dell’originale che è in noi, che in ognuno si flette in modo diverso, anche se, sostanzialmente e fondamentalmente, il cuore è sempre lo stesso. Infatti, nella varietà delle espressioni, delle culture e delle consuetudini, il cuore dell’uomo è uno: il cuore mio è il cuore tuo, ed è il medesimo cuore di chi vive lontano da noi, in altri Paesi o continenti. La prima preoccupazione di un’educazione vera e adeguata è quella di educare il cuore dell’uomo così come Dio l’ha fatto. La morale non è nient’altro che continuare l’atteggiamento in cui Dio crea l’uomo di fronte a tutte le cose e nel rapporto con esse, originalmente. Di tutto quello che si deve dire sull’educazione, a noi importano soltanto questi punti. 1. Per educare occorre proporre adeguatamente il passato. Senza questa proposta del passato, della conoscenza del passato, della tradizione, il giovane cresce cervellotico o scettico. Se niente propone di privilegiare un’ipotesi di lavoro, il giovane se la inventa, in modo cervellotico, oppure diviene scettico, molto più comodamente, perché non fa neanche la fatica di essere coerente all’ipotesi che si è presa. In Realtà e giovinezza. La sfida ho scritto: «È la tradizione consapevolmente abbracciata che offre una totalità di sguardo sulla realtà, offre una ipotesi di significato, un’immagine del destino ». Uno entra nel mondo con un’immagine del destino, con un’ipotesi di significato, che non è ancora svolta in libri: è il cuore, come dicevamo prima. «La tradizione, infatti — prosegue il testo —, è come un’ipotesi di lavoro con cui la natura butto l’uomo nel paragone con tutte le cose» [1]. 2. Seconda urgenza: il passato può essere proposto ai giovani solo se è presente dentro un vissuto presente che ne sottolinei la corrispondenza con le esigenze ultime del cuore. Vale a dire: dentro un vissuto presente che ne dia le ragioni di sé. Solo questo vissuto può proporre ed ha il diritto e il dovere di proporre la tradizione, il passato. Ma se il passato non appare, se non è proposto dentro un vissuto presente che cerchi di dare le proprie ragioni, non si può neanche ottenere la terza cosa necessaria all’educazione: la critica. 3. La vera educazione deve essere un’educazione alla critica. Fino a dieci anni (adesso anche prima), il bambino può ripetere ancora: «L’ha detto la signora maestra, l’ha detto la mamma». Perché? Perché, per natura, chi ama il bambino mette nel suo sacco, sulle spalle, quello che di meglio ha vissuto nella vita, quello che di meglio ha scelto nella vita. Ma, ad un certo punto, la natura dà al bambino, a chi era bambino, l’istinto di prendere il sacco e di metterselo davanti agli occhi (in greco si dice pro-bállo, da cui deriva l’italiano «problema»). Deve dunque diventare problema quello che ci hanno detto! Se non diventa problema, non diventerà mai maturo e lo si abbandonerà irrazionalmente o lo si terrà irrazionalmente. Portato il sacco davanti agli occhi, ci si rovista dentro. Sempre in greco, questo «rovistarci dentro» si dice krinein, krísis, da cui deriva «critica». La critica, perciò, consiste nel rendersi ragione delle cose, non ha un senso necessariamente negativo. Dunque, il giovane rovista dentro il sacco e con questa critica paragona quel che vede dentro, cioè quel che gli ha messo sulle spalle la tradizione, con i desideri del suo cuore: il criterio ultimo del giudizio, infatti, è in noi, altrimenti siamo alienati. Ed il criterio ultimo, che è in ciascuno di noi, è identico: è esigenza di vero, di bello, di buono. Al di qua o attraverso tutte le differenze possibili e immaginabili con cui la fantasia può giocare su queste esigenze, queste fondamentalmente rimangono identiche nelle mosse, anche se diverse per i connotati vari delle circostanza dell’esperienza. La nostra insistenza è sull’educazione critica: il ragazzo riceve dal passato attraverso un vissuto presente in cui si imbatte, che gli propone quel passato e gliene dà le ragioni; ma egli deve prendere questo passato e queste ragioni, mettersele davanti agli occhi, paragonarle con il proprio cuore e dire: «è vero», «non è vero», «dubito». È così, con l’aiuto di una compagnia (senza questa compagnia l’uomo è troppo alla mercé delle tempeste del suo cuore, nel senso non buono e istintivo del termine), può dire: «Sì» oppure «No». Così facendo, prende la sua fisionomia d’uomo. Abbiamo avuto troppa paura di questa critica, veramente. Oppure, chi non ne ha avuto paura, l’ha applicata senza sapere che cosa fosse, non l’ha applicata bene. La critica è stata ridotta a negatività, per ciò stesso che un fa problema di una cosa che gli è stata detta. Io ti dico una cosa: porre un interrogativo su questa cosa, domandarsi: «è vero?», è diventato uguale a dubitarne. L’identità tra problema e dubbio è il disastro della coscienza della gioventù. Il dubbio è il termine di un’indagine (provvisorio o no, non so), ma il problema è l’invito a capire ciò che ho davanti, a scoprire un bene nuovo, una verità nuova, cioè ad averne una soddisfazione più carica e più matura. Senza uno di questi fattori: tradizione, vissuto presente che propone e dà le ragioni, critica — come ringrazio mio padre di avermi abituato a chiedere le ragioni di ogni cosa, quando, tutte le sere prima di addormentarsi, mi ripeteva: «Ti devi chiedere il perché. Chiediti il perché» (lui lo diceva per ben altri motivi!) — il giovane è foglia frale lungi dal proprio ramo («Dove vai tu?» diceva Leopardi [2]), vittima del vento dominante, della sua mutevolezza, vittima di un’opinione pubblica generale creata dal potere reale. Noi vogliamo - e questo è il nostro scopo - liberare i giovani: liberare i giovani dalla schiavitù mentale, dalla omologazione che rende schiavi mentalmente degli altri. [...] [1] L. Giussani, Realtà e giovinezza. La sfida, SEI, Torino 1995, p. 165. [2] G. Leopardi, «Imitazione» in Canti, Garzanti, Milano 1975, pp. 325-327. Dal Capitolo primo - Dinamica e fattori dell'avvenimento educativo I. Osservazioni preliminari Due osservazioni preliminari potranno essere immediatamente rivelatrici delle idee svolte in seguito, e quindi guida a meglio comprendere il contenuto. Prima premessa «Eine Einführung in die Wirklichkeit », introduzione nella realtà,1 ecco cosa è l'educazione. La parola «realtà» sta alla parola «educazione» come la meta sta ad un cammino. La meta è tutto il significato dell'andare umano: essa è non solo nel momento in cui l'impresa si compie e termina, ma anche in ogni passo della strada. Così la realtà determina integralmente il movimento educativo passo passo e ne è il compimento. «Eine Einführung in die Gesamtwirklichkeit», introduzione alla realtà totale: così lo Jungmann precisa la sua definizione. Ed è interessante notare il duplice valore di quel «totale»: educazione significherà infatti lo sviluppo di tutte le strutture di un individuo fino alla loro realizzazione integrale, e nello stesso tempo l'affermazione di tutte le possibilità di connessione attiva di quelle strutture con tutta la realtà. Lo stesso identico fenomeno, cioè, attuerà e una totalità di dimensioni costitutive dell'individuo e una totalità di rapporti ambientali. La linea educativa è così innegabilmente segnata in tutto il suo dinamismo essenziale: nelle sue prospettive, nelle sue modalità, nella sua trama di connessioni. La realtà la condiziona e la domina la condiziona dalle origini e la domina come fine. Qualunque pedagogia, che conservi un minimo di lealtà con l'evidenza, deve riconoscere e in qualche modo attendere a questa «realtà». Possiamo senz'altro dire che un'educazione ha tanto più valore quanto più obbedisce a questa realtà, quanto più cioè suggerisce attenzione ad essa, ne rispetta le pur minime indicazioni, in primo luogo l'originale necessità di dipendenza e la pazienza evolutrice. Seconda premessa Codesto realismo pedagogico si specifica subito nel seguente modo: la realtà non è mai veramente affermata, se non è affermata l'esistenza del suo significato.2 Un significato per la realtà totale sottende allora il processo dell'educazione: di esso si imbeve la coscienza dell'individuo nel primo stadio della sua introduzione al reale; di esso si rende conto, sperimentandone la consistenza, la coscienza dell'adolescente; esso instancabilmente persegue, o abbandona per una più radicale significanza, la coscienza matura dell'uomo adulto. [...] III. L'autorità: esistenzialità di una proposta I punti in cui la tradizione è più cosciente sono i responsabili ultimi dell'educazione dell'adolescente, il «luogo dell'ipotesi» per lui. È questo il concetto autentico di autorità («auctoritas», «ciò che fa crescere»). L'esperienza dell'autorità sorge in noi come incontro con una persona ricca di coscienza della realtà; così che essa si impone a noi come rivelatrice, ci genera novità, stupore, rispetto. C'è in essa un'attrattiva inevitabile, ed in noi una inevitabile soggezione. L'esperienza dell'autorità richiama infatti l'esperienza, più o meno chiara, della nostra indigenza e del nostro limite. Ciò porta a seguirla e a farci suoi «discepoli». Ma se nell'adulto questa autorità è riconosciuta e scelta dalla matura responsabilità di un confronto, nelle età precedenti essa è fissata dalla natura stessa nella «realtà originatrice» dell'individuo. La genuina rivelazione della vita e la genuina verità stanno nello sviluppo della dipendenza da questa realtà «autorevole». Per quanto abbiamo detto, l'autorità è l'espressione concreta della ipotesi di lavoro, è quel criterio di sperimentazione dei valori che la tradizione mi dà; l'autorità è l'espressione della convivenza in cui si origina la mia esistenza. L'autorità in un certo modo è il mio «io» più vero. Spesso invece oggi l'autorità si propone ed è sentita come qualcosa di estraneo, che «si aggiunge» all'individuo. L'autorità resta fuori della coscienza, anche se magari è un limite devotamente accettato. La funzione educatrice di una vera autorità si configura precisamente come «funzione di coerenza»: una continuità di richiamo ai valori ultimi ed all'impegno della coscienza con essi; un permanente criterio di giudizio su tutta la realtà; una salvaguardia stabile del nesso sempre nuovo tra i mutevoli atteggiamenti del giovane ed il senso ultimo totale della realtà. Dall'esperienza dell'autorità nasce quella della coerenza. Coerenza è stabilità efficiente nel tempo, è continuità di vita. In un fenomeno pazientemente evolutivo come quello dell'«introduzione alla realtà totale», la coerenza è fattore indispensabile. Una certezza originaria che non potesse continuare a riproporsi nella coerenza di una evoluzione, finirebbe con l'essere sentita astratta, un dato fatalmente subito, ma non vitalmente sviluppato. Senza la compagnia di una vera autorità ogni «ipotesi» rimarrebbe tale, ci sarebbe solo una cristallizzazione - oppure ogni iniziativa successiva rinvierebbe in nulla l'ipotesi originaria. D'altro canto, la coerenza, se è la presenza continua di un senso totale della realtà, al di là di ogni «gusto» momentaneo e «parere» capriccioso dell'individuo, è potente educazione alla dipendenza dal reale. Autorità innanzitutto, ne siano coscienti o non lo siano, sono i genitori. La loro funzione è originatrice; per il fatto stesso di essere tale, essa è di immissione in un modo di concepire la realtà, in un flusso di pensiero e di civiltà. La loro autorevolezza, inevitabile, è un fatto, ed una responsabilità. Tale fatto può venire da loro stessi misconosciuto, ma rimane. Essi rappresentano nella vita dell'adolescente la permanente coerenza dell'origine con se stessa, la dipendenza continua da un senso totale della realtà, che precede ed eccede da ogni parte il beneplacito dell'individuo. Questa naturale funzione del richiamo continuo e coerente al senso ultimo di ogni cosa è nel Cristianesimo valorizzata al massimo dalla Chiesa («madre» di tutti i credenti). Essa rappresenta nel suo ambito più vasto e comprensivo la continua sorgente dell'ipotesi in cui i genitori cristiani generano i figli. Genitori e Chiesa sono per il Cristianesimo la garanzia ultima della coerenza necessaria ad ogni educazione. Autorità è chiaramente anche la scuola in quanto si pone come prosecuzione e sviluppo dell'educazione data dalla famiglia. È strano che si sia pretesa scuola ideale quella in cui la funzione dell'insegnamento sarebbe quasi attuabile da un magnetofono: si strappa al rapporto insegnantediscepolo ciò che di più caratteristicamente umano vi si trova, l'apporto propriamente umano, la genialità del maestro. In una scuola agnostica o «neutra» la mancata offerta di un significato fa sì che l'insegnante non sia più «maestro», e porta l'alunno ad erigersi a maestro di se stesso e a codificare le impressioni e le reazioni contingenti, con quella diffusa presuntuosità colma di impertinenza e di chiusi pregiudizi che sì spesso oggi sviliscono la schiettezza e l'apertura propria della giovinezza. [...] IV. Verifica personale dell'ipotesi educativa 1. Sua necessità Per rispondere in modo adeguato alle esigenze educative dell'adolescenza non basta proporre con chiarezza un significato delle cose, né basta una intensità di reale autorità in chi lo propone. Occorre suscitare nell'adolescente personale impegno con la propria origine; occorre che l'offerta tradizionale sia verificata; e ciò può essere fatto solo dall'iniziativa del ragazzo e da nessun altro per lui. Una delle caratteristiche più gravi di una personalità è la «forza della convinzione»: il flusso creativo, l'apporto costruttivo di una personalità dipende da essa, come continuità e solidità. Ora, la convinzione deriva dal fatto che l'idea abbracciata o ricevuta viene scoperta in connessione vitale con le proprie situazioni, pertinente alle proprie esigenze e progetti. La convinzione sorge come una verifica in cui l'idea o la visione di partenza si dimostra chiave di volta per tutti gli incontri, profondamente riferita a ciò che si vive, e quindi luce risolutiva per le esperienze. Tutta la propria realtà personale si trova in corrispondenza con quell'idea originaria, che fungeva inconsapevolmente da ipotesi, a cui tutto l'essere dell'uomo viene fatto devoto dalla sua validità via via sperimentata. Proprio perché è decisa nel proporre una visione delle cose, l'educazione vera ha supremo interesse che il giovane si educhi ad un paragone continuo non solo con le posizioni altrui, ma anche e soprattutto fra tutto ciò che gli capita e quell'idea offertagli («tràdita»). L'urgenza di questa sperimentazione personale implica una sollecitazione instancabile alla personale «responsabilità» del giovane; perché se l'idea è proposta e una collaborazione offerta dall'educatore, è solo un consapevole impegno del singolo che ne realizzerà il valore e ne sorprenderà la esistenziale validità. [...] 3. Sue «dimensioni» Un problema ancora potremmo affrontare: come suscitare l'energia, come provocare quell'impegno di verifica dal quale solo nasce la convinzione? [...] C'è un facile equivoco possibile in una insistenza prevalente sulla «forza di volontà». È l'equivoco che nasce quando tale insistenza blocca la coscienza in rilievi analitici, isolando singoli doveri o singoli valori dal contesto totale - o «ideale» -; oppure facendo centri d'attenzione l'osservazione magari scrupolosa - di minuti problemi, sentimenti, stati d'animo, tentativi e sforzi, ecc. Si corre il grave rischio di dimenticare che l'uomo si rassegna al particolare esclusivamente se quel particolare a lui si palesa come realizzazione di un universale. Soltanto il grande, soltanto il totale, soltanto il sintetico animano l'energia umana nell'affronto del minuto e del quotidiano. L'ascetica stessa logora se non è tutta informata da un fine spazioso, veramente degno degli orizzonti umani. Occorre lanciare l'adolescente «fuori di sé» verso orizzonti sintetici e definitivi. Pio XII ha detto che le prospettive universali della Chiesa sono le direttive normali del cristiano.8 Quei contesti totali, quegli «ideali» chiamiamo «dimensioni». Ognuna di esse costituisce un aspetto di quella apertura verso l'orizzonte totale che è propria di ogni umana azione. Tali dimensioni dell'animo dell'adolescente, per le quali solamente è giusto rivolgere un adeguato richiamo di impegno, sono così brevemente definibili: a) L'esigenza di una spiegazione totale della realtà (dimensione culturale nel senso più completo). Motivo per impegnarsi a verificare l'ipotesi educativa deve essere che essa si propone come totale spiegazione di tutto, senso ultimo della vita, del mondo e della storia. Ogni scetticismo ed enciclopedismo per cui la cultura sia solamente congerie di materiali incapace di una vitale spiegazione di ogni brano di realtà; ogni conseguente fideismo per cui la religione e la fede siano «al di fuori» di una «cultura» così definita, incapaci di rendere conto di ogni realtà o problema che emerga, lasceranno il giovane giustamente freddo, se non ostile. b) L'esigenza di una radicalità assoluta nell'amore (dimensione della carità nel suo senso più genuino). Amare è innanzitutto un modo di concepire sé; concepire sé come «convivenza», come ontologicamente legato al tutto. Lo stesso gesto che crea me, crea tutto: per cui tutto è parte della mia esistenza. Il Cristianesimo rende misterioso conto di questo fatto: l'origine dell'essere, il Dio, è convivenza (Trinità). Amore perciò non è innanzitutto un «sentimento», non è un «gusto» né è un «dare» che non sia il dare sé: è concepirsi e accettarsi come unione; ciò sia ben chiaro nel richiamo che si lancia. L'adolescente va richiamato ad una purezza totale di motivi. Specialmente certo sentimentalismo, molto in voga nel sollecitare il giovane, è sentito da lui come artificiosità, non-essenzialità, non motivo. c) L'esigenza di una totalità di orizzonti cui la propria umanità sia richiamata ad aderire (dimensione missionaria). Che la misura di amare sia amare senza misura non è solo frase famosa, ma assioma chiaro. La carità è una legge senza confini, universale; perciò cattolica. In questa legge, porre un limite non è limitarla, ma abrogarla. Occorre meditare che il richiamo cristiano è prima di tutto conquista del mondo nel senso evangelico: il Regno. Avere il senso del Regno significa avere il senso missionario. Dobbiamo vivere per l'universo, per l'umanità intera. Limitare l'ambito del condividere, così come l'esistenza ce ne dà possibilità, è rinnegare se stessi - è peccato (cioè « difetto », che nella sua origine latina vuol dire «venir meno, mancare» di qualcosa). Viene in mente il detto del Signore: «chi fa il peccato è uno schiavo».9 Limitare, infatti, la propria apertura di convivenza è cercare di imporre una propria misura alla legge profonda dell'essere, è confondere l'amore con il calcolo, è scambiare il condividere con un tentativo di dominio. L'illimitatezza è la sola risposta possibile per la sete di cui l'uomo adulto suo malgrado, l'adolescente per esigenza urgente e vissuta sono preda. V. Il rischio, necessario alla libertà Scopo della educazione è quello di formare un uomo nuovo; perciò i fattori attivi della educazione debbono tendere a far sì che l'educando agisca sempre più da sé, e sempre più da sé affronti l'ambiente. Occorrerà quindi da un lato metterlo sempre più a contatto con tutti i fattori dell'ambiente, dall'altro lasciargli sempre più la responsabilità della scelta, seguendo una linea evolutiva determinata dalla coscienza che il ragazzo dovrà essere capace di «far da sé» di fronte a tutto. Il metodo educativo di guidare l'adolescente all'incontro personale e sempre più autonomo con tutta la realtà che lo circonda, va tanto più applicato, quanto più il ragazzo si fa adulto. L'equilibrio dell'educatore svela qui la sua definitiva importanza. L'evolversi infatti dell'autonomia del ragazzo rappresenta per l'intelligenza e il cuore - e anche per l'amor proprio - dell'educatore un «rischio». D'altra parte è proprio dal rischio del confronto che si genera nel giovane una sua personalità nel rapporto con tutte le cose — che la sua libertà cioè «diviene». L'appello alla tradizione può essere formulato in varia guisa, ma deve essere ben chiaro che il vero concetto di tradizione è quello di rappresentare valori da riscoprire in nuove esperienze. Se la storia e l'esistenza sono veicoli di valori da riscoprire in novità di esperienze, chi deve compiere tale scoperta? Il padre? Il maestro? No: perché in tal caso si tratterebbe di tradizionalismo. L'esperienza deve farla il giovane stesso, perché questo rappresenta l'avverarsi della sua libertà. E questo amore alla libertà fin nel rischio è soprattutto una direttiva che l'educazione deve tenere presente. È stato scritto: «Solo i codardi chiedono al mattino della battaglia il calcolo delle probabilità della vittoria. I forti e i costanti non soglion chiedere quanto fortemente né quanto a lungo, ma come e dove abbiano a combattere. Non hanno bisogno se non di sapere per quale via e a quale scopo, e sperano poi, ed operano, e combattono, e soffrono ivi fino alla fine della giornata, lasciando a Dio gli adempimenti».10 A Dio, al mistero dell'Essere, a quella Misura che ci ha fatti, che ci eccede da tutte le parti e che non è da noi misurabile, è a Questo che l'amore dell'educatore deve affidare lo spazio sempre più grande delle imprevedibili vie che la libertà dell'uomo nuovo apre nel dialogo con l'universo. Anche per l'opera educativa è necessario tener presente sempre che quanto più l'impegno è umano, tanto più la sua fisionomia deve essere un tentativo umile, illuminato dalla speranza di un grazioso incontro con una forza e un ordine che non sono in nostro potere. Una educazione totalmente «autonomistica» lascia il giovane in preda ai suoi gusti, alla sua istintività, effettivamente privo di un criterio evolutivo, ma una educazione dominata dalla paura di un confronto dell'adolescente con il mondo, e mirante solo a preservarlo dall'urto, ne fa un essere a volta a volta incapace di personalità nei rapporti col reale, o ribelle e squilibrato in potenza. Qui emerge penosamente chiaro il caso di molti educatori (famiglie e scuole) il cui supremo ideale pare sia di non rischiare assolutamente nulla. Il metodo invece educativamente più capace di bene, non è quello che vive di fuga dalla realtà per affermare separatamente il bene, ma quello che vive della promozione della vittoria del bene nel mondo. «Nel mondo» significa nel confronto con la realtà intera, confronto «rischioso», se così lo si vuol chiamare; ma meglio si direbbe «impegnativo». Il separare l'adolescente dal mondo, o anche il non aiutarlo e guidarlo nel confronto col mondo, è causare per la coscienza viva di certi giovani, la scoperta amara della inesistenza di una adeguata direttiva per la vittoria del bene sul male. Certo occorre che l'educazione sia consapevole e coraggiosa di fronte alle sue implicazioni. Ispirare ad un'ideologia l'insegnamento, senza che il ragazzo sia aiutato ad un libero impegno concreto e pratico con quella, produrrà curiosità culturale, se l'ideologia è ben proposta, e lascerà solo stima razionale; ma la sua traduzione nella vita sarà per i più quella di un tradizionalismo sentimentale, che quella stima varrà a custodire, ma non a tonificare in convinzione. Una educazione che accetti con vigilanza il rischio della libertà dell'adolescente è reale sorgente di fedeltà e di devozione cosciente all'ipotesi proposta e a chi la propone. La figura del «maestro», proprio per questa discrezione e rispetto, in un certo vero senso si ritira dietro la figura dominatrice della Verità Unica cui si ispira; il suo insegnamento e la sua direttiva diventano dono di testimonianza, e proprio per questo si iscrive nella memoria del discepolo con una simpatia acuta e sincera, indipendente - nel suo livello più profondo - dalle stesse sue doti. Per cui abbiamo una gratitudine ed un legame ineliminabile al maestro, e pure una convinzione indipendentemente da esso. VI. Conclusione Si potrebbe dire, riepilogando, che nel momento educativo dell'adolescenza, «età di verifica», le grandi linee metodologiche da tenere siano le seguenti: la posizione precisa di una ipotesi di senso totale della realtà (è l'offerta della «tradizione»), unica condizione di certezza per l'adolescente; la presenza di una ben precisa e reale autorità, «luogo» di tale ipotesi, unica condizione di coerenza nel fenomeno educativo; la sollecitazione del giovane ad un impegno personale di verifica dell'ipotesi in tutta la sua esperienza, unica condizione di una reale convinzione; l'accettazione del crescente, equilibrato rischio del confronto autonomo tra l'ipotesi e la realtà nella coscienza dell'adolescente, unica condizione per la maturità della sua libertà. Al termine del processo educativo che abbiamo tentato di esaminare nelle sue direttive di fondo, l'adolescente si avvia alla fase matura della gioventù: la famiglia e la scuola debbono avere ormai svolto l'essenza del loro compito formativo, devono avere messo il giovane nella condizione di fare oramai il cammino con le proprie energie. Lentamente, in un processo che solo una genialità assai attenta avrà potuto seguire ed impostare senza ritardi e forzature, l'educatore si è distaccato sempre più dal discepolo, sollecitandolo sempre più ad un impegno ed a un giudizio personali; lo ha introdotto nella realtà totale, dandogli il vivo senso della dipendenza da quella realtà e dal suo significato ultimo. Ora tocca al giovane proseguire la ricerca, non scetticamente, ma nella salda convinzione della positività delle cose e dell'esistenza della loro spiegazione. Ha forse l'educatore finito qui il suo compito? Il giovane, così capace di affrontare da solo il mondo che lo circonda, si deve forse isolare, nella convinzione di non avere più nulla a che fare con alcun altro? Ovviamente no. È invece l'inizio di un cammino nuovo, e proprio nella sua novità sta la ragione di un maggiore nesso. Ora educato ed educatore sono due uomini, sono due fra gli uomini: è il tempo di quella compagnia matura e forte che lega coloro che vivono una stessa esperienza del mondo, che incontrano il richiamo dell'essere in ogni istante del loro cammino; è il tempo in cui si lavora insieme, fianco a fianco, per un destino che tutti riunisce. L'«introduzione» alla realtà totale rivela qui la sua ultima valenza: quella di educazione operata dagli uomini più generosi e geniali per introdurre ad un'altra, più perfetta e dilatante educazione. In questa nuova fase «unus est Magister vester», il mistero stesso dell'Essere, di cui l'adolescenza ci ha resi meravigliosamente, consapevolmente devoti. Si avrà allora il miracolo altrimenti inattingibile di una vita che, passando, avanza in giovinezza, in «educabilità», in «stupore» e commozione di fronte alle cose; di una energia creatrice che cresce su di sé senza disperdersi e logorarsi, ma aderendo cordialissimamente a tutte le possibilità che l'esistenza produce; un tempo, insomma, che si lascia invadere dalla potenza dell'eterno, e ne viene instancabilmente fecondato. 1. J. A. Jungmann, S.J., Christus als Mittelpunkt religióser Erziehung, Freiburg I. B. 1939, p. 20. 2. Cfr. C.G. Jung, II problema dell'inconscio nella psicologia moderna, Einaudi, Torino 1959, p. 212. 8. «Le prospettive universali della Chiesa saranno le prospettive normali della sua vita cristiana»: Pio XII, Enciclica «Fidei Donum» 21 aprile 1957: A.A.S. 49 (1957), 238. 9. Gv 8,34. 10. C. Balbo, Le speranze d'Italia, UTET, Torino 1925, p.272.