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LA TERAPIA OCCUPAZIONALE A LA NOSTRA FAMIGLIA
A. Pellegri
Il CD contiene la documentazione dell’attività nel settore della T.O. negli anni ‘60
Documentando con foto, filmati, commenti quello che è stato fatto nel settore della T.O. a partire dagli anni ’60, Rosetta Spreafico ci ha dato la possibilità di: • riflettere sia sull’attività sia sui principi che la sostengono
• analizzare l’evoluzione del pensiero riabilitativo in rapporto all’esperienza
• esercitare una critica costruttiva sui processi e sui risultati
Il materiale raccolto dalla Spreafico ci permette quindi di formulare una serie di considerazioni che possono rappresentare un utile riferimento per i terapisti della T.O.
Quando è iniziata l’attività nel Centro “Villa Pavoni” i bambini erano ospitati a tempo pieno e nella medesima struttura vivevano anche terapisti, educatori, insegnanti. Tutti questi operatori condividevano pertanto con i bambini non solo gli spazi della riabilitazione, ma anche quelli di vita quotidiana e di tempo libero. Pur presentando limiti oggettivi, di cui oggi siamo consapevoli, una situazione di questo tipo facilitava l’approccio al bambino come persona e non solo come “paziente”: ne derivava con immediatezza il principio che l’obiettivo primario del trattamento dovesse consistere nel mettere il bambino in condizione di sviluppare al meglio tutte le proprie potenzialità.
In quanto al metodo migliore per centrare tale obiettivo si constatava che il “fare” è la strategia più efficace per motivare i bambini ad osare, a superare le proprie difficoltà, a diventare autonomi, a rendersi utili per quanto possibile, a sentirsi capaci e quindi accrescere la propria autostima.
Viceversa, il “fare per loro” è una tentazione che genitori ed operatori devono evitare, perché impedisce di far emergere le potenzialità dei bambini e di valorizzare i risultati del loro impegno.
La T.O., che per definizione si fonda sul “fare”, ha quindi assunto un ruolo essenziale nel contesto degli apporti destinati a far emergere le potenzialità e le risorse individuali, a prescindere dalla gravità del quadro clinico, e a sviluppare funzionalità.
Sviluppare funzionalità significa favorire la strutturazione degli schemi prassici necessari alla cura di sé nella vita quotidiana, all’espressività e alla costruzione di oggetti utili e significativi. D’altro canto, affinchè gli schemi prassici si evolvano è necessario apportare afferenze specifiche al cervello compromesso da una patologia, utilizzando le conoscenze neurofisiologiche disponibili come supporto scientifico del trattamento.
Presso il Centro di Ponte Lambro è stato quindi costruito molto materiale adatto a stimolare le senso­percezioni e ogni tipo di presa utile alla funzionalità.
Rivedendo oggi i filmati dei primi anni di attività ci rendiamo conto del fatto che veniva attuato un tipo di trattamento preciso e analitico, ma si commetteva spesso l’errore di sollecitare le senso­
percezioni tramite il movimento passivo.
Oggi sappiamo invece che in tutte le tecniche di stimolazioni applicate all’apparato sensoriale, al movimento ed alla sensibilità profonda \il punto critico è verificare il livello di attenzione e partecipazione consapevole del paziente, soprattutto se si tratta di un bambino.
Per verificare l’utilità dell’esercizio occorre valutare la produzione spontanea dell’atto, che deve entrare a far parte del patrimonio prassico del bambino: se ciò non avviene il paziente non ottiene vantaggi funzionali, pur potendo beneficiare del contatto con il terapista per quanto concerne la relazionalità e il benessere psichico. Ne è una riprova la testimonianza di molti bambini di allora 2
che, diventati adulti, conservano un vivo ricordo della relazione affettiva costruita in molti anni di vita vissuta con le “loro” terapiste ma, al tempo stesso, si dimostrano critici nei confronti della “protettività” di un luogo in cui si provvedeva a tutte le loro esigenze.
Ciò dimostra che l’autonomia è una conquista sofferta, giocata sulla propria pelle nel confronto con i coetanei normodotati per i quali diventare autonomi e abili è un dono e non il frutto di un paziente e faticoso addestramento.
Il confronto è diventato inevitabile con la legge del 1975 sull’inserimento nelle scuole normali dei bambini disabili, che ha comportato per questi ultimi la possibilità di riconoscersi come risorsa per un mondo di “normali” in cui sono sempre meno presenti valori come “tenacia, impegno, resistenza alla fatica, volontà, gioia per la riuscita”, costringendoli però a un adattamento faticoso e impegnativo.
Nello stesso periodo scuola e famiglia sono state sollecitate al cambiamento.
In particolare è stata chiamata in causa la famiglia, che in precedenza rimaneva esclusa dal coinvolgimento nel progetto educativo sia perché le strutture riabilitative erano il più delle volte molto lontane dai luoghi di residenza sia perchè nei confronti delle strutture stesse veniva operata una delega che si traduceva nella presa in carico totale del bambino. Oggi si è invece affermato il concetto di “continuità”, che consiste nel coinvolgimento della famiglia e della scuola nel progetto educativo e riabilitativo. Di questo progetto la Terapia Occupazionale fa parte a pieno titolo se tutti si impegnano a trasferire i risultati del trattamento dal contesto della riabilitazione alla vita quotidiana del paziente. In questa prospettiva la Terapia Occupazionale non è solo un intervento terapeutico, ma anche e soprattutto un’idea, una forma mentis, un modo di “dar senso” a ciò che si fa.
Questa convinzione ci ha indotto a integrare il tempo destinato all’intervento diretto sul paziente con quello dedicato alla formazione di ogni persona che vive con lui, allo scopo di garantire una effettiva continuità del progetto abilitativo­riabilitativo.