Fausto Biloslavo
Nelle galere comuniste di Kabul canticchiavo “Avanti ragazzi di Budapest dedicata
alla rivolta dei giovani ungheresi contro i carri armati sovietici, per farmi coraggio.
Dopo un lungo reportage con i mujaheddin, i partigiani afghani che combattevano gli
invasori dell’Armata rossa, ero stato catturato dai governativi filo russi. Correva
l’anno 1987. Altri tempi, quando il crollo del Muro di Berlino sembrava ancora un
miraggio. Durante i sette mesi di galera nelle segrete della capitale afghana, vere e
proprie catacombe moderne, ne sono venute fuori di tutti i colori. Comprese le
indiscrezioni più disparate sulla mia liberazione, data sempre per imminente, ma che
non arrivava mai. Ad un certo punto un giornale tedesco aveva sparato una clamorosa
notizia: mi avrebbero scambiato con una spia sovietica catturata oltreoceano. Lo
scambio, come da copione della guerra fredda, sarebbe avvenuto al famoso
checkpoint Charlie, uno dei valichi fra Berlino Est ed Ovest. La bizzarra idea fu
scartata perché non ero una spia, ma un giornalista. Peccato: avrebbe fatto una bella
figura nella carrellata di ricordi avventurosi di una vita in prima linea.
Alla fine ci pensò Francesco Cossiga, allora presidente picconatore, a tirarmi fuori
dai guai chiedendo a Kabul che mi liberassero. Due anni dopo l’Armata rossa si
ritirava dall’Afghanistan. La sconfitta sovietica era solo l’inizio della fine: prima
toccò al Muro e poi all’Urss sparire per sempre.
La fine del comunismo totalitario in Europa si fece sentire con una forza dirompente
nei Balcani. Mai avrei pensato di prendere la mia scassata Polo targata Ts e
ritrovarmi in poche ore di macchina sul fronte di una guerra spietata. La dissoluzione
della Yugoslavia è durata un decennio. Un travaglio sanguinoso dalla battaglia di
Vukovar, la Stalingrado croata, all’assedio di Sarajevo, fino alla guerra per il Kosovo.
La pentola a pressione inventata dal maresciallo Tito per tenere assieme una buona
fetta dei popoli balcanici non reggeva più. Il vento di libertà che ad Est soffiava
tumultuoso nell’indimenticabile 1989, poco dopo ha innescato la fine della
Yugoslavia socialista. I moti indipendentisti erano un passo verso il futuro, ma allo
stesso tempo un ritorno al passato. Nel Natale del 1992 Sarajevo sbrecciata dalle
cannonate ti accoglieva con una scritta terribile e veritiera: “Benvenuti all’inferno”.
Prima di sfidare i cecchini sul viale dedicato a Tito Sono incappato in un posto di
blocco di miliziani croati. Troppo giovani per aver vissuto le tragedia della seconda
guerra mondiale. Eppure si erano rasati a zero lasciando solo una striscia di capelli a
forma di U, come ustascia. Le milizie fedeli al Terzo Reich che prima del 1945
comandavano a Zagabria sterminando i serbi. Non solo: alcune unità dei difensori
bosniaci di Sarajevo si rifacevano alla SS musulmane della seconda guerra mondiale.
E dall’altra parte della barricata era uguale. Dopo una notte di guerra alle porte della
città martire, i razzi illuminanti e le esplosioni delle granate di mortaio avevano
lasciato il posto alla nebbia dell’alba. Dal nulla è spuntato un serbo, armato
malamente, con la bustina dei cetnici calcata sulla testa e l’antico simbolo della
dinastia Karajeorjevic. La monarchia yugoslava che ispirò i partigiani anticomunisti,
che hanno combattuto contro i tedeschi di Hitler per poi venir sterminati dalla polizia
segreta di Tito.
Dal crollo del Muro di Berlino e dell’Unione Sovietica sono nati 25 nuovi paesi, 7 dei
quali nell’ex Yugoslavia. L’ultimo è il Kosovo. Con i guerriglieri indipendentisti
albanesi dell’Uck ho rischiato la pelle scappando dal Kosovo davanti alle truci
offensive dei serbi. I bombardamenti della Nato hanno ribaltato la frittata, ma forse
oggi sarebbe onesto chiedersi se ne valeva la pena.
Altri tre stati, Georgia, Armenia e Azerbaigian sono sorti dalle ceneri dell’Urss nel
Caucaso. La normalizzazione della Cecenia ribelle è costata ai russi due guerre senza
quartiere. Un altro inferno che ho vissuto per riportare a casa un fotografo italiano
preso in ostaggio nella palude cecena. Per questi popoli la polvere del Muro abbattuto
ha provocato, come nei Balcani, morte e distruzione. L’ultimo conflitto è scoppiato
l’estate di un anno fa, con l’assalto della Georgia ai separatisti dell’Ossezia del Sud.
Poi è finito male per la reazione delle armate russe.
Quando il treno della storia si muove, come è capitato nel 1989, i binari delle
divisioni ideologiche, culturali, religiose ed etniche fanno sempre attrito. E talvolta
innescano la scintilla della guerra, che viene alimentata da odi e rancori dimenticati
sotto le braci del passato. In Friuli e nella Venezia Giulia abbiamo provato sulla pelle
dei nostri padri e nonni le ferite di questi conflitti, ancora prima che sorgesse il Muro
di Berlino. Un motivo in più per credere nella Grande Europa delle piccole patrie,
dall’Atlantico agli Urali. Un’Europa, che vent’anni dopo il crollo della barriera della
vergogna, alzi la voce all’unisono per gridare con forza, in nome della libertà: MAI
PIU’.
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