DISTURBI DI PERSONALITÀ: LA NUOVA CRONICITÀ? Mario Rossi Monti La “vecchia” nuova cronicità Durante tutti gli anni 80 – sull’onda della promulgazione della legge 180 - si è assistito in Italia a una travagliata fase di “costruzione” di un modello di assistenza psichiatrica fondato sui servizi territoriali di psichiatria comunitaria. In quegli anni, in particolare verso la metà degli anni ’80, si è diffuso tra gli addetti ai lavori un nuovo termine: “nuova cronicità”. Con questa espressione si voleva specificamente indicare quei casi di psicosi schizofrenica nei quali la persona, pur non avendo mai avuto a che fare con il manicomio, andava incontro a una espressione cronica del disturbo. La nuova cronicità veniva insomma a dimostrare che la cronicità non poteva essere semplicemente considerata una ricaduta o un effetto collaterale del modello di assistenza manicomiale. Era invece necessario confrontarsi con il fatto che anche nella psichiatria del territorio non era raro constatare un decorso cronico della schizofrenia, in assenza di quei fattori patogeni e cronicizzanti che erano stati individuati come tipici del manicomio. In sostanza con l’espressione nuova cronicità si indicava una cronicità di decorso del disturbo schizofrenico che si realizzava anche nel contesto del nuovo modello di psichiatria comunitaria. La “scoperta” dell’esistenza di questa notevole area di pazienti ebbe fin da subito importanti conseguenze. In primo luogo implicava un notevole investimento di risorse da parte dei Servizi nello sviluppo di progetti di assistenza che impegnavano il Servizio per molti anni. In secondo luogo comportò la caduta di una illusione che molti psichiatri avevano coltivato nel contesto di quella piccola rivoluzione copernicana che si era realizzata in quegli anni nel campo della psichiatria: l’illusione che la cronicità schizofrenica non fosse un elemento legato alla evoluzione del disturbo ma fosse piuttosto una conseguenza della sindrome istituzionale indotta dal manicomio. In quest’ultima accezione la cronicità schizofrenica veniva vista come una sorta di complicazione iatrogena che la gestione istituzionale della follia inscriveva nell’evoluzione del disturbo. L’illusione che molti avevano coltivato era che la chiusura dei manicomi, l’abbandono di quella modalità ormai deteriorata di gestione della schizofrenia, comportasse di per sé la scomparsa o la netta riduzione delle forme croniche. Così non è stato. Come del resto possiamo osservare anche oggi con ancora maggiore chiarezza. Il problema della nuova cronicità dalla metà degli anni ’80 si è quindi imposto alla attenzione dei clinici che hanno dovuto mettere a punto strumenti più complessi di intervento. Il dibattito, acceso e vivace, intorno alle strutture intermedie e alla riabilitazione psichiatrica testimonia di questo sforzo. Oggi, a trent’anni dalla chiusura dei manicomi, che connotazioni assume il termine nuova cronicità? Qual è oggi la nuova cronicità? Continuiamo a riferire questo termine all’area delle psicosi schizofreniche che cronicizzano oppure invece abbiamo individuato nuove situazioni cliniche tipiche di questa area? Io propenderei per la seconda ipotesi. Non ovviamente perché non esiste più una cronicità schizofrenica, ma perché mi pare che nel campo della cronicità schizofrenica (nel contesto italiano, ma ovviamente anche in gran parte della psichiatria del mondo occidentale) siano state messe a punto strategie di intervento codificate, sufficientemente organizzate, che trovano posto sotto l’ampio ombrello della terapia-riabilitazione. In particolare queste strategie hanno avuto il merito di incidere, oltre che in qualche misura sulla quantità della cronicizzazione, assai di più sulla qualità della cronicizzazione. Per cui appare oggi impensabile trovare forme di regressione cosìdisastrose nell’ambito della cronicizzazione schizofrenica come quelle che si osservavano abitualmente in manicomio. 1 Ma se esiste una cronicità più attuale della “vecchia” nuova cronicità, di quale cronicità si tratta? In altri termini che cosa comprende oggi l’area della nuova cronicità? La “nuova” nuova cronicità Ho provato a elencare tre aree che mi pare siano diventate parte di questa nuova cronicità: aree cliniche e problematiche con i quali i clinici si confrontano nei loro ambulatori privati e nelle istituzioni psichiatriche comunitarie. 1. La prima area è rappresentata dalla cronicità di tipo depressivo: uno stato di depressione protratta che si differenzia grandemente dall’Episodio Depressivo Maggiore che il DSM pone a fondamento dei Disturbi dell’Umore. Sempre più spesso infatti constatiamo nella nostra pratica clinica come l’“episodio depressivo” rappresenti una sorta di entità mitica. Grappoli di episodi depressivi, ripetizioni, ricadute o addirittura una stabilizzazione nella cronicità rappresentano una cospicua percentuale delle depressioni che osserviamo. La letteratura dà ampia documentazione di questa trasformazione nella clinica della depressione. Un dato banale: se cercate su PubMed, la più diffusa banca dati medica, i lavori che hanno nel titolo le parole “depressione” e “cronicità” trovate che i lavori pubblicati su questo tema durante gli anni che vanno dal 1980 al 1990 sono 88. Negli anni che vanno dal 1995 al 2005 sono 312! Un indicatore assolutamente grossolano ma certamente di forte impatto. La associazione tra depressione e cronicità è molto presente alla mente dei clinici e dei ricercatori; in un modo assolutamente diverso da come accadeva negli anni successivi alla pubblicazione del DSM III (1980). Dopo la sbornia psicofarmacologica che aveva eletto i farmaci antidepressivi a unico strumento terapeutico risolutivo nella depressione, la clinica della depressione si è fatta più variegata e complicata soprattutto nel lungo periodo. I fattori personologici ad esempio fanno sentire la loro influenza, modulando percorsi stabili nel tempo in quel circa 30% di depressioni che evolvono in cronicità. Un panorama del fenomeno depressivo completamente diverso da quello scenario che si era delineato sull’onda dell’euforia che l’intervento farmacologico aveva suscitato in molti: sembrava che la depressione potesse essere sconfitta e fermata per così dire sulla battigia: al primo-singolo-episodio. Un ulteriore elemento di riflessione, nella letteratura che prende in considerazione la depressione cronica, è rappresentato dal tipo di linguaggio utilizzato per descrivere le caratteristiche di questo nuovo fenomeno clinico. Alcuni termini che appartengono tradizionalmente al campo della cronicità schizofrenica vengono oggi utilizzati per descrivere alcuni fenomeni clinici che compaiono nelle depressioni a decorso cronico. In primo luogo lo stesso termine “cronicità” appartiene al vocabolario dell’area del deterioramento schizofrenico: a Kraepelin è stato attribuito il grande merito di avere distinto il decorso cronico-deteriorante della dementia praecox dal decorso fasico della psicosi maniaco-depressiva. Ma un altro termine compare spesso nella letteratura sulla depressione cronica: deterioramento psicosociale. La parola “deterioramento” rimanda immediatamente all’idea che Kraepelin aveva proposto della schizofrenia come patologia che produce un progressivo deterioramento, tale che un giovane individuo affetto da demenza precoce, appunto, può rapidamente deteriorarsi, un po’ come un demente. Un paziente affetto da psicosi maniaco-depressiva invece avrebbe dovuto transitare attraverso episodi di segno opposto senza compromissione del suo funzionamento psico-sociale. Non è così nelle depressioni croniche in cui viene appunto rilevato una deterioramento psicosociale. Tanto che viene anche riesumato – sempre a proposito di depressione! – il vecchio termine di difetto: uno dei “marchi di fabbrica” del concetto classico di demenza precoce. Ancora: nella letteratura sulle depressioni croniche si parla sempre più spesso di irreversibilità. Si diffondono insomma nella letteratura sulla depressione cronica termini carichi di significato prognostico negativo e che evocano un senso di impotenza terapeutica. 2 2. La seconda area nella quale si affaccia una nuova cronicità è quella dei gravi disturbi di personalità. Il tema dei disturbi di personalità è di grande attualità nei Servizi, se non altro per il carico di lavoro che implica. In particolare questo peso grava soprattutto sui Servizi che si occupano di tossicodipendenze: la maggior parte delle situazioni di dipendenza infatti si intreccia con importanti distorsioni dell’assetto di personalità, soprattutto del cluster B. In questo senso i Servizi per le dipendenze patologiche sono la frontiera sulla quale si gioca la possibilità di mettere a punto una modalità di intervento in forme cliniche nelle quali la perturbazione grave della relazione (e quindi anche della relazione terapeutica) è centrale. In questa area il disturbo borderline di personalità la fa da padrone: la maggior parte di diagnosi di Asse II infatti riguarda proprio questa entità clinica. 3. Una terza area è data dall’intersezione delle prime due: un’area clinica nella quale la componente di carattere depressivo si colloca nel contesto di un disturbo di personalità. Mi riferisco alle cosiddette depressioni atipiche dell’area borderline o alle “depressioni narcisistiche”, a proposito delle quali la letteratura psicodinamica ha fornito importanti approfondimenti conoscitivi. L’emergenza di queste nuove aree nella quali si declina la nuova cronicità ha sollecitato la messa a punto di nuovi strumenti conoscitivi. Accanto ad analisi di tipo epidemiologico o sociologico che tentano i delineare la portata e le caratteristiche, ad esempio, del fenomeno depressivo soprattutto in relazione agli stili di vita prevalenti nelle società occidentali avanzate, è necessario sviluppare una riflessione psicopatologica su che cosa vuol dire essere depressi oggi. Quando Freud nel 1915 scriveva “Lutto e melanconia” paragonava il processo fisiologico del lutto a un processo patologico depressivo, scegliendo come rappresentante della depressione patologica la melanconia. La melanconia era, a quell’epoca, il paradigma della depressione: la vera e più autentica depressione. La pietra di paragone di ogni depressione. Se dovessimo oggi individuare il paradigma della “vera” depressione lo cercheremmo ancora nella melanconia classica? Oppure lo cercheremmo altrove? Certamente la melanconia continua ancora oggi a rappresentare una delle forme più gravi ed estreme della depressione clinica. Ma la melanconia costituisce una variante rara e forse non più paradigmatica di modi in cui la depressione si declina nella patologia mentale. Il paradigma della depressione sembra essere rappresentato da altre forme depressive: depressioni meno definite, con caratteristiche meno nette della melanconia; forme più sfumate, in cui l’umore resta in continua risonanza con l’ambiente. Depressioni in cui la persona è meno chiusa su se stessa e più in contatto con l’ambiente: depressioni nella quali manca ad esempio quell’estremo ripiegamento su se stessi che caratterizza la esperienza della colpa e si osserva invece l’emergere di un senso di vuoto che la persona registra e lamenta come un tormento. Una sindrome che la psichiatria colloca nel variegato ambito delle depressioni atipiche. Il fatto è che queste depressioni atipiche oggi sembrano essere diventate tipiche. Questa fenomenica di carattere depressivo si ingrana spesso con un assetto borderline di personalità, nell’ambito di quella vera e propria epidemia borderline che travaglia le società occidentali avanzate. Se da un lato la categoria borderline viene spesso (rozzamente) utilizzata come contenitore di tutte quelle situazioni che non trovano agevolmente spazio nei nostri ordinati schemi nosografici, dall’altro si assiste effettivamente ad una sensibile crescita di questo tipo di problematica. Tanto che alcuni clinici e sociologi hanno cercato di mettere in rapporto la diffusione della psicopatologia borderline con alcune caratteristiche del funzionamento della nostra società. Basti pensare ad esempio al ruolo che la frammentazione del vissuto temporale gioca nel nostro stile di 3 vita. La nostra epoca è stata sommariamente definita come “l’epoca dello zapping”, l’epoca nella quale il tempo è straordinariamente accelerato, tanto da favorire una sorta di fisiologico “sfarinamento” del Sé. Da questo punto di vista la psicopatologia borderline potrebbe costituire l’estremo limite di questa diversa modalità di muoversi nel tempo: frammenti di esperienza, collezionati come momenti isolati, si collocherebbero gli uni accanto agli altri, senza che sia possibile procedere ad una loro integrazione. Realizzando quella particolare configurazione della temporalità che un grande psicopatologo come Kimura Bin ha descritto come “momentaneizzazione” del vissuto temporale. Per non parlare delle depressioni narcisistiche, caratterizzate da un terribile senso di vuoto che rischia di fare collassare una struttura di personalità che – un po’ come una mongolfiera – ha bisogno di continue dosi di aria calda per mantenersi in volo. Allo stesso modo il narcisista patologico può tenersi in stato di compenso solo al prezzo di usare gli altri come rifornimenti narcisistici. Tutto quest’ambito, che potremmo ascrivere a quella che propongo di chiamare la “nuova” nuova cronicità, grava in misura diversa sui clinici e sui servizi con una drammatica conseguenza: i Servizi sono in difficoltà nel gestire un ambito problematico così impegnativo anche perché gli operatori (psichiatri e psicologi clinici) non sono sufficientemente preparati nella loro formazione a conoscere queste evenienze cliniche e soprattutto lo stile relazionale che queste condizioni implicano. In un saggio molto breve, di facile lettura e molto avvincente, intitolato “L’epoca delle passioni tristi”, due colleghi che lavorano nei servizi per adolescenti in Francia, Benasayag e Schmit, esprimono il loro disagio in maniera chiara ed esplicita. Alle porte dei nostri ambulatori – scrivono – si presenta una schiera di adolescenti e di genitori molto sofferenti che vengono a chiedere aiuto. Queste persone sono portatrici di una grande sofferenza. Ma questa sofferenza non trova posto nelle categorie cliniche che la nostra formazione di clinici ci ha fornito. E’ una sofferenza di cui cogliamo la rilevanza ma che non riusciamo ad inquadrare e che si aggira libera – per così dire – tra le nostre tradizionali categorie nosografiche (schizofrenia, depressione melanconica, mania, conflittualità nevrotica, etc.). Benasayag e Schmit lanciano quindi un vero e proprio grido di aiuto, sottolineando il bisogno di una riflessione e di una comprensione psicopatologica di queste nuove forme del sintomo. La impreparazione dei clinici, dei Servizi, degli operatori nella gestione di questa grande area problematica si fonda da un lato sulla mancanza di riferimenti teoricoconcettuali più precisi e dall’altro su una grave impreparazione alla relazione: soprattutto quando questa, come nel caso della relazione con il borderline, è fisiologicamente turbolenta, se non rabbiosa, provocatoria e “manipolatoria”. Inoltre, la assenza di quella incomprensibilità che Jaspers ci ha insegnato a cogliere come indicatore della alienità psicotica (schizofrenica), mette i clinici in una posizione scomoda: una posizione nella quale non è possibile compiere una operazione di distanziamento e oggettivazione che almeno protegge dall’impatto con il perturbante. Si realizza così, nel caso del disturbo borderline di personalità, una maggiore vicinanza nella relazione e un maggiore coinvolgimento che è sempre difficile gestire nella relazione terapeutica. Ad esempio quando si sottolinea l’elevata tendenza al drop-out dei pazienti borderline bisognerebbe non dimenticare che una significativa parte dei drop-out è probabilmente legata ad una difficoltà nella presa in carico da parte del clinico. Quando addirittura di fronte alla difficoltà di gestire la relazione terapeutica con un paziente borderline non venga teorizzata la opportunità di una “presa in scarico”: come quando si sente dire – anche da autorevoli clinici- “questi pazienti, meglio perderli che trovarli!”. Uno scivolamento della clinica verso l’area dei disturbi di personalità era stato preconizzato da molti. Tra gli altri un grande psicoanalista italiano: Eugenio Gaddini. Molti anni fa, nel 1984, aveva scritto un lavoro intitolato “Se e come sono cambiati i nostri pazienti fino ai nostri giorni”. In questo scritto faceva riferimento al cambiamento nella 4 psicopatologia avvenuto fino al 1984. Non tralasciava tuttavia di fare anticipazioni sul futuro. Dal suo punto di osservazione, di psicoanalista che lavora nel setting psicoanalitico classico, Gaddini mostrava come gli psicoanalisti – la cui disciplina si fonda sul modello freudiano nato intorno al trattamento delle nevrosi – avessero assistito ad un graduale cambiamento del tipo di pazienti che intraprendevano una analisi. Una trasformazione dei pazienti che si è accompagnata anche a un cambiamento dell’assetto di lavoro degli psicoanalisti. Sono cambiati i pazienti e sono cambiati gli psicoanalisti: è cambiata la coppia al lavoro. Si è passati da un prevalenza di forme nevrotiche classiche a una massiccia presenza di gravi organizzazioni del carattere. Gaddini pensava che la successiva frontiera sarebbe stata rappresentata dalle psicosi. Utilizzava una affascinante metafora. Lo psicoanalista al lavoro con i disturbi del carattere sente sullo sfondo lo scroscio di una cascata: la cascata delle psicosi. In realtà – con il senno di poi – possiamo dire che le cose sono andate diversamente. Il rumore della cascata che continuiamo a sentire non ha tanto a che vedere con le psicosi acute o croniche quando piuttosto con i mulinelli dell’area borderline o viceversa con il silenzio della stagnazione narcisistica. Disturbi disturbanti? Abbiamo sostenuto la tesi che i disturbi di personalità sono uno dei paradigmi della “nuova” nuova cronicità. Quali elementi autorizzano a considerare i disturbi di personalità come disturbi cronici? Tre elementi. In primo luogo la definizione stessa del DSM, a partire dal DSM-III del 1980, nella quale vengono messe in evidenza alcune caratteristiche fondamentali dei disturbi di personalità: esordiscono alla fine dell’adolescenza o all’inizio dell’età adulta; sono permanenti, pervasivi e inflessibili; costituiscono un aspetto basilare del funzionamento del soggetto. Alla fine dell’adolescenza dunque, il giovane adulto raggiungerebbe un suo pattern di funzionamento globale e complessivo che tende ad auto mantenersi. In questo senso i disturbi di personalità sono da concepirsi come disturbi cronici: una volta strutturati tendono a persistere indefinitamente. Una caratteristica costitutiva dei disturbi di personalità (in particolare di quelli del cluster B) è quella di immettere nella relazione con gli altri un carico di problematicità che si riversa sull’altro e lo travolge. Tanto che nel mondo anglosassone è in voga la dizione patients that psychiatrists disilike per indicare questi pazienti. Una delle caratteristiche dei disturbi di personalità del cluster B è dunque quella configurarsi allo stesso tempo come disturbo soggettivo ma anche come disturbo altamente disturbante la relazione: un disturbo disturbante. Perché disturbante? Perché – si dice - sono pazienti difficili, rabbiosi, impulsivi, che agiscono al posto di pensare, aggressivi, manipolativi, che bruciano operatori, tempo e risorse, sempre alla ricerca estrema di attenzione, che mettono in crisi i Servizi con condotte revolving door. Ancora – si dice – è difficile che migliorino e sono dunque pazienti cronici che condannano il Servizio a una gestione “cronica”. In questo tipo di considerazioni si può probabilmente riconoscere chiunque abbia lavorato con pazienti borderline, se non altro perché questi pregiudizi riflettono alcune esperienze controtransferali tipiche di chi si impegna in un progetto terapeutico di questa portata. Queste considerazioni - invece di essere considerate materiale sul quale lavorare e da gestire nella relazione - sono state tradotte da due psichiatri britannici in veri e propri argomenti a favore della tesi che i Servizi psichiatrici non si devono fare carico di questo tipo di pazienti. Più di dieci anni fa infatti Cawthra e Gibb (1998) sostenevano sulle pagine dell’autorevole British Journal of Psychiatry che non aveva senso impegnare energie nella cura dei pazienti con gravi disturbi di personalità: sia perché non si ottengono risultati, sia perché, anche quando li si ottengono, il prezzo è troppo alto e soprattutto compromette la funzionalità complessiva del servizio e l’equilibrio degli operatori. Tra le motivazioni per le quali un Servizio non dovrebbe farsi carico di questi pazienti essi citano ad esempio il fatto che questi pazienti, a causa della loro turbolenza, mettono a repentaglio il percorso 5 terapeutico di altri pazienti. Ad esempio, quando un paziente borderline viene ricoverato in un reparto psichiatrico si determina quasi invariabilmente uno sconvolgimento complessivo dell’ambiente terapeutico. Adottare questa prospettiva significa – in linea con la tradizione kraepeliniana nel campo della schizofrenia – fare coincidere una diagnosi di disturbo con un vero e proprio destino: un po’ come la diagnosi kraepeliniana di dementia praecox configurava inesorabilmente il deterioramento come destino. Allo stesso modo, sulla base di queste considerazioni, si vedrebbe nella diagnosi di disturbo borderline di personalità un percorso inesorabile, a senso unico, il cui destino è segnato una volta per tutte. In realtà, lungi dall’adottare il suggerimento dei due colleghi, il Ministero della Sanità inglese ha affrontato seriamente il problema: nel 2002 è stato indirizzato a tutti i Servizi un questionario volto a monitorare gli strumenti con i quali i servizi di psichiatria gestiscono il problema dei disturbi di personalità. Da questa indagine è emerso che il 17% dei Servizi aveva sviluppato modalità specialistiche di intervento. Il 40% dei Servizi invece gestiva il problema in forma “non specialistica” cioè senza una adeguata formazione del personale. Il 28% dei Serivi teorizzava, sulla scia di Cawthra e Gibb, la impraticabilità della gestione di questi pazienti. Infine il 15% dei Servizi non dava alcuna risposta. Nel complesso il 45% circa dei Servizi non era in grado di mettere a punto una strategia di intervento o rinunciava tout court ad un intervento specialistico in questo ambito. Sulla base di questi dati nel 2003 l’Istituto Nazionale per la Salute Mentale ha varato su tutto il territorio nazionale un progetto pilota sui disturbi di personalità, con durata limitata nel tempo e teso a verificare che cosa si può ottenere impegnandosi attivamente in questo campo. Il progetto pilota si fonda su linee programmatiche piuttosto generali tese a favorire la messa a punto nei Servizi di équipe specialistiche multidisciplinari deputate al trattamento dei disturbi gravi di personalità. Il progetto non indica quali strumenti istituzionali devono essere privilegiati: il trattamento in regime di ricovero prolungato, l’uso di strutture intermedie o viceversa il servizio psicoterapeutico ambulatoriale. Ogni servizio è abbastanza libero di mettere a punto un modello di intervento. Proprio dalla valutazione comparativa di questi risultati verranno tratti elementi orientativi per un progetto di organizzazione stabile dei Servizi. La filosofia complessiva del progetto si fonda sulla idea che la diagnosi di disturbo di personalità non debba più essere una diagnosi di esclusione: vale a dire una diagnosi utilizzata per non occuparsi di un problema. Al contrario è necessario promuovere il passaggio da un atteggiamento di rifiuto a una ipotesi di trattabilità, mettendo a confronto tra loro differenti progetti terapeutici. Gli stessi promotori di questa importante iniziativa hanno rilevato come la stessa diagnosi di disturbo di personalità sia di per se stessa “appiccicosa”: una volta attribuita a un paziente essa tende a persistere immutata, innescando una serie di effetti a catena che vanno nella direzione della stigmatizzazione. La tendenza alla stigmatizzazione fa sì che atteggiamenti rivendicatori, di sfida, a tratti violenti di questi pazienti non vengano visti come dati parziali da integrare in un contesto clinico più ampio ma piuttosto come elementi sintomatologici tali da precludere ogni progetto terapeutico. In sostanza di fronte alla impossibilità di comprendere il funzionamento della mente borderline scatta nell’operatore la tendenza all’oggettivazione stigmatizzante e si riaffaccia il paradigma della cronicità-intrattabilità: la conclusione porta inevitabilmente ad un atteggiamento del tipo: “non voglio avere niente a che fare con questo tipo di pazienti!”. Del resto Biederman e Tayler (2004) hanno mostrato come raramente i pazienti con disturbi di personalità abbiano accesso a trattamenti adeguati nei Servizi. Per lo più sono gestiti con scarso impegno alla periferia del sistema di cura. I Servizi raramente hanno le competenze e capacità richieste per il trattamento dei gravi disturbi di personalità. Alcuni Servizi arrivano a escludere il trattamento nell’erronea convinzione che questi pazienti non abbiano un problema psichiatrico. 6 D’altra parte questa posizione di scarso interesse, o meglio di sostanziale disinteresse per quest’area problematica, non è nuova: appartiene piuttosto alla storia anche recente della psichiatria. Quelli che oggi chiamiamo Disturbi di Personalità sono stati per tanto tempo considerati “i figliastri della psichiatria”: una problematica che sta a margine dello specifico della psichiatria, della quale è lecito interessarsi poco o niente. Fa una certa impressione andare a rivedere il capitolo dedicato ai Disturbi di Personalità in un Manuale di Psichiatria degli anni ’70. In genere si tratta poche pagine sui disturbi del carattere. L’idea che dominava nella formazione di base degli psichiatri dell’epoca era quella secondo la quale si trattava di “persone fatte così”: prevaleva quindi nella clinica un atteggiamento di fatalismo, di rassegnazione, di sostanziale nichilismo terapeutico. L’introduzione del secondo asse nel DSM-III (1980) ha certamente avuto il merito di stimolare tutti i clinici a indagare sistematicamente la relazione tra asse I e asse II, mettendone in evidenza gli incontri e le eventuali sovrapposizioni, favorendo un ragionamento clinico dinamico in senso lato. Kurt Schneider è stato uno dei pochi clinici che – alla metà del secolo scorso - aveva dedicato grande attenzione al problema dei disturbi di personalità parlando di personalità abnormi e personalità psicopatiche. Recentemente l’editore Giovanni Fioriti ha ripubblicato questo classico della psicopatologia in cui Schneider traccia una tipologia a-sistematica dei disturbi di personalità, mediante la messa a fuoco di prototipi. Uno degli elementi centrali nella diagnosi di personalità abnormi e psicopatiche era rappresentato dal rilievo che questi pazienti “soffrono” e “fanno soffrire”. Con questa duplice connotazione dei disturbi di personalità Schneider ha avuto il grande merito di inaugurare una prospettiva particolarmente adatta a cogliere il nucleo problematico dei disturbi del cluster B. Il fatto cioè che il nocciolo della diagnosi ha una duplice radice: da un lato in un assetto che la persone stessa sente come problematico, dall’altro nel sentimento di sofferenza, fastidio, disturbo o aperta ostilità che il l’altro (e anche il clinico) avverte. La diagnosi del disturbo si fonda quindi – con una vera e propria capriola epistemologica – sul vissuto del soggetto e sul vissuto di chi ha a che fare con lui: vale a dire sull’effetto che il disturbo induce negli altri. Un disturbo che è tale nel senso che è anche disturbante: un “disturbo disturbante”. In questo modo Kurt Schneider, lontano anni luce da una prospettiva psicodinamica, dà forma ad un elemento essenziale dei disturbi di personalità: il fatto cioè che il terreno sul quale il disturbo inevitabilmente si esprime è rappresentato dalla relazione con gli altri. Tanto che Fonagy può dichiarare paradossalmente (parafrasando Winnicott) di non avere mai visto un disturbo borderline di personalità: poiché tutte le volte che c’è un disturbo borderline esiste anche un altro che interagisce con lui. Insomma non è possibile essere borderline da soli, nel vuoto relazionale. Se da un lato questo mette l’operatore in una posizione privilegiata - nel senso che il paziente borderline (diversamente da un paziente autistico schizofrenico o da un grave melanconico murato nel suo delirio di colpa) coinvolge l’altro immediatamente nella relazione - dall’altro però complica maledettamente le cose, poiché questa relazione è di assai difficile gestione e tende a ripetere percorsi travagliati, poco fruttuosi e sostanzialmente distruttivi. Discutendo di questi temi nei Servizi, con operatori che si occupano di pazienti borderline, ho notato quanto grande sia il loro bisogno di vedere riconosciuti e discussi una serie di sentimenti (anche molto ingombranti) che si affacciano alla mente degli operatori in ogni percorso terapeutico di lungo periodo: ogni operatore si sente in qualche misura ipercoinvolto, trascinato, usato, svuotato, manipolato, colpevolizzato, messo al muro, “sbatacchiato”, provocato, maltrattato, traumatizzato, esposto a instabilità – imprevedibilità, idealizzato, perso, compartimentizzato, desolato, sconfortato, inutile, spaventato, invaso, angosciato, sospettoso, diffidente, arrabbiato, etc. 7 Certamente anche un paziente delirante esercita un notevole effetto su ciascuno di noi e tocca corde delicate e sensibili, ma in genere – di fronte al delirio - è possibile recuperare una possibilità di distacco mediante la oggettivazione di una modalità di funzionamento della mente aliena. Nel rapporto con il paziente borderline invece tutto questo è molto più problematico: si viene assolutamente presi all’interno del suo stile relazionale che non è così radicalmente diverso da poterlo qualificare come alieno; ma nemmeno così’ vicino da potere essere sentito come accettabile o familiare. Spesso non si sa che cosa fare. Si avverte il peso della propria impreparazione a queste sistematiche turbolenze relazionali. Se non si riesce a sviluppare una serie di conoscenze e una riflessione che svolga una funzione mitigatrice nel rapporto tra emozioni e tendenza ad agire la soluzione che viene più frequentemente adottata è la fuga o la repulsione. Per questo l’aspetto relazionale diventa uno dei cardini del problema e soprattutto dell’intervento. Il dramma della disforia A questo punto vorrei porre una prima conclusione che riguarda le due facce della cronicità. Abbiamo cominciato parlando di cronicità schizofrenica e abbiamo visto che una cronicità che pensavamo artefatto, la cronicità schizofrenica come esito del manicomio, in realtà si è rivelata reale: una cronicità che persiste in una certa quota di pazienti che non hanno vissuto l’esclusione manicomiale. In secondo luogo, una cronicità che pensavamo reale, cioè una cronicità che pensavamo facesse parte del funzionamento tipico di ogni disturbo di personalità, tanto da essere inclusa nella definizione stessa del disturbo, si è rivelata un artefatto. Solo da alcuni anni cominciamo a disporre di una letteratura che si fonda su studi di lungo periodo sul decorso dei disturbi di personalità. Questi studi hanno mostrato che la nostra presunzione di cronicità del disturbo non è stata confermata dalla ricerca, nel senso che queste forme psicopatologiche non si sono rivelate così assolutamente immodificabili e stabili nel tempo come si presumeva. Quali sono le ragioni che avevano indotto gli estensori del DSM-III a quest’assunzione teoretica? Innanzitutto la tradizione psicopatologica. Un grande autore come Kurt Schneider vedeva questi disturbi come assetti abnormi di personalità sostanzialmente immodificabili. Altri, come Kretschmer, ne avevano colto il potenziale mutativo: ma solo nel senso di uno scivolamento verso la psicosi. Nei 20 anni successivi alla messa a punto della categoria diagnostica Disturbo Borderline di Personalità è stato possibile monitorare l’evoluzione del disturbo nel tempo. Così da qualche tempo disponiamo di dati relativi a borderline “anziani”, nel senso che hanno alle spalle una lunga esperienza da borderline. Non solo non è più sostenibile la tesi di una evoluzione cronica di alcuni gravi disturbi di personalità, ma è possibile studiare anche il modo nel quale evolvono nel tempo i disturbi di personalità: quali aspetti sono più aperti al cambiamento e quali invece tendono a persistere, magari al di sotto della soglia clinica. Non per nulla si è aperta, da alcuni anni, una grande sfida, centrata sul confronto tra diversi modelli di trattamento della psicopatologia borderline di personalità, che costituisce il nocciolo duro dei disturbi gravi di personalità: il modello della psicoterapia dialettico-comportamentale di Marsha Linehan, la psicoterapia centrata sul transfert di Kernberg, la psicoterapia basata sulla mentalizzazione di Bateman e Fonagy, la terapia cognitivo-analitica o il modello del trattamento istituzionale di John Gunderson. Questa enorme vitalità dei ricercatori e dei clinici si è espressa sia nel tentativo di formulare modelli patogenetici della psicopatologia borderline (il ruolo delle esperienze traumatiche in età evolutiva, la ricerca sul ruolo della dissociazione, etc.) sia nel mettere a punto modelli efficaci di intervento. Tutto ciò testimonia del fatto che si è aperta una speranza là dove prima si vedeva un vicolo cieco. Una speranza che la maggior parte degli studi di follow-up sui pazienti borderline ha reso più che ragionevole, oltre che eticamente doverosa. Passerò brevemente in rassegna solo alcuni studi di questo tipo. Paris (2001), per esempio, ha preso in considerazione un 8 gruppo di pazienti borderline seguiti per un periodo di 2, 5, 8 e 10 anni verificando come, a distanza di 10 anni dal trattamento, circa il 50% dei pazienti inizialmente diagnosticati come borderline non rientravano più nei criteri diagnostici. Il fatto di non rientrare nei criteri diagnostici del DSM significa che quei soggetti non soddisfano 5 criteri dei 9 item previsti per la diagnosi. Magari ne soddisfano 4 e conservano una qualche problematicità di funzionamento, ma comunque una problematicità non clinica, nel senso che non si affaccia oltre la soglia imposta come elemento differenziale tra normalità e disturbo. Mary Zanarini et al. (2003) hanno condotto uno studio di 6 anni su un numeroso campione di pazienti borderline dimostrando che la prognosi è molto migliore di quanto ci si poteva aspettare: la remissione dei sintomi nell’arco di 6 anni riguarda una percentuale di pazienti estremamente elevata. Secondo Zanarini è possibile individuare una tendenza, in qualche modo naturale, al miglioramento e al cambiamento. Lo studio entra poi nel dettaglio cercando di mettere a fuoco quali aspetti del funzionamento borderline si modificano nel corso del tempo. In particolare Zanarini ha distinto l’area clinica sintomatologica della psicopatologia borderline in due grossi ambiti: una prima area che riguarda i sintomi più acuti e più problematici incentrati sulla impulsività; una seconda area che comprende sintomi legati al temperamento di base. Il primo gruppo di sintomi, di carattere acuto, comprende tutte quelle manifestazioni comportamentali drammatiche che inducono violente reazioni nell’ambiente: in particolare gli agiti impulsivi e le condotte parasuicidarie. Il secondo gruppo di sintomi è costituito da sintomi più stabili, meno acuti e anche meno allarmanti. Comprende quell’insieme di fenomeni che hanno una dimensione più emotiva e affettiva: sentimenti cronici di vuoto, sospettosità, difficoltà a tollerare la solitudine, paura dell’abbandono, angoscia di separazione con la conseguente necessità di “macinare” relazioni per tamponare la possibilità di rimanere soli con se stessi. Questi aspetti vengono considerati più vicini all’aspetto temperamentale e costituzionale: e anche più durevoli e radicati nel tempo. Dallo studio di Zanarini emerge una immagine della psicopatologia borderline come area ibrida in cui si mescolano sintomi discontinui, cioè acuti, con tratti che sono invece stabili nel tempo. Non solo. Paradossalmente quegli aspetti sintomatologici che rendono inizialmente molto faticosa la presa in carico, sono anche quelli che nel corso del trattamento regrediscono per primi. Come dire: nella presa in carico della psicopatologia borderline non bisogna lasciarsi troppo impaurire dal corteo di sintomi imputabili alla impulsività o al difetto della mentalizzazione: questi aspetti problematici sono infatti i primi a risentire positivamente di una presa in carico terapeutica sviluppata saldamente nel tempo. Ad analogo risultato è arrivato Gunderson (2008) nel documentare l’evoluzione dei pazienti borderline nel corso di un trattamento istituzionale. Nel giro di alcuni anni si può raggiungere un notevole miglioramento del funzionamento psicosociale e quindi realizzare un significativo miglioramento della qualità della vita. Da studi di questo genere ricaviamo quindi una prima conclusione: se ci impegneremo, nell’ambito di un trattamento istituzionale, a seguire nel tempo un paziente borderline grave (in cui prevalgono gli aspetti sintomatici legati all’area della impulsività) assisteremo probabilmente a fenomeni drammatici acuti (tipici della prima area sintomatologica descritta da Mary Zanarini). Queste condotte (provocazioni, rabbia, atti impulsivi, condotte autolesive, minacce o veri e propri ricatti suicidari) getteranno lo scompiglio tra gli operatori, metteranno in crisi il Servizio e la sua organizzazione. Ma questi stessi fenomeni andranno più facilmente incontro a remissione se noi clinici, naturalmente, saremo in grado di reggerne l’impatto e lavorare su di essi, non considerandoli corpi da espellere ma fenomeni drammatici da inscrivere in un continuum di senso: in un percorso mutativo invece che di rifiuto. 9 Un secondo gruppo di fenomeni tende invece a persistere anche quando gli aspetti più drammatici della psicopatologica borderline si saranno stemperati. Riassumerei questo secondo aspetto sotto la voce “il dramma della disforia della esistenza borderline”. La disforia infatti sigla l’intera esistenza borderline, paradossalmente anche quando il soggetto non risponde più ai criteri per la diagnosi di Disturbo Borderline di Personalità, configurandosi così come un vero e proprio marker strutturale del funzionamento borderline. Un vero e proprio marker psicopatologico del funzionamento mentale borderline che persiste anche al di là della emergenza sintomatologica. Una sorta di umore di fondo fatto di irritabilità, malumore sordo, tensione interna, sospettosità-ostilità preconcetta, scontentezza senza nome che tormenta da sempre l’esistenza borderline e che spinge all’ azione indifferenziata, nel tentativo di liberarsi (almeno momentaneamente, nella ebbrezza della azione) di questo stato mentale. Dunque mentre il paziente bordeline può in qualche modo venire a capo delle sue condotte impulsive, nell’ambito di un articolato e continuativo progetto terapeutico, difficilmente riuscirà a lasciarsi alle spalle uno stato umorale di fondo fatto di irritabilità, malumore, insofferenza. Una condizione emozionale-umorale di fondo che ha probabilmente molto a che fare con vicende traumatiche che – mediante il loro effetto disorganizzante – hanno reso impossibile approdare alla possibilità di vivere con minore pericolo o addirittura con tranquillità e piacere le relazioni con gli altri. Trauma e traumaticità L’area del trauma rappresenta infatti un altro degli ambiti di riflessione e di ricerca centrali nella conoscenza del funzionamento borderline. Troppo spesso tuttavia il trauma viene inserito in modelli esplicativi che danno per scontato un rapporto diretto di causa effetto tra esperienze traumatiche infantili e insorgenza di una psicopatologia borderline di personalità. In realtà il trauma occupa un posto assai più rilevante nella psicopatologia borderline poiché non appartiene affatto alla dimensione del passato quanto invece alla dimensione del presente e della relazione. Voglio dire che avere a che fare con un paziente borderline e tentare di stabilire con lui una relazione terapeutica implica un alto grado di traumaticità per il clinico, intendendo per traumaticità la portata traumatica della relazione con una persona borderline. Il trauma nella psicopatologia borderline appartiene forse al passato ma certamente appartiene al presente: nel senso che si esplica nella relazione attuale. Tutti quei sentimenti evocati nel clinico dal contatto con il paziente borderline configurano – per il clinico, così come anche per i familiari, conoscenti, partner, etc. – una situazione traumatica. Quindi, il trauma sul quale abbiamo bisogno di ragionare quando lavoriamo con i pazienti borderline, non è solo il trauma che appartiene alla storia lontana, infantile del paziente ma il trauma (o la traumaticità) che si fa concretamente sentire nella sua modalità di funzionamento attuale, nelle sue relazioni con gli altri: il trauma del presente. Il trauma del presente si riflette in primo luogo sul paziente: si manifesta in comportamenti autolesionistici, in condotte rischiose, sia di sfida alla morte, condotte parasuicidarie qualche volta simili a riti ordalici di sfida alla morte con fantasie di purificazione-rinascita. Esperienze estreme che i pazienti borderline ricercano spesso anche attraverso l’uso di sostanze. Ricordo un giovane paziente che si era scoperto improvvisamente omosessuale e aveva iniziato una relazione con un partner sieropositivo. Senza prendere deliberatamente alcuna precauzione. In secondo luogo il trauma del presente riverbera sugli operatori. La traumaticità borderline si esprime spesso con la rabbia, l’attacco verbale o fisico: tutte situazioni che confrontano il clinico con emozioni violente, con le quali non abbiamo tanta familiarità all’interno del nostro ruolo terapeutico. Situazioni, per così dire, da trincea alle quali non siamo stati certamente formati e che facilmente inducono alla fuga o alla repulsione (magari giustificata da ragionamenti pseudo10 terapeutici). E’ importante invece sottolineare che non soltanto che avere a che fare con un paziente borderline vuol dire avere a che fare con un paziente arrabbiato, ma anche il fatto che ciò implica avere a che fare con un clinico arrabbiato: con la propria rabbia. Insomma una rabbia à deux che circola nella relazione. Ma che circola tanto più distruttivamente quanto meno noi clinici per primi siamo capaci di farvi fronte, di esprimerla in maniera non distruttiva e di viverla invece come un passaggio di grande importanza per la costruzione di una relazione terapeutica, nella quale la rabbia possa esprimersi sul terreno della relazione senza che quest’ultima venga distrutta dalla rabbia stessa. Non è facile insomma tenere nel proprio bagaglio terapeutico quell’odio per i pazienti del quale ci ha coraggiosamente parlato per primo Donald Winnicott. Ancora. E’ fortemente traumatico sentirsi maltrattati, “usati” per la propria funzione ma senza alcun riguardo per la proprio persona: “manipolati” (anche se questo termine meriterebbe una più precisa messa a fuoco). D’altronde, nella misura in cui ci impegniamo in un progetto terapeutico, dobbiamo essere consapevoli del fatto che una delle funzioni del clinico è proprio quella di “lasciarsi usare”, di prestarsi a rappresentare sulla scena una parte precostituita nella psicopatologia del paziente (anche se all’interno dei limiti garantiti da un “sistema di sicurezza” costituito dal setting istituzionale). Ma questo sentirsi usati non deve perdere - nel nostro vissuto - il legame con la speranza in una evoluzione, in un progetto terapeutico. L’operatore ha cioè bisogno di sentire che questo “uso” che il paziente fa di lui non è semplicemente la ripetzione-replica di una modalità distruttiva e inconcludente di rapportarsi agli altri, ma il primo passaggio di un percorso potenzialmente evolutivo. Se è più facile mantenere questa consapevolezza nel rapporto con un paziente regredito, deficitario o magari chiuso nel suo mondo autisticodelirante, non lo è affatto nel rapporto con un paziente borderline. Una persona tutt’altro che incompetente nelle relazioni. Anzi, direi che il borderline ha il problema opposto: una competenza relazionale selettiva, iper-specialistica che piega e forgia le relazioni tutte nello stesso modo: mettendole a ferro e fuoco. E in questo ristretto ambito ha una competenza relazionale assai più elevata di una persona normale: non è affatto facile mettere a ferro e fuioco tutte le relazioni. Per converso manca la possibilità di esprimere tutta quella gamma del repertorio relazionale che consente lo sviluppo di relazioni umane affettuose e positive. Concludo con una vignetta che rappresenta particolarmente bene uno dei dilemmi in cui cade l’operatore quando viene maltrattato dal paziente borderline. Ho dato a questa vignetta il nome “Effetto Pasquale” e ne sono debitore a Giuseppe Riefolo che per primo la proposta e utilizzata a questo scopo. Si tratta di una apparizione di Totò a Studio Uno del 1966. Il compare di Totò è Mario Castellani. Riporto di seguito la sequenza e lascio a voi trarre una conclusione intorno alla domanda: quanto essere Pasquale con i nostri pazienti borderline? Totò Voglio raccontare un esipodio che mi è capittato Castellani Episodio vorrai dire T Mi è venuto incontro un pezzo di giovanotto che era così, con delle spalle così…. C Grosso… aitante.. T 11 Non lo so se era aiutante … ma un pezzo di … mi è venuto incontro C Ho detto aitate, aitante! un pezzo di giovanottone grosso.. T. È venuto vicino a me, mi ha guardato fisso negli occhi, con una ghiglia sulle labbra come per dire ‘mo te fa faccio vedere io’ C Cos’è questa ghiglia…la ghiglia sulle labbra, sarà stato un ghigno, un ghigno T Era un ghigno? A me m’è parsa una ghigna C Vabbè, t’ha guardato T Mi ha guardato fitto fitto per dire ‘PASQUALE’… a me!? Pasquale! C Ma che c’è da ridere? T ‘Era un pezzo che ti cercavo…’ C A te? T A me… ‘Figlio di un cane’, dice… C Ti ha detto ‘figlio di un cane’? T. Sì, ‘finalmente ti ho trovato’. Alza la mano e pam! E mi ha mollato uno schiaffo.. C Ti ha mollato uno schiaffo? T Ma forte!! C Ti ha detto figlio di un cane e ti ha dato uno schiaffo!!?? E tu? T Io pensavo tra me e me: chissà sto stupido dove vuole arrivare?… hai capito? 12 C Pensavi.. e poi? T Mi ha preso per la giacchetta e mi sbatteva vicino al muro così.. io ,lo lasciavo fare C Lo lasciavi fare? T ‘Pasquale, te possino ammazzatte’.. tum, pah… due C Ti ha dato due schiaffi? T Due schiaffi C Due schiaffi!! E tu?? T A me queste cose mi scompisciano!! Io pensavo tra me e me: chissà sto stupido dove vuole arrivare? C Tu pensavi… e poi, che è successo? T ‘Pasquale! togliti il cappello!’. Non glielo ho fatto dire due volte. ‘Pasquale maledetto, ti debbo sfondare il cranio’. Pum. Un cazzotto qui che ci ho ancora la ficozza! C Ti ha dato pure un pugno in testa?? Ma tu scusa che facevi? T Io pensavo tra me e me: chissà sto stupido dove vuole arrivare? C Ma che ridi? Mi fai rabbia. ride, ride, ‘io pensavo, pensavo’… Ma scusa, ma perchè non hai reagito? T E che me frega a me! E che so’ Pasquale io?? 13 BIBLIOGRAFIA Gunderson J. (2008), Disturbo di personalità borderline. Cortina, Milano, 2010 Paris J., Zweig-Frank H. (2001), A 27 year follow-up of patients with borderline personality disorder. Compr Psychiatry,42:482-487 Zanarini M., Frankenburg FR.,Hennen J., Silk KR., (2003), The Longitudinal Course of Borderline Psychopathology: 6-Year Prospective Follow-Up of the Phenomenology of Borderline Personality Disorder.Am J Psychiatry 160:274-283 14